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SEMIOTICHE Serie diretta da Gian Paolo Caprettini ANANKE Con il patrocinio del Dipartimento di Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo Università degli Studi di Torino Direttore responsabile: Gian Paolo Caprettini ([email protected]) Redazione: Andrea Valle ([email protected]), Miriam Visalli ([email protected]) Dipartimento di Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo Via S. Ottavio, 20 - 10124 Torino - www.semiotiche.it © 2006 ANANKE srl Tutti i diritti riservati / All rights reserved ANANKE edizioni srl Via Lodi 27/C – 10152 Torino (Italy) www.ananke-edizioni.com E-Mail: [email protected] Direttore responsabile: [email protected] ISBN 88-7325-XXX-X Immagine di copertina: Ave Appiano. Immagini interne: elaborazioni grafiche delle seguenti opere: pag. 5 - P. John, Vecchi ricordi; pag. 17 - G. Moreau, Giove e Semele; pag. 35 - H. Lewis, Campo da gioco tra gli slums; pag. 59 - A. Stieglitz, Paula a Berlino;pag. 77 - J. Baader, Collage su manifesto di Haussman; pag. 101 - P. Strand, Ombre; pag. 123 - R. Magritte, La condizione umana; pag. 143 - Studio Guibert, Toulouse-Lautrec mentre posa; pag. 161 - A. Genthe, Scena di cortile; pag. 187 - H. Bayer, Metamorfosi; pag. 209 - G. Richter, Gruppo di personaggi. Le opere sono riprodotte in Il sacro e il profano nell’arte dei Simbolisti a cura di Luigi Carluccio, Galleria Civica di Arte Moderna, Torino 1969 e Combattimento per un’immagine. Fotografi e pittori, a cura di Daniela Palazzoli e Luigi Carluccio, Galleria Civica di Arte Moderna, Torino 1973. 5/06 novembre 2006 Testo, pratiche, immanenza A cura di Pierluigi Basso Sommario Pierluigi Basso Introduzione ..........................................................................................5 François Rastier Doxa e semantica nel corpus..............................................................17 Anne Beyaert-Geslin Photo d’art et photo de presse: Enquête sur la vie intime des textes et des pratiques.......................................................................................35 Gian Maria Tore Per una semiotica della foto ricordo ..................................................59 Giacomo Festi Il giro del mondo intorno al testo. Un percorso metodologico per testualizzare le pratiche (ipnotiche) ...................................................77 Andrea Valle Eliche e bivalvi: sulla relazione tra ascolto e oggetti sonori a partire da Pierre Schaeffer ................................................................................101 Claudio Paolucci “Antilogos”. Imperialismo testualista, pratiche di significazione e semiotica interpretativa ....................................................................123 3 Jean-François Bordron Réflexions sur l’immanence. Quelques réflexions sur la dialectique du sens ................................143 Jacques Fontanille Pratiche semiotiche ..........................................................................161 Denis Bertrand Rhétorique et praxis sémiotique. Pour une sémiotique de l’absence .... 187 Pierluigi Basso Testo, pratiche e teoria della società ................................................209 INTRODUZIONE Pierluigi Basso 1. UN NUMERO IN UNA CORNICE PIÙ AMPIA Nei più recenti convegni e seminari internazionali si è potuto assistere a uno sforzo comune di ridefinizione di alcune nozioni di base della semiotica, soprattutto alla luce degli avanzamenti della teoria generale e dei confini di campo che la ricerca disciplinare sta continuamente risoppesando e ricontrattando. Al centro di questo lavoro di ridefinizione concettuale si pongono aspetti epistemologici e metodologici (l’immanentismo), eventuali diversificazioni o riunificazioni di paradigmi di indagine (testualismo, sociosemiotica, semiotica interpretativa, semiotica delle culture, pragmatica, ecc.), rinnovati dialoghi interdisciplinari. Questo numero nasce con l’obiettivo di cominciare a tesaurizzare il dibattito in atto e di mappare nuovamente convergenze, controversie e dissidi. In particolare, è il “testualismo” ad essere messo in questione sotto la spinta di una semiotica delle pratiche che pare essere punto di confluenza di prospettive teoriche che storicamente si erano divaricate. Certo, sarebbe una falsa partenza quella di ritenere le pratiche un oggetto nuovo per gli studi semiotici, soprattutto in Italia, dove la sociosemiotica, 5 ispirata ai lavori di Floch e di Landowski, si è notevolmente sviluppata, apparendo talvolta persino come il nuovo mainstream della ricerca. Questa nuova centralità dell’indagine delle pratiche non ha corrisposto, tuttavia, a una modificazione del modello teorico generale; ha piuttosto colto in Dell’imperfezione di Greimas la base per poter estendere pretese descrittive e campi d’indagine, permettendo alla ricerca di restare saldamente ancorata al progetto originario della semiotica generativa, fondata sulla virtuosa circolarità tra elaborazione di modelli e studi testuali. Sul piano teorico generale la sociosemiotica ha trovato come testo fondatore La società riflessa di Landowski (1989) e come emblema della fattibilità metodologica dell’indagine di pratiche il saggio di Floch sulla metropolitana parigina. Arricchito ulteriormente dalla profonda conoscenza della lezione barthesiana, il contributo in Italia di Gianfranco Marrone (2001) ha esemplificato lo spettro di indagini in cui la sociosemiotica può sistematicamente addentrarsi, rilanciando la centralità di temi su cui la disciplina dei segni dibatteva negli anni Sessanta, visto che essi rappresentano una posta che il presente deve saper raccogliere. Del resto, gli scritti critico-semiologici di Eco, la lezione di Rossi Landi e i contributi di Paolo Fabbri ricostruiscono una linea “italiana”, quasi ininterrotta, di ricerca semiotica vocata allo studio delle pratiche sociali. Tuttavia, sul finire degli anni Novanta, quella che appariva come una spaccatura di interessi tra, da una parte, la ricerca sociosemiotica e, dall’altra, la complessificazione del modello generale della teoria, sull’onda della semiotica delle passioni, prima, e della semiotica tensiva, poi, ha trovato delle saldature di interessi in grado di riportare in gioco il senso di un ridibattimento delle rispettive posizioni. In primo luogo, ha acquisito bilateralmente sempre più importanza lo studio della dimensione sensibile della significazione; in secondo luogo, la riemersione del corpo e dell’esperienza estesica, ha inevitabilmente messo sotto tensione (se non in crisi) i modelli narrativi classici (in primo luogo, la generalità dello schema narrativo canonico). Ma questo non è stato un dibattito che ha coinvolto solo le diramazioni filo- o post-greimasiane della ricerca; esso ha rimesso fortemente in gioco la necessità di un loro nuovo confronto con le prospettive teoriche di stampo interpretativo (in primo luogo, la semiotica echiana e la semantica interpretativa di Rastier). Al di là di quali saranno gli esiti, non si può che accogliere positivamente questo riprofilarsi di snodi teorici comuni alle diverse prospettive di ricerca, e non perché si auspica che esse possano confluire in un paradigma più generale, ma proprio perché si offre loro la possibilità di aumentare l’intelligibilità e il raffinamento concettuale dei loro distinguo. La comparsa recente sulla scena di importanti contributi originali con l’aperta vocazione a proporre una ripartenza nell’approccio alle pratiche (in particolare, Rastier 2001 e Fontanille 2004b) ha suscitato una vivace accelerazione nella ridiscussione o approfondimento delle proprie ipotesi di partenza e del proprio approccio metodologico. Di ciò, il paesaggio generale della ricerca non potrà che trarne beneficio, al di là dei punti di vista di ciascuno. 6 In un contributo recente, ad esempio, Marrone, pur ritenendo possibile e meritorio lo studio semiotico di pratiche (si veda il suo studio intitolato “L’agire spaziale”, in Marrone 2005), ha ribadito come un programma di ricerca sociosemiotico non comporti minimamente, di per sé, un necessario travalicamento della dimensione testuale. Ciò per la ragione che: “ogni esperienza vissuta è già di per sé una totalità significante, un insieme conchiuso di forme espressive e forme semantiche in continuo divenire, dunque un testo; e, parallelamente, ogni testo è una pratica all’interno di un ambiente socio-culturale, che risponde a pratiche precedenti e ne provoca di ulteriori. Testi, esperienze e pratiche sono, da prospettive diverse, la stessa cosa (...) Ancora una volta, il miglior modo per studiare le pratiche è andare a vedere come i testi (...) le raccontano nel loro piano del contenuto” (Marrone 2005, p. 119 e p. 123). Una tale conclusione è motivata dal fatto che i testi non “barano”, si denunciano apertamente come un prodotto culturale nient’affatto neutro, ma quanto meno oggettivabile intersoggettivamente, se non altro in termini di attestazione e implementazione pubblica. “Le esperienze e le pratiche, invece, non godono di questa prerogativa: o sono costruite ad hoc, artificialmente, per essere soggette a specifiche analisi di laboratorio; oppure, per essere studiate, hanno costitutivo bisogno delle maglie interpretative – ossia delle articolazioni testuali implicite (narrative, discorsive, figurative, ecc.) – d’un osservatore che, prima ancora di esaminarle, deve metterle a fuoco, selezionarle, raccoglierle, collezionarle” (ivi, 123). Il fatto che in qualche modo non si sfugga alla testualità è ricondotto da Marrone a una posizione che demarca l’approccio della sociosemiotica italiana (Marsciani, Pozzato, ecc.), ma giustamente non manca di sottolineare che “il ricorso ai testi (...) evita i rischi della generalizzazione affrettata” (ivi). Se ne deduce la crucialità, per la sociosemiotica, degli studi di corpora. Si deve osservare, tuttavia, che tali studi, benché certo praticati, hanno visto una rarefatta problematizzazione della loro costituzione e investigazione, nonché si è registrata, almeno nel recente passato, la mancata emergenza di una teoria dell’azione elaborata per comparazione contrastiva di corpora. Recentemente, Eric Landowski ha pubblicato uno dei suoi più importanti contributi (2006) alla sociosemiotica, Les interactions risquées. Esso si basa su una logica dell’esempio, più che su effettivi studi di corpora (peraltro praticati, in altre occasioni, dall’autore), ma ha il pregio di offrirsi come una nuova modellizzazione, strutturalmente definita, delle interazioni, pur non volendosi con ciò porre al di fuori dell’epistemologia semiotica del passato. Il lavoro di 7 Landowski in questi campi è pluridecennale, ma si ha la sensazione che proprio la tensione del dibattito attuale gli abbia sollecitato, e in qualche modo permesso, una sistematizzazione complessiva dei suoi contributi, portando un numero nient’affatto esiguo di nuove categorie descrittive già metodologicamente operative. Il mero confronto interattanziale di tipo polemico-contrattuale si arricchisce e si diffrange, così come le configurazioni narrative moltiplicano i loro possibili assetti rispetto al monocorde presupposizionalismo dello schema narrativo. Nella sua prefazione al lavoro di Landowski, Fontanille sottolinea come l’integrazione di nuovi piani descrittivi (quello delle interazioni) necessita di una correlativa pertinentizzazione di un piano dell’espressione: “se posso esprimere un auspicio per l’avvenire, questo è che, a differenza della semiotica narrativa standard, la semiotica delle interazioni non consideri affatto come acquisita e implicita la questione del piano dell’espressione” (Fontanille 2006, 5). Tali rilievo - che ha molti echi nella presente raccolta - emerge soprattutto perché l’approccio landowskiano, a differenza di quello della sociosemiotica italiana, non è rimasto affatto strettamente ancorato alla testualità; ecco allora che nella descrizione delle interazioni in atto il corpo potrebbe fornire il giusto livello di pertinenza per reperire il loro piano dell’espressione. Resta il problema, usciti dalla testualità, di come accedere metodologicamente alla descrizione del farsi di una pratica all’interno di uno scenario sociale. Se discipline come la sociologia o l’antropologia hanno speso decenni di riflessioni su tale questione, risulterà difficile, oltre che sospetto, sottrarvisi. Uno degli autori che maggiormente ha lottato teoricamente perché fosse evidenziata la specificità dei testi, la crucialità della loro analisi per lo studio delle culture e il fondamentale ancoraggio delle pratiche semiotiche all’investigazione di corpora, è certamente François Rastier. Il suo intervento più sistematico sulla semiotica delle pratiche (Rastier 2001), seguito oramai da una folta serie di altri contributi, parte tuttavia proprio dall’idea che non si possa considerare ogni fatto umano come un testo, dato che le performance linguistiche non possono divenire modello di tutte le attività culturali. Inoltre, semantiche linguistiche e conoscenza non possono essere identificate, dato che quest’ultima è un’azione, ancorché spesso rimossa nell’ontologizzazione dei saperi. Le entità linguistiche (discorso, genere, testo) non possono essere ridotte alle entità sociali (tipo di pratica, pratica, corso d’azione), ancorché è compito di una semiotica delle culture studiare le forme della loro relazione. Quando si tratta di elaborare una nozione esplicativa del passaggio all’atto, Rastier non si tuffa immediatamente in corpora testuali per estrapolarvi la concezione che di esso emerge (per quanto ciò possa risultare interessante, per esempio al fine di discernere un’ideologia dell’agire); pensa piuttosto che si possa ricorrere a una descrizione capace di ancorarsi all’embodiment delle istanze sociali. In tal senso, formula il passaggio all’atto in termini di “mancanza temporanea di inibizioni” (Rastier 2001, 203-04). Se per un se- 8 mantica del testo pretende di convocare un’economia minimale della soggettività che vi si articola, sul piano delle pratiche trova opportuno sottolineare l’immaginazione come un fatto discriminante dell’azione umana, dato che permette la presa in considerazione di cose in absentia o di pensare come veri testi finzionali. Sono solo alcune note semplificatorie del suo contributo, ma già danno l’idea di una diversificazione di approccio ai testi e alle pratiche che solo in seconda battuta può eventualmente riunificarsi in un programma federatore. Una tale divaricazione è in buona parte emersa anche all’interno del biennio che il Seminario Intersemiotico di Parigi ha dedicato al tema delle pratiche, anche se con accenti diversi, con preoccupazioni soprattutto metodologicodescrittive, e con un programma apertamente “continuista”, basato esattamente su quell’epistemologia che Rastier rifiuta anche per la semiotica testuale: ossia, il principio di immanenza. I contributi del seminario hanno contemperato generalmente cautela epistemologica - al fine di preservare una specificità disciplinare - e arricchimento dei modelli descrittivi - con l’obiettivo di articolare in un programma di ricerca effettivo la semplice asserzione che il contesto emerge come problema irrisolto solo lì dove si è mal ritagliato il proprio oggetto di studio. Una serie di studi di Jacques Fontanille, in rapida successione, hanno fornito un piano di consistenza a uno sviluppo alternativo, ma non incommensurabile (anzi, articolabile) con la ricerca landowskiana. Il saggio qui presentato in traduzione italiana (“Pratiche semiotiche”) contiene un’efficace sintesi di questa proposta organica; sarebbe qui pleonastico indulgervi. Allo stesso modo i ponti possibili che possono essere gettati tra il nuovo approccio di Fontanille e la sociosemiotica di Landowski sono ben esemplificati, in modo personale e proficuamente trasversale, dal contributo di Denis Bertrand. Quest’ultimo, del resto, aveva già offerto una riconnessione tra retorica e semiotica delle pratiche in Parler pour convaincre; e questo nodo trova qui un livello di notevole problematizzazione teorica grazie agli intrecci del suo saggio con le proposte, sul medesimo terreno, di Fontanille e di Jean-François Bordron. Tra l’altro, proprio in questi autori (Bertrand, Bordron, Fontanille) la ridiscussione e riaffermazione dell’immanentismo trova una specifica e ampia trattazione. Nel caso di Bordron, abbiamo poi una proposta teorica globale sulle pratiche che mostra come esse traspongano dall’una all’altra piani di immanenza. Anne Beyaert trasferisce questa visione teorica sul piano concreto di pratiche che si avvicendano traslando il piano di pertinenze testuali su cui si articola la significazione. Parallelamente a quanto era accaduto nel primo numero di Semiotiche, si è deciso di affiancare alla robusta e fidata partecipazione di alcuni elementi di spicco della semiotica internazionale, un gruppo di giovani “compagni di ricerca” (Festi, Paolucci, Valle e il sottoscritto, a cui si è aggiunto Tore) che si ritrovano da qualche anno a discutere assieme un discreto numero di questioni semiotiche, uniti dal modo di concepire la ricerca e conseguentemente vocati a diffrangere i loro rispettivi punti di vista. 9 2. PRESENTAZIONE DEI CONTRIBUTI I testi qui raccolti, tutti redatti nel 2005, partono, in un modo o nell’altro, da una propria originale prospettiva che non ricalca il filo rosso della sociosemiotica per come si è sviluppata negli anni Novanta, ma di cui non mancano i riflessi per le poste teoriche che ha saputo mettere in luce. Inoltre, la raccolta offre approcci e accenti alquanto diversificati, tanto da costruire un tessuto di voci non sovrapponibili, ma che nell’insieme vanno a costituire un quadro di mobilitazione della ricerca semiotica nel suo complesso. In questo senso, nel presente numero di Semiotiche il lettore non troverà alcun programma comune in vista di una sociosemiotica (o semiotica delle pratiche), al punto che alcuni contributi criticano dall’esterno le stesse basi su cui è costituita la relativa specificità di questo indirizzo di ricerca. Quello che il lettore potrà sperabilmente trovare è uno spirito condiviso nel praticare la semiotica, basato sul rifiuto di riduzionismi, soprattutto quando, come in questo caso, si ha la sensazione di inoltrarsi in terreni malcerti, almeno rispetto al proprio ambito disciplinare. L’auspicio è così che anche questa serie di saggi possa testimoniare allora della vocazione con cui è nata la rivista Semiotiche sotto l’impulso di Gian Paolo Caprettini, vale a dire quella di uscire da atteggiamenti di scuola per un confronto libero, trasversale ma anche vivamente contrastato delle posizioni registrabili oggi nel nostro campo disciplinare. La natura originaria dei contributi qui raccolti è diversa; alcuni hanno un impianto più strettamente saggistico, altri sono testi di relazioni convegnistiche lasciate nella loro originaria stesura per la lettura. I loro punti di convergenza tematici sono il testo e le pratiche; l’approfondimento di una o di entrambe le nozioni viene declinato come ridisegnamento di un’intera problematica disciplinare. In questo senso, il percorso argomentativo che i contributi raccolti hanno in comune sfocia generalmente in una radicalizzazione consequenziale a queste assunzioni concettuali di base, implicate, del resto, in qualsivoglia approccio semiotico. Proprio perché in passato siamo già intervenuti in maniera sistematica sulla relazione tra testo e pratiche (Basso 2002), non vogliamo qui surrettiziamente rischiare di imporre una lettura privilegiata sui saggi qui contenuti e abbiamo preferito allargare il paesaggio attuale della ricerca, giustapponendo anche direzioni teoriche che qui potrebbero non trovare direttamente manifestazione. La ricchezza del momento attuale sta proprio nella pluralità di vedute e nella qualità dei diversi contributi. Per tale ragione ci siamo limitati ad offrire al lettore solo una breve sintesi dei nodi teorici affrontati degli articoli, senza entrare nel merito o nei meriti di essi. Per quanto sia importante ragionare sulla testualità, resta poi il fatto che l’analisi testuale di singoli casi non consente alla semiotica di porsi in dialogo con le altre scienze umane rispetto a questioni che riguardano le trasformazioni storiche 10 (gli studi diacronici latitano), l’emergenza di topoi nel dibattito comunitario, le tensioni conflittuali interne alla produzione di documenti propri a uno specifico dominio sociale. Il saggio d’apertura di François Rastier ritorna ad affrontare quei rapporti tra ideologie e formazioni discorsive che la semiotica ha, per qualche tempo, ritenuto quasi compromessi, visto il distacco dall’oramai desueta “politica militante” della disciplina. Per contro, Rastier mostra come lo studio di corpora offra di per sé l’accesso a una prospettiva critica della semantica della doxa. Inoltre, piuttosto che la ricostruzione di uno spettro enciclopedico dei valori doxastici, si tratta di ricostruire una polemologia inter-doxastica che anima ogni cultura. Una tale prospettiva non può che accogliere scetticamente, se non con aperto sospetto, ogni analisi semiotica di uno scenario culturale che ricostruisce delle definizioni categoriali univoche e distintive rispetto ad altre culture. È certamente a un livello di complessificazione maggiore, quello della forma di regolazione delle tensioni filo-doxastiche e para-doxastiche, che le culture potranno essere raffrontate. Tutto ciò non solo ha una ricaduta teorica importante su una teoria delle pratiche, ma - come mostra perfettamente Rastier - ha anche un impatto rilevante sul nostro modo di concepire il lessico e tutti quei fenomeni chiamati da Greimas “cristallizzazione della parole”. Il saggio di Anne Beyaert si pone il problema del trasferimento di un tipo di testualità (la fotografia) da una pratica all’altra, per esempio da quella giornalistica a quella artistica e viceversa. Ma mostra anche come l’implementazione pubblica dei testi sia tutt’altro che riducibile a un momento istituzionale di iscrizione in contesto e in specifici corpora. La vita dei testi è avventurosa e c’è da chiedersi quanto della loro significazione derivi dalla memoria di queste “peripezie esistenziali”, e soprattutto come si possa pedinarne lo sviluppo. Rispetto alla “finzione” teorica di aver di fronte un testo, ecco che nella circolazione mediale dei discorsi assistiamo a una serie continua di trasposizioni di formato, di scenari predicativi d’iscrizione, e così via. Affrontando in particolare il problema della temporalità, Beyaert dimostra come la sua declinazione testuale dipenda dall’afferenza a una pratica, e come dalla significazione d’eventi intensivi (garanzia di un impatto immediato di una foto di reportage) si possa così passare (per esempio attraverso il trasferimento verso una pratica artistica) alla messa in valore di stati di cose che, garantiti da una sufficiente durata dell’apprensione, risultano infine pienamente “leggibili”. Il saggio di Tore mette al centro della riflessione l’esperienza testuale, mostrando come un testo, una volta ricondotto a una pratica e a un genere che media la loro articolazione, finisca per essere un “nodo di instabilità” irriducibile a una ipostatizzazione delle sue strutture. Le condizioni di esperienza del testo devono entrare chiasmaticamente in relazione con le condizioni di caratterizzazione della pratica che ne regola il valere dei valori. All’isolamento del testo, Tore contrappone la congiunturalità dell’incontro con il testo, che lo rende sempre significante sulla base di altri testi co-occorrenti o comunque di altre esperienze 11 testuali compossibili. La foto ricordo - l’esempio portato da Tore - può offrirsi come il terreno testuale per una riappropriazione della figura del corpo, ma questa sua disponibilità, da un lato si declina nella singolarità dei casi (testo come esperienza locale), dall’altro si impernia su pratiche che la riconducono a una forma di vita, e di qui alla regolazione strategica di un’attività modellizzante. Il contributo di Giacomo Festi mette in tensione un’idea di testo come archivio di senso disponibile con una visione disciplinare preliminarmente diffidente verso le pratiche, dato che il loro senso, non essendo mai depositato definitivamente, risulta infine inoggettivabile. La prima mossa di Festi è non disgiungere il testo dalla relazione che intrattiene con il soggetto che lo mette a significare; la seconda è quella di vedere il testo come una partitura che viene sempre eseguita all’interno di uno specifico contesto immersivo. Esplorando la tenuta della recenti indicazioni di Fontanille (2004b), Festi mette al centro della sua indagine l’ipnosi, rilevando come all’interno di tale pratica si gestiscano “in presa diretta degli effetti di senso secondo un circolo di auto-osservazione sempre attivo”. Il plesso di relazioni tra corso d’azione, verbalizzazione e corporalità non può essere disaggregato pena la perdita delle articolazioni di senso che bypassano l’eterogeneità di istanze e di piani di manifestazioni. Casomai è la pratica clinica che opera uno sganciamento di istanze identitarie (la carne può affacciarsi come “motore” di semiotizzazione autonomo) al fine di significare tale possibilità (liberazione) o con l’obiettivo di profilare nuove possibili solidarizzazioni tra di esse. Andrea Valle mostra come i legami tra testo e pratica siano sempre stati interni al pensiero semiotico, da una parte perché il primo è stato concepito come il prodotto di una pratica d’analisi, dall’altra per via della messa in valore delle tracce enunciazionali, connesse all’attività di produzione che è alla base del testo stesso. Tuttavia, da questi riconoscimenti, quasi taciti, si è provveduto spesso a una rimozione della centralità della produzione segnica, della stratificazione enunciazionale e dei livelli di pertinenza sotto cui inquadrare la relazione tra testo e pratiche. In particolare, incentrandosi su una semiotica dell’udibile, Valle modellizza una ricorsività delle pratiche d’ascolto attraverso le quali si continua a trasdurre senso sotto costituzioni significanti che hanno in memoria la tappa precedente. Passando allora attraverso la nozione schaefferiana di oggetto sonoro, Valle esemplifica come il testo si muova entro una costituzione pertinenziale plurilivellare, dove a ciascun passaggio ricorsivo della pratica d’ascolto corrisponde una relazione specifica tra oggetto e struttura (struttura di cui l’oggetto è una componente, e struttura di cui esso stesso è costituito). Ecco che al testo come “dato” si sostituisce tutt’al più una visione teorica che lo coglie come stabilizzazione locale di un flusso ricorsivo di pratiche di apprensione. Claudio Paolucci interviene anch’egli sulla ipostatizzazione della funzione segnica e sulla deproblematizzazione della sua costituzione locale. La spiegazione di ciò è colta esattamente nella feticizzazione ed estensione smodata 12 della nozione di testualità, la quale porta perniciosamente con sé l’idea di un’oggettivazione immanente di relazioni semiotiche predeterminate. Il saggio di Paolucci si offre come un rilancio di un’epistemologia strutturale radicale che sappia trarre vantaggio dalla lezione deleuziana, capace di svincolarsi dalla fascinazione per una fenomenologia (quella merleau-pontiana) che ha anteposto l’inarticolazione silente dell’esperienza sensibile alla linguisticizzazione, alla logica strutturale. Per contro si tratta di riconoscere come ogni dimensione della significazione comporti la costituzione locale di commensurabilità (ratio) tra elementi eterogenei; ciò dovrebbe divenire il centro di una semiotica interpretativa concepita come fabbrica di produzioni segniche. Jean-François Bordron esemplifica la sua argomentazione attraverso un esempio che mette in tensione i rapporti tra testo e pratiche e che getta una luce sulla questione dell’immanenza; lungo il corso della sua vita Maine de Biran si ritrova ad esercitare due generi contemporaneamente: il saggio filosofico e il diario intimo. Il secondo finisce con l’interferire con il primo, non quanto a contenuti, ma proprio per la pratica scritturale che ne sta alla base, anzi più in generale per la disoccultazione della fatica e dei costi interiori dello scrivere. Tale esempio serve a Bordron per mostrare come ogni pratica intervenga su un prodotto culturale già dotato di una propria organizzazione immanente, per riformulare le pertinenze di quest’ultima al fine di iscriverla dentro una nuova immanenza, fondata, per esempio, su un registro discorsivo diverso. A regime, le pratiche dunque si concatenano inventando nuovi piani di immanenza entro cui giocarsi il senso di testi, e pur restando sempre all’interno delle forme simboliche di una cultura, esse le mettono in tensione. Una semiotica della pratica in atto è allora foriera dello studio del suo farsi, del suo costituire un proprio dominio d’immanenza traspositivo o riformulativo d’altri. Il saggio di Bordron si introduce poi nella disamina teorica dei piani dell’espressione e del contenuto di una pratica, del ritmo che le è proprio, dei débrayage/embrayage soggettali e oggettali che la sottendono, del necessario adattamento all’aleatorietà del divenire che sempre la attraversa. Nel contributo di Fontanille la difesa del principio d’immanenza è un tutt’uno con la salvaguardia della specificità della semiotica; similmente a Bordron, l’enunciazione in atto costituisce una attività di schematizzazione che istituisce delle relazioni significanti: di esse la semiotica deve rendere conto. Non riconoscendosi, tuttavia, in posizioni che estendono smodatamente la nozione di testo, Fontanille intende enucleare dei piani di immanenza diversificati e incassati tra loro - è questo il programma di base da cui è partita la sua elaborazione di una semiotica delle pratiche, nonché la sua riflessione sulla semiotica in quanto pratica. Nel presente saggio Fontanille comincia a mettere alla prova le proprie categorie descrittive confrontandosi con la retorica e in particolare con la pratica argomentativa; evidenzia l’esistenza di generi prassici che si esplicano poi in generi testuali, ma soprattutto comincia a mappare le relazioni tra pratiche e testo, non limitandosi semplicemente a rivendicarne l’esistenza e/o la crucialità. 13 Se nel saggio di Fontanille, la retorica diviene un terreno di prova per il modello di semiotica delle pratiche recentemente avanzato, riportando finalmente attenzione sull’argomentazione, l’intervento di Denis Bertrand parte proprio dalla retorica come luogo in cui emergono i paradossi interni alle pratiche, consigliandoci di non assumerle come un dato referenziale deproblematizzato. La retorica diviene così l’angolo prospettico che questiona la “falsa concretezza” della pratica e la riconduce a un asse tensivo sotteso dall’opposizione giustezza vs improprietà; un asse che è sempre dipendente da una inevidenza, da un’assenza, da uno sfalsamento tra la datità e le condizioni di sviluppo di proprietà pertinenti al gioco linguistico che si sta conducendo. Il saggio di Bertrand si addentra poi nella distinzione e riarticolazione tra una retorica pensata come gestione in discorso dei modi di esistenza dei valori e una retorica che afferisce alle tecniche di persuasione efficace rispetto a un uditorio, soprattutto grazie a un uso figurativo dei linguaggi. Infine, il saggio dello scrivente chiude la raccolta compiendo una perlustrazione di una possibile ridefinizione della testualità e confrontando le recenti proposte di Fontanille con uno spettro di problematiche che possono emergere nello studio delle pratiche. Avendo deciso opportunamente di evacuare da questa introduzione il nostro punto di vista critico sul panorama della ricerca, ne abbiamo infine lasciato qualche traccia più estesa nell’intervento finale. 14 Bibliografia Basso, Pierluigi 2002 Il dominio dell’arte, Roma, Meltemi. Bertrand, Denis 1999 Parler pour convaincre, Paris, Gallimard Education. Floch, Jean-Marie 1990 “Etes-vous arpenteurs ou somnambules?”, in J.M. Floch, Sémiotique, marketing et communication, Paris, PUF, 1990; trad. it. Semiotica, marketing, comunicazione, Milano, Franco Angeli, 1992. Greimas, Algirdas Julien 1976 Sémiotique et sciences sociales, Paris, Seuil; trad. it. Semiotica e scienze sociali, Torino, Centro Scientifico Editore, 1991. Fontanille, Jacques 2004a Figure del corpo, Roma, Meltemi. 2004b “Textes, objets, situations et formes de vie. Les niveaux de pertinence du plan de l’expression dans une sémiotique des cultures”, in E/C, www.associazionesemiotica.it.; poi in D. Bertrand & M. Costantini (eds.), Transversalité du Sens, Paris, P.U.V., 2006. 2006a “Avant-propos” a Landowski (2006). 2006b “Pratiques sémiotiques: immanence et pertinence, efficience et optimisation, Nouveaux Actes Sémiotiques, 104-105. Landowski, Eric 1989 La societé réfléchie, Paris, Seuil; trad. it. La società riflessa, Roma, Meltemi, 1999. 2006 “Les interactions risquées”, Nouveaux Actes Sémiotiques, 101-102-103, 2005. Marrone 2001 Corpi sociali, Torino, Einaudi. 2005 “Sostanze tossiche e sostanze stupefacenti”, in G. Marrone (ed.), Sensi alterati. Droghe, musica, immagini, Roma, Meltemi. Rastier, François 2001a “L’action et le sens. Pour une sémiotique des cultures”, Journal des anthropologues, 85-86. 2002 “Antropologie linguistique et sémiotique de la culture”, in F. Rastier & S. Bouquet, Une introduction aux sciences de la culture, Paris, Puf, 2002. 15 DOXA E SEMANTICA NEL CORPUS* François Rastier 1. POSIZIONI E PROPOSTE 1.1. La doxa e l’Essere L’ontologia si è costituita attraverso il ripudio della doxa: aspirando alla conoscenza, i filosofi opposero la verità, insegnata all’interno di piccoli gruppi esoterici (come, per esempio, quelli pitagorici), all’opinione comune, sedotta dagli idoli dell’agorà o del foro. Partendo dalla diversità delle credenze in mutua opposizione, la dialettica socratica ritenne di poter accedere al “vero” proprio perché esse si fronteggiavano sullo sfondo di un ordine “naturale” delle cose, la cui conoscenza consentirebbe al saggio di giudicare rettamente. Ecco allora che la stabilità definitoria dell’Essere mette sotto accusa la variabilità della doxa, permettendo di denunciarne l’assenza di fondamento e di * Il presente studio, qui per la prima volta tradotto in italiano e proposto in una nuova versione, è stato pubblicato in francese anche in una versione diversa e più estesa che può essere reperita sulla rivista Texto! (www.revue-texto.net). La traduzione è stata curata da Pierluigi Basso. 17 ricusarla, infine, come una illusione. Per contro, la retorica, richiamandosi alla doxa per garantirsi un potere di convinzione e inventariandone gli elementi nella topica, prende le distanze da qualsiasi referenzialità e si espone alla condanna platonica che la bolla come un inganno deliberato, un’illusione indiscernibile in quanto tale. Le opinioni false sarebbero solo un travestimento della verità che appartiene all’ordine delle Idee; questo ordine irenico, invariabile e non contraddittorio, consentirebbe di giudicare con criterio le contraddizioni degli uomini. Il fondamento ontologico di tale principio regolatore del giudizio fu innanzi tutto riconosciuto come il Dio - senza rivelazione - dei filosofi, e infine ribaltato nei termini di un ordine della Natura. Trasponendo la natura delle cose nella “materia del sociale”, il ribaltamento marxista situò la verità nell’ordine materiale dell’organizzazione sociale e, più precisamente, dei rapporti di produzione. Esso fece delle credenze una ideologia e mantenne la distinzione tra, da una parte, le credenze vere (il marxismo), ovvero l’ideologia scientifica, e, dall’altra, le credenze necessarie (alle classi degli oppressori), ovvero quelle determinate in ultima istanza dall’ordine economico. La denuncia materialista della credenza, sia essa sociale o individuale, conobbe il suo acme nelle “filosofie del sospetto” contemporanee. Dopo la stigmatizzazione marxiana della credenza quale travestimento ideologico dei rapporti di classi nelle società dello sfruttamento, giunsero Schopenhauer, e quindi Nietzsche e Freud, pronti ad ascriverle la menzogna interessata dell’Io contemporaneo: i sentimenti divennero così nulla più che le espressioni leziose dei bisogni e delle pulsioni più istintive. Il darwinismo sociale, su questa stessa linea, fa oggi dell’altruismo il travestimento degli interessi egoistici dell’individuo, ossia del suo genoma (cfr. Dawkins, Il gene egoista). Ad ogni buon conto, un’istanza invariante condiziona i travestimenti variabili della cattiva fede. L’Essere parmenideo e l’Idea platonica sono stati, in questo senso, semplicemente rimpiazzati dalla Materia, la quale assume la loro funzione trascendente in tutti i programmi di naturalizzazione: la base economica oggettiva, quindi lo strato pulsionale della psiche, e infine oggi il genoma hanno ereditato, di volta in volta, i poteri della Physis. Se si riconosce l’autonomia relativa del semiotico, nessun criterio esterno permette di giudicare le credenze. Le scienze della cultura possono legittimamente assumere come obiettivo la descrizione delle credenze, ma non la loro sanzione, e ancor meno la loro denuncia. Al livello d’analisi che le compete, la linguistica può tuttavia obiettivarle attraverso un approccio comparativista. La caratterizzazione differenziale delle doxa, inevitabilmente pluralizzate, apporta novità notevoli. Innanzi tutto, è la loro pluralità che permette di percepire contrastivamente le doxa - il paradosso assume con ciò una dimensione critica insostituibile. Inoltre, il ruolo delle doxa deve essere descritto non in rapporto alle oscure rappresentazioni collettive, bensì in rapporto alle strutture stesse degli universi semantici e dei diversi discorsi (letterario, scientifico, mitico, ecc.). 18 1.2. Ambiguità dell’ideologia L’ideologia di Destutt de Tracy1 si pone come una teoria delle idee; essa, essendo parte integrante della sua teoria del linguaggio, finisce col giocare, rispetto alla grammatica, il ruolo di una semantica. Marx ha ripreso - come noto - il concetto di ideologia per farne un insieme di rappresentazioni collettive, determinate, in ultima istanza, da una formazione socioeconomica. Questa concezione è ora ben radicata nella vulgata sociologica. Nel rinnovare la critica platonica della doxa, il monismo materialista denuncia l’ideologia come illusione e formula un programma di demistificazione al fine di ridurla a un tessuto d’apparenze. La critica della cultura (Kulturkritik) condotta dalla Scuola di Francoforte, la lezione di Althusser così come la teoria di Bourdieu procedono, pur differentemente, in questa direzione. La questione delle ideologie resta legata al materialismo dialettico e ai dibattiti che l’hanno accompagnato, in modo tale che il termine stesso di ideologia, vittima del concetto che esprime, resta ideologicamente marcato, sia che lo si enfatizzi, sia che lo si impieghi secondo un’accezione spregiativa. Infine, nel marxismo vulgato che riunisce correnti sociologiche influenti, la parola ideologia rinvia a rappresentazioni collettive legate a una categoria sociale, ma senza rapporti determinati con i testi e i discorsi. Poco importa qui che la doxa venga ridotta eufemisticamente a “senso comune” o stigmatizzata in quanto “ideologia”: si ammetterà in ogni caso che il suo studio ha contribuito ben poco a precisare il problema delle ideologie. Le ambiguità del concetto di ideologia non autorizzano tuttavia a confondere sociologia e linguistica, né d’altro canto a trovare nel sociale le “condizioni di produzione” del linguistico, visto che quest’ultimo ne è parte integrante. La suddivisione disciplinare può così configurarsi: Discipline Campo d’obiettività Sistemi Processi Sociologia Formazione sociale Ideologie Pratiche Linguistica Corpus di riferimento Doxa Discorso, generi Ciò ci pare la condizione di una interdisciplinarità feconda. 1.3. Prospettive di ricerca Due correnti della ricerca contemporanea trattano il problema delle norme semantiche condivise: 1 Eléments d’idéologie, Paris, Courciez, 1805-1817, 3 vol. 19 a) la topica cerca di identificare i luoghi comuni2 che sottendono le argomentazioni. Sviluppata dalle correnti neoretoriche (Perelman) o pragmatiche (Ducrot), la topica prolunga la riflessione di Aristotele e della tradizione retorica concernente gli assiomi condivisi che possono alimentare le convinzioni diffuse. b) Se la topica si occupa di forme proposizionali e formula i topoï come proposizioni, la lessicologia si attiene a un livello d’analisi inferiore. È noto come la lessicologia, fin dal 1830, venisse chiamata ideologia3. All’inizio degli anni Cinquanta, Matoré e Greimas, nel loro studio La méthode en lexicologie, ricordavano che un vocabolario esprime “uno stato di civilizzazione”. Questa considerazione trae le sue origini da un’altra tradizione rispetto a quella della retorica aristotelica, vale a dire la linguistica di Humboldt; quest’ultimo, infatti, non aveva considerato il linguaggio semplicemente come un mezzo d’espressione, bensì come il luogo di strutturazione delle rappresentazioni collettive legate a una società e a una cultura. La nozione di doxa deve essere ridefinita in termini linguistici: dato che nella prospettiva differenziale si costituisce attraverso opposizioni semantiche, essa non si trova “nelle parole”, ma “tra le parole”, vale a dire nella loro relazione. Visto che tali relazioni non sono statiche ma dinamiche, è necessario caratterizzare le strutture doxastiche (endoxastiche e paradoxastiche): mentre tra lessie si pongono delle soglie valutative, i percorsi generativi e interpretativi si dispiegano tra le zone che esse delimitano4. Da parte nostra privilegiamo qui il lessico, anche se la doxa non si riduce affatto a relazioni lessicali, così come non afferisce soltanto alla componente tematica dei testi; per esempio, nel romanzo francese del XVIII secolo, quando una donna monta a cavallo non tarda a cadervi. Questo esile motivo narrativo dipende dalla dialettica, ma il suo valore doxastico è evidente. In definitiva, lo spazio delle norme semantiche che costituisce la doxa può essere descritto in ciascuna delle componenti semantiche (cfr. Rastier 1989, I): nella tematica, la doxa istituisce una topica (fatta di temi ricorrenti); nella dialettica, dei motivi (funzioni dialettiche ricorrenti); nella dialogica, delle posture (in particolare, quelle degli attori dell’enunciazione rappresentata); nella tattica, delle disposizioni (ad es. nel saggio scientifico, la prima introduzione è una introduzione). 2 3 4 Possiamo distinguere tre accezioni del termine topos. La più tradizionale, dopo la retorica di Aristotele, è una forma argomentativa stereotipica. Tale accezione è stata ripresa, con un’estensione più ristretta, da certi pragmatici. La seconda accezione, da noi utilizzata (Rastier 1987), è un assioma normativo socializzato (come per esempio “I giovani fanno gli spacconi”) che permette una specifica afferenza. La terza accezione designa una struttura tematica stereotipica e familiare in storia della letteratura: in questo senso, deve intendersi il topos del locus amoenus. Certo, la parola ideologia evocherebbe invece Tracy (e non subito Marx), visto che egli aveva sviluppato la riflessione di autori che Bréal chiamava “i nostri padri della scuola di Condillac” (Bréal 1897, p. 255 della versione francese). Cfr. infra, § 2., nonché Rastier (1996 e 2000). 20 Detto ciò, si può comunque considerare che la concretizzazione più semplice di una doxa (o sistema assiologico) risiede nel lessico: la doxa impone, in effetti, la costituzione di classi lessicali minimali (tassemi), e di qui poi la definizione differenziale dei sememi e dei semi al loro interno. Ma è bene precisare ulteriormente il quadro linguistico a partire da cui il nostro studio prende le mosse. 1.3.1. Concezioni del lessico Il lessico non si limita ai lessemi e comprende anche i grammemi, anche se la loro diacronia non afferisce alla medesima scala temporale. Inoltre, ogni testo appartiene a un genere, e ogni genere dipende da un discorso. Si è potuto mostrare l’incidenza dei generi e dei discorsi sull’insieme delle categorie morfosintattiche, così come sulle variabili quale la lunghezza delle parole e delle frasi (cfr. Malrieu e Rastier, 2001). Le variazioni di ogni ordine indotte dai generi e dai discorsi suscitano alcuni interrogativi: a) esiste un vero e proprio lessico della lingua? La lingua esercita delle costrizioni generali (trans-generiche e trans-discorsive) sul piano dell’espressione (sillabe, sintagmi), ma che cosa dire invece per ciò che attiene al piano del contenuto? b) i lessemi sono indicizzati dai domini semantici che corrispondono ai discorsi e, in ultima analisi, alle pratiche sociali. I lessici sono allora determinati dai tipi di pratica e dai discorsi che vi afferiscono? Per chiarire tali questioni, è bene distinguere due lessici5: (i) il lessico dei morfemi che appartiene alla lingua; (ii) il lessico delle lessie, quale combinazione stabilizzata di morfemi, che appartiene invece all’ordine del discorso o, se si vuole, della parole saussuriana; per tale ragione noi riteniamo che il lessico delle lessie non appartenga alla lingua. In effetti, conoscendo le regole di combinazione dei morfemi, posti alla base della sintassi interna della “parola”, ogni locutore può poi comporre e interpretare neologismi, vale a dire piccole combinazioni discorsive inedite. 1.3.2. Specializzazione dei lessici L’unità del lessico sembra un artefatto della lessicografia. Inoltre, se non esiste un solo lessico, non esisterà nemmeno una doxa (cfr. infra, § 3.). La maggior porzione del lessico, quella dei lessemi, resta in effetti specializzata secondo i diversi domini; oppure, nel caso delle polisemie, assume, secondo i domini, accezioni specifiche. Nulla ci permette allora di postulare l’unità di tali lessici specializzati. Solo alcuni grammemi possono essere riscontrati in tutti i discorsi. 1.3.3. Tematica e topica Nell’ambito del lessico, la topica e la tematica si traducono attraverso delle forme di co-occorrenza ristretta: per esempio, in un corpus composto di romanzi della banca dati Frantext (1800-2000) e di dieci annate di Monde, l’aggettivo 5 Cfr. Rastier (1994, III, 1.3). 21 più frequentemente associato a uomo è “notevole”, mentre l’epiteto preferito per donna è “nuda”6. Troviamo qui le opposizioni tra lo spirito e la carne, le qualità morali e quelle fisiche, ecc. 2. ESEMPLIFICAZIONI 2.1. Fenomeni di canonicità L’incidenza delle norme della doxa si manifesta molto semplicemente attraverso fenomeni di canonicità. Si può dire che il sistema numerale del francese appartiene al sistema della lingua, ma, di fatto, le cifre canoniche, come dix o trente-six, sono molto più frequenti che neuf o trente-sept. Ciò dipende da norme che restano da descrivere. Per esempio, nel corpus relativo ai romanzi scritti tra il 1830 e il 1970, reperibile nella banca dati Frantext e composto di 350 opere, abbiamo potuto rilevare la presenza di 4488 menzioni dell’età anagrafica. In particolare, se ne contano 2650 relative ai personaggi maschili (59%), 1838 (41%) a quelli femminili (cfr. Deza, 1999). Alcune età anagrafiche non compaiono affatto; 41 anni per le donne (mentre quarant’anni è un’età canonica) 7, 49 per gli uomini (al contrario 50 è un’età canonica), e ancora 71 anni o 92 anni. Altre età sono invece sovrarappresentate, per esempio, 15, 18 e 20 per entrambi i sessi; 16 anni per i personaggi femminili (Deza, 1999, p. 235). Nel romanzo francese, si ha quasi sempre vent’anni... Al di là di un’apparente banalità, tali risultati trasformano le intuizioni in fatti stabiliti di cui una semantica della doxa deve provvedere un’interpretazione. 2.2. Antonimie Dato che la doxa è una questione di valorizzazioni e che i valori si oppongono in primo luogo a coppie, studiamo qualche antonimia. 2.2.1. Amore e denaro Dopo il Romanticismo, il romanzo ha massivamente opposto l’amore e il denaro. Nei romanzi di Balzac, presi nel loro insieme, troviamo una correlazione negativa di -0,42 tra i due termini (o più esattamente tra le due forme: amore e denaro). Vale a dire, più un romanzo parla d’amore (ad es. Le lys dans la vallée, la Duchesse de Langeais e le Mémoires de deux jeunes mariées) meno 6 7 8 Dati comunicati da Gaston Gross. Ciò non sorprende nessuno, ma immaginiamo un istante l’angoscia di noi moralisti in un mondo popolato di uomini nudi e di donne notevoli. Troviamo qui – in termini di percezione semantica – un peraltro frequente fenomeno di inibizione laterale: le donne di 41 anni sono “assorbite” dalle donne di quaranta, gli uomini di 49 da quelli di cinquanta. I contrasti tra i termini effettivi sono tali che sono trascurabili le polisemie. Ben inteso, il francese argent (denaro) è polisemico, come dimostrano i contesti in cui esso assume l’accezione di colore (argenteo), metallo (argento), valuta. Nel romanzo l’ultima accezione domina a differenza della poesia. 22 parla di denaro8. Se cerchiamo ora le stesse correlazioni nell’opera di Rimbaud, otteniamo un’enorme opposizione tra le Poesie della prima giovinezza – dove l’amore è relativamente molto frequente (coefficiente 8,7) e il denaro raro (1,7) - e le ultime lettere - dove la correlazione è inversa (-10,9 per amore e +5,4 per il denaro), dal momento che i trafficanti d’armi soffrono, come sappiamo, di un deficit d’amore. Tuttavia, tale opposizione non è specifica del discorso letterario. Nel discorso religioso, per esempio, troviamo in Montalembert9: “Ma né con regali né con denaro la giovane principessa poteva soddisfare il suo amore per i poveri di Cristo”; o ancora, presso Monod: “un’ora in cui il bagliore di trenta monete d’argento nascose agli occhi dell’apostolo quello delle parole, delle opere, della santità e dell’amore di Gesù”. Nel discorso storico ritroviamo la stessa opposizione, per esempio in R. de Vertot: “il piccolo popolo riprese coraggio, e sebbene non vi fossero a Roma né uomini, né armi, né denaro, si trovò tutto ciò in questo amore per la repubblica che costituiva il vero carattere di un romano”. Oppure, la possiamo reperire in filosofia, per esempio presso l’abate di Mably: “La sete di denaro che ci divora ha soffocato l’amore della patria”. Questa opposizione resta vivace nel discorso politico contemporaneo. Prendiamo per esempio per corpus i discorsi dei primi segretari al congresso del Partito Comunista Francese. All’VIII congresso, in Thorez, l’amore (+3,9) ha la meglio sul denaro (+0,2), mentre durante il XXI congresso, che preluse all’Unione della Sinistra, il denaro (+4,8) ha la meglio sull’amore (-4). Ciò significherebbe allora che all’epoca del Fronte Popolare era prevalso il rivoluzionarismo appassionato, mentre il XXI congresso è stato l’Harrar10 del Partito Comunista Francese? Ciò sarebbe una caricatura. Ma del resto, in tale ambito non si tratterebbe forse dello stesso amore reperibile nei romanzi, se il denaro non restasse lo stesso dappertutto. L’antinomia tra amore e denaro nel discorso comunista del Primo Dopoguerra traduce forse ciò che Stalin definiva come il romanticismo rivoluzionario; ma non pretenderemo che esso derivi direttamente dal romanticismo letterario. Si può parlare qui di una opposizione trans-discorsiva. Certo, nei differenti discorsi le forme amore e denaro assumono accezioni diverse e manifestano non a caso sememi ineguali. I loro tratti comuni si situano dunque a un livello inferiore, microsemantico, con una opposizione quale /espansione/vs/restrizione/. La loro ubiquità ne fa delle categorie pregnanti e storicamente stabili. Già nel Banchetto di Platone (§ 203), Eros è il figlio di Penia (la radice è la stessa di penuria); e ancora ai nostri giorni, fino ad Amélie Poulain, è d’uso immaginare che i giovincelli vivano d’amore e d’aria fresca - senza nemmeno ricorrere alle carte di credito. 9 10 I riferimenti sono quelli della bibliografia della banca Frantext. Ndt. L’autore si riferisce a Rimbaud e alla sua partenza per Harrar (in Etiopia) spinto da ragioni “commerciali”; non fu una scelta felice dato che dopo dieci anni comunque difficili Rimbaud si ammalò e riuscì solo a tornare in patria per morirvi poco dopo trentasettenne. 23 2.2.2. Mariti e amanti Nelle Confessioni (Libro V, p. 72), Rousseau formula questa riflessione illuminante sul “possesso” di una donna: “Non posso aggiungere: Auctius atque Di melius fecere; ma non importa, non mi serviva di più; non mi serviva nemmeno la proprietà: era già sufficiente per me il godimento; ed è da tempo che dico e sento che il proprietario e il possessore sono spesso due persone molto diverse, anche lasciando da parte i mariti e gli amanti”. Ed ecco che Proudhon, in Che cos’è la proprietà?, un saggio politico che appartiene a un altro discorso e a un altro genere, scrive: “Se oso servirmi di questa comparazione, un amante è un possessore, un marito è un proprietario” (1840, p. 157)11. Ecco allora che si è così ottenuta una proporzione a quattro termini suscettibile di rivelarsi piuttosto generale. Perseguendo la ricerca di omologazioni attestate nei diversi generi e discorsi (politico, filosofico, letterario, ecc.)12, siamo pervenuti a una tavola di opposizioni, notando semplicemente le opposizioni associate; per esempio in Les mémoires de deux jeunes mariées, Louise de Chaulieu scrive a Renée de Maucombe: “L’uomo che ci parla è l’amante, l’uomo che non ci parla più è il marito” (p. 230). Di debole peso statistico, tali risultati non devono nulla alla lessicometria13 e del resto, per quanto ci riguarda, ci atteniamo all’analisi qualitativa. Ciò che ci sembra caratteristico della doxa è la correlazione tra isotopie: tra le diverse isotopie – economica (proprietario vs possessore, soldo vs gemma preziosa, ecc.), geografica (provincia vs Parigi), culinaria (mensa vs ristorante), ecc. - possono essere stabilite molteplici corrispondenze: il marito umilia il corpo, l’amante eleva l’anima, ecc. Queste omologazioni sembrano caratteristiche del mito - da cui deriva senza dubbio il discorso letterario. Per contro, il discorso scientifico non ammette la pluralità di isotopie, dal momento che costituisce un campo di obiettività in proprio dominio semantico. Esso ammette ancor di 11 12 13 Tutto questo è certamente borghese, e ci fu un tempo, sotto Enrico II, all’epoca in cui si svolge La Princesse de Clèves, in cui i mariti potevano essere degli amanti. Madame de La Fayette scriveva a proposito di M. de Clèves: “per essere suo marito, non smette di essere il suo amante, dal momento che aveva sempre da desiderare qualcosa al di là del possesso” (1678, p. 33). Non solamente la Principessa aveva un amante, ma questi era suo marito, cosicché la molla principale del romanzesco posteriore è mandata in pezzi, assieme a tutte le letture romantiche del capolavoro di Madame de La Fayette. Abbiamo semplicemente selezionato, nella banca Frantext, le frasi contenenti le forme amante e marito. I trattamenti linguistici di corpora si appoggiano frequentemente sulla lessicometria. Nata negli anni Cinquanta, la lessicometria deriva dalle teorie dell’informazione - o almeno la teoria dell’informazione le permette di articolare il qualitativo e il quantitativo, attraverso l’ipotesi che un evento raro o all’opposto frequente è più pertinente di un altro. Per via della riduzione informatica di testi a insieme di catene di caratteri, la lessicometria sconta alcuni limiti di fatto, che tuttavia non credo insuperabili: (i) essa si limita alle parole, sebbene i testi, ancor più delle frasi, non sono affatto composti di parole. Sarebbe importante, per contro, poter lavorare su testi contrassegnati in cui sono delimitate unità superiori quali le configurazioni testuali (dialoghi, descrizioni, ecc.); (ii) essa si limita in generale al ventaglio delle frequenze medie, visto che privilegia i lessemi, e i grammemi occupano in generale le frequenze più alte. Ma per ragioni di peso statistico, essa non prende in considerazione i lessemi a bassa frequenza. Ora, le parole di frequenza 1 costituiscono in generale la metà delle occorrenze di un testo. 24 meno le correlazioni inter-isotopiche ed è per tale ragione che si discute tanto dello statuto della metafora in seno al discorso scientifico (si pensi all’affaire Sokal). La correlazione tra domini semantici che quest’ultima stabilisce non sarebbe che rivelatoria di una “deriva” mitificante. 2.3. La struttura degli universi semantici Abbiamo proposto una prima tipologia delle strutture degli universi semantici, in quadri, alberi e reti (Rastier 2003a, pp. 35-36). Fig. 1. Tipologia delle forme globali degli universi semantici. Alla struttura a rete degli universi scientifici e tecnici (che si presentano come sistemi di concetti interconnessi) si oppongono le strutture tabulari degli universi mitici (religioso, letterario o persino politico), i quali congiungono, attraverso serie di omologazioni, delle opposizioni articolate su differenti isotopie, illustrando ciò che Lévi-Strauss chiamava la struttura a sfoglia del mito. DISCORSO LETTERARIO FILOSOFICO SCIENTIFICO Tematica (A) Isotopia(e) generica(che) multiple limitate unica Tematica B Struttura tabulare arborescente a rete Dialettica agonisti14 attori e agonisti attori Tavola 2. Qualche criterio di caratterizzazione degli universi semantici secondo i discorsi. 14 Un agonista è un tipo costitutivo di una classe d’attori. Nei testi mitici quanto meno, è frequente che attori dipendenti da un unico agonista soggiacente siano distribuiti e ascritti a isotopie generiche differenti, ma sono comunque suscettibili di relazioni metaforiche tra di loro. 25 3. DIREZIONI DI RICERCA Le esemplificazioni appena fornite utilizzano in modo opportunistico dei metodi relativamente rozzi; esse intersecano risultati lessicometrici con attestazioni di occorrenze senza peso statistico. Resta il fatto che i metodi della “linguistica del corpus” possono trasformare il problema delle ideologie in questione empirica. 3.1. Doxa e società. Le nostre riflessioni si sono basate su corpora letterari, nella maggior parte dei casi costituiti da testi dello stesso genere (romanzo). Se la letteratura, come ogni discorso “edonico”, mette in opera delle norme semantiche della doxa, queste non le sono affatto estrinseche, ma le appartengono. Come ricordava Saussure, il linguistico è proprio del sociale; in questo senso, la doxa, in quanto formazione semantica e più generalmente semiotica, non gode d’alcuna autonomia rispetto alla sua espressione: essa non agisce su un’“altra scena”, al di qua o al di là del linguaggio e degli altri sistemi segnici. 3.2. Istanze della doxa. Nella prospettiva di una semantica storica e comparata, il problema diviene quello di una descrizione dello spazio delle norme - ed estende la sua portata dalle norme linguistiche alle norme semiotiche. Non vi è alcun testo scritto solamente “in una lingua”: è scritto “in un genere”, tenendo conto delle costrizioni di una lingua. Del resto, l’analogia delle pratiche, e quella dei generi che ne discende, permettono l’intercomprensione e favoriscono la traduzione; di qui, la necessità di tener conto dei generi in tutti gli studi testuali di linguistica contrastiva e, spingendosi ancor più là, altrettanta attenzione dovrà essere riservata ai campi generici e ai discorsi. Possiamo allora proporre la seguente rappresentazione: Tavola 3. Spazio di una linguistica delle norme. 26 Le due linguistiche, quella della langue e quella della parole, che Saussure cercava esplicitamente di rapportare, trovano qui articolazione attraverso lo spazio delle norme. All’interno di questo spazio, il livello dei generi è certo quello che strategicamente permette di passare dalla generalità della langue alla particolarità dei testi, visto che le relazioni semantiche tra testi si stabiliscono preferenzialmente tra testi dello stesso genere. Tra spazio normativo delle regole e il disordine apparente degli usi, tra l’universale della langue e la singolarità del suo impiego, lo spazio delle norme si estende dalla generalità della doxa alla particolarità degli stili (in senso idiolettale), i quali non disdegnano affatto i paradossi. Una questione cruciale verte allora sul carattere transgenerico e transdiscorsivo della doxa: possiamo riconoscere che le norme semantiche proprie di un genere e di un discorso costituiscono delle doxa regionali (come il romanzesco nell’Ottocento). Se tali doxa regionali racchiudono verosimilmente degli elementi comuni, sarebbe davvero tendenzioso e scorretto attribuirli alla lingua; e se comunque si opera tale attribuzione surrettizia, ciò che ne sortisce è l’idea che la lingua imporrebbe una visione del mondo, tesi oltremodo forte che - come sappiamo - è sempre stata la preferita da parte delle teorie nazionaliste più pericolose15. In definitiva, possiamo ottenere la seguente gerarchia: Tavola 4. Livelli della doxa. È senza dubbio la doxa transdiscorsiva quella che meglio corrisponderebbe a ciò che solitamente viene informalmente chiamato ideologia. Purtuttavia, non è affatto certo che una stessa doxa, persino ridotta a una manciata di “pregiudizi” o di topoï, possa essere ritrovata in tutti i discorsi. Per venire al dunque, gli 15 Ci si potrebbe richiamare, a tal proposito, all’ipotesi di Sapir-Whorf, sotto la quale si confondono determinismo e relativismo. Se il determinismo linguistico, come tutti i determinismi, è riduzionista, al contrario il relativismo sottende necessariamente l’approccio comparativo proprio delle scienze della cultura, dal momento che si oppone all’universalismo di principio che ha sempre impastoiato, fino al cognitivismo incluso, la riflessione sui rapporti tra linguaggio e pensiero. 27 universi semantici sono sì relativi a tipi di discorsi, campi generici e generi, ma non alle lingue, il che invalida l’idea di “mentalità” legata alla lingua, divenuta surrettiziamente “totalità chiusa” e “riserva di rappresentazioni”. Tuttavia, i discorsi (filosofico, scientifico, letterario, religioso, ecc.) e i campi generici, anche se sono delimitati e differenziati in modo ineguale da lingua a lingua, conservano non meno una validità translinguistica. Per esempio, fin dal Settecento, la nozione di romanzo francese non ha più quasi senso, dato che oramai è su scala europea che è necessario cogliere l’evoluzione di questo genere; la stessa cosa va detta a maggior ragione per i domini scientifici come la fisica o la geografia. Si ritrovano così in lingue diverse pratiche sociali e discorsi comparabili, ai quali corrispondono universi semantici analoghi ma non identici. 3.3. Valutazioni e paradossi. Malgrado il carattere normativo delle rappresentazioni del lessico provenute dalla lessicografia, se non addirittura dalla lessicologia, resta dubbio che il lessico faccia sistema nel senso forte del termine. Il lessico riflette localmente diverse forme di doxa, legate a generi o discorsi differenti se non incompatibili. Per questa ragione ogni lessico esteso è eterodosso. Doxa e paradossi restano naturalmente legati, dal momento che ogni paradosso implica forzatamente una doxa: al fine di garantire senso, il paradosso definisce una norma individuale che si oppone a una doxa attestata o supposta. 3.4. Doxa e genesi del lessico. Esaminiamo come le cristallizzazioni endoxastiche presiedono alla costituzione delle lessie. Anche se i morfemi sono unità della langue, ogni co-occorrenza di morfemi è un fenomeno di parole nel senso saussuriano del termine: tutti i fenomeni di co-occorrenza ristretta, dal sintagma stereotipico alla lessia integrata, dipendono così da norme discorsive se non testuali. In altri termini, la lessicalizzazione delle unità semantiche dipende non dalla lingua, ma da norme di una doxa costituita nei (e attraverso i) testi e nelle altre performanze semiotiche. Per esempio, nel caso dell’espressione francese “l’œuvre de chair” (“l’opera della carne”) si può scorgere la pregnanza di una formula relativa alla connessione semantica tra “lavoro” e “adulterio”. Inoltre, la presenza del significante œuvre trascende la distinzione tra “opera carnale” e “opera artistica”, ecc16. 16 Paul Bourget offre attestazione di ciò per ben tre volte: “Ce venin de l’adultère, dont il avait infecté cette créature, accomplirait son œuvre de destruction” (Un crime d’amour, 1886, p. 271; cfr. anche p. 286; e Cruelle énigme, 1886, p. 108). Il legame stabilito tra l’adulterio e l’opera (o quantomeno tra le parole francesi adultère e œuvre) attiene a uno stereotipo verbale proveniente dalla tradizione autorizzata del Decalogo: “l’opera della carne non desidererà che un matrimonio soltanto” (passo citato, tra gli altri, da Maupassant, in “La confession de Théodule Sabot”, Contes et nouvelles, 1883, p. 43; e da Roger-Victor Pilhes, La rhubarbe, 1965, p. 225). Si trovano anche svariate menzioni oblique, come quella di Joséphin Péladan (Le vice suprême, 1884, p. 234): “quelli che desiderano realizzare l’œuvre de chair al di fuori del matrimonio, quantunque non ne seguano degli effetti, peccano mortalmente” (la bibliografia di tali citazioni è quella della banca testuale Frantext). 28 Con la laicizzazione progressiva della società, l’œuvre de chair si è identificata con l’adulterio, dal momento che il termine carne resta associata al peccato17. Comunque sia, l’espressione œuvre de chair permette di porre il problema del carattere formulaico della doxa. Le norme semantiche si concretizzano in formule semiotiche: esse non sono separabili dalle loro espressioni privilegiate, anche se ci si compiace di innovarle trovando nuove formulazioni. Le formule pregnanti sono di fatto dei passaggi di miti dimenticati o almeno ritualizzati. Se anche ci poniamo al di qua della taglia di espressioni formulaiche come œuvre de chair, possiamo constatare come accada la stessa cosa per lessicalizzazioni semplici. Ritorniamo per esempio all’opposizione tra amore e denaro: non solamente queste due espressioni lessicalizzano delle accezioni diverse (si ammetterà senza fatica che l’amore divino e l’amore profano, l’amor di patria e l’amore dei propri figli sono dei contenuti differenti), ma lo fanno sulla base di isotopie diverse, religiosa, erotica, politica, che si incontrano in svariati generi e discorsi. Questo caso particolare definisce la pregnanza di un significante; ora, tale pregnanza è una caratteristica dei rituali. È noto che la legge religiosa, come del resto la legge civile, esige formule invariabili; per esempio, prima della scrittura, almeno per ciò che attiene alla Grecia arcaica, le leggi erano non solamente recitate, ma cantate e si munivano di una forma metrica in modo da favorire la memorizzazione. Andava e va nello stesso modo per la trasmissione del corpus vedico, così come per la memorizzazione del Corano, che viene appreso per ripetizione. L’efficacia del rituale dipende dall’uso di formule adatte sia a livello di pronuncia che di cantillazione canonica18. Le formule rituali arcaiche hanno trovato trasposizione nel mito, quindi nell’epopea: molte formule omeriche riprendono certamente titoli divini e ne traspongono il modo compositivo agli eroi (Achille dai piedi leggeri). Gli attributi caratteristici dei personaggi dei racconti fiabeschi (Cappuccetto Rosso) o delle leggende auree (la graticola di San Lorenzo, ecc.) partecipano della stessa matrice formulaica. Ora, è notorio come il lessico si formi continuamente attraverso un processo di cristallizzazione di sintagmi, che divengono delle lessie e quindi dei morfemi. Si può rapportare questa cristallizzazione continua, e ovunque attestata, alla formazione e alla concretizzazione della doxa. Non si tratta semplicemente di lessicalizzazione di contenuti preesistenti, ma di stabilizzazione di strutture semiche per via di un legame privilegiato, se non esclusivo, con un’espressione. 17 18 L’espressione i peccati della carne designava l’adulterio. Il diritto canonico non condanna in alcun modo l’œuvre de chair, ma mette in guardia contro la fornicazione nel matrimonio – visto che l’œuvre de chair non assume come obiettivo la procreazione. Tuttavia, tali distinzioni non sono evidentemente più comprese dai Moderni. Anche la teoria moderna dei performativi riprende la teoria scolastica dei sacramenti, rendendola non poco più ispida e trasponendola nel dominio delle istituzioni e degli usi sociali. Per la felicità di un performativo, è necessario in effetti che la persona abilitata pronunci una formula “consacrata”. 29 Mentre il genere definisce la semiosi testuale, la doxa, intesa come processo di cristallizzazione, determina la semiosi ai livelli inferiori: quelli dei sintagmi, delle lessie e infine dei morfemi. Si possono distinguere, a fini didattici, sei fasi di cristallizzazione: esse si caratterizzano per una integrazione morfologica crescente che impedisce le inserzioni e per una desemantizzazione progressiva che traduce l’impoverimento delle relazioni contestuali in seno al sintagma. Per farla breve, si rilevano i seguenti gradi (la freccia simbolizza una cristallizzazione lungo la diacronia): Passaggio‡ sintagma libero‡ sintagma fraseologico‡ lessia‡ morfema (lessema‡grammema) È possibile così ammettere che l’attività discorsiva, attraverso le sue ripetizioni endoxastiche in qualità di fattori di cristallizzazione, crea continuamente il lessico. È anche a questo livello che la linguistica della parole comanda quella della langue. L’integrazione sintagmatica che istituisce in unità una combinazione di morfemi, si accompagna a un’integrazione semiotica che cristallizza un sintagma in formula o una parola in simbolo. Con quest’ultimo non intendiamo né il simbolo logico - pura espressione di un contenuto variabile -, né il simbolo “romantico” o mitico - termine che schiude un contenuto in(de)finito e ieratico -, bensì un fenomeno di lessicalizzazione privilegiata attraverso l’associazione preferenziale di un significante e di una molecola semica, che istituisce il simbolo nell’accezione specificamente saussuriana. Per esempio, se in corpora romanzeschi è possibile riscontrare delle opposizioni tra desiderio e ricchezza, tenerezza e opulenza, ecc., le lessicalizzazioni amore e denaro sembrano comunque privilegiate. Il contenuto del simbolo saussuriano così ridefinito è una semia (combinazione di sememi) corrispondente a un’unità testuale (tema, attore, posizione dialogica); per esempio, l’opposizione tra amore e denaro non riflette solamente una relazione tra i due termini, ma tra i due temi di cui costituiscono una lessicalizzazione privilegiata. Inseparabile dalla sua espressione, il simbolo saussuriano riveste così una funzione quasi-terminologica: esprimere un “concetto”, inteso qui come forma semantica. In quanto lessie, i simboli devono essere considerati come dei passaggi testuali, identificabili tanto per il loro contenuto, quanto per la loro espressione; ma se in questo studio abbiamo privilegiato le lessie, dobbiamo tenere a mente che esse non sono che dei passaggi testuali minimali. Un socioletto si compone, per la precisione, di una doxa e di un formulario (inventario di formule), cosicché possiamo disegnare lo schema seguente: 30 Dato che la cristallizzazione stessa favorisce la decontestualizzazione, il passaggio doxastico-formulaico diviene eminentemente trasponibile, come si evince nel caso dei proverbi (cfr. Cadiot & Visetti 2006); ciò favorisce la moltiplicazione delle sue occorrenze e, per questa via, la sua trasmissione culturale. Più precisamente, mentre un termine è legato a un dominio, per esempio scientifico, un simbolo mitico deve invece la sua aura al fatto che conserva lo stesso significante in differenti domini e può dunque essere incontrato in diversi discorsi. Questa ubiquità è un indice di desemantizzazione per via della virtualizzazione del sema generico relativo al dominio - la cristallizzazione dell’espressione si accompagna sempre con una tale desemantizzazione della semia19. In tale prospettiva, i nomi propri sono dei simboli mitici, nella misura in cui rinviano rigidamente alla stessa entità “in tutti i mondi” (almeno secondo la teoria assurda e brillante di Kripke), vale a dire “in tutti i diversi domini semantici”20. Al di là di ciò, ci si può domandare se la permanenza dei referenti non è che l’effetto della decontestualizzazione propria dei simboli mitici. Il primo effetto della cristallizzazione è la discretizzazione dei contenuti che si assumono come “oggetti”, e la loro stabilizzazione come referenti. L’oggetto reifica così un pregiudizio condiviso: eppure culture differenti non concretizzano gli stessi oggetti e vi sono quelle in cui un antenato ha altrettanta oggettività, se non più, di una zucca o un albero. Se il nome, a partire dall’esempio della Grecia antica, è stato innanzitutto “nome personale” (onoma), dotato di un’aura - visto che conferito dal padre - ed immortale - potendo sopravvivere alla morte del portatore -, esso ha successivamente significato il nome proprio, poi il sostantivo, quindi la parola in generale. Il nome proprio, per via della sua forza simbolica, è senza dubbio la fonte del “mondo degli oggetti”. Ciò ci fa comprendere come il senso denotativo sia infine la reificazione della doxa e non il testimone di un’identità delle sostanze; un’identità che secondo Aristotele consentirebbe alle parole di avere un senso proprio in ragione del fatto che le cose hanno un essere. In realtà, la perennità delle sostanze tradisce semplicemente una doxa inveterata. Correlativamente, senza postulare un’origine religiosa del linguaggio, né un’origine linguistica delle religioni (si consideri tuttavia la posizione di Cassirer 1925), possiamo avanzare l’ipotesi che il mito è la dimensione testuale ordinaria del linguaggio, dal momento che gli altri discorsi, compreso quello scientifico, devono fare degli sforzi incessanti per emanciparsene. Al di là di ciò, è il rapporto intrattenuto dalla parola - definita come formula cristallizzata e integrata - con il testo mitico che deve essere interrogato. Si è 19 20 Il semema è il contenuto del morfema, la semia è invece il contenuto di una lessia. Ciò resta relativo, dal momento che un numero non trascurabile di nomi propri restano legati a un dominio specifico (per esempio scientifico). 31 spesso sottolineato che i miti sono giochi linguistici che sono riusciti, quanto meno, a farsi prendere sul serio. Ciò ci permette di precisare il rapporto complesso della parola con il testo, in occasione del passaggio al mito. Ben si conosce la circolarità tra la parola e il testo: i testi stabilizzano delle parole, sulle quali ci si poggia per comporre altri testi. D’altronde, mentre ogni cristallizzazione desemantizza i suoi elementi, semplicemente perché limita l’incidenza di nuovi contesti, il testo risemantizza le parole: dare l’iniziativa alle parole (secondo il principio di Mallarmé) si traduce nel ritrovamento e ridispiegamento del corpus di associazioni semantiche dimenticate e virtualizzate nella loro cristallizzazione21. Risemantizzare le parole attraverso l’attività testuale, “dare un senso più puro alle parole della tribù”, è porsi contro la loro cristallizzazione in simboli ed esercitare un’attività paradossale nel senso forte del termine. Dai valori condivisi (che si concretizzano nella topica) ai valori linguistici (che si costruiscono e manifestano in mille differenze contestuali), il rapporto non è tuttavia quello che va dall’esterno all’interno, ma dal globale al locale. Le perturbazioni locali, come i paradossi, possono finire per perturbare l’equilibrio globale della doxa in corso. Inoltre, e per fortuna, una doxa non è mai universale: doxa alternative o opposte rivaleggiano e s’affrontano in seno allo stesso universo culturale. Pertanto, lo studio della doxa, compito eminente della semantica, invita a dispiegare tutto il vigore critico proprio delle discipline ermeneutiche, visto che, in ragione della sua stessa chiarezza, e a dispetto di ogni evidenza (vale a dire, di tutti i pregiudizi), la doxa resterebbe in vero definitivamente impercepita e indescrivibile senza l’intervento di una strenua tensione critica. 21 Tutta la sua impresa etimologica, quella delle Mots anglais va in questa direzione e Raymond Roussel non la contraddice. 32 Bibliografia Auroux, S. 1998 La raison, le langage et les normes, Paris, Presses Universitaires de France. Berkenkotter, C. - Huckin, T. N. (a cura di) 1995 Genre Knowledge in Disciplinary Communication, Hillsdale (N. J.), Lawrence Erlbaum. Bourion, E. 2001 L’aide à l’interprétation des textes électroniques, Thèse, Université de Nancy II. Ed. pdf. http://www.texto-revue.net/. Bréal, M. 1897 Essai de sémantique, Brionne, Gérard Montfort; tr. it. 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Scritti di linguistica generale (a cura di Tullio De Mauro), Bari-Roma, Laterza, 2005. 34 PHOTO D’ART ET PHOTO DE PRESSE. ENQUÊTE SUR LA VIE INTIME DES TEXTES ET DES PRATIQUES Anne Beyaert-Geslin “Ce n’est pas le passé qui nous obsède, ce sont les images du passé” Georg Steiner “Poreuse et dynamique”, la photographie est un lieu de passage pour toutes les pratiques artistiques contemporaines1. Cette avidité témoignée au monde luimême (“pas une seule chose du monde qui n’ait été photographiée”, affirme Sontag) autant qu’aux autres genres de l’image en fait un domaine d’investigation exemplaire pour une étude des pratiques. Mon idée n’est pourtant pas d’observer toutes ces circulations mais de me concentrer sur les transformations 1 Voir à ce sujet Castant (2004). La constatation prolonge celle de Sontag qui, dans son ouvrage célèbre, Sur la photographie (Sontag 1992), observe que depuis son invention en 1839, il n’est sans “pas une seule chose (du monde) qui n’ait été photographiée”. Avec la photographie, “le monde entier peut tenir dans notre tête, sous la forme d’une anthologie d’images”, dit-elle. 35 qui se produisent entre deux pratiques, la photographie de presse et la photographie artistique. Le choix de celles-ci suit tout d’abord les commentaires de la critique qui, faisant état d’une “crise de l’activité journalistique”, soutient qu’une “autre information” est produite aujourd’hui avec “les moyens plastiques et théoriques de l’artiste”2, une observation que confirme, en maints endroits, l’actualité artistique3. Cette limitation à deux pratiques exemplaires manifeste également un souci heuristique et observe le précepte sémiotique selon lequel le sens apparaît dans la transformation. Un tel principe devrait me permettre de fixer quelques règles de codification du texte et donc, de préciser les termes de l’accord pratiques-textes. 1. LE STATUT ÉPISTÉMOLOGIQUE DES PRATIQUES Avant toute investigation, il convient de distinguer trivialement deux types de pratiques: les pratiques en production, dues au photographe, et les pratiques en réception qui traduisent la perception sociale de la photographie. Pour les pratiques en production, différents statuts épistémologiques sont envisageables. Par exemple, lorsqu’Henri Cartier-Bresson délaisse le monde de l’art dans les années 30, suite à la montée du fascisme, et se voue au photo-journalisme, il opère un déplacement de sa pratique et offre ses photographies à un autre univers de signification. C’est sans doute la “déviation” la plus simple. L’incidence pour les textes photographiques est tout autre lorsque Warhol s’approprie des portraits anthropométriques (face/profil) réalisés par la police pour en faire des tableaux4 car il opère alors une reprise énonciative qui soumet l’objet de sens à une sémiosis nouvelle et surajoutée. Les exemples de modification de la signification par la déviation de la pratique de réception sont extrêmement nombreux. La série de polaroïds prise par Warhol pour ses albums personnels en offre un témoignage intéressant puisqu’elle s’inscrirait très résolument dans le genre de la photo d’amateur si le statut d’artiste de Warhol autant que la célébrité des modèles (J. Nickolson, J.C. Brialy, J. Lennon et Y. Ono�), n’avaient modifié la perception sociale des photographies, les situant dans le registre de l’art sinon dans celui de la “presse people”. En pareil cas, l’identité de l’énonciateur et des actants a suffi à infléchir la trajectoire. Si les exemples de modification de la pratique sociale de réception sont trop divers pour être précisément décrits, il reste que la signification d’une image 2 3 4 Cfr. Beausse (1999, p. 44). Voir également Wolinski (2004, p. 63-64). La question est également posée par André Rouillé (2005), notamment dans le chapitre intitulé “Crise de la photographie-document” . La proposition la plus argumentée est sans doute l’exposition proposée à l’automne 2004 au musée départemental d’art contemporain de Rochechouart, et intitulée Paysages invisibles. Une illustration exemplaire est proposée par Most wanted man n°1, 1963. 36 ainsi “déviée” subit l’influence d’univers de sens hétérogènes, la détermination de supports et de scènes typiques différents et apparaît nécessairement complexe et polémique. Ainsi, et pour suivre certaines propositions de Sontag qui nous ramènent à la photographie de presse, des photographies des camps de concentration prises en 1945, qui circulent entre un musée de la photographie, une galerie d’art contemporain, un catalogue d’exposition, les pages d’un quotidien, d’une revue culturelle ou d’un livre, y trouvent-elles des significations à chaque fois nouvelles. “Toute image est vue à l’intérieur d’un cadre particulier”, note-t-elle5, ce que traduirait aisément cet adage sémiotique: tout texte appartient à son corpus. Bien trop sage, ce principe qui semble assurer la détermination a priori de la signification d’un texte, doit sans doute être relativisé dans la mesure où l’actualité laisse craindre une certaine confusion des pratiques, la différence entre une photographie de presse et une publicité tenant à s’estomper comme le montrent les différentes campagnes de Toscani pour Benetton. Certes, “les cadres se multiplient aujourd’hui”, comme le souligne encore Sontag6 mai, plus essentiellement, les pratiques se croisent intimement, ouvrant sur des interprétations toujours plus aventureuses, si bien qu’on s’étonne à peine qu’une photographie de la chemise tachée de sang d’un soldat croate mort ou celle d’une victime du sida puisse être présentée dans une boutique de vêtements7. Pratiques en production, pratiques en réception, une telle typologie est bien entendu extrêmement rudimentaire et ne permet pas de décrire les mutations sémantiques aventureuses dont l’actualité nous offre le témoignage. Cependant, elle autorise déjà plusieurs commentaires qui esquissent certaines perspectives heuristiques. Tout d’abord, ces premiers exemples tendent à montrer qu’au-delà du simple brouillage catégoriel entre le texte et son corpus, le passage d’une pratique à l’autre produit un changement de trajectoire impliquant différents niveaux de pertinence, du texte à la situation et aux stratégies. Avant sa reprise par Warhol qui en fit Most wanted man n° 1, la photographie prise par la police de New-York était initialement de petites dimensions et ne mesurait que quelques centimètres à peine. Sans doute illustrait-elle une fiche de carton et se trouvait-elle rangée dans une boîte ou un dossier au commissariat8. La reprise énonciative en a considérablement augmenté 5 6 7 8 Sontag (2003, p. 128). Idem. Sontag revient à plusieurs reprises sur la photographie de Capa représentant un milicien espagnol frappé par une balle et publiée pour la première fois le 12 juillet 1937, en pleine page, dans le magazine Life face à une publicité pleine page pour Vitalis montrant en tennisman en plein effort. La différence entre image “de presse” et image publicitaire était alors considérable, irréductible, affirme-t-elle, indiquant ainsi un franc partage des univers de sens et l’univocité de la signification. Voir sa description dans Sontag (2003, p. 41 et p. 128). Aujourd’hui, elle intègrerait une microfiche pour être appelée à l’écran 37 les dimensions, modifié le support (c’est désormais une toile) et la scène typique, troquant la boîte de rangement pour une cimaise de musée. De tels changements -format, support, et scène typique- s’accordent à une nouvelle construction sociale et déterminent des rapports au corps du sujet percevant très différents. Elle occasionne notamment un changement de distance de perception, une possibilité de collectivisation due à l’entrée de l’œuvre au musée mais aussi, plus radicalement, un changement de mode d’efficience puisqu’il fallait “aller chercher” la petite photo de la police (advenir) quand sa réplique artistique, considérablement agrandie, saute littéralement aux yeux sur le mode du survenir. Dans ce cas, seule les figures témoignent encore de la pratique-source, imposant les vues de face et de profil caractéristiques des exigences policières, tandis que les autres niveaux de pertinence, du texte à la forme de vie, attestent de l’emprise de la pratique cible et de l’inflexion de la trajectoire de transformation. 2. LA CIRCULARITÉ DES PRATIQUES Mais telle n’est pas l’unique leçon de Warhol. En effet, en montrant comment une image peut faire l’objet de prises en charge prédicatives différentes, ces exemples semblent indiquer qu’une direction est nécessairement privilégiée dans la transformation, l’art s’imposant comme la pratique-cible qui soumet les autres images à ses reprises énonciatives. Or si l’actualité artistique fournit, des vues aériennes de Y. Arthus-Bertrand aux portraits de basketteuses de Sharon Lockhart, de multiples témoignages de son intérêt pour les autres genres photographiques, un regard attentif décrirait plutôt une circularité des pratiques. Certes, la photographie se montre avide des autres genres, et tout particulièrement de la photographie de presse, mais cette dernière n’est pas en reste et s’approprie les motifs, non de la photo d’art, mais de la peinture, par l’intermédiaire d’autres photographies de presse. En effet, nous avons tous été surpris par certaines coïncidences entre des photographie de presse et des tableaux célèbres. Pourquoi les représentations de l’exode des Palestiniens prises après 1948 prennent-elles le plus souvent le modèle des scènes du Nouveau Testament: celles de la Nativité ou de la Fuite de la Sainte Famille en Egypte9, notamment? Pourquoi la composition d’une photographie des manifestations dites “de la République” d’avril 2002 “ressemble”-t-elle à celle de la Liberté guidant le peuple de Delacroix? Plusieurs auteurs, tel Sontag, ont partagé ce trouble, celle-ci s’étonnant par exemple qu’une photographie représentant le corps mort de Che Guevara, étendu devant un agent des services de renseignements américains, des jour- 9 Je me réfère aux photographies de l’ouvrage d’Elias Sanbar, Palestiniens, images d’une terre et de son peuple de 1839 à nos jours, Hazan ed., 2004. 38 nalistes et des militaires boliviens évoque à la fois le Christ mort de Mantegna et La leçon d’anatomie de Rembrandt10. Sa surprise est renouvelée pour la photographie de W. Eugen Smith prise à la fin des années 60, représentant une femme du village japonais de Minamata portant le corps de son fils, intoxiqué par le plomb, qui trahit certaines ressemblances avec une Vierge de pitié11. Les exemples pourraient sans doute se multiplier, tel celui de cette Madone de Benthala, dont la photographie faite par Hocine et publiée le 24 septembre 1997 à la une du monde entier devint l’emblème des massacres perpétrés en Algérie12. Si Sontag imputait de telles ressemblances au “hasard”13 il y a vingt ans, leur récurrence a, depuis lors, été fréquemment commentée, toutes ces critiques ajoutant au discrédit de la photographie de presse. “C’est un monde de clichés, pas la réalité dont ont besoin les médias”, s’insurge par exemple le critique Pierre Madrid14. Le photographe Gilles Saussier déplore lui aussi la “standardisation du contenu photographique”15 offert aux “formes canoniques de la dramatisation”16 et tient même cette stéréotypie pour le principal critère de distinction entre l’image de presse et la photographie documentaire. Quelles sont précisément ces formes dramatiques canoniques? Un peu d’attention révèlerait tout d’abord le modèle de la peinture d’histoire, notamment certaines compositions de Greuze et de David, ainsi que la tradition anti-théâtrale héritée de Diderot où des personnages, absorbés dans leurs actions, constituent une scène fermée au spectateur17. La peinture religieuse est une autre source d’inspiration majeure et impose des figures telles la Pieta, la Nativité, “la mater 10 11 12 13 14 15 16 17 Susan Sontag (1992, p. 132). L’image est décrite par Sontag (1992, p. 131). L’histoire de cette photographie qui parut le même jour dans Herald Tribune, Los Angeles Times, Libération, El Pais, The Sun, The Guardian et l’Humanité, notamment, ainsi que les critiques et procès multiples dont elle fit l’objet est relatée notamment par l’artiste Pascal Convert (2003). Pour instruire l’hypothèse de la circularité des motifs, on ajouterait que la photographie de la Madone est ensuite revenue dans le domaine de l’art, le même Pascal Convert l’ayant transformée en un bas-relief en cire polychrome intitulé Madone de Benthala, 2000-2002, aujourd’hui dans les collections du musée d’art moderne Grand-Duc Jean, au Luxembourg. Sontag (1992, p. 131). Cfr. Madrid (2001), cité par Wolinsky (2004,, p. 63). Cfr. Saussier (2001, p. 312). Sa critique (Saussier, 2001, p. 310) est extrêmement sévère : “L’adage favori d’un Roger Thérond, l’ancien directeur général de Paris Match, selon lequel �il faut être allé cent fois aux Louvre pour devenir un grand photographe’ doit être pris au pied de la lettre - dit-il - il ne s’agit pas d’inviter les jeunes photographes à mieux connaître l’histoire de l’art pour questionner les modes dominants de représentation des grands médias de masse, mais de servir le projet authentiquement conservateur ou réactionnaire de la perpétuation d’un modèle pictural qui a, de longue date, perdu toute valeur critique et toute pertinence historique”. Natacha Wolinski (2004, p. 64) s’insurge de même : “Contre le règne immanent des icones, une nouvelle grammaire raisonnée de la photographie est à inventer”. Cette figure de l’absorbement a été décrite par Michael Fried (1990). Elle caractérise par exemple deux figures du premier plan dans les photographies d’A. Boulat et M. Franck, prises lors des manifestations de la République en avril 2002 à Paris. Voir à ce sujet Beyaert (2004, p. 171-189). 39 dolorosa en fichu”18 et la face christique qui prête ses traits à l’hagiographie de Che Guevara, par exemple. A ces références historique et religieuse, il convient d’associer le modèle récurrent du portrait, infiniment reproduit, jusqu’à devenir l’emblème d’un drame comme ce fut le cas pour l’Afghan girl de S. Mac Curry (1985), ce portrait d’une jeune afghane de treize ans au regard vibrant et toute de rouge vêtue. Loin d’être incidente, la rencontre de ces trois sources d’inspiration majeures -la peinture d’histoire, la peinture religieuse, le portrait- doit retenir toute notre attention. Celles-ci correspondent en effet aux genres reconnus comme “majeurs” par l’Académie royale au 18è siècle, parce qu’ils incarnaient les actions et les passions humaines, à la différence de la peinture de genre considérée comme mineure et vouée, a contrario à “tout ce qui n’est point Histoire”19. Une telle détermination nous permet d’esquisser un parallèle entre la photographie de presse et les grands genres de la peinture qui se laissent concevoir comme des localités dévolues aux actions et aux passions humaines circonscrites, d’une part, dans le champ de la photographie et de l’autre, dans celui de la peinture. Ces données permettent en tout cas de distinguer les deux pratiques en termes de température: la photographie de presse constitue une zone intense et chaude vis-à-vis de la zone extense de la photographie d’art qui, si rien n’autorise à la déclarer froide, apparaît en tout cas non-marquée. En matérialisant cette connivence isotopique entre les genres majeurs de la peinture et la photographie de presse -les genres “affectés” de la peinture” et la photographie dans sa forme la plus affectée puisqu’elle est dévolue à la représentation des drames humains- une telle tension autorise à envisager un passage iconographique entre les deux pratiques, qui, dans leur effort pour thématiser l’action et l’affect, se montreront légitimement attentives aux mêmes motifs. Elle permet ainsi d’instruire un système semi-symbolique pérenne où 18 19 La figure est conspuée par Gilles Saussier (2001). La description faite par l’Académie royale peut être complétée par cette proposition de Diderot pour qui la peinture de genre concerne “indistinctement, ceux qui ne s’occupent que des fleurs, des animaux, des bois, des forêts, des montagnes, et ceux qui empruntent leurs scènes de la vie commune et domestique”. On se reportera, pour une plus ample description de cette hiérarchie, à Denis Diderot, “Essais sur la peinture”, �uvres complètes, Paris, P. Vernière, 1968, p. 725. J. S. Chardin, par exemple, fut reçu en 1728, par l’Académie royale avec un agrément limité aux scènes de genre et la nature morte. 40 des configurations emphatiques stéréotypées, proposées du plan de l’expression, accompagnent un contenu axiologique marqué, pour recomposer la sémiosis changeante mais invariable de l’histoire humaine. Ainsi conçue, cette connivence entre les configurations affectées et les drames n’aurait rien pour nous surprendre. Elle rappellerait seulement que les notions de passions et d’actions ne sont qu’un habillage pour le concept d’événement. Très simplement, il n’y a pas plus d’événement sans affect que d’événement sans humanité, ce qui corrobore la définition de l’événement du Petit Robert: “ce qui arrive à l’homme et qui a de l’importance pour l’homme” et fait écho à ce commentaire de Robert Franck “s’il est une chose que la photo doit contenir, c’est l’humanité de l’instant”20. 3. PHOTOGRAPHIE FROIDE VS PHOTOGRAPHIE CHAUDE Opposer une photographie chaude et une photographie froide sur un trait thermique ouvre sur une double acception. La différence permet, en premier lieu et comme nous l’avons suggéré, de restituer une différence d’ordre thymique, manifestant ainsi le caractère affecté de la photographie de presse que nous avons déjà souligné. Selon cette acception, le caractère affecté, ému, de la photo de presse s’oppose à la neutralité de l’art. Mais telle n’est pas l’unique acception du trait sémantique chaud/froid peut également recouvrir une différence aspectuelle, validant ainsi une terminologie en usage dans la presse qui situe toujours les évènements selon une actualité chaude ou froide en fonction de l’espacement temporel. A chaud, l’événement s’acquitte des questions factuelles “qui, quoi, où, quand?” tandis qu’à froid, il réclame un plus long commentaire, redevable des questions “comment? pourquoi?”. Ce marquage aspectuel de la photo de presse mérite toutefois commentaire dans la mesure où les stéréotypés tirés de l’histoire de l’art sont intemporels et déterminent le caractère inoubliable, donc intemporel de la photographie qui s’en inspire. D’où ce paradoxe intéressant: dans son effort pour adhérer à l’urgence, à l’inchoatif, la photographie de presse recourt à une forme intemporelle, ce qui fait du motif un “convertisseur aspectuel” propre à temporaliser l’inchoatif. Ce travail de conversion n’est que la prémisse d’un autre processus par lequel le trait thermique transforme une photo de presse en photographie documentaire, cette dernière se définissant comme une version refroidie, sortie de l’actualité, de la première21. On aperçoit ainsi une conversion sémiotique remarquable par laquelle la petite localité marquée qu’est la photo de presse se refroidit pour ainsi dire d’elle-même en rejoignant le lieu commun, la zone extense. 20 21 Cité Sontag (1992, p. 149). “Dans le contexte ad’hoc, les photos de presse dont l’intérêt subsiste une fois passé le moment de leur actualité deviennent des images documentaires”, explique H. Becker (2001, p. 348). 41 Fig. 2. La conversion de la photo de presse en document. 4. LE MOTIF, VOYAGEUR MAIS POLÉMIQUE Fussent-elles inspirées par la peinture d’histoire ou la peinture religieuse, ces diverses figures se laissent en tout cas identifier à des motifs tels que les décrit Panofsky (1967). Cet auteur distingue le “motif artistique porteur d’une signification primaire ou naturelle” appelé iconographique, du motif “porteur d’une signification secondaire ou conventionnelle”, dit iconologique. Si, à cette aune, une femme éplorée se laisse identifier à un motif iconographique, certains traits tels que le voile suffisent cependant à l’inscrire dans un thème qui le dote d’un contenu sémantique conventionnel pour en faire un motif iconologique: ainsi devient-elle une mater dolorosa. La madone algérienne ressemble-t-elle vraiment à une mater dolorosa? Le rapprochement prête forcément à discussion toutefois ces arguties éventuelles (elle ressemble, elle ne ressemble pas), loin de nous éloigner de notre étude, permettent de comprendre le fonctionnement sémiotique du motif dont la particularité est justement de se diffuser d’une pratique à l’autre en admettant l’invariance autant que la variation. L’invariance se laisse déduire de la possibilité même d’identifier le motif, la stabilité iconique n’excluant pas la variation et ce caractère polyphonique que lui attribue Deleuze: “le motif est déjà polyphonique, un élément d’une mélodie intervenant dans le développement d’une autre et faisant contrepoint”22. Le fonctionnement particulier du motif permettant de pallier les aléas de la ressemblance, il semble aisé de suivre la mélodie de nos motifs au gré des 22 Deleuze et Guattari (1991, p.180). 42 reprises énonciatives. De tableau en journal puis de journal en journal, ceux-ci se reproduisent, à chaque fois différents mais néanmoins identifiables. Chaque image de presse tend ainsi vers une autre, de drame en drame, les images de la guerre du Vietnam fournissant le répertoire iconographique de toutes les autres pour entretenir le “bégaiement visuel de l’histoire”23. Toutefois, cette disposition à la protension24 que le motif transmet spécifiquement à l’image de presse, ne saurait occulter une autre caractéristique du motif dont certaines propriétés séminales, s’imprimant dans l’épaisseur sémantique du discours, restent en mémoire et opposent donc résistance à la réalisation de la sémiosis, comme le montre avec la plus grande acuité “l’affaire” de la Madone de Benthala, par exemple. En effet, la querelle qui s’est constituée autour de cette image portait, non seulement, sur le statut de mère conféré à l’actant25 mais surtout sur la récupération de la souffrance d’une femme musulmane par l’iconologie chrétienne, révélant ainsi que des valeurs spécifiques conférées par les prédications antérieures étaient imprimées dans la mémoire du motif de la mater dolorosa et, sur le principe du contrepoint de Deleuze, argumentaient la sémiosis de façon polémique26. Cette description fonctionnelle du motif, entre souplesse et résistance, ne doit pourtant pas nous faire perdre de vue une caractéristique plus essentielle du motif journalistique. En effet, et comme nous l’avons déjà suggéré, loin de se limiter à uns répertoires de figures –des femmes en fichu, des actants “absorbés” ou juchés sur des promontoires..- le motif se conçoit avant tout comme une mise en scène d’une action ou d’un affect. Il est donc essentiellement phorique et, à l’instar du motif des genres majeurs de la peinture qu’il est désormais plus pertinent de dire “affectés”, marque donc une aptitude à l’emphase, au “plus de plus” cher à Zilberberg, aux formes expressives paroxystiques voire, suivant la proposition de Sontag, un penchant pour les formes “convulsives” du Surréalisme que cet auteur reconnaît dans la Pieta de Minamata27, par exemple. 23 24 25 26 27 Idem, p. 309. Une telle protension vient fragiliser la caractéristique accordée, de façon générique, à la photographie par Barthes qui la dit rétensive par opposition à la protension du cinéma. Crf. Barthes (1980, p. 1172). Selon une première légende, Oum Saâd, était censée déplorer la mort de ses huit enfants alors qu’elle pleurait d’autres membres de sa famille. On se reportera à l’article de Pascal Convert (2003). L’auteur rend compte de la controverse en évoquant notamment le procès intenté par la justice algérienne contre le photographe et l’Agence France Presse pour diffamation et tentative de déstabilisation du pouvoir de Liamine Zéroual et la critique de Gilles Saussier fustigeant la colonisation de l’image par des modèles iconographiques chrétiens : “Que nous dit la “Madone” d’Hocine de la réalité du massacre de Benthala, selon tout vraisemblance orchestré par la junte militaire algérienne? Rien. Pouvons-nous attribuer la douleur de cette femme, penser la complexié du politique de cet événement? Non. Seul mérite : ressasser la tradition occidentale et l’actualiser au prétexte de l’événement”. Elle ajoute : “Du seul fait qu’il crée un double du monde, une réalité au deuxième degré, plus étroite mais plus dramatique que celle que perçoit la vision naturelle” (Sontag, 1992, p. 73. 43 5. L’USAGE RHÉTORIQUE DU CLICHÉ Lorsqu’ils migrent d’une pratique à l’autre, les motifs de l’image de presse manifestent en tout cas certains usages rhétoriques. Un regard superficiel suffit tout d’abord à leur accorder une fonction d’emphase, un gain de présence qui permet de marquer les esprits, et trouverait validation dans ce commentaire de Sontag à propos de la photographie de Che Guevara: “la puissance de cette photo tient en partie à ce qu’elle a en commun, du point de vue de la composition avec (des) tableaux”28. Dans son dernier ouvrage, celle-ci revient sur le poids de présence remarquable de certaines images, leur donnant une valeur d’emblème et s’attache à montrer qu’elles permettent de conserver un drame en mémoire sans le donner à comprendre29. La force élocutoire de l’”icône médiatique” se fonde sur une double efficacité rhétorique, à la fois cognitive et affective. Comme les stéréotypes de l’écriture journalistique, et en premier lieu l’anaphore et la catachrèse, ils assurent la lisibilité immédiate des images en interrogeant l’hypersavoir30 de l’observateur. Celui-ci se trouvant pour ainsi dire “instruit par avance”, son activité interprétative est donc facilitée. L’efficacité se conçoit également au niveau de la réception affective de l’image. Il s’agit, selon le cas, de susciter l’empathie en proposant des portraits dont les dispositions en terme de distance et d’interaction seront précisément contrôlées31, provoquant ainsi cette modélisation de l’émotion qu’a conspuée Chevrier à propos de la série Enfants de l’exode de S. Salgado, publiée dans le journal Le Monde au printemps 200032. En certains cas, les motifs pourraient fonctionner à la façon des figures pathétiques d’encadrement décrites par Louis Marin qui indiquent ce qu’il faut voir mais aussi la façon de recevoir la scène. De manière générale, ils nous interrogent sur la façon de se comporter “devant la douleur des autres”. Ainsi conçus, de tels stéréotypes cognitifs et affectifs s’inscrivent en tout cas parmi les règles normatives, contextuelles et propres à la “stratégie informationnelle”, que J.M. Schaeffer33 oppose aux règles constitutives et stables de la photographie. En tant que règles normatives, celles-ci délimitent donc “le champ de recevabilité des différentes manières d’aborder une image photographique”. 28 29 30 31 32 33 Ce qui l’amène à affirmer : “Le surréalisme est au cœur même de l’entreprise photographique”. Voir à ce propos Sontag (1992, p. 132-133). Sontag (2003, p. 122) observe : “Laissons les images atroces nous hanter. Même si elle ne sont que des emblèmes, qui ne peuvent rendre compte de toute la réalité à laquelle elles renvoient, elles n’en accomplissent pas moins une fonction vitale”. Howard Becker (2001, p. 347) explique: “si elle veut être instantanément lisible, l’image ad hoc devra s’adresser aux lecteurs qui possèdent déjà un tel savoir”. Les conditions proxémiques du portrait et leur incidence pour l’interaction a été soulignée notamment dans Anne Beyaert (2001). La polémique peut être suivie dans les éditions du journal, du 19 avril et du 4 mai 2000. Schaeffer (1987, p. 110). 44 Sur ces descriptions, nous commençons à mieux comprendre le fonctionnement des motifs journalistiques qui permettent de partager l’expérience par l’entremise d’un socle de réception commun. Un tel socle se prête sans doute à la critique la plus sévère dans la mesure où, comme l’ont souligné différents auteurs34, il modélise l’activité interprétative de l’observateur, cependant la légitimité des reproches n’empêcherait pas d’apercevoir certaines vertus morales dues à l’instauration d’une base éthique que chaque nouvelle image pourra convoquer et conforter en même temps. Ce socle éthique élabore notre perception sociale de l’horreur en instruisant une sorte de ciment social qui porte témoignage de notre humanité. 6. MOTIF ET ANALOGIE Mais la fonction rhétorique de ces motifs pourrait sans doute être complétée. En effet, nos propositions successives tendent à montrer que la représentation d’un événement ne va pas de soi et réclame une médiation figurative qui lui assure la photogénie. Sur cette exigence, l’évènement donc rencontre le principe de l’analogie et du parallélisme décrit par Fontanille à propos du reportage35. Reprenons l’exemple de la Madone de Benthala. Dans ce cas, l’évocation de la souffrance d’une -prétendue mère- algérienne s’effectue par le biais d’une comparaison avec le sort d’une autre mère dont la représentation nous est déjà familière. Profitant des commodités de l’analogie, le stéréotype de la mater dolorosa agit donc à la façon du “convertisseur de croyances” de Fontanille. C’est une “prothèse cognitive” qui mobilise un hypersavoir, permet de partager l’expérience sensorielle tout en convoquant, construisant et fortifiant une scène éthique. Mais son intérêt ne s’arrête pas là. Le motif assure aussi la projection de ce que Fontanille appelle un “facteur d’évidence”36, une fonction sur laquelle il convient de s’arrêter pour comprendre en quoi la caution apportée au discours “court-circuite” le jugement épistémique de l’observateur. Examinons nos exemples à l’aune du Soma et séma de Fontanille (2004). Le journaliste-rédacteur qui est décrit dans cet ouvrage se montre disponible à l’évènement, son corps agissant comme une “machine enregistreuse” disposée à la contingence, à “l’aventure qui affleure toujours plus ou moins dans le récit du reportage” et que traduisent des détails spécifiques37. Au moyen d’une “visée particularisante”, cette instance énonçante s’efforce de restituer 34 35 36 37 On reprendra les commentaires de P. Madrid (2001) et G. Saussier (2001) mentionnés ci-dessus. Fontanille (2004). Idem, p. 235. Idem, p. 227. 45 “la vérité authentique” (Fontanille). Marqués au contraire par l’exemplarité du stéréotype, les motifs que nous décrivons fonctionnent tout autrement et dérogent au principe de la contingence en préférant la “vérité typique” (Fontanille) qu’exprime la visée sélective. Vérité typique ou vérité authentique? -L’alternative suffit en tout cas à mesurer les limites d’une figurativité a priori qui, pour mieux partager l’expérience, sacrifie la “vérité” de l’événement et met en cause cette “adéquation du langage à la réalité qu’il décrit”, qui entre dans la définition classique de la vérité38. 7. AFFECT ET ESTHÉTIQUE Nous avons observé le travail valenciel qui transforme l’image de presse en document sans envisager encore une quelconque conversion tensive entre la photo de presse et la photo d’art. Pour commencer à argumenter ce point, il serait aisé d’avancer que cette dernière suspend le contenu évènementiel de l’image de presse, la souffrance, pour en faire un objet esthétique. En ce sens, elle effectue une conversion de l’affect en esthétique. Cependant le travail valenciel est infiniment plus raffiné et intéressant. En effet, une reprise énonciative de l’image de presse par la pratique artistique s’avère superflue puisque la conversion s’effectue pour ainsi dire de l’intérieur, la photo du journal se refroidissant pour ainsi dire d’elle-même, avec le temps. Avec le temps, l’affect se transforme en esthétique. Cette intrigante conversion des valeurs affectives en valeurs esthétiques du simple fait d’un passage aspectuel trouve validation auprès de Susan Sontag: “la plupart des photos ne gardent pas leur charge émotive. Les qualités et les intentions spécifiques des photos tendent à se fondre dans l’émotion poignante que suscite le passé en temps que tel39“ – dit-elle. Elle ajoute: “les temps finit par situer toutes les photographies, même les moins professionnelles, au niveau de l’art”40. En somme, si nous avions compris que le temps suffisait à “refroidir” l’image en transformant une photographie de presse en document, il nous faut aussi concevoir un second devenir par lequel la temporalisation est aussi un processus d’esthétisation qui transforme l’affect en beauté. 38 39 40 Dans un texte historique, Greimas explique : “pour parler de véridiction, il semble opportun de se référer d’abord à la double définition, classique, de la vérité, la première l’identifiant avec la cohérence interne, la seconde la fondant sur l’adéquation du langage à la réalité qu’il décrit”. On suivra la proposition dans A.J. Greimas (1976, p. 19-20). Sontag (1992, p. 34). Idem. 46 Fig. 3. la conversion de la photo de presse en objet esthétique. Cette double conversion, aspectuelle et esthétique, qui convertit la photographie de presse, d’une part en un document, et de l’autre en un objet esthétique mériterait sans doute un plus long commentaire. Ainsi conçue, elle permet d’envisager d’une part une déperdition affective en même temps qu’un gain esthétique41. Il reste cependant qu’on peut s’interroger sur les dérogations éventuelles à ces conversions intimes complexes ou, pour le dire autrement, et avec une profonde inquiétude, craindre que les images les plus marquées par l’horreur et en tout premier lieu les témoignages de l’holocauste, ne se déprécient et perdent leur charge émotive avec le temps. Ces conversions intimes incitent en tout cas à préciser l’intentionnalité de la photo de presse. Très simplement, l’intentionnalité éidétique qu’elle partagent toutes se double d’une intentionnalité esthétique42 dans le cas de la photographie artistique et d’une intentionnalité pragmatique pour la photo de presse vouée au témoignage. Or nous venons de constater l’esthétisation inéluctable des images dans le temps, cette inflexion sémantique accompagnant une suspension de l’affect. La photographie de presse serait donc esthétique malgré elle, ce qui nous amènerait à opposer l’intentionnalité esthétique de la photo-artistique à l’intentionnalité esthétique adversative de la photographie en général. Ainsi marque-t-on une tension entre l’esthétique du subir comprise comme lot commun de toutes les photos et 41 42 Une telle alternative concerne aussi les monuments de l’horreur, et peut être ressentie dans les ruines d’Oradour-sur-Glane en Limousin, par exemple, où le visiteur ne peut qu’être incommodé par la charge esthétique qui gagne peu à peu ce qui fut pourtant un lieu de massacre. On pourrait récuser intentionnalité esthétique en évoquant des photographies de rebut, de crachats, ou plus simplement les photographies de scènes banales caractéristique de la postmodernité. Une telle critique soutiendrait que la photographie ne recherche pas la beauté mais au contraire, la laideur ou la banalité. Un tel argument ne résiste pourtant pas à l’examen dans la mesure où justement, la photo-artistique, en variant ainsi le motif, en montrant le monde sous forme de fragments, ne fait qu’instruire la proposition de Baudelaire relative à la beauté : “Ce qui n’est pas légèrement difforme a l’air insensible; d’où il suit que l’irrégularité, c’est-à-dire l’inattendu, la surprise, l’étonnement sont une partie essentielle et la caractéristique de la beauté”, dans C. Baudelaire, �uvres complètes, tome II, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1975-1976, p. 656 (Fusées, VIII, 12). 47 une esthétique de l’agir, voire une esthétique agissante du fait que l’œuvre d’art, en posant des références marquantes et en élargissant le champ de notre expérience sensible, détermine et instruit sans cesse notre sens de la beauté. 8. LA PHOTO DE PRESSE ET L’ÉVÉNEMENT Résumons nous. Nous voulions observer les conséquences du passage entre la pratique de la photo de presse et celle de la photo d’art en observant les images, en suivant les commentaires de la critique, des artistes et des journalistes euxmêmes. Pour l’instant, nous avons découvert un travail valenciel qui se passe de toute reprise prédicative puisqu’il s’effectue pour ainsi dire de l’intérieur: l’image de presse refroidit toute seule et, la localité chaude perdant consistance avec le temps, elle entre dans le lieu commun de l’objet esthétique. Ce cheminement qui amène l’image affectée à perdre peu à peu sa dignité initiale, rencontre la définition de l’événement du Précis de grammaire tensive de Zilberberg (2006). Cet auteur oppose en effet l’événement et l’état en associant l’événement à un paroxysme d’intensité (le “feu” de l’événement) et l’état à l’extensité et à la lisibilité. Il rend compte d’une conversion par laquelle le sujet parvient à configurer le contenu sémantique de l’événement en état: “l’événement entre insensiblement dans les voies de la potentialisation”, dit-il, il devient d’abord mémoire puis histoire. Il gagne ainsi en lisibilité, en intelligibilité, ce qu’il perd en acuité. Si la valence qui transforme l’événement en état ressemble fort à celle qui fait d’une image de presse un document par le simple fait d’une conversion aspectuelle, cet apport révèle sa plus grande utilité en ce qu’il montre qu’une temporalisation est nécessaire à l’assimilation de l’événement. Pur “syncrétisme de subvalences paroxystiques de tempo et de tonicité” qui restitue “l’univers de la démesure”, l’événement attaque la trame du discours et le décontextualise, explique Zilberberg43. C’est une exclamation contre le discours, c’est-à-dire contigu et opposé44. Si l’événement se laisse effectivement définir comme une exclamation, on comprend mieux la nécessité du motif comme interface, comme “convertisseur”: “convertisseur de croyance” (Fontanille), convertisseur aspectuel qui autorise la mise en discours et, plus radicalement encore, convertisseur de sens. Partir de l’image, comme nous l’avons fait, autorise toutefois un apport supplémentaire. L’événement est bien ce qui survient et suscite donc l’étonne- 43 44 Autant de précisions qui argumentent les conceptions de Shannon et Weaver qui, dans leur théorie mathématique de la communication, envisagent l’événement à partir de la notion de probabilité : une corrélation inverse associent selon eux, l’importance de l’événement à sa probabilité d’apparition : “la quantité d’information apportée par un élément dans un message est inversement proportionnelle à sa probabilité d’apparition dans ce message. Si l’apparition de E est très probable, E est peu informatif; si l’apparition de E est peu probable, E est très informatif” (Shannon & Weaver, 1949). Zilberberg (2006, p. 200). 48 ment du sujet, ce qui autorise Zilberberg à lui attribuer le mode d’efficience du survenir, par opposition au parvenir de l’état. Pourtant, si ses valeurs d’éclat et ce survenir semblent incliner vers une définition aspectuelle singulative, l’événement tel qu’il traverse nos images de presse suppose plutôt un mode itératif: un événement est ce qui survient mais qui appelle aussi d’autres évènements avec lesquels il entre en résonance, la signification provenant de leurs rapports mutuels: l’événement concerne tout d’abord le monde naturel, il s’incarne dans l’évènement de l’image mais se perpétue dans une lignée. Une telle proposition permet en tout cas de souligner une connivence fonctionnelle entre l’itérativité de l’événement et celle du stéréotype figuratif. “Dans le monde de l’image, explique Sontag, cela s’est passé et cela se passera éternellement de la même manière”45. Plus tard, cet auteur reviendra sur cette terrible disposition de l’image: “puisque les photos se font écho entre elles, il est inévitable que les corps émaciés des prisonniers bosniaques d’Omarska (…) ravivent le souvenir des photographies prises dans les camps en 1945”46. Il faut donc mettre en rapport les drames du monde, toujours les mêmes, et la dramaturgie, elle-même récurrente, du stéréotype. Toujours étonnant, l’événement est cependant prévisible de même que sa représentation est elle aussi prévisible et s’accomplit dans le stéréotype. Et puisque chaque nouveau récit de l’horreur vient résonner avec un récit antérieur, il n’y a finalement peut-être pas lieu de s’inquiéter lorsqu’un photographe comme G. Saussier raconte le désarroi de ses collègues qui, dans Koweit-city libérée regrettaient de ne trouver “pas une seule image de la guerre du Vietnam”47. 9. L’ÉVÉNEMENT COMME CRITÈRE DE DIFFÉRENCIATION Si cette notion d’événement permet de vérifier nos hypothèses tensives, elle permet aussi de prévoir tous les critères de différenciation entre la photo de presse et la photo d’art. On note alors que, de la même façon que l’événement procède au “resserrement du champ de présence” (Zilberberg)48, celui-ci contraint l’image de presse et la soumet à ses modalisations déontiques: au propre comme au figuré, 45 46 47 48 Sontag (1992, p. 197). Sontag (2003, p. 92). Saussier (2001, p. 308-309). La guerre du Vietnam est en effet la première et la dernière guerre a avoir été amplement et librement photographiée et télévisée. En marquant ainsi l’apogée de la photographieaction, elle a permis de constituer une sorte de catalogue iconographique de la guerre, dans laquelle les photographes continuent de puiser. Cette référence permanente à la guerre du Vietnam est évoquée également par Rouillé (2005, p. 178). Souvenons-nous tout d’abord que le corps du reporter décrit par Fontanille est avant tout un corps-point, c’est-à-dire concentré sur un point, et c’est ce corps-point inscrit sur le lieu même de l’événement, qui assure la légitimité du témoignage. La forme du point permet également à Zilberberg de décrire la morphologie de l’événement, “instantané”, “concentré”, “ponctuel” et assurant un ”resserrement du champ de présence” (Zilberberg, 2006, p. 185). 49 l’évènement la “resserre” en marquant toujours l’opposition entre une localité intense où les propriétés sont marquées et une zone extense non marquée. Je vous propose de suivre ce travail de resserrement aux différents niveaux de pertinence de la pratique. 9.1. Signes et figures Au niveau des figures, nous avons aperçu la pression des motifs iconologiques ou plus banalement iconographiques qui s’imposent comme des stéréotypes qu’on appelle aussi banalement des icônes médiatiques. Ce sont des répertoires de figures mais aussi, plus fondamentalement, des répertoires de mises en scène qui supposent une hyperexpressivité du visage et du corps (cris, pleurs, gestualité large..) et certains points de vue particuliers, le plus caractéristique de l’expressivité épique restant la contre-plongée. D’autres prescriptions déontiques sont liées à sa lisibilité: pour représenter au mieux l’événement, l’image doit être nette, piquée et faciliter l’identification des principaux protagonistes, conformément au contrat implicite de l’exposition49. Ces prescriptions figuratives méritent cependant commentaire. En effet, une pratique récente incarnée notamment par le quotidien le journal Libération tend à admettre des images floues, des personnages de dos, libérant une créativité qui modalise diversement le contrat de l’exposition. Toutes ces entorses vont néanmoins dans le sens de l’événement, témoignant d’un nouveau privilège accordé au détail spécifique sur le détail exemplaire et souscrivant, en fin de compte, au principe de contingence du récit de témoignage décrit par Fontanille (2004)50. 9.2. Textes et-énoncés A ce niveau de pertinence, la légende s’impose comme un élément fondateur du sens de l’image, ainsi que l’ont montré différents auteurs tel Benjamin51. De 49 50 51 Howard S. Becker (2001, p. 344) explique pourquoi une photographie de R. Franck représentant un fait d’actualité serait refusée par le journal : “Reproduite en première page d’un quotidien, la même image aurait pu être lue comme une photographie de presse. Mais les personnages ne sont pas identifiés et les journaux montrent rarement des photos d’anonymes. Tout au contraire : on apprend aux photojournalistes, pour que cela devienne chez eux une seconde nature, à noter les noms de ceux qu’ils photographient ainsi que toute autre information pertinente (..). Pour qu’elle fonctionne comme photographie de presse, il faudrait que l’image ait une légende différente de celle que lui a donnée Franck, par exemple : ‘Le sénateur Untel du Rhode Island discute stratégie électorale avec deux assistants’. Mais, là encore, il est peu probable que la photographie soit publiée dans un quotidien, à cause de son grain, du flou et parce que les deux assistants nous tournent le dos”. Ainsi, lorsqu’une “une” célèbre du quotidien Libération du 22 avril 2002 présente le leader du Front national, Jean Marie Le Pen le menton levé, dans une pose assez rare et sans légende, sans souci de faciliter l’identification, il faut évoquer une fonction conative du portrait patibulaire. Idem, lorsque la une du 6 mai, lendemain de l’élection présidentielle, représente le même Le Pen de ¾ dos, en plus petit, suggérant un effet de départ : l’organisation texte/image extrêmement savante va dans le sens de l’événement et congédie déjà le candidat décrié. Cet auteur se demande si la légende doit “devenir l’élément le plus essentiel du cliché” car sans elle ”toute construction photographique ne peut que rester dans l’à-peu-près”. Voir à ce sujet Walter Benjamin (1931, p. 168). 50 nombreux exemples pourraient être convoqués pour lui donner raison, comme celui de Gisèle Freund qui montre, à propos d’une photographie de Doisneau, comment la légende alliée au contexte thématique, modifie fondamentalement le sens d’une photographie52. Parmi les contributions historiques à la question, citons aussi celle de Barthes qui associe au texte des fonctions d’ancrage ou de relais53, selon que celui-ci stabilise le sens de l’image ou livre les informations contextuelles que celle-ci ne peut livrer. Plus efficace que n’importe quelle démonstration théorique, la proposition de l’artiste allemand Thomas Ruff consistant à supprimer, dans une série intitulée Zeitungsfoto (1990), la légende de photographies tirées des journaux (une salle de conférence, un portrait, la silhouette d’un poisson sortant de l’eau…), révèle l’importance de la légende en montrant comment cette suppression libère la polysémie de l’image, la “chaîne flottante du sens” (Barthes). A ces commentaires attendus sur la fonction sémantique de la légende, Sontag ajoute une caractéristique méconnue qui, comme elle l’assure à propos d’un exposition de photographies du World trade center, ne s’impose qu’avec le temps, la proximité de l’évènement suffisant à alimenter une légende mémorielle. Une proposition qui, en dépit de sa pertinence, néglige de souligner que l’exposition évoquée, constituée de photos d’amateurs et de professionnels toutes prises le 11 septembre, impose dès l’abord son isotopie thématique en relativisant d’autant l’intérêt de la légende. Quoiqu’il en soit, les photographies dites artistiques ne sont pas légendée, cette mention écrite trouvant alors son équivalent dans l’étiquette, également appelée “cartel”. Une telle mutation s’effectue d’ailleurs au prix d’un glissement épistémologique intéressant puisque, si la légende stabilise le sens du texte photographique lui-même, le cartel de la photo d’art stabilise le sens en intervenant à un autre niveau de pertinence, celui de l’objet, dont il rassemble les principales caractéristiques: le titre, l’auteur, les dimensions et les propriétés du support en tant que support formel et matériel. Dans le premier cas, le texte écrit est transitif et renvoie à l’événement; dans le second cas, il est intransitif (réflexif). C’est au niveau du texte que la métaphore du resserrement prend sa forme la plus figurative avec la notion de cadrage. La photo de presse cadre d’événement de près, les visages et les corps de près pour adopter ce schéma tensif basé sur une étendue (déploiement figuratif) faible et une intensité forte que nous reconnaissons d’une photographie de l’horreur à l’autre. Un tel ajustement 52 53 Elle raconte comment une photographie de Robert Doisneau montrant “une jeune fille en train de boire un verre de vin au comptoir d’un café parisien, à côté d’un monsieur d’un certain âge” illustra une première fois un numéro du magazine Le Point consacré aux bistrots puis, confiée à une agence, apparut dans un petit journal édité par la ligue antialcoolique puis dans une revue à scandale sous le titre “Prostitution aux Champs Elysées”, ce qui valut différents procès, intentés par l’homme photographié, un tranquille professeur de dessin. Voir à ce sujet Gisèle Freund (1974, pp. 173-174). Cfr. Barthes (1964). 51 répond, nous l’avons souligné, à un souci rhétorique. Il permet d’entrer dans la distance intime54, pour recueillir l’expression des visages et donc restituer l’affect, souvent paroxystique, conforme à l’événement. Serrer corps et figures au plus près, répond également à une contrainte économique, aux /devoir-faire/ imposés par la pratique et le support: la photo étant diffusée dans un journal, elle entre le plus souvent (et de plus en plus) dans une maquette contrainte où chaque ligne et chaque millimètre sont comptés. 9.3. Objets et supports Comment les pratiques formatent-elles les objets et leurs supports? Les photos de presse sont imprimées sur du papier, dans un journal qui leur assigne des dimensions qui apparaissent souvent bien réduites lorsqu’on les rapporte à l’original. La photographie d’art affectionne, elle aussi, les supports-papier mais ce sont ceux des revues d’art. Il convient en outre de noter, en y voyant un témoignage de la créativité qui vient de l’interférence aventureuse des pratiques, le développement actuel d’une sorte de terme complexe, situé à la croisée des deux mondes, sous la forme du portfolio, aussi fréquent désormais dans Beaux-arts magazine que dans le Monde 2, et ouvert à des photos représentant indifféremment l’une ou l’autre pratique –une “série artistique” signée J. Dieuzaide pour une édition du Monde 2; des photos du parcours de migrants clandestins camerounais en route vers l’Espagne, dans l’édition suivante). 9.4 Pratiques et scènes La comparaison entre les deux scènes prédicatives fait toutefois apparaître des scènes typiques distinctes qui conviennent, d’un côté, à la lecture du journal, et de l’autre à la contemplation et à l’esthésie. En cela, les deux pratiques correspondent à des expériences perceptives très différentes, conçues pour deux types d’actant collectif. Tandis que la photographie d’art exposée au musée s’adresse dès l’abord à un public de visiteurs, la photo de presse vise un actant individuel, le lecteur de chaque journal que la multiplicité des exemplaires convertit aussitôt en actant collectif. La pratique de lecture du journal accompagne en outre l’aspectualité caractéristique de l’événement qui, en même temps qu’il entre dans la mémoire et dans l’histoire en se diffusant dans le temps, perd son acuité. 9.5. Les stratégies Nous avons patiemment mis en évidence la stratégie énonciative de la photographie soumise à la contrainte de l’événement mais il serait sans doute intéressant de voir comment l’art s’ajuste à cette stratégie pour en faire la critique et porter témoignage à sa façon. Comment l’art résoud-il finalement l’épineuse équation de l’événement? ou à l’inverse: comment l’événement, ce “je ne sais 54 E.T. Hall, La dimension cachée (traduction française), Le Seuil, 1971. 52 quoi qui laisse sans voix”55 (Zilberberg 2006) peut-il s’énoncer tout de même et trouver une alternative aux clichés qui, bien que réducteurs, le rendent intelligibles? Quelle peut être l’alternative à ces convertisseurs sémantiques? Il nous semble alors que la mise en oeuvre d’un nouveau style stratégique critique oblige à intervenir dès les niveaux élémentaires de la signification, au niveau des figures et des textes. Ainsi conçues, ces stratégies critiques semblent donc, d’un point de vue sémiotique, plus ambitieuses que celle du Most wanted man de Warhol, dont la dimension figurative manifeste encore un ancrage dans la pratique source, l’appropriation artistique se faisant aux niveaux de pertinence supérieurs, au niveau de l’objet essentiellement. L’actualité artistique révèle plusieurs stratégies soucieuses de cette alternative figurative. 9.5.1. La suspension de la pression temporelle de l’évènement Une première stratégie consiste à représenter l’événement par l’entremise de ce corps-point qui légitime le témoignage mais en prenant soin de relâcher le lien aspectuel, c’est-à-dire de s’acquitter de l’instantanéité de l’événement. On “refroidit” ainsi l’image en présentant une scène désertée que l’observateur remplira à sa guise grâce à l’hypersavoir cognitif, affectif mais aussi figuratif dont il dispose: en quelque sorte, il suffit alors d’illustrer la scène avec les images d’horreur qui conviennent. Dans un premier cas de figure, l’ancrage dans l’événement reste assuré par le titre. Sophie Ristelhueber56, par exemple, rassemble des photographies prises en Irak représentant des champs de palmiers calcinés comme une armée en déroute. Ce sont des vestiges de la guerre Irak-Iran pourtant, en raison de l’aspectualité caractéristique de l’événement, marqué par l’itération, ils évoquent tous les conflits susceptibles de ce produire à cet endroit. Pierre Faure présente une série de photographies de pavillons représentatifs de l’architecture populaire de l’après-guerre, toutes à peu près identiques et pareillement désertées. La seule référence à l’événement, susceptible de “déclencher” l’activité interprétative vient du titre Oradour (sur-Glane) 2001, nom d’une petite commune de la Haute-Vienne dont tous les habitants furent massacrés par une division SS au printemps 44. Par ces photographies dépouillées de l’insoutenable, Faure rappelle que les “banques de données de l’inconscient collectif”57 peuvent être convoquées et suffiront à “remplir” les images de leurs figures prévisibles. Dans ce cas, comme dans celui qui précède, le photographe est pour ainsi dire en retard sur l’événement à moins que, jouant sur la protension des événements, il ne soit en avance... L’événement, disent-ils en quelque sorte, c’est “ici mais n’importe quand”. 55 56 57 L’événement est un “déni du dire”, un “déni du discours” – explique Claude Zilberberg (2006. p. 194). Les séries de S. Ristelhueber (Iraq, 2001) et P. Faure (Oradour, 2001) étaient présentées lors de l’exposition Paysages invisibles du musée départemental d’art contemporain de Rochechouart, à l’automne 2004. La première est reproduite dans Cotton (2005, p. 166). Wolinski (2004, p. 63). 53 Dans cette typologie pourraient également s’inscrire les Nuits de Thomas Ruff, des photographies urbaines saisies avec un instrument de vision nocturne. Inspirées à l’artiste par les images de la guerre du Golfe, celles-ci sont traitées par une couleur verte caractéristique qui suffit à transformer une banale observation en surveillance et en scrutation, corroborant ainsi le schéma tensif de la vision rapprochée (intensité forte, étendue faible). Surtout, la coloration et la résolution caractéristique des appareils de surveillance étant associées dans l’actualité télévisuelle à des contenus dysphoriques, celles-ci suffisent à dramatiser la scène et à instaurer –fût-ce sur d’anodines vues urbaines- une tension dysphorique, un effet de suspense effrayant: “Chaque endroit est une scène de crime en puissance” explique à ce propos Thomas Ruff58. En ce cas, et à la différence des séries précédentes, l’ancrage évènementiel n’est pas assuré par la spécification du titre –les photographies s’intitulent sobrement Nacht 1, Nacht 2…- mais seulement suggéré par les propriétés de l’image qui mobilisent l’hypersavoir de l’observateur. 9.5.2. La simulation de l’événement La simulation de l’événement est une autre stratégie alternative à laquelle se sont voués de nombreux photographes qui se placent sous l’égide du “ça peut être” (Couchot) du numérique. Dans ce cas de figure, ni le corps-point du reporter ni les données spatiales et temporelles ne sont sollicitées, le motif assurant seul l’ancrage dans l’événement, dans le “ça” commun au “ça a été” de Barthes et au “ça peut être” de Couchot: le “ça” qui trouverait sa correspondance dans l’exclamatif (Zilberberg) de l’évènement. Premier exemple de simulation, l’agence Advantis Pictures se spécialise depuis 1998 dans la diffusion de photos préfabriquées d’événement. Elle a vendu à cent cinquante magazines des photos de l’éclipse solaire d’août 1999 avant que celle-ci n’ait lieu. Anticiper l’événement, c’est également ce que propose l’artiste Edouard Levé qui joue avec les clichés de la presse quotidienne en composant de fausses photos d’actualité, comme par exemple celle d’une cérémonie de coupure de ruban, célébrée par des édiles en costume-cravate (L’inauguration, 2001)59. Le cas le plus exemplaire reste cependant celui de l’artiste polonais Zbigniew Libera qui, au lendemain de la prise de Bagdad par les Américains, fit paraître à la une de l’hebdomadaire polonais Przekroj, la photo d’une Irakienne étreignant un GI, une image symbole fabriquée en studio plusieurs semaines avant la prise de Badgad. Présentée sur une cimaise de galerie60, cette photo présentait 58 59 60 Cité par Régis Durand (1997, p. 12). Cette photographie est intéressante à plus d’un titre car elle révèle à un regard un peu exercé quelques arcanes du changement de pratique. Ainsi certains éléments textuels (le cadrage est trop large, la presse locale s’autoriserait à couper les pieds des actants ) voire figuratifs (un ruban rouge et non tricolore) suffisent à révéler la simulation et l’emprise de la pratique artistique. La série était présentée Magda Danysz en novembre-décembre 2004. 54 la particularité de conserver les marques de la reprise énonciative. Elle affichait l’image telle qu’elle fut publiée dans l’hebdomadaire, en dévoilant l’épaisseur de la revue et la typographie de la une, c’est-à-dire le texte avec son support, de façon à thématiser le niveau de pertinence de l’objet. En conservant de telles marques discursives, l’image propose de faire son propre commentaire et valide, en même temps que sa fonction métadiscursive, son statut d’œuvre moderne tel que l’a défini Greenberg61. De façon plus essentielle, la conservation de ces marques prédicatives par la pratique journalistique manifeste une incidence véridictoire: elle suffit à transformer l’image en un “mensonge vrai” qui, à la façon du trompe l’œil, dévoile son propre subterfuge et fonde ainsi, finalement, sa propre éthique. L’éthique de l’artiste qui joue ainsi au reporter consiste à affirmer: regardez, je vous montre comment la simulation peut être une falsification. 10. CONCLUSION: ÉTHIQUE ET PARODIE Il conviendrait sans doute de discuter plus longuement cette notion d’éthique, les photographies de Z. Libera donnant une consistance très particulière à nos interrogations en déployant une troisième stratégie, la parodie. En effet, une autre stratégie de cet artiste, incarnée par la série Des corps désinvoltes dans l’histoire, consiste à imiter la composition des photographies de presse les plus célèbres –cette fillette vietnamienne brûlée au napalm courant sur un chemin; des soldats allemands alignés soulevant allègrement la barrière de la frontière polonaise; le cadavre de Che Guevara allongé devant des militaires- mais en opérant le renversement axiologique qu’assure un parti-pris burlesque. Au lieu de représenter des affects négatifs, ces images subissent ainsi une valorisation positive que confortent la connotation ludique ou sportive de certains accessoires et l’expression voyeuse des protagonistes: la fillette devient une naturiste courant au milieu d’adeptes de l’aile volante; les soldats allemands sont des cyclistes et Che Guevara fume une cigarette au milieu d’un cercle amical… Libera décrit sa démarche comme une façon de se réapproprier la culture: “la culture, tout comme la nature devient petit à petit l’environnement naturel de l’homme” – assure-t-il. “Je considère mes œuvres comme un moyen de contrôle sur ce qui a modelé mon moi”62. Or il reste qu’en renversant le contenu sémantique d’évènements insoutenables, ces images persistent dans l’insoutenable comme le révèle l’atroce parodie de la célèbre photographie prise à la libération du camp de Buchenwald, où les déportés, vus par Libera, deviennent des sortes de campeurs hilares. Ces photographies laissent sans voix, tout jugement esthétique perdant lamentable61 62 Voir à ce sujet le célèbre essai de Clement Greenberg (1989). Voir l’interview de l’artiste sur le carton d’invitation de la galerie M. Danysz. 55 ment consistance et cédant devant le jugement de valeur, mais elles rappellent néanmoins une dérogation admise par Sontag. Certes toutes les photographies, fussent-elles représentatives d’une souffrance, prennent inéluctablement la beauté du passé, assure cet auteur, cependant certaines pourraient bien résister tout de même à l’esthétisation: ce sont précisément les images de camp de concentration qui, à chaque fois que nous les revoyons, expriment l’inhumanité comme la première fois où nous les avons vues. 56 Bibliographie Barthes, Roland 1964 “Rhétorique de l’image”, Communications, 4. 1980 La chambre claire, in R. Barthes, �uvres complètes, T.3. (1974-1980), Paris, E. Marty ed., Le Seuil, 1994. 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Si mostrerà come la foto ricordo consista in una figurazione ben particolare, che acquista il suo senso per il fatto di appartenere ad una pratica. Una “foto ricordo” è una foto che entra in una pratica semiotica in cui le foto sono testi che possono “ricordare” degli eventi personali. La pratica, dunque, predefinisce il ruolo della figurazione fotografica, la rende significativa per un certo fine, secondo un certo senso. 1 Questo studio nasce come intervento orale al Seminario Interesemiotico di Parigi dell’anno 2004/05, sul tema delle “Pratiche semiotiche”. Perciò, almeno nelle tematiche con cui ambisce confrontarsi, è debitore degli organizzatori del seminario: Jacques Fontanille in particolare, nonché Denis Bertrand, Jean-François Bordron e Claude Zilberberg. Un debito particolare lega inoltre questa riflessione al lavoro di Pierluigi Basso, che da tempo e con grande determinazione ha problematizzato il rapporto tra pratica, testo ed esperienza in semiotica, e che con esso ci obbliga a confrontarci. 59 Da un punto di vista semiotico l’importanza della pratica sta in ciò: dare a una figurazione attestata la possibilità di valere; nel nostro caso, far sì che una figurazione valga in quanto ricordo. Resterà da definire come ciò avvenga e qual è il senso del “ricordo”. Ma se la pratica semiotica è ciò che predispone una figurazione a valere in un certo senso, il senso ultimo, particolare della pratica dipenderà, di volta in volta, proprio dal valore assunto, o meglio creato dalla figurazione in una data situazione. Si mostrerà allora anche come il processo semiotico legato alla foto ricordo dipenda, in definitiva, da quel che accade alla figurazione. Su queste due questioni che mettono in correlazione, rispettivamente, il punto di vista della “pratica” col punto di vista del “testo” occorrerà soffermarsi brevemente con due precisazioni teoriche, prima di entrare direttamente nel nostro studio sulla foto ricordo. Riguardo al primo punto, occorre esplicitare in che modo la “pratica” definisce i suoi “testi”, ovvero stabilisce la significatività di una certa figurazione. Si tratta ovviamente del genere: una foto è una foto ricordo (o una foto pubblicitaria, una foto d’arte, o una foto documentaria o una foto scientifica) poiché partecipa genericamente a una certa pratica semiotica. È per il fatto che esiste una pratica interessata ad attestare fotograficamente la presenza del soggetto o dei suoi cari, parenti o amici, in una certa situazione che si hanno delle foto ricordo. Osservazione banale forse, ma che obbliga a tenere ben in chiaro che nulla impedisce a queste stesse foto d’essere anche delle foto d’arte o delle foto documentarie, cioè d’appartenere ad altri generi, di essere testi di altre pratiche. Ma se ciò accadesse, non sarebbe certo per il fatto che esse raffigurano il soggetto o i suoi cari, bensì per altri caratteri della figurazione, a seconda dei valori richiesti dalle altre pratiche. Per esempio, una foto ricordo, per un gioco di forme o di luci, può esser valida per la contemplazione o l’emozione estetiche; oppure, per l’attestazione di un fatto pubblico, può valere per una documentazione o per anche per una pratica politica; oppure, per il fatto di raffigurare il soggetto vicino a un monumento può esser valida per l’attestazione della pratica turistica, cioè per la figurazione di un certo rapporto del soggetto con lo spazio urbano. La posizione che bisogna trarne, e di cui in questo saggio cercherà di mostrare la portata euristica, è dunque la seguente: un testo va studiato per la significatività, per la valenza pratica della sua figurazione. Il valore specifico di una figurazione, ciò che le accade, è sempre motivato dalla pratica a cui essa, in quanto testo, appartiene. Si intenderà dunque per “testo” qualunque configurazione – visiva, sonora, verbale, polisensoriale, etc., poco importa2; 2 Sulla teoria e lo studio della figuratività indipendentemente dal canale sensoriale, cf. Fontanille 2004, II.1. Al di fuori della semiotica, è oltremodo interessante notare come Chion (1990 e 2003), il più autorevole studioso del suono nell’audiovisivo, giunga alle medesimi proposte: tramite innumerevoli analisi, egli mostra che il film è un fenomeno “trans-sensoriale”, una configurazione unitaria in cui suono e immagine interagiscono e si figurativizzano a vicenda: senza suoni vedremmo tutt’altro e, ascoltati senza immagini, i suoni non hanno senso. 60 mentre una “pratica” sarà invece un dispositivo che regoli il valere dei valori testuali. Più precisamente, una “pratica semiotica” si individua per il modo in cui mette in rapporto degli oggetti testuali con un soggetto pratico. Per definizione, la pratica è il luogo in cui ne va del proprio oggetto e del proprio soggetto. Conseguentemente, e come seconda breve premessa al nostro studio del “testo” e delle “pratiche”, nelle pagine che seguono parleremo e ci occuperemo del “senso pratico” dei testi, nonché del “soggetto pratico”. Ciò vorrà dire che ci si interesserà a un soggetto e un senso non puri e trascendentali, ma sempre incarnati e immanenti a un caso semiotico specifico; un senso e un soggetto non generali o universali, ma locali e singolari. Lo studio della foto ricordo è parso strategicamente prezioso, tanto per comprendere in che modo una pratica controlli la genericità testuale e definisca il valore di una figurazione, quanto per studiare l’incarnazione e la non evidenza del soggetto semiotico, nonché la base esperienziale e sperimentale del senso. L’obiettivo di questo saggio è dunque duplice. In primo luogo, si tratterà di definire il carattere semiotico, i contorni e le poste in gioco di quel genere di testualità particolare che è la foto ricordo. Di riflesso, ci si propone di reagire alle sollecitazioni diffuse, e a cui anche questo numero di Semiotiche partecipa, di una riconsiderazione generale della “testualità”, che è, e probabilmente resta, il terreno d’elezione della semiotica. 2. ELEMENTI D’ANALISI SEMIOTICA DELL’ESPERIENZA DELLA FOTO RICORDO 2.1. La moralizzazione Come accostarsi alla foto ricordo? In base alle posizioni appena esposte, proporremo d’abord di interessarci al valore che essa può assumere e che fa circolare. Prenderemo le mosse osservando, in maniera del tutto empirica, le regolarità della pratica testuale, il modo in cui la foto ricordo sembra valere. Ad un primissimo approccio, la pratica delle foto ricordo presenta almeno due regolarità osservabili. Innanzi tutto, la sua diffusione: le foto ricordo sono probabilmente il tipo di immagine più diffusa nei focolai domestici. Chiunque, a prescindere dall’età, dalla classe sociale o dal grado di istruzione, colleziona, coccola o regala foto ricordo. In secondo luogo, il carattere decisamente poco nobile, anodino e piatto delle foto ricordo: è molto facile considerare le foto ricordo come delle foto mancate, mal riuscite, ratées. Le foto ricordo sono più o meno brutte, non riuscite, sia esteticamente che, spesso, proprio in quanto foto ricordo. E ad ogni modo, a parte per i diretti interessati, esse si presentano come assolutamente insignificanti. Insomma, le foto ricordo, per quanto assai diffuse, normalmente sono assai poco apprezzate. Esse circolano regolarmente sigillate da un giudizio d’ap- 61 prezzamento che molto facilmente è tutt’altro che positivo3. Così - fatto davvero curioso dal punto di vista teorico - è come se la pratica delle foto ricordo prevedesse regolarmente una chiusura moralizzante, che consisterebbe nella squalifica dei testi attorno ai quali la pratica stessa s’è svolta. Ora, il fenomeno della “moralizzazione” è da subito illuminante, per vari aspetti. Innanzi tutto, esso chiarisce in che cosa il fatto esperienziale di non/apprezzare una fotografia, di non/trovarla riuscita, sia precisamente ed esemplarmente un fatto di linguaggio: in che cosa l’uso della foto ricordo è essenzialmente una pratica semiotica. Inoltre, la moralizzazione rivela la dimensione passionale dell’esperienza della foto ricordo. I due fenomeni, pratica semiotica e dimensione passionale, non sono affatto separati. È quanto dimostra lo studio fondamentale di Greimas e Fontanille, sulla semiotica delle passioni, in cui si illustra come la passione sia un processo semiotico, regolare ed osservabile, cioè una pratica culturale. In essa, la “moralizzazione” è definita come il momento finale, che sigilla e convalida intersoggettivamente il senso esperito corporalmente. “L’emozione si manifesta attraverso un comportamento osservabile che è l’oggetto principale delle valutazioni etiche ed estetiche che abbiamo convenuto di chiamare moralizzazione”4: “la moralizzazione è […] concepita prima di tutto per regolare la comunicazione passionale all’interno di una data comunità. La moralizzazione quindi, sia essa di origine individuale o collettiva, segnala l’inserzione di una configurazione passionale all’interno di uno spazio comunitario. Si manifesta […] generalmente tramite giudizi di eccesso, di insufficienza o di misura”5. La moralizzazione sancisce dunque la semioticità di un’esperienza del soggetto, e cioè che “non c’è passione solitaria. Qualunque configurazione passionale sarebbe intersoggettiva, con al suo interno almeno due soggetti: il soggetto della passione e il soggetto che si assume la moralizzazione”6. Due questioni emergono. Una è che la moralizzazione consiste in un giudizio, tanto estetico quanto etico, che sdoppia il “soggetto” dell’esperienza testuale. Costui, emettendo un giudizio tanto sulla non/bellezza quanto sulla non/“bontà” della foto, assume il ruolo di “osservatore” dell’esperienza stessa. Si tratta di una sorta di “riflessione” del soggetto pratico sul valore esperito. La seconda questione rilevante è, conseguentemente, il processo semiotico dell’esperienza fotografica, sul quale verte il giudizio d’apprezzamento. Dal punto di vista del soggetto, si tratta della sua emozione. 3 4 5 6 Zilberberg (Fontanille e Zilberberg 1998, voci “valenza” e “valore”; Zilberberg 2002) ha messo a punto alcuni preziosissimi strumenti concettuali per analizzare questi fenomeni. Studiando la circolazione dei valori e le operazioni semiotiche che li manipolano, egli distingue, tra l’altro, le pratiche a “regime di valori universali” e quelle a “regime di valori assoluti” o “eclatanti”. Le prime sarebbero le pratiche a carattere estensivo, “diffuso” e a intensità “raffreddata”; le seconde sarebbero concentrate, “selezionate” e ad alta forìa. Dal punto di vista della loro circolazione sociale, le foto ricordo rientrerebbero sicuramente nel primo tipo. Ottimi esemplari del secondo tipo sarebbero invece le foto d’arte; mentre le foto di reportage rappresenterebbero un misto variabile tra i due. Greimas e Fontanille 1991, p. 242 tr. it. Greimas e Fontanille 1991, p. 134 tr. it. Greimas e Fontanille 1991, pp. 144-145 tr. it. 62 Su queste ricognizioni teoriche e sulle osservazioni empiriche che precedono si può abbozzare una prima analisi sulla pratica semiotica della foto ricordo. Si può sostenere che questa consiste, tra l’altro, in un’emozione legata all’esperienza di una figurazione che il soggetto fa di sé (o dei suoi intimi, delle persone che in un certo senso appartengono alla sua stessa sfera pratica): il soggetto e il suo mondo “sono in” una foto. Ma, proprio per il fatto di trovarsi “nella” foto, il soggetto mette in causa la veridicità della figurazione fotografica. Egli enuncia un giudizio dis/approvativo. 2.2. (S)figurazione ed emozione Quale che sia il luogo o il momento in cui la foto è stata scattata, la situazione di cui in teoria la foto dovrebbe conservare il “ricordo” conta assai poco7. Quel che sembra valere è piuttosto una specie di presente, in cui ha senso dire “guarda come sono/sei bello” o (soprattutto) “guarda come sono/sei brutto qui”. Il soggetto guarda la foto e il minimo che gli possa capitare è di trovare che lui o un suo caro hanno un sorriso un po’ stupido, uno sguardo assente, un gesto esagerato. A volte succede anche che, “nella” foto, egli vede di avere un collo troppo lungo, una posizione un po’ gobba; e che in un tal momento egli inclina la testa in un modo che non gli appartiene, e che in talaltra circostanza si ritrova con un naso o una pettinatura inimmaginabili, e via dicendo. Alla fine dei conti, è assai raro che lui, o i suoi cari, siano “nella” foto. Che la foto ritragga sua madre trent’anni anni prima o un’ora fa, quel che conta non pare essere tanto il ritrovare un momento passato, ma il modo in cui si può riconoscerla ed apprezzarla: “qui sembra vecchia”, “qui ha dei begli occhi”. Il nostro assunto teorico è che una pratica consista in un certo interesse di una configurazione, una certa possibilità di valere di cui essa dispone. Ora, pare che la pratica della foto ricordo si interessi nel ritrovare se stessi o i propri cari “in” una fotografia. Così, l’esperienza testuale che la pratica implica consiste nell’emozione suscitata da come il soggetto si trova “nella” fotografia, o da come “vi” trova i suoi intimi. Da un lato, soggettivamente, per ritrovare, riconoscere se stessi o i propri cari “in” una foto occorrono delle concessioni: l’assunzione della figurazione testuale è chiamata in questione. Dall’altro, ciò implica che, oggettivamente, la foto ricordo enuncia una (s)figurazione del corpo del soggetto pratico. In un celebre episodio, Proust descrive splendidamente l’esperienza della 7 Sottolineiamo ancora una volta che non si sta sostenendo che una fotografia non possa attestare una situazione passata; ma solo che, in quel caso, forse paradossalmente, si sarebbe in presenza di una foto turistica, una foto documentaria, una foto scientifica, o altro ancora. Se siamo in una foto scattata a Bologna una decina d’anni fa, far valere la foto per mostrare lo stato di un angolo di Bologna dell’epoca o il nostro passaggio in quella strada, vuole dire praticare una documentazione o del turismo. La nostra tesi è che il modo in cui fa senso una foto ricordo, in quanto tale, è tutt’altro, e in queste pagine stiamo cercando di definirlo. Ma, lo ripetiamo, una stessa fotografia può essere il testo di un numero indefinito di pratiche. Soltanto, essa varrà ogni volta in modo differente. 63 visione fotografica dei propri cari. Il narratore della Recherche arriva di sorpresa dalla nonna che non vedeva da tanto tempo, e la coglie in un momento in cui lei non si accorge di lui. Allora, per un istante non la riconosce: “Di me – per l’effimero privilegio grazie al quale, nel breve istante del ritorno, ci è dato d’assistere improvvisamente alla nostra stessa assenza – non era presente che il testimone, l’osservatore, l’estraneo in cappello e soprabito da viaggio, colui che non è di casa, il fotografo venuto a ritrarre luoghi che non rivedremo mai più. E ciò che, meccanicamente, si formò nei miei occhi quando vidi la nonna, fu appunto una fotografia. […] Come avrei potuto, poiché alla fronte, alle gote della nonna affidavo il compito di esprimere quanto v’era di più delicato e inalterabile nella sua mente, e poiché ogni sguardo che nasce dall’abitudine è una negromanzia e ogni viso che amiamo è uno specchio del passato, come avrei potuto non omettere ciò che in lei s’era appesantito e mutato […]? Se, invece del nostro occhio, a guardare sarà un obiettivo puramente materiale, una lastra fotografica, allora [è] come un malato il quale, non vedendosi da molto tempo e seguitando a comporre quel volto ch’egli non vede […] indietreggia se scorge in uno specchio, nel mezzo di un volto arido e deserto, la sopraelevazione obliqua e rosata d’un naso gigantesco come una piramide d’Egitto. [Così] io per cui la nonna non era altri che me stesso, […] ora, d’improvviso, nel nostro salotto che apparteneva a un mondo nuovo, quello del tempo, quello dove vivono gli estranei di cui si dice “invecchia bene”, per la prima volta e per un solo istante […] vidi […] una vecchia donna prostrata che non conoscevo”.8 Un altro celebre e nitidissimo esempio è l’esperienza di visione di Barthes nel racconto della Camera chiara9. La vulgata vorrebbe che in questo libro Barthes sostenga che l’essenza della foto sia il “ça a été”10. In realtà, il mo8 9 10 Proust,1920, pp. 166-167 tr. it. Barthes 1980. “Ça a été” è una formula di ardua traduzione. La versione di Guidieri per Einaudi ha stabilito un semplice “è stato”. Non siamo sicuri che questa traduzione, vicina al significato della formula, ne riproduca anche il senso dato dall’uso. Quando in Francia si torna da un viaggio o si esce da un esame, l’amico domanda “ça a été”? col che, ovviamente, egli non vuol affatto sapere se “è stato”, ma se la cosa si è ben conclusa, se è finita e con l’approvazione dell’interessato. Michel Dupré (2004, pp. 23-35) accosta spiritosamente la formula barthesiana a quella del cameriere, che quando sparecchia le portate del cliente, tra un piatto e un altro o alla fine del pasto, domanda a quest’ultimo “ça a été?”. Ma al di là del fatto che l’“è stato” è assolutamente inadeguato per tali usi linguistici, ciò che depone globalmente a sfavore di una tale traduzione è che “ça a été” è una formula che esiste in francese, e che la si usa negli eventi a cui si prende parte nella quotidianità; mentre enunciare “è stato”, e basta, in italiano è improponibile. A ciò va aggiunto che il “ça” per Barthes non può non avere reminscenze freudiane (il “ça” è, in francese, l’Es psicanalitico). Ciò spiega perché Barthes può associare il “ça a été” al “punctum”, al momento di “jouissance” spersonalizzante e soggettivante. Invece, accostare “è stato” all’id suona molto curioso. 64 tore di quest’“avventura semiotica” è l’insoddisfazione che Barthes prova davanti alla gran quantità di fotografie che falliscono nel dargli l’Immagine della madre; e che quindi lo motivano a un’accanita ricerca della buona fotografia (e durante tal ricerca Barthes, con tutte le foto mal riuscite su cui si imbatte, si guarda bene dal dire “ça a été!”). In altri termini, il libro sostiene non tanto che ogni fotografia significhi che la cosa che essa rappresenta è stata, è accaduta davvero e si è chiusa; ma che la fotografia è “la scienza impossibile dell’essere unico”, ricerca dell’ “immagine vera”, “allucinazione dell’immagine folle”11, della rappresentazione veridica poiché a noi conveniente, della figurazione che ci faccia esclamare “questa sì, è andata bene!”: “ça a été!”. Ciò che pare quindi costituire l’esperienza visiva delle foto ricordo non è tanto un “questa è stata”, ma piuttosto un “questa sì”, oppure, assai più frequentemente, un “questa poi!”12. Il senso pratico di una foto ricordo non è tanto quello di riaccendere un “ricordo”, ossia realizzare un virtualizzato, fare tornare a essere ciò che “è stato”. Il senso della foto ricordo non è un “questa è stata”, quanto piuttosto un “questa, può darsi” 13, cioè la potenzialità di un attuale. La foto, in un certo senso, espande il corpo proprio del soggetto, la sua attualità, rendendola variabile, declinandola, rendendo possibile una serie aperta di manifestazioni. Oggettivamente, cioè dal punto di vista testuale, si tratta di una vera e propria sfigurazione. Soggettivamente, la variazione del corpo proprio costituisce un’emozione. 2.3. Credenza e testualità “Noi guardiamo le foto come dei ricordi e non è che una specie di anonimato dei ricordi che ci trattiene […]: questo non m’è familiare, questo mondo mi è comunque contemporaneo eppure mi sono sfuggiti tutti i suoi segni; la fotografia ci ha dunque insegnato che noi viviamo su una piccolissima parte del mondo, incompletamente recensita. […] L’immagine inaugura quel che ci ricorda, e non tanto ciò che rappresenta: quel che ci ricorda non è dunque questo viso, ma l’affetto […] Non mi richiama a ciò che so ma a ciò che sono; per esempio mi commuove […] Ed è dunque come una macchina istantanea che fabbrica il passato, […] che si potrebbe chiamare il passato attuale […]: una specie di altrove attivo nell’immagine. L’immagine non designa una volta passata, ma un altrove”14 11 12 13 14 Barthes 1980, rispettivamente pp. 72, 109, 115 tr. it. Nel nostro intervento francese le formule che proponevamo di affiancare al “ça a été” erano “oui c’est ça” (quel che si dice quando si approva, anche ironicamente, ciò l’interlocutore propone: “sì sì”) e specialmente “ça alors” (esclamazione di quando si è interdetti di colpo: “questa sì che è bella!”) “Ca, peut-être bien”. Schefer 1986, pp. 110-113, tr. nostra. 65 Il senso di ciò che si suol chiamare una foto ricordo non è tanto il ricordarsi di una certa cosa successa, passata. Infatti, che cosa avrebbe mai potuto “passare”, accadere? Assai banalmente, il fatto che il soggetto fosse presente in tal luogo con la tal espressione, la tal posizione, etc. - tutte cose che, in sé, non costituiscono un gran evento, e che fan sì che le foto ricordo, prese in sé, siano piuttosto insipide, sciocche, vuote. Il senso pratico della foto ricordo, l’evento che essa costituisce, è che invece si veda che un qualcosa riguardante l’identità del soggetto sia potuta accadere. Il fatto che il soggetto abbia potuto essere così, che il suo corpo proprio possa passare per quelle manifestazioni. È un potenziale e non un virtuale, una potenza ed un evento piuttosto che un vero e proprio passato a costituire un tal processo semiotico. La foto ricordo “funziona” non in quanto semplice congelamento di un momento vissuto, bensì per una certa emozione suscitata da una (s)figurazione. Il senso pratico della foto ricordo si produce per l’introduzione del principio di variabilità figurale della foto, a cui corrisponde, nel soggetto, l’emozione. Si ha cioè un evento, che si declina, oggettivamente, attraverso le vicissitudini della figurazione (sfigurazione e riconfigurazione), e, soggettivamente, nelle vicende passionali (emozione e poi moralizzazione). La foto ricordo crea una tensione differenziante tra due realtà semiotiche: da un lato, oggettivamente, la figurazione enunciata dalla fotografia stessa, un’attualità; dall’altro, soggettivamente, la figurazione attesa dal soggetto del “ricordo”, una potenzialità. Questa tensione, che crea differenzialmente il senso di oggetto e soggetto, testo e passione, nasce con l’evento fotografico. Infatti, finché al soggetto non capiti di vedere la fotografia, la figurazione che egli ha del proprio corpo è un sapere in atto, la costruzione di una realtà. Ma quando egli fa l’esperienza della foto ricordo, il suo sapere attuale entra in concorrenza con quello implicato dalla foto, e quindi si sospende, cioè si allontana dal processo di stabilizzazione semiotica del reale, si potenzializza. Il soggetto pratico si trova dinanzi a un’attualità, a una figurazione differente; e che diverrà il suo nuovo sapere. Al contempo, quel che prima era il suo sapere, figurazione attuale, ora diventa credenza, figurazione potenziale. Il soggetto credeva che avrebbe visto la tal cosa e ne vede un’altra. Così, mentre oggettivamente si stabilisce il senso del testo fotografico, il soggetto fa l’esperienza della propria credenza; egli si sperimenta in quanto soggetto che interpreta e che crede. 3. ESPERIENZA E SPERIMENTAZIONE 3.1. Considerazioni sul senso come processo oggettivante e soggettivante Ad una prima analisi, sembra evidente che il senso della foto ricordo si giochi tra i modi in cui il soggetto può apparire su una foto da un lato, e le manifestazioni che egli si attende dall’altro. Il fatto semiotico si presenta dunque come un evento a 66 doppia declinazione, un nodo singolare15: il nodo che di volta in volta collega una “oggettualità” (le manifestazioni attestate, la figurazione attuale) a una “soggettalità” (l’emozione di una figurazione potenzializzata, creduta e assunta dal soggetto). Si parlerà quindi di “oggettalità/soggettalità”, e non di “oggettività/soggettività”, perché, come sarà ormai evidente, nel senso di un testo c’è ben poco di oggettivo; né tanto meno risulterebbe interessante invocare la soggettività di una certa situazione. Piuttosto, ha molto più senso e pare di gran lunga più interessante parlare di un doppio processo in cui consiste la semiosi: il processo di s/oggettivazione; e di una conseguente bipolarità che ne risulta, l’istanza s/oggettale. Si tratta certamente di una generalità concernente ogni processo semiotico. Si può assumere infatti che, per definizione, ogni semiosi è un processo di formazione di un s/oggetto; ed ogni evento è, semioticamente, messa in tensione tra le due facce del processo, cortocircuito tra il polo soggettale e il polo oggettale del senso16. La foto ricordo presenta dunque un doppio ordine di questioni. Da una parte, vi sono le questioni di ordine oggettale, che concernono le vicissitudini della figurazione. Nella tal fotografia si rappresenta la tal scena riconoscibile, coi tali attori nei tali luoghi e nelle tali circostanze. A tal proposito si parlerà di “testualizzazione” o “oggettivazione”. Si tratta del processo in cui, sotto il controllo di un’istanza soggettale, di una competenza semiotica, si oggettivano dei dati dell’ambiente visivo in configurazioni riconoscibili. Ma dall’altra parte e allo stesso tempo vi sono questioni di ordine soggettale, che se lasciate da parte fanno perdere totalmente il senso della pratica, ivi compreso l’aspetto oggettale. Se da una parte il soggetto opera un’oggettivazione, testualizza, configura secondo un sapere, dall’altra parte l’oggetto-testo forma delle prospettive, degli effetti temporali e passionali, insomma opera una soggettivazione. Una figurazione implica sempre delle attese, modula ogni volta delle credenze. Nel caso della foto ricordo, le vicissitudini della propria immagine aprono una sfida al sapere del soggetto e dispiegano una serie di possibilità del suo corpo proprio. 3.2. L’evento fotografico: il senso come sperimentazione Il senso non è mai “semplice”, cioè “oggettivo” o “soggettivo”. Una scena di una foto ricordo non ha nessuna esistenza semiotica senza un soggetto dato che (se) la figura, che la istituisce non solo percettivamente, in quanto scena visiva, ma proprio in quanto figurazione di un “ricordo”. E tuttavia, nemmeno il soggetto del “ricordo” della foto ha senso senza l’esperienza fornitagli dalla pratica fotografica stessa, e da tutte le altre che, similmente, attiveranno le sue credenze, genereranno le sue emozioni, motiveranno i suoi giudizi. 15 16 Il concetto, centrale dell’ultimo Barthes (1980, p. 10 tr. it.), di “mathesis singularis”, coglie anch’esso, partendo dalla fotografia, la necessità di un discorso anti-universale e pratico sul senso. Di conseguenza, pare decisamente inopportuno il progetto di una “semiotica oggettale” da un lato, e una “semiotica soggettale” dall’altro, com’è stato invece proposto con un certo successo da Coquet (1997). Questa divisione può anche esser utile, ma ci sembra rilevi piuttosto di una fase “primitiva”, didattica, della semiotica, privata di grandi possibilità euristiche. 67 Ora, lo studio del processo semiotico della foto ricordo, oggettivante e soggettivante, implica la rivisitazione di alcune concezioni basilari della semiotica, nonché, è il caso di dirlo, di alcuni cliché che ingombrano la riflessione sulla fotografia. Si dice solitamente che la fotografia è impronta (la cattura dell’impronta di un corpo che “è stato”); e che la semiosi è interpretazione per rinvenimento e riconoscimento di impronte (c’è semiosi quando aliquid stat pro aliquo)17. Ma quel che la pratica della foto ricordo illustra chiaramente, anzi emblematicamente, è che i suoi testi sono certo delle impronte, ma a condizione che, per una serie di tentativi e di adeguamenti esperimentati, il soggetto possa “starci dentro”. La questione è infatti tutta nell’essere “nella” figurazione fotografica. Perciò, se proprio si tratterà di riconoscimento dell’impronta, sarà certo un riconoscimento produttore, costruttivo. Impronta certo, ma, più che interpretata, sperimentata. I semiotici sanno bene con quale facilità ed eleganza Floch ha saputo mostrare come la fotografia, se anche fosse impronta, significherebbe non in quanto impronta pura, ma solamente per le svariate forme che quest’ultima può assumere18. Ma questa dimostrazione è stata per Floch tanto più facile nella misura in cui sono state prese in conto solo delle “foto d’arte”. La questione che invece ci si pone qui è: che ne è del senso pratico di quest’altro genere testuale che sono le “foto ricordo”? Queste fotografie che, per la loro norma d’uso, sono supposte non fare altro che fissare un momento della nostra storia personale, non sono forse delle pure impronte, che conserverebbero l’esistenza di fenomeni che si sono svolti e che, altrimenti, rischierebbero di restare nel virtuale del nostro percorso storico? In realtà, si è visto in queste pagine, persino nel caso emblematico delle foto ricordo, non è il passato che entra in gioco. La semplice impronta del fatto passato catturata dalla fotografia può benissimo essere ciò che costituisce il funzionamento fisico dell’apparecchio, ma dal punto di vista semiotico, in cui i fatti valgono in quanto fatti di linguaggio, cioè per il senso della loro lettura, le cose vanno in tutt’altro modo19. Da quest’ultimo punto di vista, sembra molto più opportuno considerare la fotografia secondo le forme e le formazioni dell’esperienza cui essa dà luogo. La foto ricordo è un regolatore semiotico dell’identità del corpo proprio, la cui enveloppe visibile20 è diversamente formata, oggettivamente sfigurata. Ma essa è anche modulatore cognitivo e affettivo, generatore di una sorta di effetto temporale, cioè formatore soggettivante. 17 18 19 20 Il noto riferimento è Eco 1984. Floch 1986. Già Schaeffer (1987, cap. 1) iniziava il suo studio classico sulla foto affermando che “occorre distinguere la produzione del visibile dal problema della sua riproduzione. […] Il campo dell’irradiamento fotonico non è mai una duplicazione del visibile umano” (pp. 20-21, tr. nostra); sicché egli proponeva di distinguere il materiale dal semiotico, il “fotonico” dal “fotografico”, l’“impronta” dall’“analogon”. Sulla formazione delle figure dell’“involucro corporeo”, e sulla semiotica del corpo proprio in generale, cf. Fontanille 2004. 68 In generale, la foto ricordo è il luogo di un’apertura dell’esperienza: il soggetto pratico e il senso della foto ricordo sono soggetto e senso sperimentali. E, forse, si può anche affermare che il senso della figurazione della foto ricordo è una soggettività sperimentale. Nella foto ricordo (e a fortiori nelle foto che non saranno “di ricordo”) è molto meno questione di passato che di presente, se non di futuro. Il processo di testualizzazione è lo strumento di un’apertura dell’orizzonte attuale del soggetto, e quindi del suo futuro, che è “ciò che sta per essere, ciò che accadrà”: caso, accidente. 3.3. Conclusioni sull’esperienza della foto ricordo Il “ricordo” che figura nella fotografie è come il ricordo nella Recherche prustiana: ha senso non poiché evoca ed espone una memoria, ma in quanto insegna a leggere il presente. L’esperienza che esso genera tange non quel che è successo, ma quel che potrà succedere, accadere21. Detto ancor meglio, il senso del testo fotografico è che quest’ultimo si pone come figurazione futura, figurazione che accade, eventualità dell’orizzonte presente, accidente. Appare allora chiaro come figurazione e soggettivazione vanno di pari passo. In base a quanto esposto sin qui, si dirà che la foto ricordo si istituisce e acquista il suo senso mentre modula la competenza del soggetto secondo tre modi almeno: (i) Secondo il modo fattitivo – la foto ricordo fa vedere ciò che altrimenti sarebbe invisibile: essa costituisce quindi una protesi22; (ii) Secondo il modo aletico – la foto ricordo sospende il dover-essere del soggetto: in quanto “caso” ed “accidente” della figurazione del corpo proprio, la foto ricordo dispiega, attualizza una figurazione “contingente” e “possibile”23. In altri termini, essa costituisce un evento. Si tratta del cuore dell’enunciato fotografico: la foto ricordo rende visibile ciò che il corpo del soggetto della pratica può essere - ovviamente: “essere” in senso non ontologico ma semiotico, esistenza significativa, avatar del corpo proprio, oltre che della figura. (iii) Secondo il modo epistemico – la foto ricordo potenzializza il sapere del soggetto, rendendolo “incerto” e “probabile”: la foto attiva una credenza24. Insomma, se la foto ricordo è certamente un testo visivo, esso va considerato almeno secondo tre aspetti contemporaneamente, i quali indicano chiaramente che il senso del testo si costituisce come un’esperienza e come una sperimentazione di un soggetto pratico. 21 22 23 24 È la nota, brillante tesi di Deleuze 19702. Per la fattitività e la teoria modale in generale, cf. Greimas 1976. Per una prima concettualizzazione semiotica della protesi, cf. Eco 1997, 6.10. Per Greimas (Greimas e Courtés 1979, p. 29 tr. It) “contingente” e “possibile” costituiscono l’asse del neutro del semantismo aletico, cioè legato al dovere. Per Greimas (Greimas e Courtés 1979, p. 127 tr. it.) “incerto” e “probabile” costituiscono l’asse del neutro, cioè il luogo della sospensione del semantismo epistemico. 69 Questo dunque è l’insegnamento dello studio di una pratica semiotica: che la semiosi non è tanto un soggetto che interpreta un testo o un’impronta, quanto piuttosto un soggetto che si costruisce assieme all’impronta o al testo stessi25. Generalizzando il complesso modale triplice appena esposto, enunciamo dunque, molto succintamente, i tre aspetti che sono parsi essenziali allo studio del testo fotografico. Essi sviluppano l’assunto della semiosi come processo s/oggettivante26. 4. PER UNO STUDIO DEL SENSO PRATICO 4.1. Figura e passione Figurar(si) il corpo proprio: in ciò consiste il senso dell’enunciazione della foto ricordo. È un processo oggettivante, gestito da un’istanza soggettale. “Oggettivante” perché origina un testo; “processuale” e “gestito da un’istanza soggettale” perché un testo non va mai da sé. Se un testo è una configurazione stabilita, allora, come minimo, la figurazione si stabilisce in capo a un processo in cui: (1) la figurazione è controllata da un sapere e da una credenza, che pre-figurano sempre una scena in cui poter esperire il senso; (2) la scena, in quanto tale, resta generale, tipica, e perciò è messa in tensione dalla figurazione attestata, occorrenza singolare; (3) la figurazione attestata è evento, vicissitudine nella scena predisposta, attesa, creduta. Riappropriarsi della figura del corpo: questa è l’esperienza della foto ricordo. La figurazione attestata dalla foto ricordo non va mai senza un processo soggettivante, che il testo stesso gestisce. La “soggettivazione” è un processo probabilmente più evidente di quello di oggettivazione appena accennato, ma nondimeno più difficile da analizzare. Sicuramente esso è meno lineare del processo di testualizzazione; 25 26 Già Deleuze (1953) formulava, in area proto-strutturale, una riflessione a tutt’oggi stimolante sulla “soggettività pratica”, che “si costituisce nel dato”. Il semiotico non si stupirà che i processi di oggettivazione e di soggettivazione emergano da una seria riconsiderazione delle logiche modali. Infatti è proprio con esse che Greimas intese superare la semiosi dello “spettacolo semplice”, della scena fissa e “permanente” (Greimas 1966, pp. 236-237) e introdurre una variabilità di principio nel senso. Il senso è così concepito come evento, trasformazione in un ambiente. In effetti - con buona pace degli avversari attuali della semiotica del corpo - è a partire dello studio delle modalità dell’essere che la semiosi si incarna. Con tale studio, si pone che il semantismo di base è costituito dallo spazio timico, “che […] è considerato rappresentare le manifestazioni elementari dell’essere vivente in relazione con il suo ambiente”; e lo “spazio modale” non è che “un’escrescenza e una sovra-articolazione di quest’ultimo” (Greimas 1979, p. 91). Sicché, in una semiotica “incorporata” e “ambientale”, “i soggetti di stato sono per definizione dei soggetti inquieti, mentre i soggetti di fare sono soggetti velleitari” (p. 98, sott. nel testo). Una tale prospettiva apre irreversibilmente “la problematica della costruzione del soggetto [a cui] deve corrispondere una semiotica dell’oggetto” (Greimas 1983, p. 11, sott. nel testo). Perciò, la teoria modale è lo studio delle “logiche soggettive” e delle “logiche oggettive” (Greimas 1976, p. 77). Per una rilettura critica e dettagliata della teoria modale in Del senso 2 alla luce della ricerca semiotica attuale, cf. Fontanille e Tore 2006. 70 soprattutto esso è plurivoco, molteplice. In primo luogo, lo si è appena ribadito, la testualizzazione non ha mai luogo senza attese, saperi, invenzioni: senza credenze ed inferenze. In secondo luogo, la soggettivazione si genera perché un testo non è mai la messa in scena del medesimo spettacolo27: ogni testo riconfigura il sapere del soggetto che interpreta, riattiva la credenza del soggetto che sperimenta. Ma questo è ancora poco, e in ogni caso troppo generale. L’esperienza della foto ricordo è “soggettivante” in modo particolare perché consta di una protesi installata e assunta (embrayée) sul corpo del soggetto. Con la fotografia, il soggetto esperisce e sperimenta il proprio divenire. La foto ricorda proietta il corpo proprio in uno spazio di figurazioni potenziali. È solo disinstallando ed enunciando (débrayage) la foto-protesi che, perciò, la soggettivazione si chiude, il potenziale diventa attuale, un nuovo sapere e una figurazione sono stabiliti. Così, il soggetto pratico diventa, da soggetto sperimentale (o attante-“soggetto” propriamente detto), soggetto di sapere (o attante-“osservatore”). Così, la scossa sfigurante dell’“emozione” diventa assestamento riconfigurante della “moralizzazione”. “Questa, sì” o “questa è orribile, è venuta male” sono i passaggi critici che sigillano l’enunciato fotografico. Così si chiude l’esperienza della visione della foto ricordo: il corpo proprio sarà più o meno figurativizzato (oggettivazione); la figura del corpo sarà più o meno appropriata (soggettivazione). A questo punto emerge con maggiore chiarezza il nesso tra l’esperienza della foto ricordo e la semiotica delle passioni, che presentivamo dall’inizio, quando era apparsa subito l’importanza della “moralizzazione”. L’esperienza della foto ricordo è un evento, un casus, un accidente della figurazione. La “passione” della foto ricordo è racchiusa da una doppia prospettiva su quest’evento, su un tale caso28. Prospettivamente, l’evento della foto ricordo è una sfida: “vediamo come figuro”; retrospettivamente, esso è la sopportazione della variabilità della propria immagine: l’appropriatezza della (s)figurazione del corpo29. L’una non va senza l’altra; ma ciò non tanto perché sfida e capacità di sopportazione si implichino semioticamente30, ma soprattutto perché esse delimitano lo spazio di appassionamento veridittivo che pare insito nel genere 27 28 29 30 Il senso come messa in scena del medesimo spettacolo è la concezione semiotica comunicazionale e non trasformazionale (cf. nota precedente); ma è anche la concezione positivista, oggettiva, e non evenemenziale (cf. le precocissime e già puntuali critiche di Bachtin 1929). Fontanille (20032, p. 197 ss.) ha mostrato l’importanza della prospettiva nella logica passionale, poiché in essa, differentemente dalla logica narrativa, “un processo non è considerato dal punto di vista del suo risultato, ma dal punto di vista del suo peso di presenza” (p. 222, traduzione nostra). È proprio ciò che fa della passione non un semplice scenario programmabile, ma appunto un evento. Così Barthes (1980, p. 103 tr. it.): “come potrei, io che mi sento soggetto incerto, amitico, trovarmi somigliante? […] tutt’al più posso dire che su certe foto io mi sopporto, o non mi sopporto, secondo che mi trovi conforme all’immagine che vorrei dare di me”. Studiando la sfida con approccio lessicografico, Greimas (1983) aveva rilevato che la sua efficacia fattitiva è legata alla manipolazione della competenza del soggetto, che agisce per esercitare, e quindi mostrare, una capacità. Rispetto al nostro studio, l’aspetto più interessante dell’analisi greimassiana resta il fatto che nella sfida è in gioco il “riconoscersi” nell’“immagine”. 71 della foto ricordo. La foto ricordo “dice vero”, e cioè è “somigliante”, quando essa conviene all’identità del soggetto, quando questi aderisce alla figurazione attestata. La dimensione passionale rivela quindi che la “somiglianza” non è qualità intrinseca dell’immagine, ma affare di un soggetto sperimentale, che si sfida e si sopporta “nella” foto ricordo. Un soggetto che (si) produce e non che constata; un soggetto pratico che, davanti a una foto ricordo, dirà, come per un vestito o per un misfatto, “questa, mi sta bene!”31. 4.2. L’appassionamento veridittivo La figurazione fotografica è sottoposta all’appassionamento del soggetto; e quindi è dall’appassionamento che dipenderanno le qualità attribuite alla figurazione, la sua “somiglianza”, la sua “verità”. La somiglianza è meno “detta” dalla foto che “riconosciuta” dal soggetto pratico. La figurazione fotografica sarà somigliante, e perciò veridica, solo per una pratica locale, in cui si forma un soggetto sperimentale. La somiglianza è il frutto di una serie di accomodamenti, d’ajustements ipoiconici: interpretazioni, sempre tentate e incerte, della figura; sperimentazioni rischiose e arrischiate di un soggetto che si forma. Se riconoscimento si avrà, bisognerà dare al “riconoscimento” una valenza, più che interpretativa, esperienziale e sperimentale. Nella pratica della foto ricordo non si riconosce una realtà preesistente (“riconoscere” nel senso di “conoscere di nuovo”). Nella foto ricordo si riconosce una realtà che si ammette per il futuro, una realtà che si vuol sperimentare (“riconoscere” nel senso di “assumere” - p. es. “chi legge questo pagine mi riconosce come autore” -, ma anche nel senso di “gratitudine” - p. es. “un autore è sempre riconoscente verso i suoi lettori”). “Questa foto sono io”, “questa no”, “questa andrebbe bene se non fosse che”: è palmare come nella veridizione della fotografia, nel riconoscerla, ne vada tanto dello statuto della foto quanto di quello del soggetto. La foto ricordo dovrà essere riconosciuta come tale, cioè come una foto che attesti un “ricordo”. Il soggetto dovrà individuarsi come tale, cioè osservarsi come soggetto della/alla esperienza fotografica. Quest’ultimo punto è particolarmente importante e delicato. Riassumiamolo: per una scissone attanziale, il soggetto pratico si divide in soggetto sperimentale (o soggetto della credenza, “soggetto” propriamente detto) e soggetto epistemico (o soggetto del sapere informativo, cioè “osservatore”). Il campo epistemico, messo in tensione, genera una “riflessione”, o, come si suole dire, una “coscienza”. A questo proposito e più precisamente, in semiotica si parlerà di “assunzione”. 4.3. I casi e la forma di vita Concludiamo sulla questione dell’assunzione. L’assunzione è l’istanziazione soggettale o oggettale, una “deittizzazione” della realtà semiotica. In queste 31 “Ça me ressemble”. 72 pagine ci si è occupati essenzialmente del processo che sta a monte della formazione della realtà semiotica, il processo soggettivante o oggettivante. Noi l’abbiamo definito come l’esperienza testuale. Si è visto come ogni foto ricordo è un nodo di instabilità tanto figurale che soggettale. Questa doppia instabilità fa sì che l’esperienza della visione della fotografia sia sempre un caso singolare, momento di una declinazione, accidente di un divenire. Ogni foto ricordo è un caso che accoppia una declinazione figurativa di un corpo proprio (oggettivazione) con un grado di appropriazione (soggettivazione). E tuttavia, non si può prescindere dal fatto che la pratica prevede che ogni fotografia si trovi in una situazione, che ogni caso di s/oggettivazione sia istanziato, situato. L’esperienza testuale di una figurazione e di un appassionamento si situano, vivono in un milieu. Innanzi tutto, ogni foto coesiste, almeno potenzialmente, con un certo numero di altre foto, in una “congiuntura”. E in generale, ogni pratica semiotica fa accadere i propri casi in uno spazio congiunturale, in una sincronia più o meno estesa di esperienze - per esempio, nella foto ricordo, uno spazio di fatto illimitato, lo spazio infinito di tutti i modi in cui la foto può figurare il corpo del soggetto. Ma in secondo luogo, essa prevede anche una compossibilità di esperienze testuali, di casi. Tra tutte le figurazioni fotografiche del soggetto in una certa situazione, egli ne assume una, due, tre, un “gruppo”. E questo gruppo si definirà per la sua coesistenza diacronica con tutte le altre che sono appropriate ed approvate, in passato e in futuro. I casi entrano in “serie” di compossibili. Assumere una foto in una situazione fa senso per il fatto che ne è stata assunta/se ne assumerà un’altra in un’altra situazione. È così che la figurazione si istanzia in una forma di vita. La serie delle esperienze s/oggettivanti profilano un’identità, una costanza attraverso, anzi grazie, alla variazione. Così, passare dalla “situazione” alla “forma di vita”, vuol dire cogliere l’estensione di uno spazio sincronico di possibili secondo l’esclusione diacronica capace di profilare uno stile, una costanza. E in definitiva, passare, ancora più a monte, dal punto di vista dell’esperienza del singolo testo, al punto di vista inglobante della pratica semiotica, vuol dire portare alla luce che l’identità non si dà come semplice polarità, singolarità di una situazione, ma come variazione su tema, identificazione in una traversata temporale32. Insomma, la semiotica testuale è sempre semiosi di una tattica locale, singolarità dei casi. Invece, la semiotica delle pratiche, che situa i testi e li include nelle forme di vita, è strategia modellizzante. Nella forma di vita, il senso si generalizza: in essa le esperienze testuali sono regolate e quindi regolarizza- 32 Lo studio del senso come variazione su un “tema”, formazione “profilata” costituisce il cuore del brillante saggio di Cadiot e Visetti 2001. Il senso come identità nella differenza, passaggio dal “gruppo” alla “serie”, stile nella variazione è, tra l’altro, nelle pagine di Deleuze 19702; mentre il passaggio dall’“estensione” all’“esclusione” è concettualizzato in Deleuze 1953. 73 te, perciò riproducibili. È come se i casi, gli accidenti dei corpi in situazione trovassero i paradigmi delle loro declinazioni. Ogni caso di esperienza di un testo, cioè la figurazione e l’appassionamento si formano in seno a un campo, mentre nello stile che si delinea nel passaggio da un caso all’altro si ha una messa in prospettiva di tale campo. Così, il senso pratico ha due facce: il senso locale, tattico, della semiotica dei casi, e il senso sostenuto e regolato, strategico, della semiotica dei modelli. E parallelamente, la meta-semiotica avrà due aspetti: la casistica e il modellismo33. 33 Il “modellismo” semiotico è stato felicemente coniato da Fabbri (1998, p. 85). Per lo studio casistico, Fontanille è certamente colui che meglio aiuta a pensare una tale prospettiva quando prospetta una “teratologia del discorso”, una non-canonicità delle manifestazioni del senso (2004, p. 63). 74 Bibliografia Bachtin, Michail (sotto pseud. di V. N. Volochinov) 1929 Marksizm i filosofija jazyka, Leningrad; trad. it. Marxismo e filosofia del linguaggio, Bari, Dedalo, 1976. Barthes, Roland 1980 La chambre claire. Note sur la photographie, Paris, Etoile-Gallimard-Seuil; trad. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980. Cadiot, Pierre - Visetti, Yves-Marie 2001 Pour une théorie des formes sémantiques. 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INTRODUZIONE Il semiotico trova in casa propria la questione delle pratiche, dal momento in cui il testo diventa un campo di battaglia in cui le operazioni vanno sotto il nome di convocazione, segmentazione, comparazione, individuazione di relazioni, ecc. È pur vero che lo scontro si è spesso concluso con una resa incondizionata del testo, alimentando la fiducia illusoria che l’inerzia materiale di un oggetto di linguaggio coincida con una sua incapacità di esercitare una qualche forma di influenza sullo sguardo (il metodo) di chi mira a restituirne il senso con altro linguaggio. Sappiamo che non dovrebbe essere mai così, che l’incontro a due, 1 Il presente saggio è una libera rielaborazione dell’intervento al colloquio “Le texte en question: actualités de la sémiotique”, Limoges, 23/24 marzo 2005. 77 il semiotico e il testo, allestisce un orizzonte popolato di voci, una moltitudine che mina costantemente sia la presunta soggettività del ricercatore sia la tenuta di un oggetto compatto di significazione. Si potrebbe argomentare di converso che l’interazione tra viventi, il dominio della pratica, è stato un terreno scomodo per il semiotico e quindi poco battuto, proprio perché l’influenzamento è apparso fin da subito ineliminabile e pervasivo, e si è avvertita l’instabilità di un senso mai depositato definitivamente e che attraversa di continuo l’esperienza dei soggetti implicati in un qualsiasi corso di azione. Il nostro intervento vuole allestire uno spazio di traducibilità tra problemi propri ai due domini di senso, esplorando la possibilità di una continuità tra la costituzione rischiosa della testualità come oggetto di sapere semiotico e l’indagine delle articolazioni significanti nelle pratiche culturali. Condurremo il nostro studio a partire da un campo di osservazione piuttosto marginale all’interno della letteratura semiotica, l’ipnosi2. Milton H. Erickson, uno dei massimi ipnotisti del secolo scorso, è, tra le altre cose, l’inventore di una modalità di induzione ipnotica propriamente spettacolare, da lui chiamata “tecnica di confusione”. Prenderemo le mosse da qui, dal resoconto che fa Erickson del primo esperimento tentato per testare le possibilità trasformatrici della sua nuova tecnica, la quale prevede tipicamente una situazione a tre: l’ipnotista, una seconda persona, nel caso Miss K, usuale collaboratrice di Erickson in ragione della facilità con cui “entra” in ipnosi, e un terzo osservatore/vittima, all’occasione un certo Dr. G. Le tre persone si distribuiscono su altrettante sedie poste su tre vertici di un ipotetico quadrato, con una quarta sedia vuota a completare le posizioni previste. Erickson e il Dr. G da un lato, Miss K e la sedia vuota, di fronte. Al Dr. G viene affidato il compito di ascoltare attentamente cosa gli dica la donna, anche prendendo appunti, non prima di aver sentito Erickson affidare a Miss K una serie di istruzioni, tra cui riportiamo le seguenti: And now Miss K, slowly at first and then more and more rapidly until you are talking at a good speed, explain to Dr. G that while he thinks he is here and you are there, that you are here and that he is there even as I think that chair is there and I am here and you are there, and just as soon as you are saying it rapidly and Dr. G is beginning to understand that he is here and you are there, still talking rapidly, you slowly change from this [pointing at A] chair to that [pointing at B] chair, but keep his attention on your explanation of how each of us can think be here and be there or be there and think be here and when he sees you sitting there, and thinks 2 Notevole eccezione è il saggio di Fabbri (2000) sulla catarsi. Il testo di Eugeni sulla “relazione d’incanto” (2002) non problematizza le pratiche ipnotiche in quanto tali, ma trasporta assetti categoriali propri al discorso ipnotico nell’analisi di diversi aspetti dell’enunciazione filmica. 78 you are here, gently return, still explaining and even laughing at him for thinking you are there when you are here, and then not recognizing that you are there while he is still thinking you are here. [Erickson, 1964, p. 194, corsivo nel testo] A quel punto Miss K, già precedentemente ipnotizzata, esegue il compito affidatole ripetendo a velocità crescente quello che sembra un innocuo gioco di parole, rivolta al Dr. G, personaggio decisivo nell’evoluzione per certi versi drammatica della situazione. Quest’ultimo inizia infatti a sperimentare progressivamente nausea, capogiro e vertigine fino a non vedere, da quanto si riuscirà a ricostruire ex post, che Miss K cambia di sedia mentre recita il brano in questione (allucinazione negativa). Lo sviluppo sorprendente dell’esperimento non sembra però casuale, sorpresa forse maggiore, dato che Erickson l’ha ripetuto più volte, ottenendo risultati simili, ovvero constatando verbalizzazioni sovrapponibili dell’esperienza patita dai soggetti, che riportavano senso di nausea, capogiro, vertigine. Il brano appena citato si sostiene su un testo preparato a tavolino, una sorta di canovaccio, che assume lo statuto di un testo notazionale attentamente predisposto ed eseguito sulla scena. Siamo allora già in grado di esemplificare una differenza di base tra testualità nella sua accezione più classica e pratica. Un conto, infatti, è il testo-canovaccio, purificabile dalla presenza della situazione a tre, isolabile e considerabile nella sua dimensione semio-linguistica, un altro è valutare l’immersione del testo nel corso di azione specifico, con il problema di decidere cosa rendere pertinente della situazione, come allestire un insieme significante. La sfida semiotica è ragionare sulle differenze specifiche tra due punti di vista potenzialmente complementari e capire se si possa avere o meno una presa metodologica su alcune dimensioni epistemologicamente rilevanti della pratica, fino a costituirla eventualmente in quanto oggetto di sapere semiotico. Un problema classico di frontiera disciplinare, che accosta (pericolosamente) la semiotica alla psicologia sociale o alla microsociologia, deriva dalla rilevanza epistemologica e dalla contemporanea inaccessibilità metodologica del vissuto degli attori nella pratica in corso. La pronuncia del testo, nel nostro caso, si appaia a un’attività di semantizzazione temporalizzata da parte degli altri attori interagenti: nel nostro esempio, gli effetti somatico/esperienziali constatabili sul Dr. G non sono riducibili a effetti di senso del testo, dato che comunque prevedono lo snodo precipuamente semiotico di una donazione di senso, per di più chiaramente incarnata3. In questo primo senso la pratica si discosta nettamente dalla testualità che vi compare come parte di un tutto più ampio. Rimane aperta allora la domanda centrale: il vissuto vertiginoso è o meno una costruzione di senso da comprendere nella sua relazione all’induttore principale, la parola detta? La risposta a questa questione insistente, comparsa più volte e in forme 3 Sulla differenza tra effetti di senso e effetti di vita, cfr. Basso (2002, cap. 4). 79 diverse nella tradizione semiotica4 e antropologica5, può essere abbozzata all’incrocio di due percorsi che intraprenderemo separatamente, uno più generale di carattere teorico-metodologico e un secondo più specifico, inerente alle pratiche ipnotiche ericksoniane. 1. PER UNA SEMIOTICA DELLE PRATICHE La prima mossa che faremo è di spostare il punto di vista dall’attore al complesso della situazione semiotica. A questo livello di osservazione, produzione di senso e interpretazione diventano due ingredienti a pari titolo, che presentano il vantaggio di una visibilità pubblica. L’ipotesi epistemologica è quella di una costitutiva intersoggettività della vita culturale: se le culture identificano e nominano pratiche particolari è perché un orizzonte di senso sembra stabilizzarsi, configurando le semantizzazioni degli attori come parte di un tutto leggibile. Temperando l’apertura di senso dovuta alla presenza di più enunciazioni che possono costantemente mettere in variazione il valore dell’agire, la stabilità di una pratica diventa un’ipotesi di lavoro che permette di costituire un insieme significante con una sua taglia specifica. La dimensione pubblica del senso in una pratica è particolarmente rimarcata da alcuni autori ponte tra sociologia e semiotica, come Charles Goodwin, secondo cui The necessity of social action having this public, prospectively relevant visibility, so that multiple participants can collaborate in an ongoing course of coordinated action, casts doubts on the adequacy of any model of pragmatic action that focuses exclusively on the mental life of a single participant such as the speaker. Within this process the production of action is linked reflexively to its interpretation. (Goodwin 2000, pp. 1491-1492) Su un simile versante sembrano procedere le recenti proposte di Fontanille (2004b, 2004c) in materia di pratiche. È un dominio che nelle sue ricerche si colloca come ultima tappa di un lungo percorso di problematizzazione della 4 5 Vedi ad es. il cap. 5 di Marrone (2001) sulla relazione tra testo architettonico-spaziale e pratiche sociali di vandalismo. Pensiamo alla grande fioritura di letteratura sul caso dell’efficacia simbolica lévi-straussiana (1949), che sembra ruotare proprio intorno alla dialettica tra il testo-canto e la pratica sciamanica complessiva. Le rilevazioni critiche di Severi (2000), per non citare che un esempio, aprono un fronte di pertinenze nuove rispetto a quanto notava Lévi-Strauss sul momento esecutivo del canto, fronte che integra in un insieme significante decisamente più complesso il dispositivo spaziale, la sintassi figurativa del fumo odoroso delle fave di cacao che avvolge la partoriente e infine lo statuto peculiare del locutore-sciamano. 80 discorsività, con un progressivo allargamento di orizzonte di indagine semiotica alla percezione, sub specie “modi del sensibile”, e alla corporeità, sub specie “figure del corpo”. Ricostruiamo per punti alcuni passaggi significativi delle proposte fontanilliane: i) le pratiche sono uno dei possibili livelli di costruzione analitica interna a una semiotica delle culture, laddove si tenti di articolare una gerarchia delle semiotiche-oggetto, dal segno al testo (nel senso goodmaniano di testo notazionale), passando per gli oggetti e le pratiche, fino alle forme di vita e alle culture nella loro globalità. Su cosa si basa questa distinzione di strati? Non è tanto un tentativo di riconoscere livelli di generalità crescente, quanto una presa di posizione epistemologica che espliciti i diversi tipi di esperienza analitica del semiologo: un conto è l’esperienza del segno come unità minima (operazioni di segmentazione, identificazione, ecc.), un altro è il testo come totalità (prensione globale), altro ancora è l’esperienza di corpi in interazione (aggiustamento tra enunciazioni incarnate). In particolare, al livello delle pratiche: a) non accediamo direttamente a una testualità, se non come dato inglobato dalla pratica (ad es. pratiche di fruizione di testi); b) riconosciamo un’eterogeneità generalizzata, sia sul piano enunciazionale (pluralità di attori incarnati, di istanze di enunciazione delegate, ad esempio negli oggetti), sia a livello di modalità semiotiche significanti, di cui andrà decisa la pertinenza semiotica, ossia il contributo alle forme di valorizzazione proprie alla pratica; c) imputiamo una stabilità relativa, solamente strategica, alla “situazione semiotica” definita allora come “quella configurazione eterogenea che raccoglie tutti gli elementi necessari alla produzione e all’interpretazione della significazione di un’interazione sociale” (Fontanille, 2004b, p. 7, trad. nostra). L’intersoggettività, o meglio l’intercorporalità di umani e cose, è così un dato di partenza nell’esperienza di corsi di azione e quindi nell’assetto di una pratica. ii) Come conseguenza di questa postura epistemologica, il livello proprio alle pratiche è trattato metodologicamente come costituzione progressiva di una testualità attraverso un processo di “risoluzione delle eterogeneità”. Se è vero che le pratiche non si offrono come testi, possono tuttavia diventarlo sotto certe condizioni. In questo senso Fontanille rivendica una continuità di fondo con il progetto semiotico greimasiano immanentista, ponendosi di fatto in una via di mezzo tra chi procede per contiguità deproblematizzata tra comportamenti e testualità6 e coloro che invece rompono nettamente tra testualità e pratiche7. Le pratiche sono qui un testo al futuro: l’esito del percorso dell’analista è arrivare a dispiegare e correlare dispositivi espressivi e forme del contenuto specifiche 6 7 Si veda l’eredità landowskiana (cfr. Landowski 1989). Pensiamo alla teoria delle pratiche di Rastier (2001b) o alla federazione di una semiotica del testo con una semiotica delle pratiche culturali proposta da Basso (2002, cap. 0). 81 alla situazione semiotica considerata. Ciò che conta davvero è allora il processo stesso di costituzione della testualità, il modo in cui si lavora sia su valori in trasformazione attribuibili a un piano del contenuto (assetto enunciazionale, narratività, modalità, aspettualità, passioni, ecc.), sia sulle forme di iscrizione di contenuti in configurazioni espressive. Mentre la semiotica greimasiana si è sviluppata concentrandosi principalmente sulla gerarchia interna al piano del contenuto, una semiotica delle culture ridà peso all’assestarsi della funzione semiotica, problematizzando in modo decisivo il costituirsi di un piano dell’espressione. Una conseguenza di quanto detto finora è che Fontanille, imputando l’eterogeneità all’oggetto di studio, afferma - per ora senza trarne tutte le conseguenze - che la posta in gioco di una semiotica delle pratiche è incontrovertibilmente anche ermeneutica, dato che l’analista trova un ordine di complessità del senso non dissimile da quello che fronteggiano gli attori interni alla pratica. iii) Dal punto di vista dei risultati descrittivi, le prime categorie esplorative che mette in gioco Fontanille sono scena e strategia, come due modi di cogliere una pratica8: la scena è colta a partire dal reperimento dei dispositivi enunciazionali stabili (testi interni e oggetti in particolare), la strategia a partire dall’aggiustamento delle diverse enunciazioni nel tempo e rispetto all’intorno semiotico. È chiaro, per prendere un paio di esempi agli estremi, che in una conversazione casuale la dimensione scenica tende a scomparire a favore di una dimensione strategica dominante, dato che ogni singola enunciazione rimette potenzialmente in variazione qualsiasi valore enunciato. La pratica dell’andare al cinema, al contrario, almeno nel suo aspetto performativo della visione, avrà una dimensione scenica predominante, con i ruoli ben marcati e rinforzati dalla distribuzione topologica (spazio spettatoriale, spazio di proiezione, spazio di attraversamento, ecc.) a discapito di un aspetto strategico, ampiamente “depositato” nell’allestimento scenico degli spazi di fruizione (la presenza di un grande vano porta bicchieri, lattine o confezioni di pop corn sulle poltrone di ultima generazione rappresenta l’iscrizione in oggetto di una strategia di aggiustamento non conflittuale di due possibili programmi in parallelo intrapresi dallo spettatore, nutrirsi e vedere). Aggiungiamo due note di commento al percorso di Fontanille: i) se le pratiche sono trattate come testi, ciò è possibile perché la testualità stessa è stata profondamente messa in variazione nella direzione di un costruttivismo più radicale. La rivendicazione di un empirismo semiotico, infatti, a partire da una datità materiale dei testi, è stata spesso confusa con una presunta trasparenza del significante che garantiva un accesso ai contenuti, posta in gioco predominante di una semiotica greimasiana. Il contatto prolungato con testi non verbali e sincretici, in cui l’opacità del significante diventa spesso la sola evidenza, ha invitato a risoppesare di8 Per una prima applicazione condotta sui manifesti urbani cfr. Fontanille (2004c). 82 versamente lo statuto della funzione semiotica nell’analisi semiotica. Valga su tutti l’efficace sintesi di Rastier, per cui Enfin, le signifiant n’en est pas le point de départ, malgré les théories inférentielles ou associationnistes, car il a lui même à être reconnu. En d’autres termes, les relations qui établissent le sens vont de signifié en signifié, aussi bien que du signifié vers le signifiant. (Rastier, 2001a, p. 152). Lo sviluppo di una retorica del visibile attenta alle conseguenze ingenerate dal considerare la pluralità dei materiali semiotici convocati nei testi9 e la problematizzazione della figuratività10, in grado di manifestare una propria autonomia significante e in particolare di essere letta a partire dal contributo dinamico e tensivo di valenze concorrenti che invitano a installare una semiosi percettiva al cuore del livello più “superficiale” del percorso generativo, sono altrettanti indici di come la testualità stia diventando davvero ciò che viene interamente ricostruito dall’analista, cercando di evacuare o di resistere a qualsiasi ingenuità fenomenologica. La testualità non è più un dato né un terreno omogeneo in cui compiere le operazioni dell’analisi: nel momento in cui si problematizza la relazione tra espressioni e contenuti ci si trova ad affrontare lo stesso processo di risoluzione delle eterogeneità proprio al livello delle pratiche. In sintesi: la differenza è di taglia e di esperienza presupposta dell’analista, ma non di metodo. ii) Il diverso modo di caratterizzare la testualità in relazione alle pratiche implica una revisione delle caratteristiche indicate a suo tempo da Ricœur come perno per allargare il paradigma testualista all’interpretazione dell’azione sociale ovvero al campo delle scienze umane nel loro complesso11. Tentando di gettare un ponte ambizioso tra testualità (intesa come iscrizione materiale staccata dall’evento di parola, deposito inerte predisposto alle operazioni interpretative dell’ermeneuta) e azione (intesa come prassi significante e quindi come enunciazione di senso a tutti gli effetti), Ricœur indicava alcuni tratti pertinenti attribuibili all’azione per farla rientrare nella dialettica di comprensione e spiegazione, ovvero per aprirla al metodo ermeneutico. Il filosofo si allineava senz’altro a una prospettiva semiotica dal momento che riconosceva nell’azione non solo una dimensione di produttività enunciazionale, ma anche la capacità di costituire delle strutture proposizionali (azione come manifestazione di una sintassi narrativa interattanziale), di dispiegare un 9 10 11 Non a caso l’eterogeneità del visibile è il tema dei colloqui internazionali di semiotica visiva promossi dalle università di Bologna, Limoges e Liegi. Vedi il cap. 4 di Figure del corpo (Fontanille, 2004a). L’influenza teorica di quel saggio è stata senz’altro maggiore per l’antropologia più che per la semiotica. A parte la nota ripresa geertziana ricordiamo il lavoro di terreno di Lambek alle isole Mayotte (1981) e la discussione critica su cui è centrato il collettaneo di Bibeau e Corin (1995). 83 mondo (apertura ad una figuratività propria all’azione, che Ricœur indicava in termini di opera aperta), di modificare l’altro (dimensione illocutiva). Si capisce tuttavia come Ricœur, prendendo interamente in conto la prospettiva che va dall’attore verso l’interazione con il mondo e con gli altri, non valorizzi la costitutiva intersoggettività delle pratiche e del loro senso. Muovendo dal locale al globale non sembra preoccuparsi dell’interazione di diverse semiotiche nella costituzione dell’insieme significante che chiamiamo pratica. L’azione in soggettiva è per lui sufficiente a individuare un piano pertinenziale sufficientemente produttivo dal punto di vista interpretativo, lasciando in ombra le tensioni interne all’eventuale situazione semiotica complessiva. La possibilità di fare dell’azione un testo documentale, in effetti, è per lui il ritrovamento di un’omogeneità prospettica sicuramente aperta all’eterogeneità interpretativa ma non altrettanto, ci sembra, alla pluralità di linguaggi che le sono costitutivi. 2. LE PRATICHE IPNOTICHE, QUADRO D’INSIEME Riprendendo la questione iniziale sullo statuto da assegnare all’esperienza dei soggetti in situazione, si osservi come nelle pratiche ipnotiche, similmente ad altri generi di pratiche, il vissuto dei soggetti non è solo una presenza implicita della situazione, ma anche una posta in gioco esplicita dell’agire dell’ipnotista, se non altro perché il corpo viene costantemente convocato in discorso, che “parla” di sensazioni e cognizioni: c’è insomma una riflessività della pratica rispetto a quello che vi accade. Il ripiegamento della pratica, che incrementa da un certo punto di vista la complessità situazionale, ci permette però di muoverci in modo simile a quanto è stato fatto in semiotica testuale nel momento in cui si è cercato di dare piena dignità allo studio dei modi della percezione: si sceglievano quei testi che la tematizzavano esplicitamente, luoghi da cui iniziare a individuare delle configurazioni categoriali che potessero spiegare precisi fenomeni testuali. Trasponendo, se le semantizzazioni dei soggetti sono uno dei principali problemi delle pratiche, cominciamo proprio da quelle che le integrano attivamente al proprio interno. Per sviluppare questo punto vale la pena introdurre criticamente alcuni aspetti propri alle pratiche ipnotiche e in particolare alla loro declinazione ericksoniana: il fine è quello di tratteggiare meglio lo sfondo su cui si collocheranno le nostre elaborazioni analitiche ulteriori. Vorremmo precisare in che senso questo tipo di pratiche siano un terreno favorevole per mettere alla prova alcuni aspetti sia metodologici (processo di risoluzione delle eterogeneità), sia epistemologici (stabilità relativa delle pratiche), rilevando le tensioni interpretative che animano da dentro e da fuori l’ipnosi di Erickson. L’impresa ericksoniana può essere caratterizzata fondamentalmente come elaborazione di un’ipnosi sperimentale a vocazione scientifica e terapeutica, non essendo, quindi, ipnosi da palcoscenico. Ma cosa significa per una pratica interattiva che si apre all’incontro con l’altro, testimoniare di un approccio scientifico? Lungo questo interrogativo la nostra indagine recupera un discorso 84 ermeneutico proprio a quella parte dell’epistemologia contemporanea che ci offre una versione quantomeno interessante della storia delle pratiche ipnotiche, di cui ne rielaboreremo le aperture più o meno espressamente semiotiche. Ci riferiamo principalmente al lavoro di Isabelle Stengers, che ha lungamente collaborato con l’ipnotista Léon Chertok nel quadro della sua indagine complessiva sulle scienze moderne12. L’epistemologa belga ha recentemente pubblicato una serie di saggi13 in cui tenta di raccontare in che modo l’ipnosi possa o meno essere intesa in quanto pratica scientifica, chiedendosi quale sia il significato delle tecniche ipnotiche moderne, anche in relazione a tecniche “non modernizzate”. I principali esiti interpretativi cui perviene la Stengers possono essere riassunti in due punti: i) ciò che oggi chiamiamo ipnosi raccoglie pratiche molto diverse tra loro, con un tronco genealogico comune che prevede sostanzialmente il passaggio dal magnetismo mesmeriano al sonnambulismo ottocentesco, all’ipnotismo charcotiano fino all’ipnosi moderna14. In questa serie di passaggi una costante è la forte vocazione scientifica, che sigla infine un’alleanza tra ipnosi e laboratorio in quanto luogo di sperimentazione scientifica, ereditandone i problemi costitutivi. Le pratiche ipnotiche sono state sempre minate dal dubbio di esistenza, incertezza che ha spinto a moltiplicare le prove che certificassero la presenza di fenomeni ipnotici da un lato e che mettessero in scacco le accuse di simulazione, di azione di fluidi magnetici, di manipolazione dell’ipnotista, dall’altro. Rispetto alla questione della simulazione sempre possibile dei comportamenti ipnotici, ricordiamo l’esemplare tentativo di Chertok di produrre bruciature che non fossero simulabili a piacere, laddove i comportamenti catalettici, seppur difficilmente, possono essere simulati. La prova di esistenza è il tentativo protratto di provocare delle impronte del fenomeno, in una connessione indicale con l’evento ipnotico in grado di costituirlo come indifferente alle condizioni di messa in scena (irriducibilità ad un regime finzionale). Non è un caso se oggi il termine ipnosi sostituisce “ipnotismo” e “sonnambulismo”, assumendo volutamente un’aura di scientificità dal momento che intende riferirsi ad un presunto “stato” del soggetto, al di là della condizione sperimentale. ii) Il tentativo di permettere all’ipnosi di marcarsi, di fissarsi, di lasciare impronta di sé (si potrebbe dire: di fare testo) è sostanzialmente fallito. Manca un “marcatore” laboratoriale del fenomeno. Le marqueur assure la stabilité d’une “convention” sans la quelle tous et chacun seraient vulnérable à l’accusation qu’ils font peser eux-mêmes sur 12 13 14 Ricordiamo le parallele collaborazioni con Prigogine per la fisica e con Bansaude-Vincent per la chimica. Chertok è stato anche il collaboratore d’eccellenza per l’indagine stengersiana sul rapporto psicanalisi-scienza. Cfr. Stengers 1998 (introduzione al testo di Melchior), 2001, 2002. Per una storia problematizzata dell’ipnosi, si veda l’ormai classico lavoro monografico di Méheust (1999). 85 les “charlatans”: participer à une entreprise qui profite de la crédulité du public et de la demande d’aide venant de ceux qui souffrent. (Stengers 2002, pp. 118-119). Il laboratorio è luogo di convocazione di una comunità scientifica: la necessità di marcare il fenomeno è una necessità in primis deittica, dato che bisogna raccogliere la comunità dei ricercatori intorno a qualcosa che sia la stessa cosa per tutti, indipendentemente dal modo in cui questo qualcosa sarà poi descritto o messo in variazione. La Stengers da un lato mostra molto bene come la storia della pratica ipnotica sia una serie di tentativi mancati di ridurre il fenomeno a qualche cosa d’altro (l’inconscio, la sottomissione, la suggestione, un quarto stato psicofisiologico accanto a veglia, sonno e sogno), dall’altro evidenzia l’indissociabilità dell’ipnosi dalle condizioni di volta in volta locali di messa in scena, attraverso un dispositivo sempre particolare15. Le tecniche ipnotiche non sono oggi nella condizione di rivendicare un posto nella classe delle tecniche modernizzate dalla scienza. Questo fallimento, tuttavia, non implica necessariamente la caduta di interesse o l’abbandono del loro esercizio, che anzi si mostra promettente nella possibilità di innescare un divenire identitario dei protagonisti. Si tratta piuttosto di delineare il posto per un paradigma più ermeneutico, che consideri la produttività della semiosi nel quadro delle pratiche ipnotiche. 2.1. Il caso Erickson Come si colloca Milton Erickson rispetto a questa tradizione problematica? Possediamo a tutt’oggi un vasto corpus di testi molto diversi tra loro (trascrizioni, video, commenti a osservazioni partecipanti, ecc.) che testimoniano a diverso titolo dell’attività dell’ipnotista americano, il quale ha sempre promosso un monitoraggio del proprio agire, accettando finanche la presen15 16 L’autrice, che qui lasciamo, prosegue tuttavia nella sua indagine, chiedendosi quale sia l’interesse di questo fallimento. La ragione sta nel suo coinvolgere le pratiche laboratoriali su soggetti umani, capaci di interessarsi alle condizioni della messa in scena, anche (e soprattutto) nella forma della compiacenza. È così che le categorie della psicologia, “psichismo”, “individuo”, “volontà”, ecc. sono messe alla prova di una relazione a due piuttosto particolare e costitutivamente finzionale. Un esempio notevole è il trattamento che l’ipnotista Delboeuf fa della volontà. Contemporaneo di Freud, nota con i suoi esperimenti: “Quand on met le bras du sujet en catalepsie et qu’on lui ordonne d’essayer de le baisser, il ne fait nullement les efforts appropriés. Au contraire, il fait agir les muscles antagonistes, et fait ainsi semblant de ne pouvoir baisser les bras. C’est une catalepsie simulée et il est la propre dupe de sa simulation. C’est dans ce sens que je dit qu’il se prête complaisamment à jouer la catalepsie. Cette complaisance est inconsciente� L’hypnotisme n’annihile pas, il exalte la volonté” (Delboeuf 1993, p. 368, cit. in Stengers 2002). Se la sottomissione è passiva, la compiacenza è segno di volontà, anche inconscia. La complessità vertiginosa della situazione vede in gioco un corpo messo a significare nella sua capacità di osservare dei comportamenti e di assumerli in modo variabile. Ad Erickson va ascritto il merito di aver evidenziato il paradosso dell’osservatore partecipante, che a volte finisce ipnotizzato al solo assistere a delle sedute, manifestando amnesia di quanto accaduto. L’ipnosi è pratica contagiosa. 86 za di terzi16. Possiamo affermare che il macro-testo ericksoniano è la fonte che ha permesso di elaborare un discorso sulla sua pratica, di estrapolare delle regolarità a partire dalle singolarità della sperimentazione. Il tentativo è evidentemente quello di stabilizzarne il senso, al fine di rendere la pratica riproducibile, trasmissibile (scientifica) e infine terapeutica. La coppia riproducibilità/trasmissibilità ci ricorda che gli attori responsabili dei dispositivi di induzione mirano a gestire le variabili rilevanti del processo ipnotico e rappresenta pertanto l’indice di una stabilizzazione, per quanto precaria. È noto che la rete costituita intorno alle pratiche ericksoniane assomma ormai istituti di formazione su scala mondiale, alleanze con diverse psicoterapie o trattamenti medici, convegni internazionali, pubblicazioni, ecc. Si tratta, come direbbe Bruno Latour17, di una rete lunga: pur non essendo di per sé prova alcuna di scientificità, significa quantomeno che il controllo locale dell’agire dell’ipnotista presenta una promessa di regolarità. Per Erickson, “L’ipnosi è essenzialmente una comunicazione, rivolta a un paziente, di idee e concezioni, in modo tale che egli sarà estremamente ricettivo alle idee presentate e quindi motivato a esplorare le potenzialità di controllo delle risposte e del comportamento psicologico e fisico possedute dal suo corpo” (Erickson, Rossi 1979, p. 115). La sua definizione, per quanto ridotta e lacunosa, ci fa capire come l’ipnotista sia particolarmente interessato al modo in cui la persona interpreta quanto lui dice e alla qualità specifica di questa attività di semantizzazione: l’ipnosi è gestione in presa diretta degli effetti di senso secondo un circolo di auto-osservazione sempre attivo. Il lavoro di Erickson è semioticamente rilevante proprio perché tenta di rendere tracciabile e modellizzabile l’attività di semantizzazione di un corpo enunciante, a partire da una centralità della parola detta. La sua è infatti un’ipnosi prevalentemente verbale, o meglio, fa della parola il perno decisivo di manipolazione e controllo della situazione, un operatore potente entro i labili confini della pratica. Purtuttavia, leggendo i testi teorici di Erickson si può rimanere perplessi dal continuo mescolamento di una prospettiva genericamente psicologica, che tenta di render conto delle operazioni cognitive dell’altro e fa dell’ipnosi uno stato del soggetto18, e di una visione più relazionale e pubblica, centrata sulle operazioni compiute dall’ipnotista. La prassi del soggetto agente è l’unica dimensione davvero accessibile dal suo punto di vista, con la conseguenza di pensare l’ipnosi non più in quanto stato soggettivo ma come rapport, relazione affettiva ipnotista-ipnotizzando all’interno di un dispositivo allestito localmente. 17 18 Cfr. l’ormai classico Latour (1987). Si pensi ad esempio alla sistematizzazione del procedimento di induzione con l’individuazione delle cinque tappe canoniche: fissazione dell’attenzione, depotenziamento degli abituali schemi di riferimento, ricerca inconscia, processo inconscio e risposta ipnotica. È un processo colto unicamente dal punto di vista del destinatario dell’azione. 87 È questa seconda modalità interpretativa che è stata recentemente rilanciata, approfondita e sistematizzata da Melchior (1998), all’interno di un paradigma comunicazionale dell’ipnosi, focalizzato sul rapporto a due colto dalla soggettiva del terapista-ipnotista. Metodologicamente compatibile con una prospettiva semiotica, Melchior indirizza la propria attenzione esclusivamente sul fare dell’ipnotista e in particolare sulla “retorica” alla base della sua parola, ridefinendo l’ipnosi come operatore di recadrage. Il concetto di recadrage è leggibile come tentativo di identificare diversi regimi di semantizzazione dell’esperienza: quando compare sulla scena interattiva, il termine “ipnosi” funge da significante vuoto che valorizza un’esperienza “altra” qualsiasi rispetto a quella ordinaria19, nel segno di una mobilitazione continua del quadro di valorizzazione di quanto sta accadendo al soggetto. Evacuata una definizione sostanzialista, la tecnica ipnotica diventa una pratica comunicativa che manipola non solo il rapporto tra sé e sé, tra sé e gli altri, tra sé e mondo, quanto soprattutto la cornice interpretativa del proprio modo di dare senso, da cui l’impressione esterna di una capacità “magica” di modificare radicalmente la frontiera tra propriocezione e esterocezione (vedi il caso della voce dell’ipnotista percepita come una voce interna al soggetto). Quale peso dare, da un punto di vista semiotico, alle teorizzazioni degli attori interni alla pratica? Questa domanda non è la banale riedizione per le pratiche del ruolo delle poetiche o delle opinioni dell’autore nell’analisi del testo classica. Possiamo affermare che l’insieme significante di partenza, ciò che viene mirato dall’analista come gomitolo di isotopie e iscrizioni (dove l’intrasparenza regna sovrana), è un campo saturo, composto anche dalle suddette teorie, che informano l’agire dei soggetti, partecipano alla costruzione di visibilità e costituiscono quindi una messa in prospettiva dei valori in gioco, delle strategie adottate, della percepibilità stessa della situazione20. Dal punto di vista metodologico, dunque, l’insieme significante lavorabile comprende anche le teorie degli attori. In questo caso specifico, inoltre, la necessità di rendere trasmissibile e controllabile lo sviluppo dell’interazione rappresenta di fatto una possibilità per il semiotico di ritrovare un processo di risoluzione delle eterogeneità delegato sull’ipnotista, come attore interno che gestisce proprio questa moltiplicazione di sistemi semiotici concorrenti, al fine di regolarne l’assestamento reciproco. Così come l’enunciazione è stata studiata a partire dall’enunciazione enunciata per poi rimontare verso 19 20 Una definizione “retorica” di questo tipo incontra inevitabilmente le critiche relative alla presunta “ordinarietà” dell’esperienza (comparabili al classico dibattito su letterale e figurato o su norma e devianza). In verità Melchior non è interessato a cosa costituisca una fantomatica ordinarietà, quanto a rendere possibile localmente l’apertura di uno spazio allotopico su uno sfondo isotopico, spazio che agisca da perno metamorfico per il soggetto. Su questo punto, vedi l’interessante discussione dell’etnopsichiatra Nathan (1988, introduzione) sullo statuto costruttivo delle diverse teorie psicanalitiche, che orientano diversamente perfino la micropercezione sintomatica e si pongono quali costituenti “mitiche” del campo interattivo. 88 l’idea di un’enunciazione in atto che lascia traccia di sé nell’organizzazione del materiale e non solo nell’allestimento di simulacri, similmente il processo di risoluzione delle eterogeneità è incassato nella pratica nel modo in cui l’ipnotista pensa e esplicita il proprio modo di gestire il senso dell’interazione. L’ipnotista è un semiotico naturale delle pratiche. 3. RIPRESA DELLA TECNICA DI CONFUSIONE È venuto finalmente il momento di tornare al nostro esempio iniziale per esplorare più analiticamente alcuni dei problemi metodologici e descrittivi che ci pone, iniziando proprio dalla divaricazione tra il testo notazionale interno e il corso di azione, per quanto possiamo comprenderlo dalla descrizione ericksoniana. L’insieme della tecnica, va detto, prevede tre fasi principali, di cui il brano iniziale corrisponde alla seconda. All’inizio, dopo la disposizione degli attori, Erickson comincia a parlare, rivolto a Miss K, pronunciando frasi costruite come le seguente: Yet, I want you to know that that chair [pointing at A] you are in is here to you [pointing at B] is there, but to Dr. G this chair [A] is here and that chair [B] is there, but as we go around the square, I am here and you are there, but you know you are here and you know I am there (Erickson 1964, p. 11, corsivo nel testo). La seconda fase è quella del mandato a Miss K, la terza comprende la doppia performance di Miss K, che da un lato ripete quanto le ha detto Erickson, dall’altro si sposta da una sedia all’altra, mentre il Dr. G esegue la sua performance cognitiva e passionale. Isoliamo in un primo tempo il testo canovaccio riportato all’inizio, del quale possiamo notare la tensione interna, a suo modo classica, tra un piano dell’enunciato e un piano dell’enunciazione, manifestato principalmente e in modo significativo dall’uso dei deittici. Il piano dell’enunciato è costituito principalmente da enunciati di stato, locativi (“x è qui”, “y è là”) e da enunciati che tematizzano un fare cognitivo (“riconoscere”, “pensare”) imputato di volta in volta ai diversi attori co-presenti che coprono successivamente il ruolo di soggetto attanziale. L’enunciato si presenta come un campo affermativo che si conclude con la negazione del fare cognitivo attribuito a G, il quale “non riconoscerà” il compiersi dell’unica trasformazione pragmatica dell’enunciato, lo spostamento di Miss K dalla sua sedia a quella di fronte a lei. Abbiamo quindi una trasformazione pragmatica e una cognitiva: sembra essere quest’ultima a definire il perno valoriale dello sviluppo narrativo. La connessione tra la parte affermativa e quella negativa, si noti, non è di natura logico-causale, dato che non ritroviamo alcuna figura di anti-soggetto: il fare cognitivo, all’interno del testo, non incontra ostacoli e resistenze di alcun tipo. 89 Si perviene semplicemente alla sua negazione senza spiegare ulteriormente il passaggio dalla prima fase alla seconda. Il piano dell’enunciato risulta solo parzialmente autonomo rispetto all’affacciarsi dell’enunciatore, al quale continuano a rinviare i deittici e i pronomi personali, sullo sfondo di una temporalità sempre al presente. Rileviamo quindi una doppia struttura della persona, una relazione io/tu che concerne Erickson e Miss K (embrayage enunciazionale), e un egli per il Dr. G (debrayage attanziale enunciativo). Il discorso muta costantemente il soggetto frastico, spostando a rotazione la prospettiva da Erickson a Miss K al Dr. G. Ciascun soggetto è convocato in quanto opera un fare cognitivo di valutazione delle posizioni rispettive di Miss K e della sedia vuota. Gli spostamenti prospettici, collocabili a un livello di testualizzazione (decisione di quale fare sintattico selezionare al momento della realizzazione linguistica), si accompagnano a un uso insistito dei deittici che rinviano alla posizione dell’enunciatore, oltre a costituire un’evidente isotopia ritmica e assonante dal punto di vista espressivo (“here” e “there”). Sintetizzando, rileviamo molteplici tensioni interne al discorso, in primo luogo tra: i) un punto di vista stabile dell’osservatore enunciazionale, deciso linguisticamente dai deittici (embrayage cognitivo); ii) una delega di un fare cognitivo-osservativo tematizzato sul piano dell’enunciato (débrayage cognitivo). Un secondo perno tensivo è tra: i) uno spostamento continuo della prospettiva narrativa, ogni enunciato selezionando attori diversi in posizione di soggetto; ii) un’identità di enunciato circolante (nelle due varianti di enunciato di stato e di enunciato di un fare cognitivo di un soggetto). Un terzo livello tensivo è tra: i) la duplicità di spazi indicati (le due sedie) e ii) l’assonanza linguistica dei termini che li designano (“here” e “there”), che ne mina la differenza. L’analisi del testo rileva quindi alcune tensioni semantiche che lo abitano, ma poco ci dice sugli effetti che questo è in grado di scatenare una volta immerso nel corso di azione, dal momento che non sappiamo ancora nulla dell’arrangiamento spaziale e del tipo di esecuzione scelta (dove la velocità di pronuncia sembra avere un suo ruolo), tanto per citare due variabili immediatamente rilevanti. Abbiamo quindi bisogno di costruire un secondo testo che consideri la globalità della situazione semiotica, aprendo lo sguardo alle altre dimensioni con cui il piano verbale entra in relazione, riconfigurando l’insieme delle pertinenze. A partire dai valori semantici che vengono irradiati dal testo, che funge metodologicamente da enzima coagulante l’eterogeneità situazionale, possiamo rendere pertinenti almeno tre altre dimensioni semiotiche con cui la parola entra in relazione (complessivamente contrastiva, come vedremo): i) in primo luogo la morfologia spaziale adibita, piuttosto stabile alle apparenze (salvo “mettersi a girare” per il Dr. G al momento della vertigine) e costituita dalla triangolazione dei corpi e dalla disposizione in quadrato delle sedie, che assumono però un orientamento particolare (vedi fig. 1). 90 Fig. 1. Il dispositivo spaziale nella tecnica di confusione. Notiamo come la disposizione delle quattro sedie agli angoli di un quadrato immaginario con i tre attori seduti costituisca in realtà uno spazio potenzialmente complesso, la cui lettura morfologica dipenderà anche dalle valorizzazioni promosse dal discorso. La circolazione della parola tra attori umani configura uno spazio triangolare di relazione diadiche (prima da C a A, quando Erickson parla a Miss K, non rivolta a lui, e poi da A a D, quando Miss K parla al Dr. G). Le sedie disegnano uno spazio geometrico elementare, un quadrato immaginario in cui la frontalità di Miss K e della sedia vuota sembra costituire un asse scenico in senso teatrale (spazio della performanza, lo spostamento di K), parzialmente debraiato rispetto alla posizione parallela e spettatoriale di Erickson e del Dr. G (che coprono nel testo i ruoli rispettivi di destinante manipolatore e sanzionatore). La disposizione spaziale complessiva andrebbe a costituire la dimensione scenica della pratica, volendo riprendere l’opposizione tra scena e strategia introdotta precedentemente. Prima osservazione metodologica: il testo recitato tematizza lo spazio circostante, ci parla di posizioni, e questi posti non solo sono presenti ma manifestano altre proprietà significanti, non esplicitate dal testo: l’orientamento e le distanze reciproche equilibrate e omogenee (possiamo parlare di spazio compatto). Se Miss K fosse seduta frontalmente a Erickson o al Dr. G, o se le sedie fossero 91 disposte su uno spazio circolare, si presume che gli effetti sarebbero diversi, probabilmente non altrettanto clamorosi21; ii) altra dimensione rilevante è quella della gestualità indessicale dei protagonisti, ovvero il puntare di Erickson verso l’una o l’altra sedia. In particolare, possiamo notare una relazione cooperativa tra il verbale e il gestuale-indicale, che raddoppia in certi punti e rafforza (in termini di assunzione enunciazionale) il contenuto discorsivo. Il gesto è usato tipicamente in corrispondenza di un deittico linguistico, permettendo una traduzione tra una semiotica discorsiva e una semiotica del mondo naturale. In questo senso la gestualità fa da ponte tra il piano del contenuto verbale e la morfologia spaziale, compartecipando alla costituzione di un senso integrato22; iii) in terzo luogo riconosciamo la presenza di altre istanze di semantizzazione rispetto all’esecutore del testo, altri attori/enunciatori in scena, il cui eventuale ruolo per una semiotica delle pratiche è tutto da esplicitare, in particolare in relazione al portato di una corporeità evidentemente sollecitata. Si tratta per noi di mettere alla prova i modelli esistenti di semiosi incarnata, per vedere se offrono delle possibilità euristiche rispetto alla situazione considerata. Due considerazioni per proseguire: i) il discorso pronunciato costruisce sia un simulacro di destinatario (il Dr. G), sia un tracciato delle operazioni enunciazionali che possono essere replicate e assunte dai presenti23. Il flusso discorsivo è così un teatro di operazioni semantiche che designa profili di semantizzazione possibili; ii) la semantizzazione di cui si parla va riferita alla pratica, non al solo discorso verbale, ovvero va integrata alla morfologia spaziale (già semiotica) e alla dimensione indessicale. Il testo, infatti, è già predisposto per l’inserimento in una situazione poliattoriale e polimodale. Sappiamo che la risposta somatica di G è prevista, mirata e ricercata attivamente da Erickson. Oltre ad “entrare in confusione”, il Dr G, ci viene riferito, comincia a manifestare un nistagmo oculare, un movimento involontario degli occhi, segno che sulla retina le immagini non sono ben a fuoco (la visione risulta disturbata). Ad un certo punto la stanza comincerà a girargli intorno, provocando nausea, mal di testa e senso di vertigine (di tipo rotatorio). Cos’è, semioticamente, una vertigine24? Qual è l’esatta amalgama semiotica che la rende possibile “artificialmente” in un dispositivo interattivo? 21 22 23 24 Sfortunatamente non siamo nella condizione di poter sperimentare la tecnica con commutazione di variabili, ma consideriamo le scelte di Erickson come ottimali rispetto agli obiettivi ricercati, valorizzando la sua esperienza in materia. Sul ruolo dei deittici nel montaggio di più semiotiche è fondamentale il contributo di Charles Goodwin, cfr. ad esempio Goodwin (2003). Sull’opposizione tra una prospettiva simulacrale e una prospettiva operazionale nell’analisi dell’enunciazione, cfr. Fontanille (1994). Per una semiotica della vertigine intesa come “desolidarizzazione del regime polisensoriale”, cfr. Basso (2005). 92 Si tratta allora di relare le tensioni semantiche del testo (che sono altrettante aperture alla semantizzazione dell’altro) con le variabili semiotiche dell’intorno (deissi e morfologia spaziale), per capire come venga profilata una strategia di semantizzazione che porti alla “confusione” del soggetto. La pronuncia del testo, evidentemente, non basta di per sé a provocare vertigine. Sappiamo che Erickson si rivolge a Miss K mentre lei ha di fronte la sedia, per cui la relazione testuale embraiata io/tu confligge con una spazialità che pone Miss K in uno spazio parzialmente debraiato (v. sopra) rispetto alla coppia Erickson-Dr. G. La posizione del Dr G, viceversa, appartiene allo stesso spazio di Erickson, mentre questi ne parla in terza persona. Si capisce allora come le tensioni semantiche del testo vengano raddoppiate dalla disposizione spaziale di uomini e sedie. Rileviamo inoltre la presenza di un formante circolare, rotatorio, nel modo in cui Erickson muove le prospettive interne alla parola (“go around”), passando sia nella prima che nella seconda fase dell’induzione, dalla sua posizione a quella di Miss K al Dr. G. Si tratta di un formante dinamico che sembra avere un ruolo al momento in cui si verifica un capogiro del soggetto osservatore, come se assumesse nella propria carne sensibile questo formante trasmutandolo in un giramento di capo. Stiamo cominciando a focalizzare gli elementi che partecipano all’ingresso in uno stato confusionario di G. Questi non incontra nel testo gli ostacoli al proprio fare cognitivo di riconoscimento delle posizioni (tema dell’enunciato semanticamente coerente), ma li ritrova nella tensione tra piano enunciazionale, giochi prospettici e morfologia spaziale. Sembra chiaro che a livello di enunciazione verbo-gestuale ciò che viene detto è intensamente assunto, adesione che diventa attesa di coerenza per l’altro. La forte isotopia spaziale, lessicale e ritmica non è però garanzia di un senso sostenibile nel tempo. Il continui giochi di debrayage/ embrayage discorsivi sono in tensione contrastiva con la morfologia spaziale adibita e rendono sempre più difficile integrare le prese di posizioni successive che muovono costantemente il discorso. La semantizzazione fa oscillare la centratura deittica del campo discorsivo, in particolare tra la posizione del corpo di G e quella di Erickson. Ecco che ad un certo punto l’intensità dell’assunzione enunciazionale si ripresenta, di fronte all’impossibilità di un’integrazione semantica da parte del destinatario della comunicazione, come emersione disforica della carne. Il sé discorsivo, non riuscendo più a posizionarsi, si dischiude all’intensità emergente del me-carne25. L’affondamento del sé sembra comportare inoltre una crisi parziale della distinzione soggetto/mondo, dato che il formante rotatorio precedentemente rilevato viene proiettato figuralmente sul mondo che comincia a girare per lui (vertigine rotatoria esterocettiva). 25 Riprendiamo la terminologia proposta da Fontanille (2004a), che individua una tensione costitutiva della corporeità tra un me-carne, istanza di riferimento intensiva, e un sé-corpo, istanza discorsiva, prodotta dall’apertura/confronto con l’alterità dell’intorno. 93 Il corpo, insomma, per il modo in cui riemerge, sembra assumere l’instabilità del proprio posizionamento, significandola attivamente. In questo senso, si mette a far figura (la vertigine), riattivando una memoria incarnata di una situazione di instabilità interdeittica (da cui la variazione idiosincratica nelle risposte somatiche) attraverso un processo di richiamo analogico. Un ultimo punto: non ci siamo chiesti perché l’ipnotista adotti questa strategia induttiva. Al di là dell’aspetto sperimentale, la situazione di confusione, ci dice Erickson, mette il soggetto in cerca di istruzioni chiare, di una prensione netta cui appigliarsi. Un’istruzione definita, difatti, ri-posiziona bruscamente il soggetto, fornendogli di nuovo un’identità discorsiva sostenibile (il sé-corpo riprende il controllo del me-carne), al prezzo di accettarne il contenuto. Il contenuto enunciato, quindi, è retto e quasi avvolto da una serie di strati modalizzanti, come spesso accade nelle strategie di induzione (effetto matrioska). 4. EFFETTI DI CAMPO Si direbbe a questo punto che per comprendere l’operatività della parola ipnotica sia utile una teoria degli effetti di campo, ma non tanto una teoria che permetta di descrivere le operazioni rispetto a un campo predicativo unico quanto piuttosto un modello che preveda la possibilità di montare assieme, di aggiustare contemporaneamente più campi, più morfologie semiotiche concorrenti, passibili di stratificazioni complesse e di dominanze interne diversificate. È infatti prevedibile, almeno nel caso dell’ipnosi, che il responsabile della pratica agisca strategicamente rispetto al montaggio dei campi attivabili, avendo a disposizione come sottocampi, accanto al flusso discorsivo e alla morfologia spaziale26, i modi del sensibile attivabili dai suoi operatori corporei principali: lo sguardo, la voce e la respirazione. In sostanza l’ipnotista sfrutta la plasticità generalizzata di un’interazione tra corpi, che consente di rendere significanti e rilevanti diversi campi del sensibile (è l’uso, quindi, a determinare la pertinenza semiotica dei campi osservabili). Rispetto al processo delegato di risoluzione delle eterogeneità, si noti come il clinico produca dell’eterogeneo, moltiplichi le dimensioni significanti in interazione proprio nell’intento di scardinare l’omogeneità eventuale dell’altro (la sua resistenza al cambiamento interpretata in termini di “chiusura”). È un procedimento che va sotto il nome di “depotenziamento degli abituali schemi di riferimento” e che mostra il potere configurativo dei diversi modi del sensibile. La voce, ad esempio, si presenta nell’attività clinica come corpo sonoro che designa un suo campo, lo dimensionalizza, lo centra, seleziona una direzionalità, manifesta un’intensità, un timbro, una calibratura. L’ipnotista può così 26 Si noti come la morfologia spaziale venga automaticamente estromessa dal tipico processo di “disinvestimento del mondo esterno” presente nelle induzioni standard: basta chiedere la chiusura degli occhi per far sparire un “rumore” visivo potenzialmente disturbante. 94 sperimentare diversi usi significativi del campo vocale in relazione al campo discorsivo verbale. Un processo di distensione raccontato oralmente (“ed ora senti i piedi che appoggiano per terra, e il respiro si fa più calmo”) può essere classicamente rinforzato da un abbassamento del volume di voce. La plasticità locale della voce in ipnosi è testimoniata al più alto grado dai destini dell’attorializzazione: si pensa usualmente che la voce sia una delle tante impronte della persona, indicalmente connessa al corpo materiale dell’individuo (la grana). Dal punto di vista discorsivo, una voce designa un’identità, è manifestazione stabile di un attore. Ebbene, sperimentando in ipnosi, Erickson dimostra di poter far diventare la propria voce la voce di chiunque, per sesso, età, ruolo, ecc27. L’ipnotista può scegliere un ruolo finzionale con cui giocarsi la relazione immaginaria in corso, mettendo così proprio l’attorializzazione in variazione, sulla base di una esclusiva presenza vocale per l’ipnotizzando, dato che quest’ultimo accede solo allo stimolo vocale dell’ipnotista (gli occhi sono chiusi). Il montaggio tra campi diversi ci permette inoltre di integrare nel sistema delle pertinenze quelle dimensioni corporee di solito relegate all’involontarietà, come il respiro o i micromovimenti di aggiustamento corporeo. Quando l’ipnotista, durante un’induzione standard, enuncia a tempo sull’espirazione del soggetto, sta promuovendo un evidente semi-simbolismo tra inspirazione/tensione vs. espirazione/distensione e i contenuti del discorso che vengono contagiati dalla polarizzazione e contagiano a loro volta la situazione corporea. Ecco che la plasticità diffusa del corpo si mette a significare secondo modalità semi-simboliche, similmente a quanto accade ai linguaggi di cui si consideri il lavorio intorno al piano dell’espressione. Un micro-codice vede localmente la luce e viene messo in condizione di valere per il corpo dell’altro, indipendentemente dalla sua razionalizzazione cosciente. Un ultimo esempio ci permette di spingerci oltre nel precisare le dinamiche sintattiche di campo e richiamare uno dei temi controversi in materia di studio della discorsività: se sia necessario o meno implementare operazioni di mira (visée) e prensione (saisie), ricorrendo agli attanti posizionali (sorgente, bersaglio e controllo), per descrivere le manovre di un’enunciazione sensibile presente al discorso che sta producendo28. Il vantaggio del nostro caso è che non siamo in presenza di una discorsività realizzata, ma di un testo da (ri)costruire a partire da una pratica: accettare la tracciabilità visibile delle semantizzazioni degli attori comporta la possibilità di osservare se le operazioni di mira e prensione siano variabili rilevanti della pratica stessa, possibili poste in gioco dell’enunciazione ipnotica. 27 28 Cfr. la discussione con Haley in Erickson 1959. Per una critica ai rischi di fenomenologismo ingenuo, che risalga a un’ante-predicatività pre-linguistica e che quindi non colga l’essere sempre culturalizzata della percezione e di qualsiasi enunciazione, cf. Basso 2001, introduzione. 95 Nell’induzione Erickson si focalizza spesso sulla propriocezione, tematizzando quelle che chiama le “sensazioni attuali” del soggetto ovvero mettendo in discorso una corporeità sensibile, ad esempio invitando il soggetto a sentire le mani appoggiate sulle gambe, ad auscultare la propria respirazione, il battito cardiaco, ecc. Nel gergo ipnotico si chiamano truismi, espressioni che ricalcano una possibile quanto generica esperienza in corso, raddoppiandola verbalmente e invitando il soggetto ad aderire a quanto affermato. Naturalmente dal punto di vista semiotico possiamo riconoscere come l’ipnotista prenda in prestito dalla cultura occidentale una retorica specifica della sensazione. In ogni caso, dopo aver creato un campo discorsivo affermativo (modalizzato come un non poter non essere), introduce delle piccole modifiche oppure invita il soggetto a sentire certe sensazioni volutamente vaghe che possono essere (ri)prodotte dal soggetto. Prendiamo come micro esemplare un semplice enunciato, commentato anche da Melchior (1998, pp. 103-104). Durante un processo induttivo l’ipnotista, dopo una serie di truismi, può affermare: “tu puoi forse sentire certe sensazioni nella mano destra”. Il soggetto è invitato a dirigere la propria attenzione su una determinata parte del corpo per trovarvi una qualche sensazione volutamente non meglio specificata. La modalizzazione dell’enunciato (“tu puoi”) conferisce al soggetto l’iniziativa dell’azione così come il controllo, da osservatore, delle proprie sensazioni. La sensazione, qualunque essa sia vista l’assenza di determinazioni specifiche, assume un regime semantico del “trovato”, come se la sensazione esistesse già, e non, invece, dell’“indotto”. La forma stessa della domanda, purtuttavia, con una modalizzazione così esplicita, è per gli ipnotisti un invito indirizzato, in modo apparentemente paradossale, anche alla carne del soggetto, affinché essa assecondi la richiesta, per un principio inerziale, visto che non c’è alcun interesse a interrompere lo stato di benessere e di abbandono in cui ci si trova (il campo affermativo comporta un’adesione intima del soggetto). Il soggetto-destinatario della comunicazione può occupare due posizioni attanziali volutamente dissociate, ricoprendo da un lato il ruolo di osservatore di un processo (tra la parola sorgente e la carne bersaglio, l’attenzionalità del soggetto funge da attante di controllo, che si dirige sulla zona enunciata), dall’altro ponendo la propria carne come soggetto di trasformazioni (la carne è sorgente di un processo di modificazione). C’è un problema di regime di semantizzazione della percezione (recadrage): essa è già là, realizzata, precedendo la predicazione dell’ipnotista, o la segue, provocata e quindi virtuale al momento dell’enunciazione, adattandosi, quasi risucchiata dalla parola ipnotica? Il fenomeno è tanto più interessante quanto più lo accostiamo all’ossessione referenzialista delle scienze del linguaggio, anche nella loro evoluzione semiotica verso l’analisi degli effetti di realtà nei discorsi, ossessione che impedisce di dare rilevanza a fenomeni in cui non si dia tanto un problema di confronto tra la lingua e il mondo, ma tra un corso d’azione, una verbalizzazione e una corporeità sensibile. A pensarci, non possiamo rinunciare a nessuna delle tre dimensioni appena elencate per caratterizzare un fenomeno 96 di questo tipo, non riconducibile ad una scena di confronto soggetto/mondo o parola/mondo. Il nostro episodio rinvia piuttosto al terreno del bio-feedback (si pensi alle esperienze di controllo del battito cardiaco da parte di un soggetto in situazione sperimentale una volta che si inserisca un ritmo acustico esterno che faccia da guida), in cui viene tematizzata la retroazione di un sistema ad una variazione esterna al sistema stesso. L’enunciato dell’ipnotista costituisce una sanzione anticipata che favorisce il comportamento richiesto (performance della carne), di carattere sensori-motorio, senza bisogno di scomodare la volontà del soggetto. In questa direzione possiamo pensare davvero ad effetti di campo, nel senso che l’azione si verifica, si dà sensazione di un qualcosa (che può poi diventare direzione di un movimento, ovvero manifestare un formante vettoriale emergente a partire dal rumore di fondo dei micro-movimenti corporei sempre presenti), di cui al contempo si neutralizza l’imputabilità (è il corpo? è l’inconscio? è la volontà dell’ipnotista? è la formula emessa? è il dispositivo nel suo complesso?). Con questa enunciazione, inoltre, l’ipnotista promuove una posizione di pura osservazione del processo da parte del soggetto, favorendo una dissociazione tra carne sensibile e istanza discorsiva del soggetto, divaricazione testimoniata dal fatto che il soggetto non assume il movimento successivo come proprio, ovvero come connesso a un’istanza discorsiva in divenire. Ma lo sviluppo di questa sintassi dissociativa richiederà ulteriori approfondimenti che in questa sede non affronteremo. Si potrebbe osservare infine come le pratiche ipnotiche scommettano sulla costituzione semiotica della carne del soggetto, che di fatto semantizza la richiesta dell’ipnotista: la carne viene messa in condizione di �ascoltare’ indipendentemente dalla volontà del soggetto, è una macchina semiotica a pieno titolo e non semplicemente un territorio di turbolenze e conflitti più o meno stabili tra forze e materie estranee all’articolarsi della significazione. Al termine del nostro percorso, un rilancio. La stabilizzazione di una situazione interattiva, nostra ipotesi di lavoro, resta non di meno sempre precaria, sotto un regime di senso sottoposto alle pressioni delle enunciazioni che vi prendono parte. Il semiotico può così rilevare le tensioni semantiche che la abitano, i nervi scoperti in cui sia possibile intervenire per aprirla a un divenire differente. In questa direzione va esplorato un destino possibile del semiotico, se cioè sarà in grado di costituire alleanze con attori responsabili di pratiche o della loro gestione per mobilitare il senso dell’agire dei soggetti. Nel caso della clinica, ad esempio, di fronte al terapeuta quale attore sociale responsabile dello sviluppo dell’interazione con un paziente, l’interesse costruttivo del semiotico può affiancarsi alla necessità strategica del clinico di capire meglio i processi di influenzamento e manipolazione reciproca29. 29 Ci permettiamo di richiamare a questo proposito il nostro lavoro sull’uso della voce nella clinica etnopsichiatrica (Casadei, Festi, Inglese, 2005) impostato su una collaborazione di questo tipo. 97 Bibliografia Basso, Pierluigi 2001 “Introduzione ai modi dell’immagine”, in Basso P. (ed.), Modi dell’immagine, Bologna, Esculapio. 2002 Il dominio dell’arte. Semiotica e teorie estetiche, Roma, Meltemi. 2005 “Vertigini patologiche e salute da capogiro: mancamenti ed ebbrezza come soglie tra forme di vita”, in G. Marrone (a cura di), Il discorso della salute. Verso una sociosemiotica medica, Roma, Meltemi, pp. 209-221. Bibeau, Gilles & Corin, Ellen (a cura di) 1995 Beyond textuality: asceticism and violence in anthropological interpretation, Berlino/New York, Mouton de Gruyter. Casadei, Filippo, - Festi, Giacomo - Inglese, Salvatore 2005 “Elementi per una teoria della mediazione linguistica, culturale e clinica per la salute mentale”, in Inglese, Attenasio, Casadei, Ugolini (a cura di), La cura degli altri. Seminari romani di etnopsichiatria, Roma, Armando. Erickson, Milton 1959 “A Transcript of Trance Induction with Commentary”, The American Journal of Clinical Hypnosis, 2, pp. 49-84. 1964 “The Confusion Technique in Hypnosis”, The American Journal of Clinical Hypnosis, 6, pp. 183-207. 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Presentato al seminario Le texte en question: Actualités de la sémiotique, 24-25 Mars 2005, Limoges, Faculté des Lettres et des Sciences Humaines 101 che permette l’abbrivo della procedura d’analisi (Greimas-Courtés 1979: v. Texte, 3). La forza teorica del testo sta nel mettere in scena icasticamente quella che, per la semiotica generativa come per quella interpretativa, costituisce la determinazione irrinunciabile del senso: il senso è sempre a posteriori ed è sempre il risultato di un processo di ricostruzione a partire da una sua “esternazione“. Questo postulato semiotico dell’aposteriori, che colloca saldamente la semiotica all’interno di un “paradigma indiziario”2, trova cioè nel testo un suo luogo elettivo. E tuttavia, a ben vedere, il testo è fatto oggetto dalla stessa attività analitica di un riconoscimento doppio che lo pone, non una, ma due volte sotto la luce della figuratività. In primo luogo, come fin’ora osservato, il primo riconoscimento ne fa emergere la dimensione che si direbbe “strutturale”, per cui il testo è un insieme di elementi che fanno tenuta attraverso le relazioni che li definiscono nelle reciproche posizioni. Si valorizza così la dimensione del testo in quanto “tessuto”. Ma d’altra parte è ovvio che ogni traccia rimanda ad un tracciare, ogni tessuto è (stato) tessuto, così come l’iscrizione è insieme il risultato e l’operazione che vi conduce. C’è una duplicità insopprimibile che lega, derridianamente, genesi e struttura o, greimasianamente, struttura e storia. E, d’altra parte, che questa dimensione “icnologica“ (Ferraris 1997) sia costitutiva della semiotica è ampiamente dimostrato: “attestato“, si direbbe, a partire da alcuni luoghi classici della riflessione semiotica. A partire dal “Dictionnaire” che chiude l’entrata Texte ricordando la proposta kristeviana del “texte comme productivité”, concetto “qui cherche à tenir compte, en même temps, des propriétés sémiotiques de l’énonciation et de l’énoncé” (Greimas e Courtés 1979: Texte, 5). Si potrebbe così rilevare come questa duplicità sia stata articolata anche da Prieto, nei termini di un doppio funzionamento della significazione. La produzione di senso richiede infatti per il semiologo argentino due “indicazioni”. La prima è l’indicazione “significativa”, che riconduce il fatto al suo statuto semiotico di segno rispetto ad un sistema, secondo un presupposto di tipo “strutturale”. La seconda indicazione è l’indicazione “notificativa”: essa effettua una prima strutturazione, per così dire, di cornice che conduce dalla produzione del segnale al riconoscimento dell’intenzionalità della produzione stessa. È infatti sull’indicazione notificativa, intesa come prima determinazione “enunciazionale”, che s’innesta l’indicazione significativa: “il segnale indica al ricevente che il [senso] che l’emittente vuole trasmettergli è uno di quelli che esso ammette” (Prieto 1966: 50). Così in Greimas e nella semiotica generativa la dimensione dell’enunciazione si affianca come riconoscimento di una logica di produzione al riconoscimento strutturale della testualità: e la sua importanza, trascurata inizialmente in favore della componente strutturale, ha permesso di descriverne la formulazione teorica addirittura nei termini di un “avvento” (Fabbri e Marrone 2001). In particolare, l’idea di “prassi enunciazionale” (Fontanille e Zilberberg 1998) permette di recuperare l’ipotesi di pertinenza di una logica di produzione del testo, che presenta notevoli affinità con la teoria dei modi di produzione segnica di Eco. Il concetto di “prassi enunciazionale” trova il suo proprium in un insieme di aspetti 2 Fabbrichesi Leo (2004: 123ss) mutua l’espressione da Ginzburg per descrivere la costruzione del sapere in Peirce. 102 che presiedono alla conversione delle “forme” in “operazioni”, secondo la definizione che Fontanille e Zilberberg (1998: 128) mutuano dalla voce énonciation del Dictionnaire greimasiano. Infatti, “l’énonciation est une médiation entre l’actualisé (en discours) et le réalisé (dans le monde naturel)”: essa è allora “une praxis dans l’exacte mesure où elle donne un certain statut de réalité - à définir - aux produits de l’activité de langage” (Fontanille e Zilberberg 1998: 128). La teoria dei modi di produzione segnica occupa la seconda parte dell’echiano Trattato di semiotica generale e si presenta come il momento dell’immissione della processualità rispetto alla teoria dei codici, che ne occupa la prima parte. Rispetto al modello della spazio semantico come magnetizzazione delle biglie d’acciaio in una scatola (Eco 1975: 176-77), “la teoria dei codici è solo interessata al risultato di questo gioco, così come si presenta dopo la magnetizzazione”, mentre “la teoria della produzione segnica e del mutamento dei codici è interessata al processo per cui la regola è imposta sull’indeterminatezza della fonte” (Eco 1975: 179). La tipologia dei modi di produzione segnica è dunque il modo in cui la storicità può essere pensata internamente alla semiotica, nei termini della ricostruzione necessariamente a posteriori delle strategie di un soggetto operatore. Essa è, insieme, una matrice di storie possibili (si noti la modalizzazione) della semiosi in quanto processo. È allora interessante osservare come analogamente la discussione sulla prassi enunciazionale muova dal Dictionnaire greimasiano, in cui la “production” è infatti strettamente connessa con l’ “énonciation”, e distinta dalla “génération”: la “génération” riguardando la competenza del soggetto parlante (una teoria dei codici, a cui è dedicata la prima parte del Trattato echiano), la “production” essendo propriamente “caractéristique de la performance” (una teoria della produzione, che è punto d’arrivo dello stesso Trattato) (Greimas e Courtés 1979, v. production). Questa rilevanza della prassi enunciazionale come logica della produzione segnica stabilisce definitivamente la priorità di una teoria dinamica della semiosi rispetto ai modelli classici che ne descrivono la statica. Due ulteriori indizi assolutamente eterogenei di quest’urgenza metodologica possono essere ritrovati, da un lato, nel rinnovato interesse per le pratiche, dall’altro, nell’emergere, nel dominio dell’intelligenza artificiale e dei sistemi complessi, della nozione non di “semiotica”, ma di “dinamica semiotica” (“semiotic dynamics”, Steels e Kaplan 1999)3. 1.2. Testo e pratica Si potrebbe allora osservare come la relazione tra testo e produzione sia costitutivamente doppia. Da un lato il testo è il risultato di una pratica del testo: come già ricordato è assunto del Dictionnaire che sia la pratica dell’analisi a costituire il testo. Dall’altro il testo porta iscritta al suo interno una logica di produzione che è ricostruibile a partire dalle tracce di cui il testo stesso costituisce il deposito. È già il testo che perciò apre alla pratica del testo, perché propriamente non esiste senza 3 Questa rilevanza della processualità è alla base della riflessione di La Matina (2004), che oppone alle teorie basate su una nozione di competenza cristallizzata, una teoria “cronosensitiva”, che accolga la dimensione evenemenziale del senso. Ad altro luogo la discussione. 103 pratica del testo. Il riconoscimento del senso del testo è produzione del senso del testo da parte del soggetto del riconoscimento. E d’altra parte si riconosce il testo in quanto “produzione prodotta” di senso da parte di un soggetto della produzione. Ne consegue che: a) il riconoscimento del senso è una produzione di senso: un lavoro di produzione semiotica; b) ogni produzione semiotica perché esista semioticamente dev’essere riconosciuta in quanto produzione (ogni lavoro di produzione semiotica richiede cioe un doppio lavoro). Ora, l’analisi è propriamente una pratica analitica, cioè una intepretazione come produzione di senso attraverso il lavoro semiotico del riconoscimento che il soggetto epistemologico dell’analisi fa del lavoro di produzione iscritto nel testo. Come si è visto, già il “Dictionnaire” assume che questo testo sia propriamente il prodotto della pratica analitica. Generalizzando, si può allora assumere che: c) ogni pratica istanzi dei testi attraverso il loro riconoscimento. Questo meccanismo sancisce la differenza posizionale tra riconoscimento e produzione e la loro identità essenziale. È possibile allora tentare un’articolazione della relazione tra pratica e testo. Rispetto ad una catena di riconoscimenti e di produzioni, si ha, nel caso del testo, un soggetto epistemologico (3) che è insieme il soggetto (2) che riconosce il soggetto della produzione (1); nel caso della pratica il soggetto del riconoscimento (2) coincide con il soggetto della produzione (1). Nella pratica, il soggetto epistemologico (3) è allora soggetto di un riconoscimento portato ad un testo costituito dal riconoscimento che il soggetto della produzione fa della sua stessa produzione. In altre parole, laddove si voglia articolare la differenza tra testo e pratica, si potrebbe distinguere tra tre posizioni attanziali differenti: 1. soggetto della produzione; 2. soggetto del riconoscimento; 3. soggetto epistemologico La distinzione testo/pratica dipenderebbe allora da uno spostamento del sincretismo. Nella definizione del “testo”, il soggetto epistemologico è insieme il soggetto del riconoscimento (2/3) della produzione (1), nella pratica invece il soggetto del riconoscimento riconosce la sua stessa produzione (1/2) e questa riconoscimento è la produzione riconosciuta dal soggetto epistemologico (3). Questa ipotesi ha tre conseguenze di rilievo: a) recupera il concetto di produzione segnica echiana in vista di una generalizzazione del concetto di prassi enunciazionale; b) coincide in buona sostanza con la discussione prietiana sulla relazione tra significazione e pratiche, permettendo un recupero del modello formale ricorsivo delle pratiche che Prieto ha proposto; c) pare compatibile, nel mantenere uno sguardo eminentemente posizionale e funzionale, con l’ipotesi di un modello stratificato dei “niveaux de pertinence sémiotique” proposta da Jacques Fontanille (2004b). Ciò rende possibile un trattamento integrato alla luce dello stesso paradigma indiziario di ciò che è dell’ordine del testo e di ciò che è dell’ordine della pratica, ma allo stesso tempo stabilisce un’asimmetria tra i due. 104 1.3 Pratica e sensibile Questa ipotesi pare di rilievo rispetto al sensibile. Qual è l’interesse apportato dallo studio del sensibile alla semiotica? I punti nodali sono due: 1. il primo è (esclusivamente) tematico: il corpo rientra nella descrizione semiotica che ne articola gli effetti. Questi effetti sono effetti evidentemente testuali. Filosoficamente si potrebbe dire che “la aisthesis è sensibile per la sua provenienza, non per il modo in cui si registra nell’anima” (Ferraris 1997: 49). 2. il secondo è epistemologico/metodologico: da un lato conduce ad un radicale ripensamento dell’intero statuto formale della disciplina (Fontanille 2004); dall’altro quantomeno mette in luce, minimalmente, che ha senso parlare del sensibile in maniera differente rispetto all’approccio testuale soltanto nel momento in cui si suppone che il sensibile sia una pratica del sensibile: un luogo in cui il soggetto del riconoscimento coincide con quello della produzione. 1.4. Sensibile e udibile Dunque, il sensibile è una pratica del sensibile. A tal proposito si può osservare come l’udibile si ponga come caso assai più adatto del visibile per esemplificare la dimensione prasseologica del sensibile. In generale, la logica che governa l’udibile è una logica dell’evento: il suono è necessariamente qualcosa che accade nel tempo. Di qui una declinazione peculiare della figuratività, che si presenta all’udibile primariamente nella forma di una meccanica figurativa. In sostanza, si direbbe che nell’udibile il “che cos’è” richieda sempre una formulazione nei termini di un “che cos’è che fa”: alla risposta visibile nei termini di una configurazione risultante si oppone la risposta udibile in quelli di un processo di configurazione. Nota opportunamente Bayle che “fonctionellement l’écoute est vigilance” (Bayle 1993: 101), uno stare all’erta rispetto all’evenemenzialità. Di qui una sovradeterminazione temporale delle figure udibili: nell’approccio ecologico di Bregman l’oggetto udibile è sempre “flusso”, “stream” (Bregman 1990), e l’ascolto è sempre un’operazione di ripartizione in flussi, striatura attorializzante del dominio liscio dell’udibile. Quest’operazione, che prende il nome di “analisi della scena uditiva” (“auditory scene analysis”) è però sempre provvisoria e dipende caratteristicamente ad un insieme di euristiche peculiarmente vasto: non traduzione, più o meno lineare, del fisico nello psicofisico, ma contrattazione accanita in cui: “heuristic criteria must be used to decide how to group the acoustic evidence. These criteria are allowed to combine their effects in a process very much like voting”. (Bregman 1990: 33) Tra questi criteri, la storicità dell’ascolto ha così un ruolo centrale. E d’altra parte che l’ascoltare sia un saper ascoltare risulta ovvio non appena si consideri la varietà degli ascolti rispetto al musicale. Ne consegue una peculiare molteplicità ed instabilità delle figure udibili, che dipende appunto dalla varietà delle pratiche di riconoscimento. Si tratterà ora di chiedersi come declinare la relazione testo/ pratica rispetto all’udibile. L’unico tentativo teorico conciliabile con un approc- 105 cio semiotico resta quello che Pierre Schaeffer ha denominato “aculogia”, e che costituisce di conseguenza il solitario antecedente di una semiotica dell’udibile. L’aculogia, che ha il suo testo di fondazione nel Traité des objets musicaux (Schaeffer 1966, d’ora in vanti TOM) prevede una teoria dell’ascolto –inteso come pratica d’ascolto– ed una teoria dell’oggetto sonoro -inteso come testo/oggetto che quella pratica istanzia. Si tratterà perció di procedere partitamente4. 2. MODI DI ASCOLTO La nozione di ascolto richiede un’articolazione più raffinata affinché, per il suo tramite, si possano descrivere le pratiche sociali: primo merito di Pierre Schaeffer è allora questa riarticolazione dell’ascolto in una quadruplice partizione. L’ipotesi teorica schaefferiana della moltiplicazione degli ascolti muove da un’analisi di semantica linguistica. La grammatica del concetto di ascolto prevede infatti una quadruplice determinabilità che emerge nei verbi (francesi) écouter, ouïr, entendre, comprendre. 1. Ascoltare indica l’ascolto figurativo nel senso pieno della figuratività greimasiana, cioè come riconduzione ad una macrosemiotica del mondo naturale: un “ascolto delle cause” che ricostruisce indicalmente un paesaggio di oggetti sonanti e risonanti, di percussori, di risonatori, di diffusori. Il mondo-enunciatore parla il linguaggio figurativo delle cose, che narrativizza costituendole attanzialmente nella microforma episodica di un’ “aneddottica energetica”, rispetto alla quale si orienta la prensione del soggetto enunciatario: prensione curiosa ma allo stesso tempo appagata dalla riconduzione ad un’economia narrativa. 2. Udire, come seconda modalità d’ascolto, implica invece una riflessione verso il soggetto della percezione. La modalità dell’udire è allora quella che permette una (ri)semantizzazione “plastica”, intesa come sospensione di una figuratività immediata e tentativo di una lettura altra. L’udire è per Schaeffer allora, da un lato, il deposito del semantizzabile, dall’altro una cassetta degli attrezzi: rispetto alla concrezione dell’oggetto sonoro “ascoltato”, si tratta di un poter udire altro che può portare, strumentalmente, ad un ascoltare (ma anche ad un intendere o un comprendere) diverso. 3. Intendere indica una pertinentizzazione selettiva. È chiaro che non si può mai udire senza intendere: non c’è udire puro se non come passaggio al limite. Come per l’epistemologia semiotica, per Schaeffer la valorizzazione è costitutiva. Valga a proposito l’esempio dell’orologio: ascolto il ticchettio e “malgré moi, je lui impose un ryhtme” (TOM: 107). L’intendere richiede di conseguenza 4 Una disamina approfondita della relazione tra ascolto e oggetto sonoro in Schaeffer è affrontata in Valle 2004. Alcune proposte sono state ulteriormente elaborate in Lombardo e Valle 2005. 106 un’operazione che Schaeffer chiama “qualification”: cioè la pertinentizzazione di alcuni tratti in funzione di un valore. 4. Comprendere richiede di trattare il suono come un segno secondo la relazione saussuriana di arbitrarietà rispetto al suo senso (TOM: 115). Come nell’ascoltare, l’oggetto sonoro è allora nuovamente evacuato nella sua datità sonora rispetto al senso cui rinvia. Il comprendere si centra cioè sulla sollecitazione di una semantica di tipo eminentemente (e tradizionalmente) linguistico, secondo una teoria forte dei codici ed una cristallizzazione e stratificazione sociosemiotica delle competenze (si pensi alla tipologia adorniana degli ascolt(ator)i, Adorno 1962). I quattro ascolti sono raggruppati in una quadripartizione (Figura 1), secondo due assi: in verticale oggettivo/soggettivo e in orizzontale astratto/concreto. In particolare l’oggettività dell’ascoltare e del comprende può essere pensata come l’intersoggettività “naturale” delle macrosemiotiche del mondo e della lingua, a cui si oppone la soggettività dell’udire e dell’intendere. Intendere e comprendere rappresentano il lato astratto, formale, rispetto al lato concreto dell’ascoltare (che sottolinea la dimensione evenemenziale) e dell’udire (che sottolinea una privatezza, in realtà inaccessibile in quanto tale, del sensibile). Fig. 1. Tableau des fonctions del’écoute, da TOM: 116. 107 3. IPOTESI PER UNA SINTASSI DELLE PRATICHE D’ASCOLTO Supponendo di definire ognuna delle declinazioni dell’ascolto come un modo d’ascolto, diventa possibile riscrivere la quadripartizione attraverso un grafo in cui i vertici rappresentano i modi stessi e gli archi che li connettono le possibili relazioni di successione tra di essi. La modellizzazione dell’ascolto attraverso la quadripartizione è ammessa da Schaeffer a due condizioni: 1. c’è circolazione continua tra i modi (TOM: 148); 2. ogni pratica d’ascolto si caratterizza però per una differente valorizzazione degli stessi modi e delle loro relazioni. Poiché in ogni pratica d’ascolto c’è una continua circolazione tra i quattro modi, il grafo risultante è il grafo completo K4 (Figura 2). Fig. 2. Grafo dei modi d’ascolto. 3.1. Azioni d’ascolto e pratiche d’ascolto Dall’ipotesi di una valorizzazione dei modi consegue una prima definizione: 1 Ogni cammino sul grafo, inteso in quanto sequenza ordinata di vertici, rappresenta una specifica azione di ascolto che si sviluppa in quanto sequenza di modi. In altre parole, con “ascolto” si deve intendere un’azione di ascolto nel senso tecnico di un cammino definito sul grafo K4. Ne consegue la possibilità di una seconda definizione: 2 Una pratica d’ascolto è un grafo K4 in cui alcuni cammini sono più frequenti di altri: in altri termini, ogni pratica effettua una pesatura degli archi definiti sul grafo. Questa pesatura determina il valore di ogni relazione tra i modi nella pratica in questione5. Il fatto che azione d’ascolto e pratica d’ascolto siano entrambe sottografi di K4 indica che non c’è differenza “di natura” tra le due determinazioni: una pratica d’ascolto è semplicemente un’azione d’ascolto sociosemioticamente attestata. 5 Figurativamente si potrebbe pensare a questa pesatura del valore nei termini di uno “scavo” o inversamente di una “sedimentazione” che dipende dall’uso degli archi. 108 3.1.1. Azioni d’ascolto: un esempio A tal proposito, si consideri la situazione, celebre in letteratura e molto complessa per l’ascolto, del cocktail party, che costituisce un contesto ideale per l’emergere di azioni d’ascolto diverse. All’interno del brusio diffuso e mascherante causato dall’ammassarsi delle voci, se ne percepisce una in particolare, quella di un parlante: si tratta di una ricostruzione a partire dal materiale sonoro del produttore, “qualcuno parla” ([2,1]). D’altra parte, è tipico anche il cammino contrario che muove dalla percezione di una voce ad una messa a fuoco percettiva, come quando si “tende l’orecchio” ([1,2]). Sempre nel cocktail party ci si può rendere conto non soltanto che qualcuno parla, ma che lo fa in francese: si tratta di una “qualificazione” del materiale rispetto ad un sistema di pertinenze, quello fonologico del francese ([2,3]). Può darsi poi che “qualcuno parli in francese di politica”: qui il sistema di pertinenze garantisce l’accesso al senso ([3,4]). L’ascolto tipicamente linguistico può essere pensato come connessione diretta tra l’ascoltare e il comprendere ([1,4]): infatti, l’ascolto della parola è eminentemente costituzione di una relazione tra la voce di un enuciatore e il senso dell’enunciato che questa veicola ([1,4]): “che cosa stai dicendo? ”), e simmetricamente ricostituzione dell’enunciatore a partire dalla comprensione dell’enunciato (“chi l’ha detto? ”). In effetti, quando si ascolta una persona conosciuta, l’apprezzamento della “sonorità” della voce (2) avviene tipicamente soltanto quando il tono della voce manifesta una qualche peculiarità: soltanto in questo caso l’azione d’ascolto sembra descrivibile come [1,2,4]. D’altra parte, nell’ascoltare una voce conosciuta la pertinenza del sistema linguistico è usualmente scontata, a differenza di quando si ascolta qualcuno parlare in una lingua poco compresa: in questo caso diviene esplicitamente rilevante l’intendere, e l’azione d’ascolto sembra piuttosto essere [1,3,4]. Per tornare all’esempio del cocktail party, se invece in partenza si conosce una voce in particolare, la si può ricercare nel brusio: a partire da un insieme di tratti che la caratterizzano (il suo “timbro) si può ritrovarne il possessore ([3,1]), oppure, nel caso questo riconoscimento figurativo fallisca, risalirvi porgendo nuovamente attenzione al materiale sonoro ([3,2,1]). D’altronde, proprio il brusio che risulta dall’interazione di un numero molto elevato di produttori “acusmatizza” la situazione d’ascolto, nel senso che impedisce statisticamente una correlazione visuo-auditiva: in questa situazione eminentemente immersiva si ha una continua circolazione tra 2 e 3: l’estrazione di stringhe di fonemi da una sorgente complessa ([2,3]) opera in parallelo con il riapprezzamento “sostanziale” di lacerti fonologici ricondotti al percepibile ([3,2]). Infine, proprio il caso della situazione estremamente complessa del cocktail party favorisce l’oscillazione instabile tra il comprendere e l’udire: da un lato, si ha estrazione di brandelli semantici dal brusio ([2,4]), dall’altro un tipico effetto di “svaporamento” del senso ([4,2]). 3.2. Relazioni tra le pratiche d’ascolto: iterazioni La quadripartizione schaefferiana degli ascolti sembra descrivere una statica delle pratiche d’ascolto. E tuttavia Schaeffer ha anche messo in luce la peculiarità dell’ascolto dello specialista, dell’“intenditore”, il cui ascolto pare istituire una nuova pratica. Nota Schaeffer: 109 “Le specialiste s’isole par rapport au monde de significations banales prenant naissance au secteur 3; mais ce faisant, il institue un nouveau monde des significations, le quel à son tour met en jeu dans un nouveau secteur 3 des finesses de perception Ðfinesses dont l’habitude consacre bient™t la banalité- qui consituent peut-être le germe du développement d’autres pratiques auditives ultérieures. Ainsi la surenchère des qualifications apparaît comme illimitée. Autrement dit, toute écoute praticienne suggère des attentions spécialisées qui la rendront banale” (TOM: 118). Dunque la riflessione sull’ascolto dell’intenditore, di colui che, in senso proprio, intende, permette di descrivere la relazione tra due pratiche come una trasformazione centrata sull’udire, in cui quello che era il momento dell’intendere della pratica precedente diventa momento del comprendere in quella che ne deriva, la pratica dell’intenditore. La relazione di derivazione può essere rappresentata attravero la Figura 3. Fig. 3. Ascolto dell’intenditore come costruzione per iterazione. 3.2.1. Azioni, pratiche e iterazioni: un esempio medico L’auscultare è una pratica semiotica (propria della semeiotica medica) che consiste nel “riconoscere con l’orecchio (...) i suoni normali o anormali che provengono dagli organi interni” (Zingarelli, v. Auscultare). Si noti come una situazione acusmatica (la “tenda pitagorica” di un involucro corporeo) venga ricondotta ad un paesaggio figurativo, ad un corpo, si direbbe rispetto a quello senz’organi, invece pienamente organico (fortemente semantizzato) perché effettivamente popolato d’organi a regime di funzionamento. È dunque un ascolto indicale quello della pratica dell’auscultazione, che punta alla figuratività dell’ascoltare. Si pensi all’auscultazione polmonare del medico, che invita il paziente a produrre un colpo di tosse. Questa pratica ha come scopo precipuo 110 quello di una ricostruzione dello stato del corpo attraverso la sua messa in risonanza, secondo una qualificazione propriamente “semeiotica” di una causalità organica. Tuttavia, rispetto all’ascolto ordinario, viene invece sospesa una semantizzazione del tossito sia nei termini di significazioni patemiche culturalmente attestate (4), sia in quelli di un’indicalità corporea complessiva, molare (1): si tratterebbe cioè di narcotizzare l’isotopia (rispetto all’udibile doppiamente specificata come semantizzazione indicale e simbolica), del “corpo sofferente”. Le caratteristiche (3) di un colpo di tosse (2) che ordinariamente attiva il senso della sofferenza (4) di un corpo umano (1) sono per il medico che ausculta il risultato (4’ = 3) di un insieme di tratti diversi (3’) dello stesso colpo di tosse (2’ = 2) prodotto dal funzionamento del corpo fisiologico (1’). 3.3. Osservazioni dinamiche: eliche Generalizzando il passaggio precedente, a partire da Schaeffer la relazione tra pratiche può essere pensata come una catena ricorsiva di trasformazioni centrate sull’udire, in cui, ad ogni iterazione, quello che era il momento dell’intendere di una pratica precedente diventa momento del comprendere in quella che ne deriva. In ogni pratica si staglia sullo sfondo di un’altra pratica. Dalla costruzione delle relazioni tra pratiche d’ascolto consegue una sorta di elica, secondo quanto rappresentato in Figura 4. Una catena di pratiche è costruita mantenendo come perno della costruzione il modo dell’udire: ad ogni iterazione, l’intendere diventa comprendere, e si specifica un ascoltare differente. Fig. 4. Relazione tra le pratiche. 111 Sono possibili alcune considerazioni a margine di questa modellizzazione ad elica. 1. L’oggetto sonoro dell’udire costituisce il perno della costruzione. Questo movimento rende conto dell’abissalità sottrattiva della percezione, della sua oggettività negativa. L’udire è inteso come il limite all’infinito del movimento. Figurativamente, si potrebbe pensare ad una sorta di prospettiva in cui l’udire è il punto di fuga. 2. Ad ogni iterazione si producono due nuovi vertici, 1 e 3. Ogni qualificazione istituisce la precedente come “già semantizzato” del proprio comprendere (come suo vertice 4), e attiva una nuovo paesaggio di corpi sonori. 3. La definizione di una “ordinarietà” dell’ascolto è possibile in una prospettiva sociosemiotica laddove si assuma uno stato dell’ascolto come punto di osservazione, come primo piano rispetto al quale definire un sistema di piani ulteriori. 4. OGGETTI SONORI Il concetto di oggetto sonoro è quello che più indelebilmente segna il contributo teorico della ricerca di Pierre Schaeffer, anche se una certa diffusione recente della locuzione pare misconoscerne l’origine6. Rispetto alla sua fondazione fenomenologica, è il correlato oggettale di una pratica d’ascolto che ne costituisce il lato soggettale. Si danno in realtà due accezioni compresenti di oggetto sonoro, che paiono riprendere la duplicità della nozione peirciana di Oggetto: 1. l’oggetto sonoro è il garante epistemologico della possibilità di una descrizione del sonoro: esso è definito rigorosamente ex negativo come il limite della funzione dell’ascolto. La sua costituzione è, si direbbe, di tipo trascendentale, giacché individua una condizione di possibilità della conoscenza e non un oggetto attuale della conoscenza stessa. L’oggetto sonoro è ciò che garantisce il movimento ad elica delle pratiche d’ascolto: “puro percettivo” al limite della riduzione, asintotica possibilità della percezione. Sull’oggetto sonoro, in questa accezione peircianamente 6 La rinnovata popolarità del termine deriva in sostanza da una apertura tecnologica laterale rispetto alla tradizione schaefferiana, apertura tipicamente informatica ed immemore (ma non sempre) dell’origine del concetto. Più preoccupante l’indifferenza (che pare quasi fastidio) verso l’eredità schaefferiana sul versante filosofico ed estetico (come già osserva ad esempio Augoyard 1999: 106 a proposito di La Philosophie du son di Casati e Dokic). Se pure si può parlare a tutti gli effetti di “oggetti sonori” in relazione diretta alla tradizione fenomenologica e gestaltistica (Piana 1993: 32) in cui pure (certo, lateralmente) Schaeffer si iscrive, pare curiosa la totale assenza di riferimenti al Traité in un testo dedicato a “L’altra estetica”, in cui, lamentando che la filosofia del Novecento “ha parlato pochissimo di oggetti” (Ferraris 2001a: XI), si ripercorrono alcuni motivi pre-kantiani dell’estetica come riflessione sull’aisthesis: così che si possono ricercare nel Settecento alcuni autori che avrebbe posto il problema dell’ “oggetto sonoro” senza definire il concetto, e tantomeno rispetto a Schaeffer (Arbo 2001). 112 “dinamica”, non vi può essere nulla da dire, poiché esso richiede, appunto, soltanto una definizione al negativo, non ammettendo attribuzione positive; 2. l’oggetto sonoro è il risultato attuale di una peculiare pratica d’ascolto: esso è allora un percetto stabilizzato e determinato, ed in questo senso può effettivamente essere dichiarato “irrefutable” rispetto a quella stessa pratica che l’ha costituito, salvo poi essere oggetto di una successiva ricostituzione da parte di una pratica diversa. L’oggetto sonoro è allora inteso da Schaeffer come un peirciano Oggetto Immediato, “Oggetto come il Segno stesso lo rappresenta, e la cui esistenza dipende dunque dalla Rappresentazione di esso nel Segno” (C.P. 4.536, in Peirce 2003: 219). In questo senso, è effettivamente possibile per il soggetto dell’ascolto giungere all’oggetto sonoro. Così, al contrario di quello che pare assumere Schaeffer in alcuni luoghi, è chiaro per la semiotica che, se la mediazione è costituente, da essa non si esce per accedere ad una anteriore nudità dell’oggetto: si tratta di non confondere le due determinazioni peirciane che il concetto di oggetto sonoro convoglia unitariamente. A partire da questa seconda accezione è possibile costruire, come avviene nei libri IV, V eVI del Traité des objets musicaux, una teoria descrittiva, non dell’oggetto sonoro in quanto tale, ma della molteplicità di oggetti sonori che la molteplicità delle pratiche può instanziare. 4.1. Relazione tra struttura e oggetto: il nodo bivalve Uno dei nodi teorici cruciali che il concetto di oggetto sonoro solleva concerne un problema di taglia: questione tipicamente semiotica che riguarda infatti la dimensione dei fenomeni di pertinenza dell’analisi. Il problema della taglia è chiaramente percepito da Schaeffer, poiché “dans nul autre domaine nous ne verrons posé avec autant de clarté le problème de la délimitation des unités par rapport aux structures, et, de là, par rapport au système et à l’intention dominante” (TOM: 284). L’opzione schaefferiana (nel modello che si direbbe “formale”) predilige una determinazione dell’ascolto come costruzione multilivellare basata sulla relazione ricorsiva tra oggetti e strutture di oggetti, “chaque objet constituant une structure pour des objets composants (distingués à un niveau plus élémentaire), ou entrant dans une structure composée (d’autres objets à un niveau superiéur de complexité)” (Schaeffer 1967: 36). 4.2. Modellizzazione Schematicamente la modellizzazione della relazione tra oggetto (O) e struttura (S), “ce double jeu de l’objet-structure”7, si presenta così: ...SO_SO_SO... 7 TOM: 280. Lo schema è adattato da TOM: 280. 113 SO è a destra l’oggetto sonoro “identifié” dalla struttura di ordine superiore alla sua sinistra (la relazione è indicata dal tratto), e a sinistra la “structure d’identification” per gli oggetti di livello inferiore8. È sempre possibile percorrere la “chaîne” nei due sensi. Andrebbe allora sottolineato come la teoria dell’oggetto sonoro stricto sensu non sia tale, poiché è invece propriamente una teoria della relazione tra struttura e oggetto che ha come portato la possibilità della descrizione dell’oggetto stesso. Il vero oggetto della teoria che una semiotica dell’udibile mutua da Schaeffer non è l’oggetto sonoro in quanto tale ma invece il nodo bivalve SO, membrana che guarda formalmente dai due lati, a destra verso la struttura di cui è oggetto, a sinistra verso gli oggetti di cui è struttura. 4.2.1. La relazione oggetto-struttura: un esempio La discussione sulla “couple objet-structure” muove dall’esempio, di lunga tradizione fenomenologico-gestaltista, di un gruppo di note. L’osservazione che le note siano “les objets composants de cette structure” indica, nella sua apparente ovvietà, come ciò che si impone immediatamente non sia l’oggetto ma la struttura. Laddove la pertinenza si sposti, con un incremento di risoluzione, verso una delle note componenti, ricorsivamente la nota stessa assume la posizione di struttura rispetto agli oggetti che ne costituiscono “la complexité interne” (ad esempio, prima di Barthes, la già schaefferiana “grana”, TOM: 277). E d’altronde, rispetto al gruppo di note è certamente possibile risalire la catena ricorsiva assumendo che il gruppo si costituisca ad oggetto di una struttura superordinata, ad esempio come oggetto della taglia del “motivo” rispetto ad una costellazione di motivi. 4.3. Operazioni La coppia terminologica che Schaeffer, pur implicitamente, individua per descrivere i due lati in questione è “contexte”/“contexture”. Nella glossa di Chion: “Le contexte d’un objet sonore est la structure d’ensemble où il est identifié comme unité et dont on l’extrait pour l’esaminer en particulier; sa contexture est la structure dont il est lui-même constitué, et qui permet de le décrire et de le qualifier, selon le principe d’emboîtement de la regle Objet/Structure” (Chion 1983: 61). Questo movimento lungo la catena ricorsiva deve essere descritto doppiamente, in funzione dell’orientamento che assume: il nodo SO deve essere cioè articolato attraverso due operazioni simmetriche e solidali. Da un lato si tratta di identificare gli oggetti nel “contesto” della loro struttura, dall’altro di descriverne la strutturalità della “contestura” Dunque, l’ “identificazione” muove da sinistra a destra, declinando cioè il nodo SO come oggetto per la struttura di livello 8 TOM: 280. 114 superiore, mentre la “qualificazione” muove da destra a sinistra, declinando lo stesso nodo dal lato della struttura (assumendo cioè l’oggetto come struttura). Le due operazioni di identificazione e qualificazione si danno insieme: per identificare un oggetto sonoro in un continuum è richiesta in entrata una competenza di tipo qualificante (è necessaria, cioè, una teoria capace di descrivere l’oggetto cercato), per qualificare (per descrivere “internamente”) un oggetto è necessario averlo identificato come discontinuità dotata di una sua unità. Ogni identificazione richiede una qualificazione, e viceversa: si passa sempre dagli oggetti alla struttura (identificazione) e dalla struttura agli oggetti (qualificazione). 4.3.1. Operazioni: un esempio Si riconsideri l’esempio gestaltico dell’invarianza attoriale della melodia nelle diverse trasposizioni: “c’est (...) comme objet que je la vise (identifié dans divers contexte); j’explique alors sa permanence par sa structure, qui la qualifie” (TOM: 277). 4.4. Il doppio dispositivo: tipo-morfologia (o morfo-tipologia) Questa duplicità è all’origine del doppio dispositivo descrittivo allestito da Schaeffer, che prevede da un lato una “typologie” intesa come insieme di criteri atti all’identificazione degli oggetti rispetto ad una struttura (al loro contesto), dall’altro una “morphologie”, intesa invece come qualificazione, nel senso di una descrizione delle qualità interne dell’oggetto sonoro, cioè della sua contestura: la “typo-morphologie” è allora la scienza doppia capace di descrivere l’oggetto sonoro inteso come nodo bivalve SO. Data una collezione di oggetti sonori eterocliti, “les comparer entre eux, de toutes sortes de façons, dans leurs contextes ou leurs contextures, est notre seul recours. Cette activité est celle de la morphologie sonore”. Ma come si arriva alla collezione di oggetti? Si tratta cioè di “les séparer des continuum où il se trouvaient d’une part, et les classer entre eux, d’autre part”. È questo l’ambito di intervento di una “typologie”, intesa come “art de séparer les objets sonores”. E tuttavia essa si basa su criteri morfologici: “il était impossible d’arrêter une typologie sans définir une morphologie” (cfr. TOM: 398-99). C’è dunque una circolarità tra tipologia e morfologia. Lo strutturalismo di Schaeffer trova il suo fondamento in questa logica della relazione che prevede sempre un meccanismo di solidarietà tra la struttura e gli elementi che la compongono: nel nodo SO gli elementi si danno cioè insieme, nello stesso tempo, alla relazione che li definisce, così da dispiegare sempre da un lato un contesto e dall’altro una contestura. In particolare, la ricorsività della relazione SO si affianca come lato oggettale a quella assicurata dalla surenchère sul lato soggettale di una teoria dell’ascolto. Si tratta allora dello stesso meccanismo formale di annidamento che è stato possibile ritrovare anche in una teoria dell’ascolto. In particolare, è in funzione di questo passaggio al limite, o ai limiti se si considerano i due orientamenti del dispositivo, che emerge l’accezione di 115 oggetto sonoro come come peirciano oggetto dinamico: l’oggetto sonoro è infatti invarianza al limite delle operazioni di strutturazione (identificazione e qualificazione). 4.4.1. Risultati: tipologia La tipologia è una descrizione esterna del nodo SO, a lato structurae. A partire da un insieme di sei criteri è possibile definire una tipologia di oggetti sonori che risponda al problema del triage degli stessi oggetti. Questa tipologia n-dimensionale, ricondotta ad uno spazio bidimensionale, prende la forma di una vera e propria geografia del sonoro: la descrizione di questo territorio conduce ad una ripartizione in classi tipologiche, vere e proprie regioni in cui ogni oggetto sonoro dovrebbe trovare la propria sede (5). Ogni oggetto sarà dunque di tipo x perché riconducibile alla regione x della tipologia. Fig. 5. Partizione in classi tipologiche dello spazio degli oggetti sonori, da Schaeffer 1996: 442. 4.4.2 Risultati: morfologia Rispetto al dominio degli oggetti sonori, la morfologia è invece una descrizione interna, a lato objecti. La morfologia è dunque lo studio del nodo SO in quanto struttura, ovvero della sua contestura: uno sguardo verso l’interno che mira ad una descrizione delle sue proprietà. Come prevedibile, queste proprietà sono le stesse già incontrate nella tipologia, ma sono riorganizzate in sette criteri 116 morfologici (su cui non è possibile soffermarsi in questa sede) al fine di ottenere una descrizione che aspiri ad essere esaustiva (cfr. 6) 9 Fig. 6. Criteri morfologici. 5. IPOTESI INTORNO ALLA RELAZIONE TRA PRATICHE D’ASCOLTO ED OGGETTI SONORI Come si è visto, la relazione struttura-oggetto è descritta formalmente da una ricorsiva “chaîne infinie”. È così possibile notare in primo luogo come teoria dell’ascolto e teoria dell’oggetto sonoro condividano a livello formale lo stesso tipo di meccanismo definitorio: in entrambi i casi, la logica soggiacente è una logica ricorsiva, per cui gli ascolti si riscrivono come altri ascolti allo stesso modo in cui gli oggetti sono passibili di essere riscritti come altri oggetti. Ma come è possibile costruire un dispositivo che in qualche modo si costituisca a “strumento di misurazione fenomenologica” delle qualità degli oggetti? Questo dispositivo costituirebbe la dimensione tecnica di una certa pratica, il modo in cui la pratica d’ascolto lavora i propri oggetti sonori. In particolare emergono quattro domande, due di carattere generale e due più specifiche, che concernono la tipo-morfologia: 1. Perché questo dispositivo piuttosto che un altro? 2. Quale relazione tra teoria dell’ascolto e teoria dell’oggetto sonoro è definita dal dispositivo? 9 Non ci si può soffermare analiticamente sulle categorie tipo-morologiche definite da Scaheffer. Per una rilettura semioticamente interessata cfr. Lombardo e Valle 2005, cap. 11, che comprende, oltre alla discussione della morfologia, una ridefinizione dello spazio tipologico come continuum tridimensionale. 117 3. La spazio tipologico è costruito a partire da sei dimensioni. Quali sono i valori tipici di queste dimensioni che permettono una ripartizione degli oggetti in classi tipologiche? 4. La morfologia prevede, con un numero primo un po’ sospetto, sette criteri: perchè non altri? Ad esempio, la letteratura sui cosiddetti spazi timbrici di fatto rende pertinenti anche altre categorie descrittive del sonoro, in alcuni casi di sicuro rilievo (Cogan 1984 può ad esempio proporre, a partire da Jakobson, 13 categorie fondamentali). Alla prima domanda, che resta sempre lecita, si può rispondere osservando come il dispositivo schaefferiano abbia il suo punto di forza, per dirla con Fabbri (1998: X), nella “fragile generalizzazione” a cui mira. 5.1. Autodimostrazioni: Schaeffer par lui-même Alle altre tre domande Schaffer ha fornito una risposta sostanziale che impatta sulla formalità del dispositivo, ma che allo stesso tempo è una dimostrazione del funzionamento delle pratiche d’ascolto rispetto agli oggetti sonori. Questa risposta prende la forma di una teoria della “convenance”. 5.1.1. Convenance Al concetto formale del nodo bivalve SO si affianca così il concetto sostanziale di “objet convenable”, che ha il preciso scopo di bloccare la produttività frattale delle iterazioni oggetto-struttura: “il sera bon de nous limiter aux objets les plus simples, les moins indicatifs, les moins anecdotiques, porteur d’une musicalité plus spontanée encore que plus depouillée”. Il limite imposto alla procedura iterativa permette di individuare un insieme di “objets sonores convenables” che Schaeffer ritiene “les objets sonore les plus généraux” (TOM: 339). A tal proposito, infatti, più volte si assume nel Traité che lo studio degli oggetti sonori è lo studio di oggetti “convenables pour une musicalité à définir” (TOM: 348): analogamente, si tratta di rifiutare “et les objets trop musicaux et les objets trop sonores” per ritrovare “des objets particulièrment convenables” (TOM: 392). Convenienti rispetto a che cosa? Rispetto ad una certa pratica compositiva, di cui Schaeffer è risaputamente l’iniziatore, quella che da lui prende il nome di musique concrète10. 5.1.2. Tecniche: acusmatizzazione e ripetizione Di questa rilevanza derridiana della relazione tra semiotica e tecnica per il tramite di una iterabilità del segno e delle pratiche è testimone il dispositivo allestito dall’autore del Traité per giungere all’ascolto ridotto. La possibilità di accesso a quest’ultimo passa infatti per due tecniche, che si suppongono, in quanto tali, apprendibili: acusmatizzazione e ripetizione. La messa tra parentesi dell’indicale richiede l’acusmatizzazione, in cui, attraverso l’occultamento della visibilità (tipi- 10 A tal proposito, sono di massimo interesse le considerazioni sullo stabilirsi della relazione tra ascolto e oggetti contenute nei due journals de la musique concrète, Schaeffer 1952. 118 camente ma non esclusivamente) del corpo sonoro produttore, si suppone restituire “a l’ouïe seule l’entière responsabilité d’une perception d’ordinaire appuyée sur d’autres témoignages sensibles” (TOM: 91): vera e propria “expérience initiatique” che condurrebbe alla “réalité perceptive d’un son en tant que tel” (ibid.), è un tentativo di risalita alla prototipicità dell’udibile rispetto alla multimodalità dell’enunciazione11. L’esclusione del simbolico passa invece per la ripetizione che “impose peu à peu l’objet sonore” (TOM: 94): attraverso l’ascolto iterato si producono vere e proprie variazioni d’ascolto, così che, nella ripetizione, date le stesse condizioni fisiche, ne conseguono “éclairages particuliers”, “directions chaque fois précises et revelant chaque fois un nouvel aspect de l’objet” (TOM: 94). La ripetizione è una rilettura -si direbbe secondo l’uso- di tipo plastico, che mira ad escludere, per il tramite della ri-presentificazione, l’insieme delle determinazioni semantiche: si tratta di una procedura di tipo informazionale, per saturazione progressiva delle isotopie attivabili e conseguente decremento progressivo della quantità di informazione immediatamente disponibile. 5.1.3. Ascolto ridotto e oggetto sonoro (immediato) Dunque in Schaeffer una specifica pratica d’ascolto corredata da una specifica tecnica -l’ascolto ridotto- individua i suoi oggetti specifici -gli oggetti sonori che diventano convenable per antonomasia-, oggetti ad essa convenienti in vista di uno specifico uso compositivo, codificato ad esempio in un preciso stile di composizione elettroacustica, lo “style GRM”. Schaeffer compositore dimostra, attraverso la sua pratica, il funzionamento previsto dal dispositivo analitico (teoria dell’ascolto e teoria dell’oggetto sonoro) approntato dallo Schaeffer teorico: non a caso, in molte opere elettroacustiche parigine (per le quali il Trattato schaefferiano si pone dunque come descrizione di una pratica di produzione), è stato possibile individuare un’ “aire de famille”, “un souci commun d’articulation et de contrôle du discours musical” (Dhomont 1986: 75). 5.2. Pratica e storia Questa dinamica della convenance permette una considerazione semiotica più generale. È noto che la semiotica, prima della riproposizione di una dimensione prasseologica attraverso il concetto di “prassi enunciazionale”, ha pensato la 11 Schaeffer discrimina opportunamente tra ascolto acusmatico e ascolto ridotto: “il y a objet sonore lorsque j’ai accompli (...) une réduction plus rigoureuse encore que la réduction acousmatique: non seulement, je m’en tiens aux reinsegnements fournis par mon oreille (...) mais ce reinsegnements ne concernent plus que l’événement sonore lui-même” (TOM: 268). C’è quindi un doppio movimento: prima l’ascolto acusmatico, poi l’ascolto ridotto come suo sottinsieme. Ma si può praticare l’ascolto ridotto anche in situazione non acusmatica: è soltanto più difficile, l’acusmatizzazione essendo appunto una tecnica per accedervi più facilmente. D’altra parte, è altrettanto vero, come nota Chion discutendo specificamente dell’enunciazione multimodale nell’audiovisione, che “l’acusmatico esaspera in partenza l’ascolto causale”, la stessa acusmatizzazione richiedendo l’attivazione di una logica della produzione, per cui “colui che ascolta è condotto a porsi due volte la domanda “che cos’è? (da tradurre con la domanda che cosa causa questo suono?)” (Chion 1990: 34). 119 storicità come una delimitazione dell’insieme delle possibilità combinatorie che la struttura dell’universo semantico in sé permette: l’uso hjelmsleviano è per Greimas una clôture. Analogamente, si puó assumere che l’insieme liscio ed eterogeneo del sonoro venga striato dalle pratiche d’ascolto e di produzione che stabilizzano e sanzionano sociosemioticamente insiemi discreti di oggetti convenables. Dunque, come sottolinea Michel Chion, l’ipotesi di una convenance in qualche misura ontologicamente ancorata (stabilita a priori e dunque estranea alla prassi che ne sarebbe posteriore) non tiene poiché, proprio rispetto alla tipologia schaefferiana, centrata intorno agli “objets convenables”, si è di fatto assistito negli ultimi anni ad una valorizzazione estetica e compositiva dell’eccentrico, nel senso etimologico per cui gli oggetti risultanti si trovano lontani da quel centro previsto nella griglia tipologica del Traité. L’ “objet convenable” è allora un “être impossible” (Chion 1998: 172) laddove lo si pensi sul piano formale: ma sul piano sostanziale resta invece oggetto possibile di una sociosemiotica dell’udibile. 6. CONCLUSIONI Si può allora assumere che, da un punto di vista statico: 1) ogni pratica costituisce una sua stabilizzazione della catena SO e, di conseguenza, ogni pratica bilancia il dispositivo tipo-morfologico. Viceversa, un certo bilanciamento tipo-morfologico implica una certa pratica. Si può infine osservare da un punto di vista dinamico: 2) ogni pratica è uno sganciamento rispetto ad una pratica precedente, un’iterazione sull’elica delle pratiche d’ascolto. Quest’iterazione definisce un punto di riferimento rispetto alle catena infinita dei nodi bivalvi SO, che descrivono formalmente lo statuto dell’oggetto sonoro. Poiché la tipomorfologia dipende dalla definizione della relazione tra oggetto e struttura (che determina il contesto e la contestura dell’oggetto sonoro), questo posizionamento è di fatto un bilanciamento del doppio dispositivo tipomorofologico. Dunque, in fine di partita, quale relazione tra testo e pratica? È stato fatto osservare che l’oggetto proprio all’udibile dovrebbe essere descritto nei termini di un flusso (“stream”, Bregman 1990, cfr. anche Albertazzi 1993). Come ogni pratica istanzia i suoi testi, ogni pratica d’ascolto istanzia un testo di oggetti sonori ottenuti stabilizzando una molteplicità di flussi udibili, leibnizianamente “compossibili”. 120 Bibliografia Adorno, Theodor W. 1962 Einleitung in die Musiksoziologie. Zwölf teoretische Vorlesungen, Frankfurt a.M., Suhrkamp Verlag; trad. it. Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi 1971. Albertazzi, Liliana 1993 “Eventi sonori”, in L. Abertazzi, 1993 (v.), pp. 107-123, Milano, Guerini. Albertazzi, Liliana (a cura di) 1993 La percezione musicale, Milano, Guerini. Arbo, Alessandro 2001 “L’oggetto sonoro”, in Ferraris e Kobau 2001 (v.), 271-283. Augoyard, Jean-François 1999 “L’objet sonore ou l’environnement suspendu”, in Thomas 1999 (v.), 83-106. Bayle, François 1993 Musique acousmatique. Propositions…positions, Paris, INA-Buchet/Chastel. Bregman, Albert 1990 Auditory Scene Analysis. The Perceptual Organization of Sound, Cambridge (Mass.)London, The MIT Press. 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Proprio la scuola che si è opposta ad una semiotica generale di tipo enciclopedico, considerata disciplina troppo filosofica e non in grado di rendere conto delle organizzazioni locali del senso,1 pare infatti avere dato vita ad una nuova forma di imperialismo semiotico, meno ambizioso e più innocuo perché quasi interamente metaforico, che ha portato ad omogeneizzare sotto gli stessi oggetti teorici cose radicalmente eterogenee come un romanzo, una zuppa al pesto, la degustazione di un sigaro, 1 Cfr. Greimas 1983: 120. 123 la città, il dialogo tra le culture, l’avarizia, le strategie di mercato, la generosità, il design, più miti antichi, la pubblicità del detersivo, Proust. Questa omogeneizzazione, i cui oggetti sembrano essere tratti da una tassonomia di Borges2, si vuole allora costitutivamente locale, dal momento che si è fatto del senso obiettivato localmente un oggetto quasi esclusivo dell’analisi semiotica; e costruttivista, dal momento che non si è visto nel testo una “cosa”3, bensì l’effetto di una metodologia d’analisi che mira il suo oggetto=x e ne effettua una prensione semiotica. Si tratta in realtà anche e soprattutto di un problema di sviluppo storico della disciplina, che in questa tradizione nasce davvero a partire dallo studio dei “testi” in senso stretto. Se in principio la metodologia originariamente elaborata da Greimas si applicava infatti ai racconti, ai miti e ad altri ambiti disciplinari piuttosto circoscritti, si è poi deciso di operare un’estensione verso nuovi campi d’indagine, ma di norma lo si è fatto senza che questi nuovi oggetti a cui ci si doveva hjelmslevianamente adeguare venissero considerati come una fonte di possibile problematizzazione degli oggetti teorici della teoria, continuando invece semplicemente a leggere quello che la teoria consentiva di leggere (strutture profonde, articolazione narrativa, trasformazioni valoriali modalizzate etc.). E “leggere” va qui inteso in senso letterale, dal momento che tutti questi nuovi ambiti di analisi (oggetti, cibo, relazioni sociali, pratiche, spazi, culture etc.) non erano altro che nuovi “testi” e venivano considerati in quanto tali. Si tratta del passaggio, sottile quanto decisivo, dall’estensione virtuosa di una stessa metodologia d’analisi a nuovi ambiti disciplinari, all’estensione cancerosa di una semplice metafora che finisce per rendere visibile negli oggetti analizzati soltanto quello che si è in grado di cercare. All’omogeneizzazione costitutiva che è propria della semiotica come disciplina dei testi, opponiamo allora una semiotica interpretativa come disciplina trasduttiva in grado di costruire concatenamenti tra elementi eterogenei senza che con questo essi cessino di restare eterogenei. Una semiotica di questo tipo pare allora fondarsi proprio sullo stesso principio semiotico che è stato oggetto di rimozione epistemologica da parte della tradizione generativa, e che attraverso la sua scomparsa ha così dato vita alla semiotica come disciplina immanente dei testi. Rispetto a quest’ultima, proporremo allora un’altra concezione della semiotica, del suo sguardo e dei suoi compiti; concezione fondata proprio sul principio oggetto di questa stessa rimozione. Per quanto ci riguarda, occorrerà allora risalire fino alle radici epistemologiche che hanno reso possibile il paradigma testualista, al fine di ritrovare quei principi che sono autenticamente costitutivi dell’identità stessa degli elementi semiotici. A quel punto sarà possibile individuare le specificità della semiotica rispetto alle altre discipline, e questa mossa darà vita per noi 2 3 È nota infatti questa tassonomia deliziosa attribuita da Borges ad un’Enciclopedia cinese, secondo cui gli animali si dividerebbero in: 1) appartenenti all’imperatore; (2) imbalsamati; (3) addomesticati; (4) maialini di latte; (5) sirene; (6) favolosi; (7) cani in libertà; (8) inclusi nella presente classificazione; (9) che si agitano follemente; (10) innumerevoli; (11) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello; (12) et caetera; (13) che fanno l’amore; (14) che da lontano sembrano mosche. Cfr. Tore 2005. 124 ad una differente immagine della semiotica nella sua totalità, tanto che questa “nuova semiotica”4 finirà per portare con sè i germi propri dell’interpres e di una semiotica che si vuole costitutivamente interpretativa. Si tratterà allora di procedere con ordine, quasi con cautela, cominciando da una vera e propria operazione di recupero archeologico. Una semiotica interpretativa consente infatti di reintrodurre all’interno di un’epistemologia semiotica di tipo differenziale quello che è stato il vero e proprio rimosso dell’intera tradizione strutturalista, e cioè la prima accezione, o dimensione, che è costitutiva del valore saussuriano. In effetti, stando agli storici della lingua, la parola interpres designa in origine colui che media una transazione, colui i cui buoni uffici sono necessari perché un oggetto possa cambiare di mano (...). L’interpres assicura dunque un passaggio; contemporaneamente sta attento a riconoscere l’esatto valore dell’oggetto trasmesso, ed assiste alla trasmissione in modo da constatare che l’oggetto passi da una mano ad un’altra nella sua integrità (Starobinski 1974: 23). L’interpres è così colui che media tra elementi eterogenei, garantendo il passaggio da un punto ad un altro, e ci insegna dunque la bellezza delle strutture di frontiera, delle istanze di passaggio, dello “stare-tra”. Ecco allora che ben lungi dall’essere in grado di costruire un dominio propriamente semiotico in cui un’eterogeneità vastissima di fenomeni possa essere trattata secondo una metodologia omogenea riconducibile a quella di un’analisi testuale, la semiotica si caratterizza per noi come il ben più complesso tentativo di garantire una traducibilità propriamente semiotica tra elementi eterogenei. Si tratta cioè di garantire una possibilità di scambio attraverso l’individuazione di un livello semiotico in cui si rende possibile il passaggio da un dominio disciplinare ad un altro. Ben più che riportare elementi eterogenei in un dominio semiotico, si tratta di tra(s)durre elementi tra un dominio ed un altro dominio eterogeneo attraverso la semiotica. Quest’opera di tra(s)duzione, che è per noi costitutiva dell’identità stessa della semiotica, rimanda allora alla prima accezione del valore saussuriano, dalla quale si tratta di partire innanzi tutto. 2. LA PRIMA DIMENSIONE DEL VALORE SAUSSURIANO E LA SEMIOTICA COME DISCIPLINA EN PLEIN AIR. SU ALCUNE RIMOZIONI COSTITUTIVE DELL’EPISTEMOLOGIA SEMIOTICA Com’è noto, secondo Saussure (1922) l’identità di qualsiasi elemento semiotico consiste in un valore, ed un valore è costituito sempre da due dimensioni, entrambe 4 L’espressione è di Fabbri (1998): cfr. infra, paragrafo 6. 125 puramente differenziali e relazionali, e non è nulla al di fuori di esse. La prima dimensione da cui dipende un valore risiede infatti nella sua corrispondenza con delle entità esterne al sistema all’interno del quale esso è considerato. Per esempio il valore di un pezzo da cinque franchi è determinato dal fatto “che lo si può scambiare con una determinata quantità di una cosa diversa, per esempio con del pane”.5 La seconda dimensione consiste invece nelle relazioni che un valore contrae con altri valori interni al sistema di cui è membro. Per esempio “lo si può confrontare con un valore similare del medesimo sistema, per esempio un pezzo da un franco, o con una moneta di un altro sistema (un dollaro)”6. Queste due dimensioni relazionali, una trascendente e l’altra immanente al sistema considerato, sono entrambe costitutive della nozione stessa di valore: un valore si dà solamente quando è scambiato con un “fuori” e confrontato con un “dentro” al sistema di cui è parte, dal momento che è solamente confrontandosi all’interno del suo sistema più proprio e scambiandosi al di fuori di esso che un elemento=x diventa un valore. Saussure identifica allora questa doppia dimensione che è costitutiva dell’identità di un valore col semiotico, dal momento che il valore è “l’entità concreta dei sistemi semiologici” (134), il “personaggio” della loro “storia”. Nei sistemi semiologici, come la lingua, in cui gli elementi si tengono reciprocamente in equilibrio secondo regole determinate, la nozione di identità si confonde con quella di valore e viceversa. Ecco perché, in definitiva, la nozione di valore ricopre quella di unità, di entità concreta, e di realtà (Saussure 1922: 134). Ecco in cosa consiste la specificità dei “sistemi semiologici”, ed ecco cosa popola il loro territorio: elementi in cui l’identità si confonde con quella di valore e la cui concretezza è la concretezza propria di un valore, in entrambe le sue dimensioni costitutive. Al di fuori di questa identificazione non c’è impresa semiotica: c’è un altro sistema, come dice Saussure. Ora, in Raison et poétique du sens, e proprio in riferimento alle due accezioni del valore saussuriano, Claude Zilberberg (1983: 17) notava molto giustamente come l’intera semiotica strutturale e generativa “si sia costituita attraverso l’adozione del secondo principio e l’abbandono non teorizzato del primo”. Questo abbandono della dimensione trascendente costitutiva della prima accezione del valore in Saussure è stato probabilmente effetto dell’identificazione dell’elemento dissimile al sistema differenziale con il referente, o con un campioneparametro. A partire da Hjelmslev infatti, la tradizione semiotica strutturalista non ha mai saputo cogliere la relazionalità differenziale costitutiva del valore semiotico anche nella sua accezione trascendente (prima dimensione) ed ha sempre finito per confonderla col riferimento ad un campione-parametro, se non addirittura con quello ad un denotatum extravaloriale. 5 6 Saussure 1922: 140. Saussure 1922: 140. 126 Il paragone con il valore di scambio zoppica su un punto fondamentale: […] il valore di scambio è definito per il fatto che corrisponde ad una quantità determinata di merce, e questo fatto serve a dargli un fondamento basato su dati naturali, mentre in linguistica i dati naturali sono del tutto assenti. Il valore economico è per definizione un termine a due facce: non solo ha il ruolo di costante rispetto alle unità concrete, ma restando identico ha il ruolo di variabile rispetto ad una quantità stabilita di merce che gli serve come riferimento. In linguistica, invece, non c’è nulla che corrisponda al riferimento (Hjelmslev 1959: 100). Lo stesso Rastier (2003b), da sempre difensore del paradigma differenziale in semiotica, non pare cogliere la differenzialità relazionale costitutiva dell’accezione trascendente saussuriana e, in una radicalizzazione dell’idea hjelmsleviana, finisce addirittura per identificarla con un richiamo al referente, cosa che lo porta a sostenere la saggezza della tradizione generativa nell’averla abbandonata a favore esclusivo della seconda accezione: la significazione consiste nel valore “interno”, e questo si accorda con l’abbandono decisivo di ogni riferimento. Così la differenza tra mutton e sheep consiste nella loro compresenza, e dunque nella loro ripartizione differenziale […], ma non in una differenza a priori delle loro significazioni che si baserebbe sulla differenza dei loro referenti (Rastier 2003b: 3). Ora, questo qualcosa di dissimile con cui un valore può essere scambiato per costituirsi in quanto valore deve necessariamente essere un campione, un referente, un termine-parametro o qualcosa di simile ad una riserva aurea? Non può invece essere semplicemente un “fuori” rispetto ai rapporti differenziali che sono costitutivi della seconda accezione, un “fuori” con cui essi stessi si scambiano e si traducono continuamente nelle pratiche di significazione? In Dynamiques et structures en langue, già David Piotrowski (1997) insisteva sulla dimensione puramente differenziale costitutiva anche della prima accezione. In effetti, per noi la prima accezione del valore saussuriano, incarnata alla perfezione nella teoria dell’interpretazione peirciana, insegna non a definire un livello omogeneo in funzione del quale degli oggetti possano essere determinati e trattati in quanto semiotici; bensì a definire concatenamenti locali con un fuori, in cui gli effetti di senso sono sempre funzione degli elementi esterni al sistema con cui si scambiano incessantemente. Questi concatenamenti con un fuori istituiscono allora delle commensurabilità locali (ratio) tra elementi che non cessano di restare eterogenei, ma di cui si concatena una forma di relazione comune. In questo modo, la semiotica è per noi tale esclusivamente attraverso le altre discipline con cui non cessa di tradursi: essa le assume, ne mobilizza dei frammenti, ne costruisce concatenamenti, ne usa gli oggetti teorici per affrontare e costruire i propri. Per questo esiste una semiotica dell’arte distinta dalle discipline artistiche; per questo esiste una semiotica della 127 percezione distinta dalla percettologia; per questo esiste una semiotica della musica distinta dalla musicologia, per questo esiste una semiotica della letteratura distinta dalle analisi letterarie etc. Si direbbe un “ornitorinco disciplinare”, nel senso in cui l’ornitorinco è un animale fatto con pezzi di altri animali, o forse, gli altri animali sono fatti con pezzi dell’ornitorinco (cfr. Eco 1997). Perché quello che succede con la semiotica sembra infatti essere del tutto peculiare. A differenza di tutte le altre discipline, che hanno un oggetto che disegna un dentro disciplinare, la semiotica ha un oggetto, il senso, che la pone immediatamente fuori da un dominio chiuso, essendo il senso qualcosa che circola all’interno di tutti i domini disciplinari. Per questo la semiotica è esente da ogni rapporto esclusivo con un solo oggetto, e la sua dimensione è l’aria aperta delle pratiche di significazione in cui il senso solamente si dà. Il senso non si dà nel dominio semiotico, si dà in quello di tutti gli altri: per questo la semiotica è costitutivamente sempre fuori e non ha dominio, non cessando così di concatenare domini eterogenei. Al contrario, relegando la prima accezione del valore nel non teorizzato ed erigendo il proprio edificio esclusivamente nel “dentro” della seconda (dimensione immanente), la semiotica ha operato la costruzione di un sistema omogeneo all’interno del quale i valori semiotici si scambiavano esclusivamente con altri valori simili. “Testo”, ed ora “semiotica-oggetto”,7 sono gli oggetti teorici attraverso i quali si è operata questa omogeneizzazione. Si tratterà allora di mostrare brevemente come e, soprattutto, come sia possibile uscirne verso un fuori che è costitutivo della semiotica come disciplina en plein air. 3. ALLE RADICI DELL’EPISTEMOLOGIA SEMIOTICA: STRUTTURALISMO E FENOMENOLOGIA, DISCORSIVO E PERCETTIVO, “DIRE” E “MOSTRARE” In un saggio che è a fondamento dell’intera epistemologia strutturale, Gilles Deleuze (1967) individuava innanzi tutto un primo criterio molto generale da cui si riconosceva lo strutturalismo. Nel porre all’origine dello strutturalismo la linguistica, Deleuze si affrettava infatti a precisare che se in seguito lo strutturalismo si estende ad altri domini disciplinari non è affatto per importare metodi equivalenti a quelli che hanno dato buona prova di sé nell’analisi del linguaggio, ma è invece essenzialmente per un problema costitutivo della stessa epistemologia strutturale; e più precisamente per un problema di oggetto e di sguardo, e cioè per un problema che riguarda ciò che una disciplina “vede” nel momento in cui “guarda” qualcosa, ciò che sa riconoscere nelle cose che guarda. In realtà - scrive Deleuze - non c’è struttura se non di ciò che è linguaggio, fosse pure un linguaggio esoterico o addirittura non verbale. Non 7 Cfr. Fontanille 2005. 128 c’è una struttura dell’inconscio se non nella misura in cui l’inconscio parla ed è linguaggio. Non c’è una struttura dei corpi se non nella misura in cui si ritiene che i corpi parlino con un linguaggio che è quello dei sintomi. Le cose stesse hanno una struttura solo nella misura in cui tengono un discorso silenzioso, che è il linguaggio dei segni (Deleuze 1967: 12). Questa idea non ha allora niente a che vedere con la vecchia concezione del linguocentrismo barthesiano o del linguaggio come sistema modellizzante primario di Lotman, che ponevano entrambe al centro di ogni sistema semiotico il modello del linguaggio verbale. Si tratta qui di tutt’altro. Deleuze non sta affatto dicendo che ogni struttura deve fondarsi sul modello del linguaggio e che anche i sistemi non linguistici devono basarsi sulla struttura di quelli linguistici; sta invece dicendo che non esiste struttura se non di ciò che è linguaggio, e che dunque ogni linguaggio è essenzialmente una struttura e che dunque una struttura per sua stessa essenza “parla”, e cioè possiede un’essenza discorsiva, e non percettiva o presentativa. È il suo metodo per uscire dalla fenomenologia attraverso la semiotica strutturale (cfr. Deleuze 1968, 1983: capitolo 3). È il suo metodo per uscire finalmente dall’approccio che parte dall’esperienza originaria, fondamentale complicità con il mondo che darebbe luogo alla nostra possibilità di parlarne e costituirebbe il visibile come base dell’enunciabile (la fenomenologia, il “Mondo parla”, come se le cose visibili mormorassero già un senso che il nostro linguaggio dovrebbe soltanto risvegliare, o come se il linguaggio si appoggiasse a un silenzio espressivo) (Deleuze 1983: 62). Ecco allora che quando Deleuze ci dice che non c’è struttura se non di ciò che è linguaggio sta innanzi tutto affermando il primato della discorsività del “dire” sulla visibilità del “mostrare”, il primato dell’elemento evenemenziale della struttura, la singolarità, sulla complicità fenomenologica tra corpo e mondo che costituirebbe un “visibile” sensibile e percettivo posto a fondamento dell’enunciabile. Si tratta del rovesciamento del primato della percezione sulle altre attività cognitive di ordine superiore. Questa posizione, oggi largamente minoritaria non solo in semiotica, ma anche in semantica e in scienze cognitive, era allora esattamente quella sostenuta da Peirce nel saggio “Some consequences of four incapacities” in cui, attraverso la riduzione di qualsiasi “classe di modificazioni di coscienza” (sentimenti, percezioni, emozioni etc.) alla struttura semiotica dell’inferenza valida, Peirce fondava la semiotica sul rovesciamento del primato dell’estesico rispetto al logico, del percettivo rispetto al discorsivo, del presentativo rispetto al ripresentativo (cfr. CP 5.264-317). Si tratta allora di insistere sulla nozione capitale di singolarità che, come dice 129 Deleuze, è al centro di tutti i campi in cui c’è struttura:8 la singolarità è un punto in cui succede qualcosa che corrisponde ai valori dei rapporti differenziali, in entrambe le dimensioni costitutive del valore. In funzione del valore di un rapporto, si hanno punti corrispondenti (singolari e regolari). Per Deleuze è esattamente questa concezione della struttura che permette di uscire dal primato del sensibile e del percettivo; dal momento che, come vedremo, è la nozione stessa di singolarità che presiede al dispiegamento del sensibile nella funzione semiotica, e dunque al concetto di “testo” o di “semiotica-oggetto”. È per questo che per lo strutturalismo il “dire” possiede un primato che non è possibile fondare in alcun modo su di un silenzio espressivo sensibile e percettivo che ne rappresenterebbe la condizione di possibilità. Ed è per questo che è attraverso lo strutturalismo che Deleuze intende uscire dalla fenomenologia. Chi infatti è convinto che il linguaggio si appoggi direttamente ad un silenzio espressivo che lo rende possibile è proprio Merleau-Ponty. In Merleau-Ponty (1964) le cose parlano perché esiste un’esperienza precategoriale in cui si assiste alla “nascita del senso o un senso selvaggio, un’espressione dell’esperienza attraverso l’esperienza che chiarifica il dominio speciale del linguaggio” (204). È allora solamente perché esiste questo spazio di presentazione pura che il senso si ritrova ad essere “l’integrale di tutte le differenziazioni […] in cui tutto il paesaggio è occupato dalle parole come attraverso un’invasione che lo rende nient’altro che una variante della parola […]. Come dice Valery il linguaggio è tutto, dal momento che esso non è la voce di nessuno, perché esso è la voce stessa delle cose, delle onde, dei boschi” (203-4). Là dove Deleuze ci diceva che ogni esperienza è una lingua, Merleau-Ponty ci dice che ogni lingua è un’esperienza, selvaggiamente originaria e precategoriale. Là dove Deleuze ci diceva che l’esperienza nasce solo grazie al senso (al linguaggio, alla struttura), fondando così la condizione di possibilità di qualsiasi esperienza su processi semiotici, Merleau-Ponty ci dice invece che il senso nasce grazie all’esperienza, un’esperienza originaria e selvaggia posta a fondamento stesso del senso. Là dove lo strutturalismo ci dice che il senso si dà attraverso rapporti differenziali, Merleau-Ponty ci dice invece che esso è l’integrale di tutte le differenziazioni, e cioè il procedimento esattamente opposto che risolve ed annulla le differenze riducendole a varianti. È noto infatti come in matematica i rapporti differenziali tra elementi in determinazione reciproca vengano risolti attraverso l’integrale che definisce la curva nelle loro vicinanze, 8 In tutti i campi in cui c’è struttura ad eccezione della semiotica, come vedremo, dal momento che proprio la semiotica che si è voluta strutturale ha abbandonato completamente il momento della costruzione della funzione semiotica a partire dalla coniugazione di singolarità, al fine di operare un’omogeneizzazione dei problemi semiotici sotto il concetto-ombrello di “testo”. Con alcune notevoli eccezioni ovviamente (cfr. Petitot 1977, 1985 e 1992 e, con una posizione più ibrida di ispirazione fenomenologica ma non senza sensibilità al problema, Fontanille e Zilberberg 1998). 130 non essendo così l’integrale altro che il procedimento opposto e risolutivo di ogni differenziazione. L’integrale risolve le differenze e fa sparire i rapporti di determinazione reciproca tra gli elementi differenziali. Non è allora un caso che ad ispirarsi esplicitamente a Merleau-Ponty sia proprio quella semiotica che tende a ridurre la centralità della differenza e dei valori differenziali all’interno della propria epistemologia, al fine di fondarla su valenze tensive.9 Questa semiotica pone infatti con forza il primato della percezione e del sensibile in semiotica; posizione che non è quella dello strutturalismo deleuziano-foucaultiano e non è quella della semiotica interpretativa di Peirce. Ma ben prima della semiotica tensiva, questa ibridazione tra strutturalismo e fenomenologia era ben evidente già in Greimas, ed ha dato vita a ciò che si è definito “imperialismo testualista” in semiotica. 4. L’IMPERIALISMO TESTUALISTA DELLA SEMIOTICA GENERATIVA La semiotica generativa pare infatti avere assunto l’idea deleuziana discussa in precedenza nella sua declinazione merleau-pontiana, finendo così semplicemente per sostituire la parola “testo” a quella “linguaggio”. Ecco allora che, per parafrasare Deleuze, non esiste semiotica se non di ciò che è testo, fosse pure un testo esoterico, oggettuale, sociale o non verbale. Non esiste una semiotica degli oggetti se non nella misura in cui gli oggetti parlano e sono testi. Non esiste una semiotica delle pratiche sociali se non nella misura in cui si ritiene che esse possano essere lette in quanto testi. Non esiste una semiotica delle arti se non nella misura in cui si ritiene che esse parlino un linguaggio che è quello del visibile e possano a loro volta essere trattate come testi. Non esiste semiotica se non di ciò che è testo, dal momento che “fuori dal testo non c’è salvezza”, come diceva Greimas. Ecco allora quello che vede questa semiotica: vede testi dappertutto. Negli oggetti, nei corpi, nel cibo, nelle relazioni sociali, nelle pratiche, nelle culture etc. Ben lungi dal concatenare elementi eterogenei costituendone una commensurabilità locale senza che con questo essi cessassero di essere eterogenei, la semiotica generativa definiva così un livello omogeneo in cui tutto era rapportabile ad un’unica forma profonda incarnata dalla testualità. Il “testo” è il vero e proprio “mana” di questa semiotica: ciò che circola nel momento stesso in cui l’analisi mira il suo oggetto e ne effettua una prensione semiotica. Esattamente come nel “Saggio sul dono” di Mauss (1950) ciò che circolava non erano degli oggetti eterogenei, bensì la forza profonda (“mana” o “hau”) di cui essi erano il puro supporto; così la vita vera della significazione, con tutti i suoi elementi eterogenei, è il puro supporto della circolazione di un unico elemento propriamente semiotico che li omogeneizza tutti: il testo. Tutti gli oggetti riportati nel “dentro” della semiotica diventano magicamente dei testi, 9 Cfr. Fontanille e Zilberberg 1998, in particolare le voci “Valence” e “Valeur”. 131 indipendentemente dalla loro natura eterogenea. Paradossalmente, nel rifiutare la prima accezione del valore saussuriano per paura di un campione-parametro (riserva aurea), la semiotica generativa finiva per ergere la propria immanenza a campioneparametro stesso: tutti gli elementi del senso circolavano sempre in quanto testi e venivano definiti nel loro valore in riferimento ad una testualità costitutiva che li omogeneizzava. Ma a che prezzo? Floch (1990) definiva un testo attraverso le proprietà di “chiusura, coerenza e coesione”. È allora ben evidente come le pratiche significanti siano invece aperte, spesso incoerenti e ben poco coese. Nel riprendere questa idea di Floch, Fabbri e Marrone (2000: 8-9) notano allora come la nozione di testo non comprende soltanto i testi propriamente detti, ossia i supporti materiali scritti di cui si occupano i filologi, e nemmeno tutti i prodotti comunicativi di ogni altro linguaggio […], ma, più in generale, qualsiasi porzione di realtà significante che può venire studiata dalla metodologia semiotica, acquisendo quei tratti formali di chiusura, coerenza, coesione, articolazione narrativa, molteplicità dei livelli ecc., che si riscontrano con maggiore facilità nei testi propriamente detti, ma che, a ben guardare, li eccedono. Si tratta di una sorta di messa in posa artificiale per una foto: c’è il ritmo vivo della “realtà significante” che scorre e la semiotica non fa altro che metterlo in posa per fargli delle foto con una buona luce, in modo da farlo sembrare sempre più bello di quello che è in realtà (coeso, coerente, chiuso). Il testo è così il “mana” o l’“hau” della semiotica: esso circola ininterrottamente e lo fa nella forma chiusa, coerente e coesa della foto in buona luce. Il testo è la foto in buona luce della vita vera della significazione (semiosi o “realtà significante”). Era del resto l’effetto di un’epistemologia che ha portato, nel momento in cui sembrava funzionare nella pratica, non tanto al tentativo di potenziamento delle categorie esplicative della disciplina in funzione dei nuovi oggetti di analisi, quanto piuttosto ad una visione di questi stessi nuovi oggetti in quanto testi, e di conseguenza ad un allargamento smisurato del concetto stesso di testo, a cui non ci sembra oggi di poter riconoscere uno statuto che sia poco più che metaforico. Si veda ad esempio l’estensione smodata assunta dalla nozione di testo nella sociosemiotica di Landowski (1989: 278): il reale che la sociosemiotica si assegna come oggetto, identificato con le condizioni socialmente costruite dalla capacità di significare dei nostri discorsi e delle nostre azioni, non è per lei null’altro che un’ulteriore forma testuale. E tuttavia che brutta e stanca idea: il mondo come testo, un’idea così speculare a quella del mondo come libro, un’idea così vicina al grande libro della natura di 132 Galileo Galilei (si direbbe: il grande testo della cultura). Questa idea del mondo come testo è allora tutt’altro che esclusivamente costitutiva di un approccio generativo alla semiotica, ma rappresenta anzi una tentazione trasversale, alle cui sirene molti non hanno saputo resistere. Rastier (2001) notava infatti molto giustamente come una semiotica puramente inferenziale, costitutiva di quello che Ginzburg (1983) avrebbe chiamato un “paradigma indiziario”10, fosse fin dalle origini tentata di abbracciare un paradigma testualista e la sua metafora del mondo come testo. Nell’inferenza un relatum è antecedente, l’altro conseguente - temporalmente, casualmente o in qualsiasi altra maniera. Si dirà dunque che il primo è segno dell’altro, come una nuvola è segno di pioggia. […] In generale, la tradizione non differenzia, per ciò che concerne l’inferenza, l’interpretazione del mondo e l’interpretazione del testo (Rastier 2001: 84). Ecco allora che nel delineare quelli che ritengono essere i rapporti tra semiotica e interpretazione, Pisanty e Pellerey (2004: 67) possono ad esempio sostenere come “in base a questa accezione allargata, un testo è ogni porzione di mondo sensibile sulla quale qualcuno decide di esercitare la propria attività interpretativa. In un certo senso, tutto il mondo fisico è un grande testo da interpretare: il compito istituzionale degli scienziati è per l’appunto di leggere i fenomeni naturali come se fossero i segni visibili di una serie di leggi fisiche da scoprire. Un testo è insomma una qualunque occorrenza espressiva che qualcuno decide di interpretare come il segno di un contenuto ancora da stabilire”11. Strano corto circuito davvero quello di chi arriva da strade opposte ad un’unica grande metafora del taglio del mondo sensibile e della sua conseguente trasformazione espressiva in un testo. Con tutti i problemi che essa comporta: dall’identificazione di piano dell’espressione e mondo sensibile (ad esempio il “mondo intelligibile” non è un testo, è un contenuto); fino a questa idea propria del pensiero magico, per cui, nel momento in cui l’attività interpretativa propria del semiotico si esercita sul mondo, essa lo trasforma in mana testuale che non smette di circolare senza interruzione, indipendentemente dal supporto che lo incarna (la “zuppa al pesto” come testo, ad esempio). Un testo è una qualsiasi porzione sensibile correlata a un contenuto, così che per Marrone (2001) basta ad esempio un piano dell’espressione e un piano del contenuto a rendere qualsiasi cosa un testo. Allo statuto oramai poco più che metaforico di una semiotica come disciplina dei testi, opponiamo allora l’idea di una semiotica come fabbrica, come 10 11 Per un accostamento tra le idee di Ginzburg e quelle di Peirce, si veda Fabbrichesi Leo, 2004. Ci pare che la semiotica interpretativa di Eco, sebbene abbia certamente tenuto insieme testo e mondo all’interno di un paradigma semiotico inferenziale, non abbia mai abbracciato questa idea, nemmeno quando la affrontava direttamente come nei Limiti dell’interpretazione. Di sicuro il suo approccio generale è esattamente quello opposto: si veda più avanti la teoria dei modi di produzione segnica del Trattato di semiotica generale. 133 teoria incarnata dei modi di produzione di funzioni semiotiche interpretanti, e vedremo come questa strada si riveli molto più feconda proprio nell’analisi, dal momento che essa consente di costruire le categorie semiotiche localmente, tagliandole sull’oggetto in questione, in funzione del piano disciplinare in cui ci si installa. Non pare allora andare in questa direzione la recente sostituzione fontanilliana del concetto di “testo” con quello di “semiotica-oggetto”, che sembra anzi rappresentare un passo indietro rispetto alle posizioni sostenute in Figure del corpo12. Parlare di “semiotiche-oggetto” serve infatti senz’altro a liberarci della metafora del testo, nel senso che una zuppa al pesto non sembra più essere un testo, così come non lo sembra più essere il gustarsi un sigaro, né tanto meno il “reale” che la sociosemiotica si assegna come oggetto (cfr. Fontanille 2005: 1). E tuttavia, a livello teoretico ed analitico, questa sostituzione non pare però modificare le carte in tavola, visto che una semiotica-oggetto non sembra essere altro che una relazione che associa un’espressione a un contenuto: Questa relazione che associa un piano dell’espressione e un piano del contenuto è il minimo richiesto perchè si possa trattare qualsivoglia fenomeno, ivi compresa una strategia o una forma di vita, come una “semiotica-oggetto” (Fontanille 2005: 12). E questa è esattamente la stessa definizione che Landowski, Marrone, Pisanty e Pellerey davano del testo. Non ci si esprime più metaforicamente, ma l’essenziale non cambia nella sostanza. Perché, ed è esattamente questo il punto fondamentale, la funzione semiotica non è mai un punto di partenza, ma è sempre un effetto che va costruito. Non è cioè vero che la condizione minimale perché ci sia una semiotica-oggetto sia la funzione tra espressione e contenuto, perché è la funzione stessa che fa problema e va costruita localmente di volta in volta nell’analisi. Un approccio per livelli di pertinenza (n, n+1 etc.), com’è quello proposto recentemente da Fontanille per l’analisi delle pratiche di significazione, parte dalla funzione semiotica e la presuppone, quando invece è la funzione semiotica stessa a dover essere costruita. Per comprendere meglio i termini del problema, vale allora senz’altro la pena riprendere un bell’esempio di Giacomo Festi (2003: 192) sulla degustazione del vino: Rispetto all’impostazione greimasiana tradizionale […] passa la stessa differenza che] c’è tra un semiologo che studi i discorsi degli enologi al fine di categorizzare il mondo dei vini in opposizioni del tipo vino strutturato VS vino non strutturato (categorie di una semiotica del mondo naturale secondo Greimas) e un semiologo che si impratichisca invece in degustazione e cerchi di capire quali sensazioni vadano indicizzate e 12 Cfr. Fontanille 2004 e il seguito di questo lavoro. 134 riconosciute per dichiarare se quel vino è o meno strutturato, imparando lui stesso a riconoscerlo. La seconda opzione, potenzialmente semiotica quanto la prima, considererebbe rilevante il processo di negoziazione tra sensazioni e categorizzazione attesa, cioè tematizzerebbe un piano generativo dell’espressione con una componente morfo-sintattica. Concordiamo. Io non imparo a nuotare riproducendo sulla sabbia i movimenti del maestro di nuoto o chiedendogli che cosa devo fare, ma imparo quando immergo tentativamente la materia del mio corpo all’interno della materia di una corporeità “altra” a cui mi apro in un incontro, quando il mio corpo combina alcuni suoi punti singolari con i moti principali dell’onda13. Io non imparo ad essere un buon sommelier studiando la categorizzazione testuale dei vini, ma imparo quando la materia della mia lingua diviene commensurabile alla materia del vino e ne indicizza dei formanti candidati a divenire l’espressione di un contenuto possibile. In entrambi i casi, il mio corpo deve finire col riuscire ad abitare il corpo dell’altro, adattandosi localmente alle sue singolarità significanti (cfr. Fontanille 2004: 214). Il problema è però come questo possa essere fatto. 5. LA COSTRUZIONE DELLA FUNZIONE SEMIOTICA E L’INSTAURAZIONE DI COMMENSURABILITÀ: SINGOLARITÀ E RATIO. Secondo Fontanille (2004: 415-6): per accedere al piano del contenuto si deve innanzi tutto […] disimplicare la maniera in cui le figure dell’espressione prendono forma a partire dal substrato materiale delle iscrizioni e dal gesto che ve le ha inscritte […]. La semiotica strutturale classica non ha certo ignorato questa dimensione […]. Tuttavia, lo faceva mettendo tra parentesi il carattere corporale sia del substrato materiale d’iscrizione sia del gesto d’enunciazione. […] La semiotica dell’impronta presta attenzione al modus operandi della produzione testuale, così come a quello dell’interpretazione, dal momento che mette in gioco l’ipotesi che l’interpretazione sia un’esperienza che consiste nel ritrovare le forme di un’altra esperienza di cui non resta che l’impronta (Fontanille 2004: 415-6). Ora, una semiotica interpretativa che prestava attenzione al modus operandi della produzione testuale e in cui l’interpretazione non era altro che la produzione di segni interpretanti in funzione dei “vari modi in cui si producono materialmente oggetti destinati alla funzione segnica”14, costituiva il paragrafo 3.6 del Trattato 13 14 Cfr. Deleuze 1967: 44. Eco 1975: quarta di copertina. 135 di semiotica generale di Umberto Eco, sotto il titolo piuttosto programmatico di Teoria dei modi di produzione segnica. Il fatto che la semiotica post-generativa arrivi oggi ad avvertire l’esigenza di una teoria che integri una semiotica della materia unitamente al modus operandi della produzione testuale non può che farci piacere, e ci permette così di tenere insieme semiotica interpretativa e semiotica del corpo in una stretta sintesi disgiuntiva. Tuttavia, il problema è allora come prestare attenzione a questo modus operandi della produzione testuale. Per quanto ci riguarda, ciascun dominio, ciascun oggetto d’analisi, ciascuna pratica di senso presenta sempre delle singolarità proprie che la differenziano rispetto a quelle che sono proprie di un altro dominio. Una semiotica hjelmslevianamente adeguata al suo oggetto sarà allora una semiotica in grado di curvare le proprie singolarità su quelle dell’oggetto di cui si occupa, al fine di aprirsi ad un incontro, come il nuotatore apre i punti sensibili del suo corpo al movimento dell’onda che sopraggiunge. Al contrario, la semiotica ha storicamente sempre operato una serie di operazioni di prelevamento sull’oggetto che trattava, al fine di omogeneizzarne la molteplicità alle singolarità del paradigma testualista (molteplicità di livelli, strutture profonde, articolazione narrativa etc.); e anche quando ha cercato di uscire da questo paradigma, si è sempre comunque fondata sulla funzione semiotica e sul concetto di semiotica-oggetto, che sono invece esattamente ciò che fa problema e ciò che deve essere costruito localmente nell’analisi. Per noi è allora la nozione capitale di singolarità a costituire l’oggetto teorico chiave su cui si fonda la costruzione della funzione semiotica stessa e, dunque, qualsiasi tipo di semiotica-oggetto. Per mostrarlo partiremo allora da qualcosa di molto concreto: i materiali. Anche nel caso in cui ci arrivino grezzi e non lavorati, i materiali da un lato si presentano sempre con una loro forma propria, e dall’altro presentano sempre delle singolarità, e cioè dei punti in cui succede qualcosa alla loro stessa materialità. Ad esempio l’acqua ha due singolarità a 0 e 100 gradi in cui cambia il suo statuto stesso di materiale passando a stati di fase differenti (da materiale liquido diventa materiale solido - a 0 gradi - da materiale liquido diventa materiale gassoso - a 100 gradi -) e ha altresì una serie di ulteriori singolarità riguardanti ad esempio la sua composizione chimica come combinazione di idrogeno e ossigeno. Ora, il problema della semiotica è allora come questi substrati materiali dotati di singolarità fisiche possano diventare degli attanti materiali dotati di singolarità semiotiche, cioè dotati di punti in cui succede qualcosa non dal lato delle loro trasformazioni materiali (ad esempio l’acqua che bolle trova a 100 gradi un punto in cui succede qualcosa dal punto di vista fisico), bensì da quello della differenziazione del senso nella costruzione della funzione semiotica stessa. Il problema è cioè capire come delle figure materiali differenzino qualcosa sul piano del contenuto, differenziandosi a loro volta esse stesse al fine di divenire-espressioni di certi contenuti mirati. Come nell’esempio del sommelier, occorre mettere in gioco le materie del corpo e degli oggetti al fine di indicizzarne delle porzioni candidate a divenire espressioni di un determinato contenuto (ad esempio “vino strutturato”). Si tratta cioè del problema opposto a quello della costruzione di un linguaggio pla136 stico a partire dalla sospensione di contenuti figurativi. Non si tratta infatti di capire come degli elementi plastici possano costituire un piano dell’espressione “altro” e veicolare così contenuti non figurativi, bensì si tratta di capire come un substrato materiale possa essere commensurabile ad un piano del contenuto ancora solamente mirato e differenziarsi esso stesso al fine di costituirne l’espressione all’interno di una funzione semiotica. Ora, questo problema di commensurabilità, messo in luce per la prima volta da Umberto Eco nella teoria dei modi di produzione segnica, è il problema della ratio. Ratio, traduzione latina del greco logos, significa infatti rapporto, ma lo significa in un senso molto particolare, dal momento che un rapporto riconducibile ad una ratio definisce un tipo particolare di relazione che presuppone una commensurabilità tra gli elementi considerati; tanto che, ad esempio in matematica, i numeri irrazionali, e cioè quelli non riconducibili a ratio, definiscono sì dei rapporti, ma dei rapporti che sono paradossalmente dei non-rapporti, dal momento che si instaurano tra elementi che non sono commensurabili tra di loro. È come se gli elementi si accordassero solo all’interno di una tensione, di un non-accordo, di una dolorosa lacerazione. Vi è sì accordo, ma accordo discordante, armonia nel dolore di una non-proporzione che per essenza rende essa stessa possibile una proporzione, tanto che la ratio sembra essere qualcosa che emerge sempre da una non-ratio in cui è possibile ripiombare, nel momento in cui il rapporto smetta di essere commensurabile e si esca da un determinato sistema attestato. Per la teoria dei modi di produzione segnica di Eco (1975: 246-8), esistono allora due tipi di ratio in semiotica: la ratio è facilis nel momento in cui un’occorrenza espressiva si accorda ad un tipo espressivo preesistente; la ratio è invece difficilis quando non esiste un tipo dell’espressione preformato e l’occorrenza espressiva viene direttamente correlata al proprio contenuto. Porre all’insegna di una ratio una teoria della produzione segnica significa dunque fondarla per essenza su di una commensurabilità innanzi tutto tra tipo ed occorrenza espressiva (caso di ratio facilis) e poi, in ultima analisi, tra espressione e contenuto tout court (caso di ratio difficilis). E tuttavia quest’operazione, questa commensurabilità, se pare piuttosto naturale e giustificabile in casi di ratio facilis quali quelli della produzione linguistica, in cui si dà vita ad un’occorrenza espressiva in funzione di un tipo preformato, sembra invece diventare molto più problematica in casi quali quelli dell’apprendimento del nuotatore o dell’indicizzazione della materia sensibile del sommelier. È infatti esattamente una possibile commensurabilità che è in gioco e che costituisce la posta stessa di quel tipo di esperienze. Sono infatti esattamente la materia della mia lingua e la materia del vino a dover divenire commensurabili nell’incontro con un altro da me che io non conosco e che sto cercando di imparare a gestire (e non è affatto detto che io ce la faccia, infatti non tutti siamo dei bravi sommelier). È esattamente la materia della mia lingua a contatto con l’alterità della materia del vino a doversi semiotizzare al fine di indicizzare formanti corporali (sensazioni gustative ad esempio) che si candidino a divenire espressioni commensurabili per un determinato contenuto (vino strutturato, ad esempio). Ed è esattamente su questa possibile commensurabilità 137 tra la materia del mio corpo e la materia dell’oggetto, ed in seguito tra la materia indicizzata come possibile espressione di un possibile contenuto, che si fonda la possibilità stessa della costruzione di una semiotica-oggetto. Nella produzione semiotica, la ratio è infatti spesso un qualcosa che va costruito localmente e che non si ritrova disponibile in un tipo preformato. Il concetto di ratio diventa allora capitale per una semiotica che desideri coniugare le prerogative di una semiotica dell’impronta e di una teoria dei modi di produzione segnica, al fine da uscire dalle impasses di una sterile prospettiva puramente testualista. Esso interviene infatti in almeno tre fasi distinte: 1) Tra soma e soma, ad esempio nell’apprendimento del nuotatore o nella pratica di degustazione del vino come incontro tra singolarità materiali, punti singolari somatici che occorre rendere commensurabili nell’incontro con una materialità “altra”. 2) Tra sema e soma nella pertinentizzazione di una materia corporale che deve essere indicizzata al fine di divenire l’espressione di un contenuto semico mirato (problema di quali sono le sensazioni che possono divenire espressione del contenuto “vino strutturato”, ad esempio). 3) Tra espressione e contenuto nella produzione segnica che installa la funzione tra le due facce del foglio di carta saussuriano. È allora ben visibile come il problema non sia quello di riconoscere un insieme di opposizioni semantiche testualizzate o un insieme di effetti di senso, bensì quello di adeguare la materia del mio corpo alla materia dell’oggetto, di coniugare le reciproche singolarità al fine di instaurare una ratio, e cioè una commensurabilità tra soma e soma, tra sema e soma e tra espressione e contenuto. Questa commensurabilità si incarna allora in una materia che si fa espressione, semiotizzando la sua corporalità in funzione di un contenuto mirato con cui si instaura una commensurabilità che non esiste come semiotica-oggetto prima dell’istituzione di una ratio. Commensurabilità tra le singolarità materiali dunque, come nell’esempio del nuotatore o di chi tenta di impratichirsi nella degustazione del vino, ma anche commensurabilità tra sema e soma nel momento in cui si scommette che le singolarità materiali precedentemente indicizzate differenzino qualcosa sul piano del contenuto, differenziandosi a loro volta loro esse stesse al fine di divenire espressioni di certi contenuti mirati. Ed infine commensurabilità tra espressione e contenuto all’interno della produzione della funzione semiotica, in cui la prassi enunciazionale lavora per produrre senso sempre contemporaneamente sui due piani, in una semiosi che funziona ora come una fabbrica che produce senso e non più come un teatro che lo mette in scena leggendolo nei testi. 6. ANTILOGOS E SEMIOTICA INTERPRETATIVA. Possiamo allora dire che là dove la semiotica si è sviluppata definendo un livello omogeneo, testo o semiotica-oggetto, in cui gli elementi propriamente semiotici si scambiavano solamente con elementi simili interni al proprio sistema, in funzione della seconda accezione del valore saussuriano; ciò che 138 il concetto stesso di ratio ci insegna è l’istituzione di commensurabilità locali in cui i valori semiotici divengono tali solamente scambiandosi anche con un fuori, “fuori” con cui essi si determinano reciprocamente in modo puramente privativo e differenziale. È solamente in questo modo che essi divengono dei valori semiotici (per esempio, una “semiotica-oggetto”). Questo comporta allora una differenza costitutiva proprio nel modo di prestare attenzione a ciò che Fontanille definiva il modus operandi della produzione testuale, oltre che nel modo in cui la semiotica tratta i differenti oggetti che il paradigma testualista omogeneizzava tutti sotto il concetto metaforico di “testo”. Leggiamo allora questo bel passo di Paolo Fabbri (1998: 101, 104): La vecchia semiotica divideva i vari linguaggi secondo i vari canali, le varie sostanze dell’espressione: c’erano dunque il segno visivo, il segno acustico, il segno cinematografico, il segno televisivo, il segno gestuale etc. Il problema della semiotica attuale è invece quello di sostituire a queste divisioni per sostanze delle divisioni per forme organizzative, per diagrammi comuni. (...) Faccio l’esempio […] della spazialità. È molto probabile che i modelli fondamentali del linguaggio siano di tipo spaziale […]. Non è possibile confrontare parole e sillabe, da un lato, con architravi e colonne, dall’altro; è possibile invece paragonare le forme spaziali usate dalla semantica linguistica con quelle prese in carico dalla semantica architettonica. In questo modo, architettura e linguaggio diventano traducibili. Là dove la semiotica dell’impronta fontanilliana si proponeva per esempio di “differenziare le impronte fotografiche (il cui vettore è un corpo luminoso) da quelle pittoriche (il cui vettore è un corpo in movimento)”15; Fabbri, con questa sua bella e condivisibile idea, pone al centro stesso della “nuova semiotica” l’interpretazione come costruzione di commensurabilità locali tra elementi eterogenei appartenenti a domini differenti. Questa centralità della trasduzione, del trasporto tra un dominio ed un altro, significa innanzi tutto prendere finalmente in considerazione il processo genetico di traducibilità, o di instaurazione di commensurabilità (ratio). È infatti esclusivamente il porre al centro questo processo che porta ad una distinzione dei sistemi semiotici non più fondata su divisioni per sostanze, bensì su diagrammi, e cioè ad una distinzione fondata su forme di relazione comuni che concatenano sistemi eterogenei che restano comunque eterogenei, pur potendo venire localmente tradotti l’uno nell’altro (linguaggio/architettura secondo l’esempio di Fabbri). L’impresa della semiotica non consiste minimamente nella costruzione del suo micro-metalinguaggio da camera da offrire alle altre discipline, come voleva Greimas (1970), bensì consiste nell’allacciare brandelli del linguaggio dell’altro, nel concatenarli e nel garantirne propriamente una traducibilità e una commensurabilità locale, che è quella propria dell’interpres. Data la molteplicità eterogenea 15 Fontanille 2004: 416. 139 della vita vera della significazione, la semiotica non riporta questa molteplicità all’unità omogenea delle sue categorie, bensì costruisce concatenamenti locali che consentono di tradurre da un dominio disciplinare ad un altro. È soltanto in questo modo che essa può svolgere in seno alle scienze umane il ruolo che Hjelmslev attribuiva alla lingua, e cioè quello di assicurare la traducibilità tra gli altri sistemi16. Ma assicurare la traducibilità tra sistemi altri implica costruire commensurabilità locali trasducendo elementi eterogenei da un dominio ad un altro, in funzione della prima accezione del valore saussuriano, nella quale i valori si scambiano sempre con un fuori. Assicurare la traducibilità tra sistemi altri, federare le scienze della cultura come vuole ad esempio Rastier (2003a), implica per essenza questa sintesi disgiuntiva dell’eterogeneo, e non un riportare la molteplicità viva delle pratiche della significazione in un dentro omogeneo, “mana” o testo, in cui raccoglierne le proprietà comuni. Proprio per questo la semiotica è per noi un antilogos. Com’è noto, articolare il logos significa infatti “raccogliere o raccogliersi, ordinare o legare, dividere e mettere insieme quanto si ap-prende in modo sparso” (Bodei 1997: 75). Logos è infatti la sostantivazione di legein (raccogliere). In italiano, la radice “leg-” si è conservata in “legume”, ed è sufficiente pensare proprio alla struttura del legume per capire che cosa significhi articolare il logos: diversi frutti sparsi che condividono proprietà vengono raccolti sotto un unico baccello. Si è articolato il logos quando una molteplicità viene raccolta sotto una dimensione supplementare d’unità che pretende di definire gli elementi a cui è comune (il “mana” testuale ad esempio); oppure quando qualcosa che si manifesta viene rimandato ad una dimensione profonda in cui si troverebbe organizzato “anteriormente alla sua manifestazione” (Greimas 1970: 168). Non raccogliendo gli oggetti che si manifestano sotto un baccello comune che li omogeneizzerebbe e non articolandoli in una struttura profonda che ne rappresenterebbe sempre una dimensione superiore, la semiotica interpretativa si propone come un antilogos. Essa costruisce commensurabilità locali e rende traducibili sistemi eterogenei senza con questo raccoglierne le proprietà comuni sotto una dimensione superiori di baccello. Per questo per noi la semiotica è un antilogos, là dove il testo è invece sempre stato il legume della semiotica, il baccello comune sotto cui essa ha sempre raccolto i suoi frutti sparsi, il “mana” leguminoso di cui la vita vera della significazione era solo un supporto. E questo era assolutamente evidente ad esempio in Greimas, nella cui zuppa al pesto c’erano un chilo di fagioli freschi ancora da sgusciare e 350 grammi di fagiolini17. Non sono pochi. 16 17 Cfr. Fontanille e Zilberberg 1998. Cfr. Greimas 1983: 151. 140 Bibliografia Bodei, Remo 1997 “Il mondo nascosto”, in AA. VV., Metafisica, Laterza, Roma-Bari. Deleuze, Gilles 1967 “De quoi on reconnaît le structuralisme”, in F. Chatelet (eds.), Histoire de la philosophie vol. VIII, Hachette, Paris (tr. it. “Da che cosa si riconosce lo strutturalismo”, in Fabbri e Marrone 2000: 91-110; ora anche in Lo strutturalismo, SE, Milano, 2004). 1968 Différence et repetition, PUF, Paris (tr. it. 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Ainsi s’introduit la question de la “pratique” que l’on suppose assez généralement mettre en crise le postulat d’immanence et sans doute quelques-unes de ses conséquences prochaines. Je me propose d’examiner d’abord la logique exacte de cette objection, ce qu’elle présuppose, et d’essayer ensuite de montrer qu’en elle-même la notion de pratique n’oblige pas à renoncer au principe d’immanence mais, au contraire, invite à en étendre le champ d’application. 143 La critique du principe d’immanence est un lieu commun des disciplines qui revendiquent l’étude de “positivités” existant antérieurement aux actes qui les constituent en objets de connaissance ou de pratique. Si de telles entités existent indépendamment des sémiotiques qui les informent, il paraît légitime de penser que ces structures sémiotiques sont sous la dépendance d’entités qui apparaissent alors comme leurs “bases réelles”. Ce raisonnement se rencontre selon des modalités diverses dans les sciences humaines qui sont aisément enclines à rechercher des “bases” ou des “infrastructures”, qu’elles soient sociales, psychologiques, cognitives, économiques. Même si, au moins dans la tradition marxiste, il est admis que le langage ne soit pas une “superstructure”, il semble difficile de penser que les formes sémiotiques et les pratiques de toute sorte décrites par ces disciplines, soient de même nature. L’objection portée au principe d’immanence revient donc à dire que les pratiques sociales, les opérations cognitives, les actions économiques ne sont pas des sémiotiques mais qu’elles sont cependant nécessaires pour expliquer l’usage que l’on peut faire de celles-ci. Un exemple intéressant de cette attitude d’esprit nous est fourni par Pierre Bourdieu dans son livre précisément nommé Le sens pratique. Dans ce texte, l’auteur engage une dialectique subtile qui nous intéresse au plus haut point car elle concerne le rapport des systèmes symboliques1 à la pratique. Il nous semble que le passage suivant résume assez nettement sa position épistémologique: “L’objectivisme constitue le monde social comme un spectacle offert à un observateur qui prend “un point de vue” sur l’action et qui, important dans l’objet les principes de sa relation à l’objet, fait comme s’il était destiné à la seule connaissance et si toutes les interactions s’y réduisaient à des échanges symboliques. Ce point de vue est celui que l’on prend à partir des positions élevées de la structure sociale d’où le monde social se donne comme une représentation – au sens de la philosophie idéaliste, mais aussi de la peinture et du théâtre – et d’où les pratiques ne sont que rôles de théâtre, exécutions de partitions ou applications de plans. La théorie de la pratique rappelle, contre le matérialisme positiviste, que les objets de connaissance sont construits, et non passivement enregistrés, et, contre l’idéalisme intellectualiste, que le principe de cette construction est le système des dispositions structurées et structurantes qui se constituent dans la pratique et qui est toujours orientée vers des fonctions pratiques.”2 1 La notion de système symbolique désigne pour nous les sémiotiques pour lesquelles on n’envisage pas les dimensions iconique et indicielle (ce qui ne veut pas dire qu’elle ne soient pas présentes). Dans ce texte je n’envisagerai la pratique que dans ses rapports à des systèmes symboliques pris en ce sens et laisserai de côte la pratique des sémiotiques iconique et, à une exception près, celle des sémiotiques indicielles. 144 Ce texte met clairement en place deux attitudes opposées, l’une consistant à croire à l’existence des objets de connaissance avant leur élaboration théorique (matérialisme positiviste) et l’autre (l’idéalisme intellectualiste) qui semble ignorer que l’existence sociale n’est pas un spectacle ou un pur et simple système symbolique, mais le lieu d’une dialectique pratique. L’enjeu du débat porte sur les places respectives qu’il faut attribuer aux structures symboliques et à la pratique, ce qui est précisément notre sujet. On remarquera que Pierre Bourdieu ne tient pas simplement à éviter deux affirmations également dogmatiques mais suggère aussi que l’une au moins de ces affirmations n’est pas seulement une thèse, discutable comme toutes les autres thèses, mais la conséquence d’une attitude de classe qui consiste à voir dans la société une scène ou un théâtre conformément à un habitus hérité de cette même position sociale. En d’autres termes, le recours à la pratique, ici la pratique sociale, n’est pas seulement une solution dialectique pour éviter deux erreurs contraires mais a aussi pour fonction de désigner, et même de dénoncer, la cause de ces erreurs. Ne faut-il pas pour que cela soit possible, pour que l’on puisse déduire d’une conception théorique la position sociale qui en serait la source et la raison d’être, et serait en outre condamnable, que soit présupposé un substrat social pratique en réalité imperméable à toute dialectique? La difficulté est de fait délicate à cerner car elle repose sur l’opacité même du terme de “pratique”. On peut voir une manifestation de cette difficulté dans la dernière phrase citée où deux sens distincts du mot “pratique” sont étrangement à l’œuvre. Il y a d’abord la “pratique” qui est le milieu dans lequel se constituent des dispositions “structurées et structurantes”. Le sens de “pratique” est dans ce cas clairement dialectique puisqu’il s’agit au fond de comprendre comment des actes, dépendant nécessairement de structurations préexistantes, sont euxmêmes causes de structurations nouvelles. Mais il y a aussi l’affirmation selon laquelle ce système dialectique est lui-même “toujours orienté vers la pratique”. Le terme “pratique” fait alors fonction de prédicat à valeur éternelle (“toujours”) exprimant une propriété essentielle de toute action sociale, ce qui semble le contraire d’un mouvement dialectique. Si la pratique est une dialectique, il y a manifestement, sous-jacente à elle, un substrat qu’il faut bien dire inanalysable. L’auteur est d’ailleurs le premier à le souligner en ces termes: “L’idée de logique pratique, logique en soi, sans réflexion consciente ni contrôle logique, est une contradiction dans les termes, qui défie la logique logique. Cette logique paradoxale est celle de toute pratique ou, mieux, de tout sens pratique: happée par ce dont il s’agit, totalement présente au présent et aux fonctions pratiques qu’elle y découvre sous la forme 2 Pierre Bourdieu (1980, p. 87). 145 de potentialités objectives, la pratique exclut le retour sur soi (c’est-à-dire sur le passé), ignorant les principes qui la commandent et les possibilités qu’elle enferme et qu’elle ne peut découvrir qu’en les agissant, c’est-à-dire en les déployant dans le temps3.” Ce texte montre lumineusement que derrière l’impossibilité affirmée d’une logique pratique, au sens strict de logique, se cachent les questions entremêlées de la présence, du temps présent et de sa propriété essentielle d’être le seul à être perçu. Derrière, ou sous-jacente à la pratique comme dialectique se trouve la pratique pathique, en elle-même mystérieuse mais susceptible de se déployer dans un agir. Prenons un exemple. Dans son analyse des mythes et surtout dans celle des structures de parentés, Pierre Bourdieu fait valoir, au-delà des structures symboliques telles que Lévi-Strauss a pu les décrire, l’importance de contraintes diverses que l’on peut regrouper sous le registre des “pratiques sociales” dont le concept d’habitus tente de comprendre les effets comportementaux. Citons un passage parmi beaucoup d’autres déployant le même thème: “Réagir, comme le fait Lévi-Strauss, contre les lectures externes qui jettent le mythe dans la “stupidité primitive” en rapportant directement les structures des systèmes symboliques aux structures sociales ne doit pas conduire à oublier que les actions magiques ou religieuses sont fondamentalement “mondaines”, comme dit Weber, et que, toutes entières dominées par le souci d’assurer la réussite de la production et de la reproduction, bref la survie, elles sont orientées vers les fins les plus dramatiquement pratiques, vitales et urgentes: leur extraordinaire ambiguïté tient au fait qu’elles mettent au service des fins tragiquement réelles et totalement irréalistes qui s’engendrent en situation de détresse (surtout collective), comme le désir de triompher de la mort ou du malheur, une logique pratique, produite en dehors de toute intention consciente, par un corps et une langue, structurés et structurants, générateurs automatiques d’actes symboliques4.” De même, en ce qui concerne plus spécifiquement les structures de parentés: “Rappeler que les relations de parenté sont quelque chose que l’on fait et dont on fait quelque chose, ce n’est pas seulement, comme les taxinomies en vigueur pourraient le faire croire, substituer une interprétation “fonctionnaliste” à une interprétation “structuraliste”; c’est mettre radicalement en question la théorie implicite de la pratique qui 3 4 Opus cité p.154. Opus cité p.160. 146 porte la tradition ethnologique à appréhender les relations de parenté “sous forme d’objet ou d’intuition”, comme dit Marx, plutôt que sous la forme des pratiques qui les produisent, les reproduisent ou les utilisent par référence à des fonctions nécessairement pratiques. Si tout ce qui touche à la famille n’était pas entouré de dénégation, il ne serait pas besoin de rappeler que les relations entre ascendants et descendants elles-mêmes n’existent et ne subsistent qu’au prix d’un travail incessant d’entretien et qu’il y a une économie des échanges matériels et symboliques entre les générations. Quant aux relations d’alliance, c’est seulement lorsqu’on les enregistre comme fait accompli, à la façon de l’ethnologue qui établit une généalogie, que l’on peut oublier qu’elles sont le produit de stratégies orientées en vue de la satisfaction d’intérêts matériels et symboliques et organisées par référence à un type déterminé de conditions économiques et sociales5.” Ces quelques citations étaient nécessaires pour saisir le lieu exact où la notion de pratique permet de porter une objection au principe d’immanence. Si l’on pense aux structures de parenté, que l’on peut considérer comme un bon exemple de structures symboliques (ou sémiotiques), il est clair que beaucoup de contingences diverses influent sur leur usage social, de telle sorte que leur simple étude “en immanence” risque de laisser dans l’ombre une part essentielle de leur réalité. Jusqu’à ce point, l’objection au principe d’immanence semble porter. On ne peut cependant s’empêcher de remarquer que le saut, considérable du point de vue logique -Pierre Bourdieu le remarque lui-même- entre le symbolique et le pratique laisse dans l’ombre le fait que les pratiques, en particulier les pratiques économiques, peuvent être aussi considérées comme relevant de systèmes symboliques. Les règles qui gouvernent implicitement les actions économiques des membres d’une société ont tout autant de droit à prétendre être décrites comme des systèmes symboliques que les règles régissant les relations d’alliance, de filiation et de consanguinité en quoi consistent les structures de parentés. On dira sans doute que cela ne fait que déporter d’une étape le recours à une instance pratique, voire “tragiquement pratique” comme le dit Pierre Bourdieu. Mais on reconnaîtra que, le même raisonnement pouvant être itéré autant de fois qu’il est nécessaire, l’instance pratique semble se dérober à nous ou, tout au moins, ne pas vouloir se présenter comme un au-delà de l’immanence mais plutôt comme une succession de plans d’immanence articulés entre eux. Une objection sérieuse reste cependant à prendre en considération. On dira en effet qu’aussi loin que l’on veuille reculer le moment où il devient nécessaire de faire appel à une instance pratique, il n’en demeure pas moins que ce 5 Opus cité p. 280. 147 moment finit toujours par devenir inéluctable. Rappelons, pour que le problème soit clair, que nous ne discutons pas le fait qu’il ait une dimension pratique de notre expérience, mais le fait que l’on doive faire appel, pour l’expliquer, à une instance d’une nature logiquement différente de celle des systèmes symboliques. Nous discutons donc le fait qu’il y ait une logique pratique distincte par essence de la “logique logique” comme le dit Pierre Bourdieu. Dans l’exemple précédent doit-on considérer que l’intérêt économique, incontestablement actif dans l’usage des structures de parentés, soit de nature différente de ces structures? Nous avons vu que l’on peut considérer les structures économiques comme étant d’une nature comparable aux structures de parenté. Mais qu’en est-il de l’“intérêt” lui-même comme passion? On dramatise cette notion d’intérêt en prenant des situations dans lesquelles cet intérêt est vital et s’assimile par là à une nécessité. Mais beaucoup de passions n’ont-elles pas cette propriété d’être vitales sans pour autant apparaître d’une nature distincte des systèmes symboliques? Ainsi, si nous suivons Montesquieu, l’honneur, passion structurante des régimes monarchiques, n’est-il pas ce qu’il est précisément par ce qu’il est à la fois vital, dans le duel par exemple, et symbolique? L’intérêt, considéré comme passion structurante des sociétés bourgeoises, est sans doute encore plus meurtrier que l’honneur des sociétés aristocratiques, et donc encore plus vital pour celui qui ne s’enrichit pas et peut mourir de misère. Mais l’on ne peut pour autant dissocier cette passion de l’intérêt de l’organisation symbolique de ce type de société car elle en est un ressort essentiel. En d’autres termes, les passions, même en ce qu’elles peuvent avoir de vital, ne relèvent pas nécessairement d’une autre logique que les systèmes symboliques qui les actualisent et qu’elles rendent en un sens possibles. Les passions se déploient à même l’immanence. Si l’on accepte ce raisonnement, on doit conclure qu’il n’existe pas deux logiques irréductibles, comme le voudrait Pierre Bourdieu, mais une seule et même logique dont les structures symboliques et celles de la pratique sont deux composantes indissociables, deux aspects de la même réalité. Nous n’avons donc pas à présupposer l’existence d’une instance quelconque en laquelle viendrait se légitimer la pratique mais à essayer de comprendre comment s’ordonnent ce qui relève essentiellement du déploiement d’une force ou d’une puissance (la pratique) et ce qui peut se caractériser comme le devenir d’une forme (système symbolique). Il semble cependant que la notion de pratique porte en elle un sens qui résiste encore à la dialectique entre force et forme telle que nous venons de la suggérer. Ces deux notions gardent une résonance trop générale et trop théorique pour satisfaire totalement à l’idée de pratique que l’on perçoit toujours comme individuelle et concrète. Mais comment dire ce qui est individuel et concret? Reprenons l’exemple du jeu, si souvent invoqué lorsqu’il s’agit de langage. Si un jeu peut être défini comme un ensemble de règles, il n’en demeure pas moins que savoir jouer ne se résume pas à connaître les règles. On peut 148 même dire que cette connaissance est la plupart du temps peu de chose au regard de la complexité de certains jeux (les échecs par exemple). On dira dans ce cas que le savoir faire pratique a une importance bien plus grandes que la connaissance des règles. Mais savoir jouer comporte nécessairement des éléments tactiques, stratégiques, un certain art de la décision intuitive que l’on peut espérer formaliser comme des règles relevant de la pratique. Il n’en reste pas moins que chaque partie, et à l’intérieur de chaque partie, chaque coup est dépendant de circonstances singulières qui tiennent au caractère des joueurs, à leur connaissance du jeu, à l’émotion du moment et à tous les aléas imprévisibles qui font, pour partie, l’intérêt du jeu. On peut de ce point de vue comparer la rencontre de deux joueurs à celle de deux armées telle que l’a décrite Clausewitz dans son traité De la guerre6. Le moment que nous cherchons à déterminer et qui échappe à la fois à la stratégie et à la tactique est traité par Clausewitz dans un chapitre intitulé “La friction en guerre”. Le terme de “friction” est importé de la mécanique: “La notion de friction est la seule qui corresponde de manière assez générale à ce qui distingue la guerre réelle de celle qu’on peut lire dans les livres. La machine militaire, c’est-à-dire l’armée et tout ce qui en fait partie, est au fond très simple, et paraît par conséquent facile à manier. Mais il faut se rappeler qu’aucune de ses parties n’est faite d’une seule pièce, que tout s’y compose d’individus, dont chacun conserve sa propre friction sous tous ses aspects7.” La première cause de friction est donc l’individualité. C’est elle qui empêche de déduire simplement l’action d’une armée de la rigueur de son organisation interne et le résultat de cette action de la justesse des plans. De même peut-on voir surgir des phénomènes particuliers: “Ce frottement excessif que l’on ne peut, comme en mécanique, concentrer sur quelques points, se trouve donc partout en contact avec le hasard; il engendre alors des phénomènes imprévisibles, justement parce qu’ils appartiennent en grande partie au hasard. L’un de ces hasard est le temps, par exemple. Tantôt le brouillard empêche de découvrir l’ennemi en temps voulu, un canon de partir au bon moment, et un message d’atteindre l’officier qui commande. Tantôt la pluie empêche un bataillon d’arriver, un autre d’arriver en temps voulu parce qu’au lieu de marcher trois heures, il a peut-être marché huit heures, la cavalerie de marcher efficacement parce qu’elle enfonce dans le sol détrempé, etc8.” 6 7 8 Carl Von Clausewitz, De la guerre, traduction de Camille Rougeron, Paris, Minuit, 1955. Opus cité p.110. Opus cité p.110 149 La friction désigne ici le “contact avec le hasard” dû au nombre illimité des circonstances particulières. L’individualité (telle qu’elle se manifeste par exemple dans le corps à corps) et le hasard sont presque interdéfinissables tant il est vrai que l’individu, en ce qu’il a d’irréductible, ne peut être que le fait du hasard et, pour cette même raison, ne peut qu’en engendrer lui-même. Nous sommes là à la pointe ultime de ce que l’on appelle la pratique, entrelacs de l’individualité et du hasard. Résumons brièvement les conclusions auxquelles il nous semble être parvenu: - La pratique ne nous paraît en aucune façon mettre en cause le principe d’immanence mais, au contraire, comme nous allons le voir, nous pousse à élargir sont champ d’application. La pratique ne peut se concevoir réellement hors des formes symboliques, ce qui ne veut pas dire qu’elle se confonde avec elles. On peut, pour l’essentiel, la concevoir comme l’interaction entre deux formes symboliques distinctes. - A la limite de tout système symbolique, à son bord extrême, mais aussi bien à chaque instant de son usage, dans son immanence, la pratique ouvre les incertitudes conjuguées de l’individualité et du hasard. La friction de Clausewitz n’est rien d’autre que le monde des indices, par essence incertain, mais composant le soubassement de la présence. Il nous faut maintenant dire, d’une façon un peu plus formelle, comment on peut concevoir la pratique et sa place dans un dispositif sémiotique. Puis nous examinerons un cas particulier dans lequel la pratique modifie, au moins localement, le système sémiotique lui-même. Remarquons d’abord que la notion de pratique est relative à un système symbolique. Il y a une pratique de la langue dans l’effectuation du discours, une pratique des structures de parenté comme nous venons de le voir avec Pierre Bourdieu, une pratique des structures économiques, des jeux, etc. Cette relativité de la pratique est double puisque toute pratique dépend à la fois du système symbolique par rapport auquel elle est pratique mais aussi de celui dans l’immanence dans laquelle elle se situe. Ainsi la pratique de la langue est régie par la langue elle-même mais aussi par le système symbolique qui lui sert de scène énonciative (raconter une histoire, lire des vers, plaider dans un tribunal, etc.), par le choix d’un genre, et par une multitude de référentiels constituant le champ plus ou moins occasionnel d’une pratique. Nous cherchons à comprendre comment il est possible de décrire une pratique en tenant compte de cette double articulation. Il est possible, en première approximation, de définir une pratique selon un triple enchaînement. Pour qu’il y ait pratique, il faut qu’une énergie quelconque soit mise en jeu. Ceci est vrai pour la pratique rhétorique qui demandera l’énergie d’un orateur, la pratique d’un jeu, et toute forme d’énonciation. Cette énergie, lorsqu’elle est celle d’un sujet, est mise en forme par un dispositif modal, comme l’a montré Jean-Claude Coquet9. Elle suit en outre un parcours 9 Cfr. Coquet (1984, tomo 1). 150 qui a en charge de la distribuer dans le temps et l’espace avec plus ou moins de durée, d’intensité, de rythme. Cette distribution de l’énergie correspond à ce que l’on peut appeler le dispositif technique de la pratique, au sens où l’on parle de la technique rhétorique. La technique est alors l’“art du faire”. Enfin, et c’est le but de cet art, il faut qu’il s’articule avec le système symbolique dont il est la pratique. Toute la difficulté du problème se concentre sur ce point d’articulation qu’il nous faut maintenant prendre en considération. Il peut sembler en effet qu’ainsi décrite, la pratique ne soit pas bien différente de ce que l’on pourrait dire de n’importe quelle action, en particulier dans un contexte narratif. On peut décrire une pratique comme des schèmes actantiels mais l’on sent pourtant que l’on laisse par là échapper une bonne part du problème. L’histoire racontée et le fait de la raconter, qu’il s’agisse d’un conte ou de l’histoire des nations, sont deux choses distinctes. Nous avons plus haut refusé la solution qui consiste à opposer l’histoire racontée et l’histoire comme pratique réelle et donc la conception de la pratique comme réalité excédant par nature les contraintes symboliques. Nous cherchons au contraire à montrer que nous sommes toujours dans l’immanence d’un langage. Mais cela ne doit pas nous conduire à confondre le langage comme grammaire et le langage comme action ou, plus exactement, le langage qui donne ses règles aux énoncés et celui qui les donne à l’effectuation des énoncés. Toute énonciation, quel que soit le système symbolique que l’on envisage, met ainsi en jeu une dualité entre deux ordres de règles dont les unes sont des règles de production et les autres des règles constituantes des énoncés produits. La difficulté, déjà aperçue par Saussure10, consiste à comprendre la dialectique qui articule ces deux ordres de règles. Essayons d’en déterminer quelque éléments avant de préciser la raison pour laquelle nous parlons de “dialectique”. On reconnaîtra d’abord que la caractéristique la plus apparemment simple, mais aussi la plus constante, de la pratique est de consister en un ajustement entre une action, des règles (par exemple celles d’un langage) et des circonstances. John Searle11 a théorisé une partie du problème lorsqu’il a parlé de la “direction d’ajustement” qu’il voyait varier entre le langage et le monde. Tantôt en effet le langage, lorsqu’il s’agit de décrire ou de théoriser, doit se rendre le plus possible conforme à ce qu’est le monde (les circonstances), tantôt il faut rendre le monde conforme à ce qui est dit. L’exemple le plus évident de ce dernier cas est la promesse. Cette remarque de John Searle laisse cependant 10 11 Dans le chapitre III de la première partie du Cours de linguistique générale, Saussure consacre une section à l’étude de la “Dualité interne de toutes les sciences opérant sur des valeurs”. Cette dualité est celle qui oppose, en particulier, la synchronie et la diachronie, le système de valeur dans un état de langue et les règles qui gouvernent l’évolution des langues. Or, même si l’évolution en diachronie n’est pas la même chose que l’effectuation dont nous parlons, elle partage avec elle la propriétés d’être une action. Il y a toujours dualité entre des règles d’action, qui sont celles d’un travail, et la configuration interne d’un système, quel qu’il soit. En particulier in John Searle (1972). 151 dans l’ombre l’ajustement entre l’acte d’énonciation et les énoncés porteurs de signification. Même un acte aussi codifié que la promesse n’est jamais tel que son intention soit entièrement remplie, et d’une façon parfaitement adéquate, par l’énoncé résultant. De même, l’énoncé résultant n’exprime jamais l’intention de l’acte dans une parfaite adéquation et cela malgré toutes les “conditions de félicité” que l’on a pu inventer. Il en résulte que l’ajustement entre les trois composantes de la pratique que sont l’action, les règles symboliques et les circonstances, est la première qualification de la dialectique. L’ajustement n’est qu’une forme pauvre des mécanismes régulateurs qu’il faudrait pouvoir décrire plus en détail. Un autre aspect élémentaire mais essentiel de la pratique est qu’elle est le fait d’acte de natures diverses. Il y a une diversité pratique au même sens qu’il y a une polysensorialité. Plusieurs types de pratique sont la plus part du temps entrelacés. Même s’il est sans doute impossible de faite un inventaire exhaustif des types d’actes, on peut au moins proposer la classification suivante: - Il y a les actes qui transforment en quelque façon leur objet soit parce qu’ils exercent sur lui une certaine force, soit parce qu’ils changent ses conditions spatiales ou temporelles.Ce sont des actes transformateurs. - Il y a les actes qui laissent être leur objet. Ce sont des actes contemplatifs. Les plus évidents sont les actes scopiques (voir, regarder). Mais la plupart des sens possèdent un usage semblable (écouter, sentir, toucher). Goûter est, par contre, un acte transformateur. - On peut enfin distinguer les actes qui ont une certaine autonomie par rapport à un sujet en ce sens qu’ils semblent s’accomplir seuls, de leur propre mouvement. Appelons ces actes des automatismes. Le réflexe est un acte de ce genre, mais aussi les manies, certains rituels. Cette classification, aussi sommaire soit-elle, a un premier avantage. Elle montre que la notion duale d’embrayage et de débrayage n’est pas seulement une notion dynamique mais aussi une notion catégorisante. Il y a des actes embrayés sur leur objet mais pas nécessairement sur leur sujet (casser un verre par hasard). Il y a les actes qui, symétriquement, sont embrayés sur leur sujet mais par sur leur objet (contempler). Les actes embrayés sur le sujet et l’objet forment un autre ensemble. Les actes sans sujet ni objet sont en général le propre des choses. Ainsi une lampe qui brûle seule dans la nuit. Mais les automatismes humains peuvent parfois aller jusqu’à appartenir à ce groupe (un tic, une posture figée). Il est clair que cette classification ne concerne que le faire transformateur, car les actes cognitifs ou esthétiques peuvent être embrayés sur leurs objets sans pour autant les transformer. Ils sont des actes contemplatifs, pour autant que ces deux termes puissent aller ensemble. La pratique peut ainsi être spécifiée selon des catégories issues des différentes formes d’embrayages et se décrire en intensité (tensivement) selon les variations nécessairement progressives et incertaines de l’ajustement. Une autre propriété essentielle de la pratique est son rythme. Un bon exem- 152 ple de variation rythmique nous est fourni par les arts. On a observé que, selon les cas, les arts pouvaient se jouer sur un nombre variable de temps. Henri Gouhier (1989) décrit le théâtre comme un art à deux temps. Dans les arts à un temps, comme la peinture, l’œuvre vient à l’existence en même temps qu’elle est créée. Dans les arts à deux temps, comme le théâtre, il ne suffit pas de créer la pièce, il faut la jouer et la rejouer sans cesse pour la maintenir dans l’existence. La musique est aussi dans ce cas, du moins la musique possédant des partitions. On voit en quoi la pratique est concernée par cette remarque: le théâtre ne comporte pas une seule pratique mais deux disposées en un certain ordre. Chacune d’elle conduit à un plan d’immanence (la pièce écrite, la pièce jouée) possédant des propriétés bien distinctes et pouvant embrayer vers d’autres pratiques (la lecture, le spectacle) sans pour autant faire disparaître leur mise en séquence canonique (écrire puis jouer). En réalité, les temps des pratiques artistiques sont bien plus divers que les deux étudiés par H. Gouhier. En architecture, le plan et le dessin sont des étapes antérieures à la réalisation de l’œuvre qui elle-même pourra être orientée vers des usages divers. On a ainsi un premier temps de conception (le plan, l’esquisse, le dessin), un temps de réalisation (le bâtiment), un temps d’utilisation (les usages possibles et successifs). Il en va quelquefois de même pour l’architecture. Ainsi Dubuffet avait-il l’habitude de réaliser des statues de petite taille en polystyrène qui étaient ensuite réalisées en grande taille. On passait ainsi d’un usage privé à un usage public. On voit ainsi que la conception, la réalisation, l’exécution, l’usage forment quatre temps ordonnés mais soumis à des pratiques distinctes et pouvant à chaque instant diverger vers des usages imprévisibles. Il existe une vie livresque de l’architecture qui donne lieu à des pratiques quasi littéraires comme l’atteste l’œuvre de Ledoux. Une fois bâtis, les palais deviennent des musées, les entrepôts des galeries, etc. Il est sans doute prévisible que les temps des arts ou d’autres sémiotiques soient en réalité beaucoup plus nombreux que la séquence de quatre temps décrite plus haut. Mais l’important réside dans le schéma lui-même: les temps sont des plans d’immanence entre lesquels se jouent des pratiques ouvrant elles-mêmes vers d’autres plans. L’incertitude que Clausewitz met au centre de la pratique se formalise alors aisément. Il suffit de presque rien en effet pour qu’un dessin devienne un bâtiment ouvert aux aléas de l’histoire ou reste l’élément d’un livre, une pièce dans une archive, chacun de ces destins ouvrant d’autres pratiques encore et d’autres destins. On voit que les sémiotiques constituant les plans d’immanence, et les pratiques qui mènent de l’un à l’autre de ces plans, forment un peu comme les nœuds et les arcs d’un réseau, tantôt en train de se constituer dans les pratiques créatrices, tantôt plus prévisible et plus contraint lorsqu’il existe des séquences canoniques. Résumons brièvement les caractéristiques essentielles de la pratique telles qu’il nous semble les avoir dégagées des réflexions qui précédent. 1 La pratique n’est pas distincte dans son principe d’une sémiotique. Elle est une sémiotique en acte, c’est-à-dire le déploiement d’une force, qui s’exerce 153 sur une sémiotique agie. La sémiotique agie peut être tenue pour le plan d’expression et la sémiotique en acte le plan du contenu. Nous reviendrons sur ce point. 2 Deux opérations paraissent fondamentales: l’embrayage / débrayage et l’ajustement. L’une est catégorisante, l’autre graduelle. 3 Il existe des séquences rythmiques de pratiques. Elles peuvent être décrites comme engendrant (ou parcourant, selon le cas) un réseau dont les nœuds serait des plans d’immanence et les arcs des pratiques. 4- Le hasard des pratiques, leur effet de “friction”, peut être décrit comme l’incertitude quant à leur destin à chaque nœud du réseau. On ne sait jamais si une musique sera jouée, comment, ni ce qui en résultera. 5- L’image du réseau, bien que commode, est cependant insuffisante car elle laisse dans l’ombre ce qui est en jeu pour chaque pratique à chaque nœud: le destin de la valeur. La dualité saussurienne implique que le déploiement dans le temps, qui est le propre de la pratique, soit en quelque façon aveugle à ce qu’il produit. Ainsi le développement historique d’une langue, selon Saussure, ne permet pas de prédire la logique inhérente à un état synchronique car celui-ci est d’ordre systématique et non historique. Les exemples que Saussure prend dans l’économie nous ont amené à parler ailleurs d’“économie du sens”. Mais il vaut mieux sans doute dire “dialectique du sens”, expression plus conforme à l’usage. On entendra alors par dialectique le procès et le destin des valeurs. Cette dialectique, comme nous venons de le voir, suppose que la fonction sémiotique et son déploiement dans le temps, la sémiose, ne soient pas concevables indépendamment des actes ou pratiques qui l’animent. On peut donc dire que la caractéristique essentielle de la sémiose ainsi comprise est de contenir en elle son énonciation ou effectuation. Ce que la sémiose exprime, son sens, est donné par le rapport de son énonciation à ce qu’elle vise. Ainsi le sens d’un jeu n’est-il rien d’autre que la somme des actes consistant à jouer en tant qu’ils ont un gain comme horizon d’attente. Si nous reprenons l’exemple de Pierre Bourdieu, le sens des structures de parentés, lorsqu’elles sont soumises à une stratégie économique ayant pour but un certain intérêt, n’est rien d’autre que la somme des actes effectués pour satisfaire cette stratégie. Bien sûr, les structures de parenté n’en perdent pas pour autant leur signification intrinsèque. Mais, cet exemple le montre clairement, il y a une dualité manifeste entre ces structures et le sens accompli par la stratégie économique qui est, dans cette hypothèse, le moteur de leur pratique. On peut généraliser cette réflexion à toute organisation sémiotique. Un plan d’expression, quel qu’il soit, contient son énonciation, ainsi que l’horizon de cette énonciation, au titre de son contenu. La pratique fait ainsi partie du contenu de l’expression, ce qui ne veut pas dire qu’elle soit le tout de ce contenu. Mais cela explique pourquoi il est légitime de dire que la sémiose est une dialectique dans laquelle se joue le destin des valeurs. Le schéma suivant résume notre propos: 154 Nous allons maintenant nous demander en quel sens il est possible pour une pratique d’être créatrice. Une chose en effet est de suivre des règles, une autre d’en créer ou de modifier celles déjà existantes. Si une sémiotique n’est pas seulement un code, c’est bien parce qu’elle est capable, par sa pratique, de créer de nouvelles règles. Nous prendrons comme exemple l’œuvre de Maine de Biran dont on peut dire qu’elle présente deux aspects distincts mais profondément coordonnés. Biran a écrit une œuvre philosophique relativement vaste même si elle se présente comme une succession de livres jamais véritablement achevés, se présentant plutôt comme les étapes d’une entreprise désespérée. Il a, par ailleurs, écrit un journal intime, qui n’était sans doute pas destiné à la publication bien qu’un jugement de cette sorte soit toujours difficile à fonder. C’est probablement le premier philosophe à avoir écrit un tel journal ou du moins dont un tel journal nous soit parvenu. Il est sans doute aussi un des premiers écrivains à l’avoir fait si l’on entend “journal” au sens strict d’une écriture quotidienne (diariste) non destinée à la publication. Le lien entre ces deux aspects de l’œuvre n’est pas simple car, même si le journal contient des remarques philosophiques, on ne peut pas dire qu’il s’agisse à proprement parler d’un journal philosophique comme le sera explicitement le Journal métaphysique de Gabriel Marcel. Il ne s’agit donc pas d’une extension du genre (ou de l’hyper-genre) philosophique vers un territoire nouveau mais plutôt, comme nous le verrons, de l’émergence d’une pratique qui interfère avec le contenu des œuvres philosophiques par son écriture même beaucoup plus que par les pensées qu’elle engendrerait. Ce n’est donc pas une “philosophie au quotidien” mais plutôt une pratique quotidienne se convertissant peu à peu en une éventuelle source d’œuvre philosophique. En un mot, le journal de Biran nous apparaît comme prémonitoire d’un nouveau “sujet” de la philosophie, non plus le sujet cartésien mais le sujet existentiel qui se manifestera chez Kierkegaard ou chez Nietzsche, sujet ouvert à la contingence, à la passion et aux aléas du corps. Une autre postérité considérable, ne serait-ce que thématiquement, se rencontre dans les philosophies accordant un primat à la perception et au corps comme chez Merleau-Ponty ou Michel Henry. 155 Dans le contexte de notre présente recherche, nous essayons de comprendre comment cette pratique du journal intime s’ajuste au discours philosophique et laisse prévoir une certaine modification du statut de son énonciation. Il nous faut, ne serait-ce que très brièvement, situer la philosophie de Biran dans son contexte historique. Le point de départ peut être situé chez Condillac. Une des questions fondamentales de sa philosophie est de comprendre comment nos sensations peuvent nous donner un monde extérieur: “D’un côté toutes nos connaissances viennent des sens; de l’autre, nos sensations ne sont que des manières d’être. Comment pouvons voir des objets hors de nous? En effet il semble que nous ne devrions voir que notre âme modifiée différemment12.” La réponse de Condillac est que le sens du toucher est celui qui nous fait percevoir l’extériorité: “Or, l’œil, comme l’odorat, l’ouïe et le goût, est un organe qui se borne à modifier l’âme. C’est le toucher qui instruit ces sens13.” Destutt de Tracy reconnaîtra qu’en réalité le toucher ne suffit pas à lui seul pour produire le sentiment d’extériorité mais que c’est dans son mouvement que réside son efficace. A cela il faut ajouter la résistance de l’objet et l’effort nécessaire au mouvement. Ainsi se constitue peu à peu un problème dont Biran héritera. On voit en effet que, même si l’on parvenait à expliquer le sentiment d’extériorité, l’être subjectif n’en demeurerait pas moins un mystère. Pour Destutt de Tracy, le moi est l’unité des sensations comme un bal est l’unité des danseurs. Mais, pour qu’il y ait extériorité, il faut aussi qu’il y ait une volonté dont le mouvement soit arrêté malgré elle: “En un mot, quand un être organisé de manière à vouloir et agir sent en lui une volonté et une action, et en même temps une résistance à cette action voulue et sentie, il est assuré de son existence et de l’existence de quelque chose qui n’est pas lui. Action voulue et sentie, d’une part, et résistance de l’autre, voilà le lien entre notre moi et les autres êtres, entre les êtres sentant et les êtres sentis14.” Ici naît la question proprement biranienne: comment cet être peut-il s’éprouver lui-même et pas seulement rencontrer un monde extérieur qui le présuppose? 12 13 14 Condillac Traité des sensations, Précis de la deuxième partie, Corpus des philosophes français, Paris, PUF, 1947. Idem. Destutt de Tracy Eléments d’Idéologie Tome 1, Paris, Vrin, 1970, p.402. 156 Il faut trouver un fait primitif lors duquel la force motrice de la volonté viendrait rencontrer quelque résistance interne. Là est le point de départ de Biran: comment comprendre, par delà le problème de l’objectivité, l’émergence nécessaire d’une subjectivité. Une des thèses essentielle de la philosophie de Biran est que le moi, le sujet, naît de par la rencontre entre une force motrice et la résistance musculaire. Le moi n’est pas avant cette rencontre mais après. Il est toujours de ce fait non pas substantiel mais façonné par la dualité entre la force et la résistance. Le moi est l’effet d’une rencontre. Comme le dira Merleau-Ponty (1997): “Il ne s’agit pas d’une philosophie empiriste qui remplirait la conscience de fait musculaires, mais d’une philosophie qui reconnaît comme originaire une certaine anti-thèse, celle du sujet et du terme sur lequel porte ses initiatives”. Ou encore: “Le fait primitif est la conscience d’une relation entre deux termes irréductibles eux-mêmes”. Le moi biranien n’est pas une entité substantielle, ni même l’unité des sensations, comme chez Tracy, mais une dualité qui se constitue à même le corps. On peut dire qu’il est non seulement dual mais qu’il l’est deux fois car s’il est action et résistance il est aussi spirituel et physique. Selon le point sur lequel on fait porter l’accent, on peut voir dans Biran un précurseur du positivisme ou un précurseur du romantisme. Les textes philosophiques de Biran ont, du point de vue de leur composition, une facture classique. Il s’agit d’un discours conceptuel qui souvent procède en discutant des auteurs classiques comme Leibniz, Descartes, Malebranche, en analysant et en classifiant. etc. Ainsi, pour ne prendre que cet exemple, le Mémoire sur la décomposition de la pensée se présente comme un vaste projet d’analyse des facultés humaines, de la sensibilité et des opérations élémentaires de l’intelligence. Il se situe lui-même dans le cadre d’une discussion avec les idéologues auxquels il propose, au titre d’une nouvelle étape une “idéologie subjective”: “Ces questions sont bien vraiment fondamentales: elles tendent à décider s’il y a une science métaphysique, ou plutôt une conscience réfléchie de nos actes distincte de la connaissance des modifications et des idées quelconques, dont l’analyse et la classification font l’objet de cette science universelle connue de nos jours sous le non d’Idéologie et pratiquée, appliquée sous beaucoup de rapports avec tant de succès par les mêmes philosophes qui lui ont donné son titre: ce titre dont le seul défaut est d’être trop général demanderait lieu de demander dans notre but actuel, s’il n’y 157 a pas une idéologie subjective, qui se concentre dans le sein même du sujet pensant et pénètre les rapports qu’il a avec lui-même dans ses modes les plus intimes et les actes qui naissent de son propre fond; distincte par conséquent de l’idéologie objective qui fixe les rapports de dépendance de l’être sensible dans les diverses impressions qu’il reçoit des choses extérieures, les représentations qu’il s’en fait, etc.15” La scène philosophique ainsi construite comprend la situation de l’auteur dans le contexte de son époque (l’Idéologie), le problème central qui s’y trouve traité (Y a-t-il une connaissance métaphysique du sujet?) et l’apport critique qui sera sa marque. L’écriture est donc, en apparence du moins, tout à fait académique comme il convient aux circonstances de son énonciation (il s’agit d’un mémoire couronné par l’institut en 1805). Mais l’on sait que Biran interrompit la publication de ce mémoire et que, d’une façon générale, comme l’atteste l’édition de ses œuvres que nos venons de citer, il ne parvint jamais à être satisfait de ses propres textes, les ratura sans cesse et finit par en abandonner plusieurs. Il y a donc, si l’on considère maintenant les ratures et les innombrables répétitions, les échecs, une énonciation très particulière qui ne peut se résumer au cadre académique de l’énonciation telle qu’elle est énoncée. Cette tension entre l’énonciation comme pratique (l’énonciation énonçante) et l’énonciation énoncée se trouve redoublée par l’écriture du journal. Le journal de Biran, si l’on ne tient pas compte des carnets de jeunesse écrits à l’imitation de Rousseau, débute en 1814. Cette date correspond à la fois à la fin de l’Empire, si l’on excepte l’épisode des Cent jours, et à un certain tournant dans ses conceptions philosophiques, marqué en particulier par un retour à la notion de substance. Même si l’on ne peut déduire de ce point de départ des conséquences certaines il semble bien que le journal prenne sa source à la rencontre d’une situation politique (la restauration), à laquelle Biran contribue, et d’un état particulier de sa pensée. Un des thème les plus constant du journal est en effet l’impossibilité de penser, aussi bien pour des raisons intimes que pour des raisons politiques, mondaines, cosmologiques (le mauvais temps, la chaleur, etc). Le journal, contrairement à l’œuvre philosophique, lie en permanence plusieurs scènes que presque seul, sans doute, ce genre autorise à mêler. Il est fréquent de le voir commencer par des considérations abondantes sur le temps qu’il fait et les conséquences physiologiques qui en résultent. L’ennui des réunions mondaines mais aussi de ses tâches politiques sont également des thèmes constants. A cela s’oppose le bonheur éprouvé à Grateloup, son petit château près de Bergerac, quelques rencontres philosophiques avec Ampère par exemple ou le jeune Victor Cousin. La scène du journal est donc multiple, 15 Maine de Biran, Mémoire sur la décomposition de la pensée, Paris, Vrin, 1988, Tome III des Œuvres édité par François Azouvi, p. 25. 158 beaucoup plus que nous ne pouvons le suggérer en quelques lignes. Les considérations philosophiques, parfois assez importantes, viennent le plus souvent à la fin sans qu’un ordre soit suivi de façon manifeste. Le journal offre donc une diversité sans structure apparente dont les problèmes philosophiques sont des morceaux parmi d’autres. Quels liens exacts, quels déplacements, peut-on supposer alors entre le journal et les traités philosophiques pour l’essentiel inachevés? La première évidence est que le journal et les textes philosophiques ont un centre de gravité commun. Il s’agit toujours de la vie intérieure de l’esprit dans tous ses registres (impression, jugement, etc). Mais le journal déploie essentiellement les empêchements, les contraintes, les impossibilités, tout ce qui, autour de la pensée comme en son intérieur, la rend incertaine, douloureuse. Le journal agit ce que les livres décrivent ou théorisent. La scène philosophique connue de Biran n’autorisait sans doute pas à se plaindre, dans un traité, de l’impossibilité de penser. Il est non moins vrai que cette même impossibilité, quelle que soit la façon dont on la thématise, est centrale quant au statut de la pensée. Ainsi peut-on dire que le journal commence là où les livres ne peuvent que s’achever. Le journal retourne le propos des livres, en inverse le point de vue, transforme l’objet en sujet le rendant par là à la fois méconnaissable et sensible. On aimerait pouvoir dire que le journal est aux livres ce que, chez Clausewitz, la “friction” est au traité de stratégie. Biran serait comme un stratège qui choisirait de décrire la guerre en partant du corps à corps. Alors, en effet, comme dans le journal et comme dans certains passages de Clausewitz, le temps qu’il fait, l’humeur, le hasard, une mauvaise disposition, deviendraient le centre de tout. Nous avons essayé de suggérer par cet exemple le mouvement de retournement qui mène d’un genre à un autre et par là le renouvelle. Le point essentiel est que le second genre devient la pratique de ce qui était l’objet dans le premier. Nous espérons avoir montré par là, ou du moins illustré, la difficulté inhérente à la notion de pratique. On ne peut simplement l’opposer à l’immanence d’un système symbolique représenté ici par un genre. La pratique bouleverse l’immanence non pas la quittant vers quelque sol empirique mais plutôt en inventant un autre plan pour une nouvelle immanence, un autre registre de discours. 159 Bibliographie Bourdieu, Pierre 1980 Le sens pratique, Paris, Minuit. Coquet, Jean-Claude 1984 Le discours et son sujet, Paris, Klincksieck, 1984. Gouhier Henri 1989 Le théâtre et les arts à deux temps, Paris, Flammarion. Merleau-Ponty, Marcel 1997 L’union de l’âme et du corps chez Malebranche, Biran et Bergson, Paris, Vrin, 1997. Saussure, Ferdinand de 1916 Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1972. Searle, John 1972 Les actes de langage, Paris, Hermann. 160 PRATICHE SEMIOTICHE* Jacques Fontanille 1. INTRODUZIONE. IMMANENZA E PERTINENZA “Fuori dal testo non v’è salvezza!” è uno slogan che ha fatto il suo tempo, e questo tempo era quello in cui bisognava resistere alle sirene del contesto e alle tentazioni di pratiche ermeneutiche, specialmente nel campo letterario, che cercavano delle “spiegazioni” in un insieme di dati extra-testuali e extra-linguistici. “Fuori dal testo non v’è salvezza!” è stato lo slogan di un’ascesa metodologica feconda che ha permesso di spingere il più avanti possibile la ricerca dei modelli necessari a un’analisi immanente e di delimitare il campo di investigazione di una disciplina e di una teoria, la semiotica del testo e del discorso. Ma se le tentazioni sono, a questo proposito, sempre d’attualità, l’orizzonte epistemologico e disciplinare è cambiato: 1. da un lato, lo sviluppo delle ricerche cognitive pone delle questioni sempre più pressanti alla semiotica, in particolare perché essa prenda posizione * Traduzione di Sara Spinelli. 161 sullo statuto delle operazioni di “produzione di senso” che reperisce nelle analisi del discorso: queste sono operazioni cognitive dei produttori o degli interpreti? Delle routines culturali? Delle attività proprie delle semioticheoggetto, considerate come “macchine significanti”? 2. dall’altro lato, la pratica semiotica stessa, continuando sempre a farsi forte dello slogan “Fuori dal testo non v’è salvezza!”, ha largamente oltrepassato i limiti testuali, interessandosi all’architettura, all’urbanistica, al design degli oggetti, alle strategie di mercato, alle situazioni sociali, addirittura alla degustazione di un sigaro o di un vino. Sembra dunque giunta l’ora di ridefinire la natura di ciò di cui si occupa la semiotica (le “semiotiche-oggetto”), se non altro per evitare che queste digressioni fuori dal testo sfuggano all’imposizione minimale di una solidarietà tra espressioni e contenuti. Eppure il principio di immanenza si è rivelato di una grande potenza teorica, poiché la restrizione che impone all’analisi è una delle condizioni della modellizzazione e, di conseguenza, dell’arricchimento della proposta teorica globale: senza il principio di immanenza non ci sarebbe una teoria narrativa, ma una semplice logica dell’azione applicata a dei motivi narrativi; non ci sarebbe una teoria delle passioni, ma una semplice importazione di modelli psicanalitici; non ci sarebbe una semiotica del sensibile, ma solamente una riproduzione o una sistemazione delle analisi fenomenologiche. Dietro al principio di immanenza si profila un’ipotesi forte e produttiva secondo la quale la prassi semiotica (l’enunciazione “in atto”) sviluppa essa stessa un’attività di schematizzazione, una “meta-semiotica interna”, attraverso la quale possiamo “cogliere” il senso e che l’analisi ha il compito di raccogliere e di riformulare in metalinguaggio. Tutte le linguistiche e le semiotiche che hanno rinunciato al principio di immanenza si presentano oggi in due branche: una branca forte, quando affrontano direttamente il loro oggetto, e una branca debole e diffusa, quando eleggono a materia di studio quello che chiamano “contesto” del loro oggetto. In breve si tratterebbe dunque non di immergere l’oggetto dell’analisi nel suo contesto, ma al contrario di integrare il contesto nell’oggetto d’analisi1. Bisognerebbe dunque distinguere (i) il principio di immanenza in sé, e (ii) la determinazione dei limiti dell’immanenza; questi limiti, provvisori e arbitrari, sono stati a suo tempo fissati al testo-enunciato; ma se è vero, come dice Hjelmslev, che i dati del linguista si presentano come “testo”, questo non è più vero per il semiologo che ha a che fare con degli “oggetti”, delle “pratiche” e delle “forme di vita” che strutturano intere parti della cultura. Il principio di immanenza è dunque applicabile in tutto il suo rigore soltanto se si distinguono dei piani di immanenza, che obbediscono ciascuno a un principio di pertinenza specifico. 1 Il richiamo al contesto non è che la confessione di una delimitazione non pertinente della semioticaoggetto analizzata e, più precisamente, di una inadeguatezza tra il tipo di strutturazione ricercata e il livello di pertinenza stabilito. 162 2. PIANI DI IMMANENZA E LIVELLI DI PERTINENZA La serie dei livelli di pertinenza del piano dell’espressione è stata presentata recentemente per esteso in “Textes, objects, situations et formes de vie. Les niveaux de pertinence du plan de l’expression dans une sémiotique des cultures”2 così ci accontenteremo qui di riassumerne la sostanza, prima di commentarne le conseguenze. 2.1. Dai segni ai testi-enunciati La prima distinzione è quella che ci fa passare dai segni ai primi “insiemi significanti”, i testi: si considera che l’unità pertinente del piano dell’espressione per operare le commutazioni, le segmentazioni e le catalisi che svilupperanno i significati e i valori non è più la figura, bensì il testo-enunciato3. 2.2. Dal testo all’oggetto …e alla situazione Un “testo-enunciato” è un insieme di figure semiotiche organizzate in un insieme omogeneo grazie alla loro disposizione su uno stesso supporto o veicolo4 (uni-, bi- o tridimensionale). Nel complesso il testo-enunciato si presta ad essere colto, dal lato dell’espressione, come un dispositivo di iscrizione, se si accetta di dare al termine “iscrizione” un’estensione più vasta di quella che gli accorda il senso comune. Nessun “testo-enunciato” sfugge a quella regola che, del resto, era già stata formulata nella vecchia teoria delle “funzioni” del linguaggio e della comunicazione, come l’esigenza di un “canale”: la lingua dei segni ha anche un “supporto”, uno spazio-tempo centrato sul corpo del soggetto che produce i segni (e che è egli stesso uno degli elementi del supporto di iscrizione). La lingua orale ha ugualmente un supporto (un “medium”, dicono alcuni), un substrato fisico capace di trasmettere delle vibrazioni. Il “supporto” è un’“interfaccia” costituita: (i) da una faccia “testuale”, il supporto formale, che è un’organizzazione sintagmatica potenziale, o materializzata per la raccolta delle figure del testo, e (ii) da una faccia “prassica5”, il supporto materiale, che è un corpo (struttura materiale + involucro) che può essere manipolato nel corso di una pratica. 2 3 4 5 Fontanille (2004). Questo salto metodologico è stato a suo tempo presentato come un “progresso” e come una linea di divisione tra due tipi di semiotiche. Ma il “progresso” in questo caso non risiede nel cambiamento di livello di pertinenza, ma nel cambiamento di strategia teorica: l’analisi dei segni e delle figure sembrava essere votata a una tassonomia proliferante e sterile, mentre l’analisi dei testi e dei discorsi sembrava potersi orientare verso lo studio delle strutture sintattiche dei processi significanti. Ma l’evoluzione recente delle semiotiche peirciane, particolarmente in Umberto Eco, mostra bene che questa ripartizione di ruoli non è intoccabile. Difficilmente si sfugge alle metafore, e ancora meno al momento di designare il substrato materiale d’iscrizione; “supporto” è il termine più neutro, ma rinvia a un’opposizione che non si è obbligati ad assumere (“apporto/supporto”), nella misura in cui presuppone talvolta che l’“apporto” esista preliminarmente alla sua iscrizione sul “supporto”. La scelta del termine “supporto” non comporta per noi alcuna assunzione teorica di questo tipo. N.d.T. Si è scelto di tradurre l’originale praxique con “prassico”, termine ampiamente attestato in psicologia e in pedagogia. L’esigenza è quella di ricondurre l’aggettivo alla prassi, e non genericamente alla pratica. 163 Certe pratiche (come la produzione di testi elettronici) dissociano le due “facce” (il supporto formale “schermo” è distinto dal supporto materiale “tastiera-calcolatore”), ma queste però appartengono a una medesima “macchina” e in ogni caso sono obbligatoriamente connesse perché la pratica possa avere luogo. Un esempio permetterà di illustrare concretamente come si compie l’integrazione del testo all’oggetto e alla pratica, e perché questo spostamento ne comporterà un altro, fino alla situazione. Prendiamo in considerazione, banalmente, la corrispondenza postale. Il testo della lettera è iscritto su fogli di carta, infilati in una busta sulla quale è indicato l’indirizzo del destinatario, talora anche quello del destinante, oltre a qualche figura e impronta (francobollo, timbro, etc.) attraverso le quali l’intermediario convalida la conformità del processo di trasmissione, e marca il compimento del suo ruolo. Le stesse indicazioni (il nome e l’indirizzo del destinatario) possono trovarsi al tempo stesso sulla lettera e sulla busta. Ma la loro iscrizione su due parti differenti dell’oggetto-supporto conferisce loro dei ruoli attanziali diversi: (i) sulla lettera il nome e l’indirizzo del destinatario partecipano di una struttura di enunciazione, un “indirizzo” che manifesta la relazione enunciazionale propria al testo della lettera; (ii) sulla busta il nome e l’indirizzo del destinatario partecipano di due pratiche differenti e concomitanti: da un lato costituiscono un’istruzione per gli intermediari postali, al momento delle operazioni di classificazione, di scelta di direzione, di trasporto e di distribuzione finale; dall’altro permettono di scegliere tra tutti i destinatari possibili della lettera il destinatario legittimo, cioè quello che ha il diritto di aprire la lettera, e di addentrarsi nella lettura. La frontiera tra le due configurazioni è lo stato della busta: se è chiusa, solo la seconda è realizzabile; se è aperta, può attivarsi la prima. Si incontrano dunque qui, associate a una morfologia particolare dell’oggetto di scrittura, due tipi di pratiche, una che dipende dal genere epistolare, e l’altra dal genere “comunicazione e circolazione degli oggetti in società”, incassate l’una nell’altra. Ciascuna corrisponde a una parte e a uno stato dell’oggetto, così come a delle iscrizioni specifiche, che permettono di gestire il confronto con altre pratiche eventualmente concorrenti che dipendono da altri generi. Si vede dunque formarsi qui un altro livello di pertinenza, che è a mezza strada tra quello degli oggetti e quello delle situazioni in generale: quello delle pratiche – nel caso specifico, pratiche di scrittura, pratiche di comunicazione sociale, e pratiche di manipolazione di oggetti. Inoltre appare anche un’altra dimensione, quella dell’interazione e della selezione tra le pratiche: alcune sono sollecitate, proposte o imposte, altre scartate o inibite. Si constata allora che l’oggetto gioca un ruolo su un altro piano di immanenza, quello delle strategie (gli adattamenti tra le pratiche). È necessario infine precisare il carattere “materiale” dell’oggetto-supporto: “materiale” deve essere inteso qui nel senso di Hjelmslev, ovvero come substrato sensibile delle semiotiche-oggetto. Se si comparano ad esempio le pratiche divinatorie dei Romani e dei Dogon, queste obbediscono evidentemente allo 164 stesso principio: definire nello spazio naturale un supporto di iscrizione, dei limiti e delle direzioni, e interpretare gli attraversamenti degli animali (l’uccello per i Romani, la volpe per i Dogon) nella “griglia” così costituita: eppure la griglia romana (il templum) è proiettata sul cielo, mentre quella dei Dogon è tracciata sul suolo. La differenza tra i due supporti “materiali”, uno terrestre e solido e l’altro aereo e intangibile, è di ordine sensibile e sostanziale, e induce anche delle differenze nei potenziali espressivi dei due supporti formali: da un lato il templum può sfruttare una terza dimensione nello spazio, la profondità, e anche delle velocità e delle durate di passaggio, ma senza poter tenere traccia delle figure tranne che all’interno della memoria visiva; dall’altro, la griglia dei Dogon non può gestire che delle tracce di passi sul suolo, ma il supporto ne conserva la memoria sotto forma d’impronta durevole. Eppure questi due “oggetti” di scrittura hanno diritto al medesimo statuto di oggetto-supporto, sebbene le loro proprietà sensibili siano assai diverse. 2.3. Due tipi di situazioni semiotiche: pratiche e strategie Una situazione semiotica è una configurazione eterogenea che raccoglie tutti gli elementi necessari alla produzione e all’interpretazione della significazione di un’interazione comunicativa. Quelle che chiamiamo situazioni semiotiche, seguendo Landowski (1989), possono in realtà essere analizzate in due dimensioni distinte e gerarchizzate: (i) sia come un’interazione con un testo, passando per i suoi supporti materiali, o con uno o più oggetti, e che si organizza intorno a una pratica, (ii) sia come l’adattamento tra diverse interazioni parallele, tra diverse pratiche complementari o concorrenti: è la situazione-congiuntura, che raccoglie l’insieme delle pratiche e delle circostanze pertinenti in una stessa strategia. 2.3.1. La scena predicativa delle pratiche . Il primo tipo, attualizzato in una pratica, costituisce un piano di immanenza autonomo, fondato sulla dimensione predicativa di una scena pratica. La pratica si presenta a questo proposito sotto forma di uno o più processi (uno o più predicati) e di atti d’enunciazione che implicano dei ruoli attanziali, sostenuti tra l’altro dal testo-enunciato medesimo (testo verbale, immagine, etc.), dal suo supporto, dagli elementi dell’ambiente, dal passante, l’utente o l’osservatore, tutto ciò che forma la “scena” tipica di una pratica. Essa consiste anche in relazioni tra questi differenti ruoli, essenzialmente relazioni modali, ma anche passionali. Infine la pratica induce più spesso un cambiamento dei corpi e delle figure, e dunque una sintassi figurativa. L’insieme (ruoli, atti, modalizzazioni, passioni e sintassi figurativa) costituisce l’essenziale di questo piano di immanenza. Gli utensili e le pratiche tecniche forniscono l’esempio più semplice possibile della scena predicativa pratica: un oggetto, configurato in vista di un certo uso, assumerà un ruolo attanziale all’interno di una pratica tecnica (il cui uso è l’attualizzazione enunciazionale) che consiste in una azione su un segmento 165 figurativo del mondo naturale (il “substrato” della pratica): questo segmentosubstrato, l’utensile e l’utente sono allora associati all’interno di una stessa scena predicativa, di cui assumono i principali ruoli attanziali, e il contenuto semantico del predicato (tagliare, raschiare, lisciare, etc.: la tematica della pratica) deve essere compatibile con la natura figurativa del substrato. 2.3.2. L’adattamento6 strategico. La seconda dimensione delle situazioni è la strategia. “Strategia” significa qui che la situazione semiotica è più o meno prevedibile, o persino programmabile e, più in generale, che ogni scena predicativa deve conformarsi7, nello spazio e nel tempo, alle altre scene e pratiche, concomitanti o non concomitanti. Si tratta insomma di gestire le congiunture, le successioni, le sovrapposizioni o la concorrenza tra le pratiche. La dimensione strategica raccoglie delle pratiche per farne dei nuovi insiemi significanti, più o meno prevedibili (degli usi sociali, dei riti, dei comportamenti complessi), che questo avvenga per programmazione dei percorsi e delle loro intersezioni o per adattamento in tempo reale. 2.4. Dalle strategie alle forme di vita Un ultimo ostacolo deve essere superato, con le forme di vita. Una forma di vita sussume un insieme di strategie, procurando loro, nel complesso, un’identità riconoscibile, uno “stile”, che caratterizzano un modo di essere al mondo e in società. Se si prende l’esempio delle strategie di spostamento e di comportamento negli spazi pubblici complessi dobbiamo, per accedere alle forme di vita, neutralizzare in primo luogo le specificità figurative e tematiche di ciascuno degli spazi e delle strategie associate (la metropolitana, l’esposizione, la città, l’ipermercato, o anche, per estensione a altri tipi di spazio da percorrere, il libro, il catalogo, la banca dati, il dizionario o il sito Internet). Restano allora disponibili, al livello di pertinenza delle forme di vita, l’insieme delle proprietà ritmiche e aspettuali (diciamo complessivamente, “tensive e sensibili”) che riguardano più in particolare il trattamento delle transizioni e dei raffronti tra le pratiche. In breve: le proprietà tensive di una classe di strategie. Prendono forma allora due tipi di uso che associano in una relazione semi-simbolica da un lato degli “stili” ritmici, e dall’altro delle “attitudini” di valorizzazione o svalorizzazione delle scene-ostacolo8. 6 7 8 N.d.T.: “Ajustement” nel testo originale. Sulla questione della strategia in semiotica e in particolare sulla distinzione tra strategie di programmazione e di adeguamento, cfr. Bertin (2003), come pure l’introduzione di Eric Landowski (2003). Quanto all’“adattamento” propriamente detto, questo è oggetto di precisi sviluppi in Landowski (2004). Questa relazione, che associa un piano dell’espressione e un piano del contenuto, è il requisito minimo perché si possa trattare un fenomeno quale che sia, ivi compresa una strategia o una forma di vita, come una “semiotica-oggetto”. 166 Dal punto di vista del piano dell’espressione, una forma di vita risulta dunque dalla ripetizione e dalla regolarità dell’insieme di soluzioni strategiche adottate per adeguare le scene predicative tra loro. Un altro caso di figura permetterà di porre la questione in un’ottica più generale: è quello delle affordances. Il concetto di affordance compare nella teoria “ecologica” di Gibson9 per rendere conto delle costrizioni e delle proprietà interattive che non possono essere positivamente situate né nella mente dell’utente, né nella struttura dell’oggetto o del mondo materiale. Infatti il mondo materiale, e più in particolare la struttura tecnica degli oggetti culturali, resiste, impone, propone, suggerisce, e non si lascia ridurre allo statuto trasparente di pretesto, di occasione o di supporto per delle esperienze puramente cognitive. E inversamente, questa realtà materiale non è decisiva, poiché gli utenti sono in grado di accettare, di rifiutare o di deviare queste proprietà morfologiche. L’ affordance è dunque il concetto che riassume l’insieme degli atti che la morfologia qualitativa del mondo e dei suoi oggetti compie nei confronti di coloro che se ne avvalgono e delle risposte e degli atti degli utenti. Occorre dunque badare a non dimenticare il principio “interattivo” e ecologico dell’affordance, pena la riduzione funzionalista. Così, partendo dalla banale constatazione che una sedia ci “offra” di sedersi, l’affordance potrebbe essere ridotta a una semplice funzionalità dell’oggetto, come nell’analisi semica degli anni ’60 (il “per sedersi” di B. Pottier), mentre invece l’affordance è un sistema immateriale complesso di proposizioni, di promesse, di risposte e di usi che non appartengono propriamente né all’oggetto né all’utente. Ragione per cui il concetto di affordance attira l’attenzione del semiologo. Con quello che Michela Deni (2005) ha chiamato il “funzionamento fattitivo” degli oggetti, bisogna intendere un certo numero di proprietà attanziali, modali e figurative che caratterizzano le interazioni manipolatorie reciproche tra oggetti e utenti10. Poiché queste costrizioni e queste strutture significanti non appartengono esclusivamente né al cervello degli utenti, né alla struttura degli oggetti, occorre postulare una “semiotica-oggetto” che li sussuma. Questo piano di immanenza, dove interagiscono il testo o l’oggetto, da un lato, e gli utenti, dall’altro, non può essere quello dei testi-enunciati o degli oggetti, e deve essere situato almeno al livello delle pratiche. Infatti, se ci si interroga sul modo di esistenza di questi dispositivi di manipolazione interattiva, è evidente che, anche se li si può qualificare come “fattitivi”, gli oggetti non realizzano il “fare”; questo vi è soltanto potenzialmente e parzialmente inscritto. Se si vuole accedere contemporaneamente al complesso della struttura predicativa e alle condizioni di realizzazione del fare, è necessario 9 10 Cfr. Gibson (1979). Siccome il concetto di “fattitività” si declina quasi immediatamente in “far fare”, “far sapere”, “far credere”, etc. e in un’analisi attanziale e modale, esso resiste più efficacemente che l’affordance alla riduzione funzionale, poiché l’interattività e la manipolazione sono qui centrali e irriducibili. 167 porre l’esistenza di una semiotica-oggetto inglobante, di livello superiore, che è qui una pratica quotidiana, una sequenza gestuale: in questa pratica soltanto si consolida effettivamente e completamente. Ma è appunto il carattere “incompleto” e “potenziale” della presenza del fare nell’oggetto che permette il dispiegamento delle strategie e delle forme di vita, poiché l’interazione tra oggetto e utente non è interamente regolata in anticipo, né dalla morfologia dell’oggetto, né dalle abitudini cognitive dell’utente. Gli adattamenti si fanno in tempo reale, cioè nel tempo dell’interazione, e se questi adattamenti sono determinati dalle norme, dalle tendenze o dagli stili, questo non può essere che a un livello superiore di pertinenza, quello delle forme di vita. Di conseguenza caratterizzare le affordances che si manifestano in un ambiente, qualsiasi esso sia, viene a definire una forma di vita. 3. DUE QUESTIONI TEORICHE AFFERENTI 3.1. Il contesto e le proprietà sensibili e materiali Cominciamo ponendoci queste due questioni: i) ciò che appare come “contesto” a un livello “n” forma l’armatura predicativa, attanziale, modale e tematica del livello “n+1”; ii) quelle che appaiono come proprietà sensibili e materiali non pertinenti al livello “n” formano la dimensione figurativa del livello “n+1”. Il contesto e la sostanza non sono dunque pertinenti al livello “n”, e gli elementi che essi comportano, riconfigurati in costituenti pertinenti del livello “n+1” non sono più allora né “contestuali” né “sostanziali”. In un altro registro, lo statuto dell’enunciazione e delle istanze enuncianti, molto discusso da Jean-Claude Coquet, obbedisce alla medesima distinzione: al livello della pertinenza del testo, l’enunciazione non è pertinente a meno che non vi sia rappresentata (enunciazione enunciata), mentre l’enunciazione detta “presupposta” è un puro artefatto senza osservabili. Ma al livello di pertinenza degli oggetti-supporti, o addirittura delle pratiche che li integrano, l’enunciazione ritrova tutta la sua pertinenza: gli attori vi ritrovano un corpo e una identità, lo spazio e il tempo dell’enunciazione procurano loro un ancoraggio deittico, e gli stessi atti dell’enunciazione possono inscriversi figurativamente nella materialità stessa degli oggetti di iscrizione (cfr. supra, la lettera e la sua busta sigillata o aperta). Lo stesso dicasi delle proprietà sensibili e materiali, ma con qualche conseguenza complementare che conviene sottolineare qui. L’introduzione del “sensibile” e del “corpo” nella problematica semiotica comporta, infatti, alcune difficoltà che non sono state superate finora, e che riguardano il fatto che questo “sensibile” e questo “corpo” non devono necessariamente essere rappresentati nel testo o nell’immagine per essere “pertinenti”, soprattutto se si tratta di articolare l’enunciazione su una esperienza sensibile e su una corporeità profonda. Non basta, per esempio, rinviare le nozioni che 168 dipendono dalla “foria” e della “tensività” a un livello “proto-semiotico” per procurare loro uno statuto chiaro e operativo. Le valenze percettive della tensività, fra l’altro, sono state spesso criticate per via dell’assenza di un qualsiasi ancoraggio; tale assenza assegna al loro utilizzo imprudente un carattere particolarmente speculativo. La “percezione” semantica e assiologica di cui tale valenze rendono conto fa parte della cornice sostanziale (e non pertinente) dell’enunciazione testuale; ma a livello superiore, quello delle pratiche semiotiche (le pratiche di “produzione di senso”, le pratiche interpretative, in particolare), queste valenze percettive trovano tutta la loro pertinenza: un universo sensibile è dato da apprendere all’interno di una tale pratica, attraverso le figure di un testo, ed è allora che le valenze giocano il loro ruolo, come “filtro” prassico della costruzione assiologica. Pertanto sostenere che l’enunciazione di un discorso si fonda su una o parecchie “esperienze”, o persino che l’oggetto dell’analisi è l’esperienza in quanto tale (la sperimentazione del senso), non basta più. Sono proprio tali esperienze che devono essere a loro volta configurate in “pratiche” o in “situazioni semiotiche” per divenire delle semiotiche-oggetto analizzabili. In realtà, ogni livello di pertinenza è associato a un tipo di esperienza che può essere riconfigurato in costituenti pertinenti di un livello gerarchicamente superiore. La proposta che facciamo rimette dunque in discussione diverse strategie teoriche, che consistono nell’attribuire a dei concetti o a delle operazioni necessari alla costruzione teorica degli statuti epistemologici ambigui e poco operativi, come “presupposizione”, “contesto”, “proto-semiotica”, “esperienza soggiacente”, etc. Essa propone di accordare loro uno statuto a un livello di pertinenza gerarchicamente superiore, dove questi sono dei costituenti di una semiotica-oggetto il cui piano dell’espressione è di una modalità diversa, e il piano del contenuto di tipo pratico o strategico. 3.2. I sincretismi e le sinestesie Gli “effetti” apparenti di sincretismi (complessi detti talvolta “pluricodici” o “multimodali”) o di sinestesie (complessi detti “polisensoriali”) al livello “n” subiscono una redistribuzione sulle differenti componenti predicative, tematiche e figurative del livello “n+1”, dove trovano la loro coerenza e la loro omogeneità. Per esempio, nel funzionamento di un pittogramma in quanto “testo-enunciato”, si potrà solamente osservare che coesistono delle semiotiche verbali, iconiche e oggettali, e che si ha dunque a che fare con una semiotica-oggetto multimodale. Ma, ridistribuiti in una pratica quotidiana o tecnica, ciascuno degli elementi di queste semiotiche multimodali (ivi compresi le figure e i caratteri del pittogramma) assume uno dei ruoli che costituiscono la scena predicativa (strumenti, oggetti, agenti, etc.), o investe una delle modalizzazioni (deittiche, spazio-temporali, fattuali) di questi ruoli. Altro esempio: nel funzionamento di una “pietanza”, le differenti prensioni sensoriali (visibili, tattili, olfattive e gustative, persino uditive) formeranno delle associazioni polisensoriali, se si tratta una “pietanza” come un “testo” (mediante una 169 sorta di appiattimento di tutte le proprietà figurative e sensoriali); dato che questa integrazione ascendente fa apparire delle equivalenze tra gli ordini sensoriali, si potrà anche inferire la presenza di una “sinestesia”. Però, se si alza l’analisi al livello superiore, quello della pratica di degustazione, ciascuno dei modi del sensibile troverà un posto in un insieme di operazioni che li associano agli altri modi sensibili (annunciare, promettere, verificare, convalidare, assaporare, etc.); così, le proprietà visive annunciano delle proprietà di testura, le proprietà olfattive promettono delle proprietà gustative, di modo che i modi del sensibile intrattengano dunque non soltanto dei rapporti paradigmatici (equivalenza o differenza), ma sintagmatici e predicativi (gli uni annunciano, promettono o verificano gli altri). Tutto sommato, particolarmente nel passaggio dai “testi-enunciati” alle “pratiche” (passando per il livello intermedio degli “oggetti” e dei “supporti”), la gerarchizzazione dei livelli di pertinenza permette di opporre due modi di analisi: a) L’“appiattimento” al livello “n” (integrazione ascendente): Le strutture formali e il contorno sostanziale sono situati allo stesso livello, le une essendo ritenute pertinenti, e gli altri dichiarati “non pertinenti”, o nel caso delle teorie a frontiera “porosa”, saranno chiamate nel corso dell’analisi a titolo di “contesto” o di “esperienza”. b) La “messa in rilievo” al livello “n+1” (integrazione discendente): Le strutture formali del livello “n” trovano un posto e un ruolo all’interno delle strutture inglobanti, le quali assegnano anche un ruolo e un posto a ciò che, a livello “n”, era considerato come sostanziale, materiale o contestuale. Tutto sommato il percorso di integrazione dei differenti livelli di pertinenza prende qui la piega di un “percorso generativo dell’espressione” in cui, partendo da una situazione di amalgama, che costituisce uno “sfondo” sostanziale da cui si staccano solamente delle “figure-segni” elementari, vediamo progressivamente formarsi delle nuove dimensioni pertinenti, e queste dimensioni acquisire poco a poco la loro autonomia: (i) il supporto formale del testo-enunciato fa emergere la dimensione tabulareplastica dei testi, (ii) la materialità resistente degli oggetti manifesta la dimensione corporale delle pratiche, (iii) le strutture spazio-temporali di raccolta delle scene e degli adattamenti tra scene costituiscono la dimensione topo-cronologica delle situazioni. È dunque in ragione dell’accumulazione di queste dimensioni che si può parlare di “percorso generativo” dell’espressione. 4. RETORICHE ASCENDENTI E DISCENDENTI Abbiamo evocato anticipatamente a più riprese le procedure di “integrazione” e le eventuali “sincopi” che le riguardano. L’ “integrazione” è una operazione di montaggio espressivo che permette di manifestare un piano di immanenza all’interno di un altro piano di immanenza. Le “sincopi” sono delle integrazioni 170 dirette tra due piani di immanenza che non si succedono direttamente nella gerarchia dei livelli di pertinenza. Infatti l’organizzazione gerarchica del percorso implica un modo di integrazione progressivo canonico: i testi integrano le figure, gli oggetti integrano i testi, le pratiche integrano gli oggetti, le strategie integrano le pratiche, etc. Questo percorso di integrazione ascendente è canonico e, a questo titolo, le sue realizzazioni concrete possono supportare numerose varianti, e in particolare dei movimenti inversi (integrazione discendente), ma anche delle sincopi, ascendenti o discendenti. 4.1. Integrazioni e sincopi ascendenti Le sincopi ascendenti consistono nel “saltare” uno o più livelli nel percorso di integrazione canonico. Per esempio, la “dematerializzazione” del supporto delle scritture, che sopprime il livello dell’oggetto, ci fa direttamente passare dal testo alla pratica; sappiamo che bisogna diffidare dei discorsi sulla “dematerializzazione” della nostra vita quotidiana, ma i modi di pagamento elettronico, per esempio, se non eliminano l’ “oggetto” che è sfruttato in una pratica (la carta magnetica, per esempio), offrono però un’alternativa ai supporti di iscrizione delle unità del valore monetario (le banconote). Peraltro, essendo stato occultato dalla linguistica strutturale lo statuto materiale del discorso verbale orale, la maggior parte delle analisi delle interazioni orali poggia su questa stessa sincope “dematerializzante”, che “disincarna” le pratiche relative al linguaggio e che deve evidentemente essere rimessa in discussione. La sincope ascendente può essere ancora più radicale: sospendendo tutti i livelli anteriori, essa permette a uno dei livelli del percorso di prendere una sua autonomia e di passare per “originario”: così troveremo degli oggetti senza figure-segni né testi apparenti, come la maggior parte degli utensili o delle macchine. Quest’ultima possibilità ci conduce apparentemente ai limiti del dominio che è tradizionalmente assegnato alla semiotica, giacché essa procura uno statuto semiotico a delle manifestazioni sociali e culturali che, al limite, possono non comportare nessuna “figura-segno”, nessun “testo-enunciato”, e a fortiori, nessun rapporto con una qualsiasi manifestazione verbale. Allo stesso modo, si potrebbe essere tentati di riconoscere delle pratiche senza oggetto materiale e direttamente radicate in una “topo-cronologia”, come la danza e il mimo. Ma, oltre al fatto che la danza implica un testo musicale, questo significherebbe dimenticare che questa topo-cronologia è una struttura di raccolta che fa significare dei corpi. Alcuni non sono “oggetti” nel senso corrente, ma sono eppure dei supporti di iscrizione: l’espressione coreografica consiste per l’appunto nell’iscrivere delle figure sui corpi dei ballerini, come ordinariamente si fa sugli oggetti, e sono sempre questi “corpi” danzanti che manifestano il principio di resistenza e di permanenza proprio del livello oggettuale. Infine, sincopi ascendenti di questo tipo non invalidano la gerarchia dei livelli di pertinenza nella misura in cui nel senso dell’integrazione discendente (cfr. 171 infra) questi utensili o queste pratiche possono creare l’oggetto di una notazione o di una rappresentazione testuale, sia anteriore (e allora abbiamo a che fare con un testo o con un’immagine di prefigurazione, per esempio lo schema grafico di un utensile), sia posteriore (e allora abbiamo a che fare con dei testi e delle immagini di rappresentazione, per esempio su una nota di montaggio la fotografia di un mobile da montare). Nei fatti talvolta può essere molto difficile, in assenza di un’inchiesta genetica, sapere se si ha a che fare con delle “prefigurazioni” o con delle “rappresentazioni”, e questo tanto più che ciò che può passare per una rappresentazione a posteriori per alcuni non sarà che una prefigurazione a priori per altri. 4.2. Integrazioni e sincopi discendenti Ogni livello superiore è suscettibile di essere manifestato nei livelli inferiori, secondo il percorso di integrazione discendente. L’integrazione ascendente procede per complessificazione e aggiungendo delle dimensioni supplementari, mentre l’integrazione discendente procede per riduzione del numero di dimensioni. Ma i due percorsi non sono l’uno l’inverso dell’altro: nell’integrazione ascendente un testo si troverà iscritto su un oggetto e manipolato in una pratica; nell’integrazione discendente una pratica si troverà emblematizzata da un oggetto, o messa in scena in un testo. La differenza tra i due percorsi poggia sulla reciprocità dei percorsi di integrazione: la pratica integra un testo (senso gerarchico ascendente), il testo integra una pratica (senso gerarchico discendente). Il caso della danza è particolarmente interessante poiché, da un lato, risponde perfettamente ai criteri di una pratica, schematizzabile in “scena predicativa” e, dall’altro, integra evidentemente degli “adattamenti” tra i corpi in movimento. Ora gli adeguamenti spazio-temporali dipendono dalle strategie e quando si parla di adattamenti tra due corpi in movimento bisognerebbe per essere più precisi parlare di adattamento tra delle pratiche che implicano corpi in movimento. (che è il caso della maggior parte delle situazioni della vita quotidiana). In realtà la danza è una pratica più o meno codificata che integra (nel senso discendente) delle forme di adattamento strategico e che, a partire da quelli che si presentano nella vita quotidiana come degli adattamenti tra pratiche autonome e concorrenti, costruisce una sola pratica per due o più corpi. Dunque, proprio come le pratiche possono essere “messe in testo” in tipi di testi particolari, le strategie possono essere “messe in pratica” in tipi di pratiche specifiche. Nel caso della sincope discendente, una forma di vita (ideologia, credenza, racconti, miti, etc.) può essere condensata e rappresentata in un solo rito (una pratica particolare), se non addirittura in una sola figura; in un certo senso è a una tale sincope e a una tale condensazione che Pascal si appella, quando raccomanda “mettevi in ginocchio, pregate e crederete”: una forma di vita nella sua totalità si trova allo stesso tempo condensata figurativamente in una pratica quotidiana, la preghiera, se non nel testo e nel suo libro-supporto, perché questa pratica è suscettibile di generare essa stessa un nuovo dispiegamento completo della forma di vita; insomma l’insieme del processo non è “efficace” che nel 172 caso in cui la sincope discendente (dalla forma di vita verso la pratica o il testo), al momento della produzione, provoca una tensione semiotica che si risolve, al momento dell’interpretazione, attraverso un nuovo dispiegamento ascendente (dalla pratica verso la forma di vita). Fatte le debite proporzioni, il logo di una marca obbedisce formalmente allo stesso principio di sincope e di condensazione “discendente”; ma, siccome si tratta di un “testo”, se non addirittura di una semplice “figura”, questa condensazione è prodotta da una sincope di più grande portata, la quale produce un effetto di “simbolizzazione”: il logo manifesta allora senza mediazione tanto una scena figurativa tipica (un testo), una pratica (il mestiere della marca), che una forma di vita (dei valori, uno stile strategico, etc.). Allo stesso modo l’efficacia strategica di questa condensazione dipende dalla sua capacità di produrre una tensione problematica, che invita a un nuovo dispiegamento interpretativo ascendente. L’integrazione discendente può beninteso procedere senza sincope, e non produce necessariamente una condensazione della forma di vita o della pratica; al contrario, può anche accompagnarsi a una segmentazione canonica estensiva, come in una nota tecnica di montaggio, che tenta di ottimizzare la testualizzazione di una pratica; essa può anche essere accompagnata da una estensione “esplicativa”, con commenti e analisi (come in un resoconto d’osservazione etnografica, o un resoconto d’esperienza scientifica). In questi casi di integrazione discendente estensiva (particolarmente quando una strategia o una pratica sono prese in carico in un testo), “generi” specifici impongono le loro regole di enunciazione e di composizione (vale a dire le regole dell’integrazione discendente): questi sono allora, per esempio, delle ricette di cucina, dei modi di impiego, delle istruzioni di montaggio, dei discorsi dotti o tecnici che funzionano, in rapporto alle situazioni stesse, come dei discorsi di istruzioni (a proposito della ricetta di cucina Greimas parlava più specificamente di “discorsi di programmazione”); in una versione ridotta, il testo può anche essere apposto sull’oggetto, e si ritrova allora la problematica delle iscrizioni degli oggetti-supporto. 4.3. Movimenti combinati Ma i testi iscritti sugli oggetti implicati nelle pratiche non hanno tutti il medesimo statuto. Il testo letterario, iscritto in un libro, generalmente non dice niente del modo in cui bisogna organizzare la pratica nella quale funzionerà come testo; in compenso la nota di montaggio, attaccata su un kit da assemblare, descrive e organizza la pratica di montaggio. Il primo testo è integrato soltanto nel senso ascendente, mentre il secondo è oggetto d’un doppio movimento: (i) la pratica è integrata nel testo come prefigurazione discorsiva (nel senso discendente) e il testo ottenuto è integrato nell’oggetto e nella pratica che lo costruisce come iscrizione (nel senso ascendente). Ci si accorge quindi che al di là del valore metodologico e teorico della gerarchia dei livelli di pertinenza, questo percorso del piano dell’espressione 173 offre delle grandi opportunità euristiche, grazie alla combinazione e alla messa in sequenza dei differenti percorsi di integrazione ascendenti e discendenti. Gli etnologi hanno spesso descritto delle pratiche terapeutiche africane che combinano, in realtà, diverse operazioni: il disturbo patologico di un individuo, manifestato attraverso dei segni (primo livello, quello delle figure) è preso in carica collettivamente, nel corso di una scena codificata e quasi-rituale (livello delle pratiche); uno dei momenti chiave di questa scena è la produzione di un oggetto (livello degli oggetti) che condensa al tempo stesso il disturbo e la ricerca collettiva di una soluzione; l’oggetto in sé susciterà delle verbalizzazioni (livello dei testi) e altre fasi rituali (pratiche), etc. Infine l’efficacia dell’insieme dipende dalle credenze condivise, da un modo di stare insieme, da interazioni collettive che si fondano su una stessa forma di vita (ultimo livello). I movimenti di integrazione si invertono e le sincopi, nei due sensi, si succedono: il livello d’analisi pertinente è la terapia, in quanto strategia (quinto livello), ma questa terapia percorre e mette in relazione tutti gli altri livelli di pertinenza, facendo giocare sull’asse sintagmatico parecchi concatenamenti sincretici. A seconda del caso, l’integrazione discendente è dunque più o meno figurativa, più o meno intensiva o estensiva, e combinata o meno con delle sincopi di portata più o meno grande. In alcune combinazioni queste integrazioni discendenti hanno una dimensione incitativa o prescrittiva, in altre simbolica o anche magica; ma in tutti i casi esse partecipano di effetti didattici, persuasivi, connotativi e/o meta-semiotici. 4.4. Il caso de Le relazioni pericolose (Laclos) A questo proposito vorremmo esaminare un caso molto particolare di integrazione discendente, preso a prestito dalla letteratura11. Il romanzo epistolare di Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose12, si apre infatti, prima della presentazione delle lettere stesse, con una “Avvertenza dell’editore” e con una “Prefazione del redattore”. L’Avvertenza dell’editore mette in discussione la questione dell’ “autenticità” della raccolta di lettere e in particolare, sotto forma di un’evidente antifrasi, la verosimiglianza dei costumi che vi sono messi in scena. Quanto alla Prefazione del redattore, essa si dilunga sui procedimenti di composizione della raccolta: la selezione e l’ordinamento delle Lettere, le proposte e i tentativi di accorciamento o di modifica stilistica di alcune di queste (rifiutati dagli autori, ci viene detto). Essa affronta in seguito gli obiettivi e le possibili ricezioni di questa pubblicazione: mettere in guardia i lettori dalle persone di cattivi costumi, far conoscere le strategie di corruzione per suscitare delle resistenze o delle contro-strategie; per di più, il “redattore” si abbandona a una 11 12 Questo esempio ci è stato fornito da Y. Matsushito - dottorando dell’Università di Limoges - nella sua tesi dedicata ai paradossi dell’enunciazione e della prospettiva, nella letteratura e nella pittura. Choderlos de Laclos, Pierre A. F. Les liaisons dangereuses, Durand Neveu, 1782 (trad. it. Le relazioni pericolose, Garzanti, Milano, 1977, n.e.). 174 curiosa rassegna degli anti-lettori (quelli a cui il libro non piacerà): i depravati, i rigoristi, gli spiriti forti, le persone di gusti raffinati, etc. Questo dispositivo mostra insomma la gerarchia concreta (attoriale) che ricopre quella che viene chiamata l’ “enunciazione presupposta” del romanzo: degli autori che producono delle lettere, un redattore che le sceglie, le ritocca e le mette in ordine, e un editore che pubblica il tutto13. Ma, facendo questo, integra parecchi livelli di pertinenza: Degli enunciatori manipolano degli enunciatari per via epistolare. Il redattore mette in scena le lettere entro una pratica letteraria (scelta, riscrittura, composizione, etc.) i cui interlocutori sono predefiniti: (i) autori che hanno ancora un diritto sui loro enunciati, (ii) un redattore che mostra il suo ethos, svela le ragioni della sua scelta, e definisce la tematica della manifestazione principale e (iii) una serie di tipologie di lettori che resistono a questa manipolazione per delle ragioni proprie. L’editore installa anche lui un gioco di ruoli: di fronte a lui non si trovano dei “lettori” (che sono gli interlocutori accreditati del precedente), ma un “Pubblico”, ossia un attore collettivo suscettibile di comprare l’opera e di confrontarla con altre informazioni e esperienze di un’altra natura rispetto a quella della lettura. Il suo discorso poggia essenzialmente sulla non concordanza tra queste esperienze e quella che procurerà la lettura dell’opera. Il redattore avrebbe raccolto delle lettere che esprimevano dei costumi di un altro luogo e/o di un altro tempo, per farli passare per costumi attuali e francesi. Quindi questo discorso concerne l’ “adattamento” tra pratiche distinte e tra le esperienze che corrispondono loro: il tema dell’inautenticità e del divario presuppone che sia stato qui cambiato il livello di pertinenza e che ci si interessi alla congruenza e all’adattamento strategici. Insomma, denunciando qui l’incongruenza del quadro dei costumi che si costituirà durante la lettura del libro in considerazione delle osservazioni e delle pratiche quotidiane e contemporanee dei lettori, l’Editore ci fa passare al livello delle “strategie”. L’integrazione discendente che permette di “mettere in testo” al tempo stesso la strategia (editoriale e commerciale), la pratica (redazionale) e lo scambio testuale (epistolare) s’accompagna a parecchi effetti degni di nota. Per cominciare, una segmentazione del testo in tre “generi” di discorso diversi, l’avvertenza, la prefazione e le lettere, che pone dei temibili problemi a chi voglia definire i limiti del “testo”. Questa differenziazione di generi permette anche di compensare l’ “appiattimento” del dispositivo semiotico: ribattute all’interno di uno stesso testo, le differenti istanze che sono la strategia, la pratica e il testo-enunciato sono ancora riconoscibili e gerarchizzate attraverso il loro genere (avvertenza, prefazione e lettere). 13 Sotto certi aspetti questa stratificazione di ruoli coincide parzialmente con quella di Ducrot, poiché potremmo ritrovare qui, grosso modo e fatte le debite proporzioni, dei “lettori-enunciatari” (nei confronti del testo), dei “lettori in quanto tali” (nei confronti del libro), e dei “lettori-esseri del mondo” (nei confronti della pubblicazione, edizione dell’opera). 175 Formalmente e secondo la concezione tradizionale dei “piani di enunciazione” questi tre generi dipendono da tre enunciazioni che si incassano le une nelle altre. Eppure le cose sembrano un po’ più complesse, appena si osserva che questi piani di enunciazione non sono “fermi” e che è ammesso un certo numero di interazioni: - Il redattore propone delle modifiche agli autori delle lettere, i quali le rifiutano. - Il redattore giudica il comportamento degli autori delle lettere in qualità di autori dei costumi raccontati. - Il redattore cerca di persuadere della sua buona fede e della sincerità l’insieme dei lettori potenziali, ivi compreso l’editore. - L’editore reputa inautentico il testo proposto dal redattore, e non si lascia dunque persuadere. Non possiamo dunque considerare che questi differenti piani di enunciazione sono dei semplici “strati” autonomi; a una certa condizione tutte queste enunciazioni interagiscono tra loro: questa condizione è quella dell’integrazione ascendente o discendente che fa sì che, per esempio, il redattore e gli autori possano scambiarsi, poiché appartengono in questo momento alla stessa pratica (quella della revisione/composizione della raccolta); o ancora che l’editore e il redattore non possano scambiarsi che in modo unilaterale, nella misura in cui il primo non ha ammesso il secondo come interlocutore nel dispositivo strategico che valuta. Per chiarire l’insieme, si è dunque portati a considerare che lo stesso attore assumerà dei ruoli tematici e attanziali differenti a seconda del livello di pertinenza nel quale lo si colga: così gli “autori” delle lettere sono: (i) enunciatori nelle lettere, per gli enunciatari e i protagonisti; (ii) autori responsabili nella prefazione, per il redattore e i lettori, e (iii) persone che testimoniano dei costumi nell’avvertenza, per l’editore e il Pubblico. Ma questa integrazione discendente produce pure un raffronto che resta indecidibile, tra la “verosimiglianza” e la “verità” di queste lettere. (i) il redattore confessa di aver sacrificato, suo malgrado, la verosimiglianza (composizionale, stilistica) alla verità: egli ha dovuto conservare le “vere” lettere scritte dagli autori, e (ii) l’editore denuncia l’ “autenticità” (la verità) a partire da un errore di verosimiglianza (la non congruenza tra i costumi attuali e i costumi messi in scena); (iii) questo raffronto non è indecidibile (chi ha ragione?) che in ragione dell’integrazione discendente che li posiziona nello stesso testo; ma se si dispiegano i livelli di pertinenza, non ci si stupirà più che, in una prospettiva etica (quella del redattore), la verosimiglianza e la verità si combattano e che, in una prospettiva di strategia editoriale e commerciale, la prima prevalga sulla seconda. 176 Questa messa in scena è essa stessa propria di un’epoca e di una cultura, dove le mises en abîme e le enunciazioni incassate sono particolarmente apprezzate, il tutto nel corso di una crisi della rappresentazione letteraria. Essa sviluppa una sorta di “meta-semiotica” del testo di finzione, in cui si può riconoscere contemporaneamente un’estetica, un’etica e un’ideologia della produzione letteraria. Infine essa procura all’utente-lettore un percorso di manipolazione-identificazione particolarmente sofisticato, mettendo in scena per lui, e in tre strati successivi, il suo “ingresso in materia”: pubblico per l’edizione, lettore per l’opera redatta, e narratario indiscreto della finzione epistolare. Questo percorso è in se stesso inevitabile, ma la sua iscrizione nel testo lo problematizza e permette, attraverso il raffronto indecidibile delle posizioni, di sottometterlo a una valutazione critica e dunque di manipolare sistematicamente i diversi ruoli che l’enunciatario deve assumere. 4.5. La retorica dei livelli di pertinenza Queste inversioni e queste sincopi del percorso di integrazione dei livelli di pertinenza non sono altro che operazioni retoriche che operano su delle espressioni per indurre una problematizzazione dei contenuti e delle tensioni da risolvere. Per esempio, la condensazione di una pratica in un pittogramma produce un “appiattimento” di parecchi elementi della pratica quotidiana corrispondente ma, facendo questo, essa potenzializza le loro relazioni, in particolare attanziali e modali, e ciò in ragione del fatto che non prende in carico la totalità dei ruoli della scena predicativa: l’interpretazione del pittogramma imporrà allora una “ricostituzione” della scena, vale a dire un ri-dispiegamento e una “messa in rilievo” al livello superiore, e una realizzazione di ciò che non era che potenziale nel pittogramma. Riguardando gli oggetti, la sincope ascendente (quella che sopprime ogni riferimento a un testo o a delle figure-segno identificabili) virtualizza la funzione di iscrizione della superficie dell’oggetto; ma l’analisi funzionale delle sue parti e l’analisi plastica mostrano che, in un modo o nell’altro, esso continua a comunicare all’utente qualche regola di utilizzo; peraltro, alla lunga, la patina dell’uso si ristabilirà sulla superficie dell’oggetto, come per un palinsesto, il “testo” delle impronte accumulate. Anche virtualizzata, la superficie di iscrizione (l’oggetto come “supporto materiale”in attesa di un testo) resta un orizzonte di interpretazione: è così che lo studioso di preistoria riconosce un utensile, identificando sia una morfologia differenziale dell’oggetto (iscrizioni legate alla loro concezione), sia delle tracce che segnalano delle zone di impatto (iscrizioni legate all’uso). Queste inversioni del movimento di integrazione, e queste sincopi che lo colpiscono, inducono e nascondono dunque, da un punto di vista strategico, delle sostituzioni, delle tensioni e delle competizioni tra i differenti livelli dell’espressione, e delle operazioni sui modi di esistenza (virtualizzazione, 177 potenzializzazione, attualizzazione e realizzazione). Questo insieme di proprietà - da una parte tensioni e competizioni per accedere al piano dell’espressione, dall’altra risoluzioni e ri-dispiegamenti in virtù delle modificazioni dei modi di esistenza - costituisce la base concettuale stessa della dimensione retorica nella prospettiva di una semiotica tensiva. 5. L’ARGOMENTAZIONE E L’ARTE RETORICA COME “PRATICHE” L’argomentazione, così come è presa in conto dalla retorica generale, è una pratica, e la pertinenza di ogni argomentazione particolare non può essere definitivamente stabilita che all’altezza di una strategia, se non addirittura di una forma di vita. Il “testo” stesso dell’argomentazione non permette che di fare delle ipotesi sul funzionamento delle strategie argomentative, sulle costrizioni che impone a queste strategie (o, inversamente, sulle scelte testuali che queste ultime impongono) o, al limite, di abbozzare dei “simulacri” degli interlocutori dell’interazione. 5.1. I costituenti della pratica argomentativa Il persistente silenzio della teoria semiotica sull’argomentazione e la retorica generale non si spiega solamente attraverso il carattere “pre-scientifico” delle discipline che se ne occupano ancora negli anni ’70 o ’80; in modo significativo la voce “Retorica” nel Dictionnaire raisonné de la théorie du langage (Greimas, Courtés, 1979) non ritiene pertinenti che la “dispositio” (piegandola sulla segmentazione), l’ “inventio” (piegandola sullo studio della tematizzazione) e l’ “elocutio” (piegandola su quello della figuratività). Ma la retorica come “prassi” non comincia a attirare l’attenzione che alla fine degli anni ’90, quando la dimensione retorica della “prassi enunciazionale” è presa in conto dai semiologi. Eppure, la “prassi” enunciazionale, in questo periodo, non fa ancora alcun riferimento a una teoria delle “pratiche”14. Infatti per poter parlare con qualche efficacia dell’argomentazione e della retorica, è necessario poter convocare, al di là del testo persuasivo, la scena della disputa, la pratica dell’influenza in generale, e trattarli come delle semiotiche-oggetto a parte intera. A questo proposito, il “testo” persuasivo non è che uno degli elementi della situazione di argomentazione, perché devono essere presi in considerazione: (i) i rispettivi ruoli degli interlocutori, che si definiscono in termini attanziali e in termini di ruoli tematici e figurativi; 14 Quanto alla linguistica argomentativa, in particolare quella detta dell’ “argomentazione nella lingua”, sviluppata attorno e a partire dai lavori di O. Ducrot, essa costituisce molto esattamente una forma di “appiattimento” testuale, un ribaltamento della pratica all’interno del piano di immanenza del testoenunciato, dove l’insieme delle procedure argomentative, colte nel lessico e nella sintassi, dipendono allora da una “enunciazione enunciata”. 178 (ii) l’ethos preliminare dell’oratore per l’uditorio, che non può ridursi a una competenza e che è una configurazione complessa, comprendente delle isotopie figurative e tematiche, delle posizioni assiologiche e dei “simulacri” modali e passionali; (iii) la rappresentazione preliminare dell’uditorio per l’oratore (dello stesso tipo configurativo dell’ “ethos”); (iv) una cultura comune che definisce i generi, i luoghi, i modi di ragionamento, accettabili o meno, adatti o meno, vale a dire un certo numero di costrizioni e di tipi argomentativi preliminari all’interazione, che fissano a loro volta dei contenuti semantici e dei processi sintattici in una prospettiva normativa. 5.2. Le interazioni tra testo, pratica e strategia di persuasione Anche la “situazione di argomentazione” si estende qui, come si vede, in due sensi: (i) in un senso ristretto, come “scena di una pratica” comprendente dei ruoli attanziali, la loro identità modale e tematica relativa, e i predicati tipo dell’atto persuasivo; (ii) in un senso più ampio, come “strategia”, estesa sia nel tempo e nello spazio che per quello che riguarda il numero degli attori (poiché sono menzionate delle “culture” e dei “gruppi sociali”); questa “strategia” tiene conto in particolare della memoria collettiva delle interazioni argomentative anteriori e dell’identità costruita e acquisita degli interlocutori. 5.2.1. Ethos dell’enunciatore e rappresentazione dell’enunciatario Nella pratica argomentativa tutti questi elementi interagiscono e la comprensione del discorso persuasivo è incompleta se non si possono apprezzare gli effetti dell’ethos e delle rispettive e reciproche rappresentazioni degli interlocutori sulla forza persuasiva degli argomenti. Infatti, l’ethos dell’oratore influisce sulla forza persuasiva degli argomenti che utilizza. Perelman (1958) ha mostrato che a seconda del suo contenuto e del suo orientamento, egli poteva indebolire o rinforzare gli argomenti utilizzati e che, all’inverso, il valore degli argomenti modifica l’ethos: è questo che egli chiama l’effetto “palla di neve”; invocare la “forza” degli argomenti è invocare la loro efficacia persuasiva, che bisogna allora distinguere dalla loro “forma” persuasiva: la “forma” è osservabile nel testo, mentre la “forza” non può essere apprezzata e pertinentizzata che entro la pratica, in funzione delle reazioni dell’uditorio. Allo stesso modo, la rappresentazione dell’uditorio influisce sulla scelta dei luoghi e dei modi dell’argomentazione; l’uditorio “ideale” è una costruzione del discorso, ma che risulta da un’analisi e da un adattamento tra il suo “profilo” presunto e i luoghi o i tipi di argomenti che si confanno a questo profilo. Le interazioni possono dunque divenire estremamente complesse, poiché, per esempio, se la scelta degli argomenti può avere un effetto sull’ethos dell’oratore, e se la scelta degli argomenti dipende da un’analisi delle attese dell’uditorio, allora in fin dei conti la costruzione dell’ “immagine dell’uditorio” e quella dell’ 179 “immagine del sé” sono legate per transitività. Ma non si può rendere conto di questa transitività (e reciprocità) delle interazioni che andando e venendo dal testo persuasivo al fuori testo, vale a dire piazzandosi all’altezza degli elementi attanziali, tematici e modali della pratica stessa. 5.2.2. L’intersezione assiologica La selezione dei luoghi, in particolare, dipende strettamente dalle interazioni prassiche, poiché in definitiva, comincia per ricostituire potenzialmente le rispettive ideologie degli interlocutori dell’argomentazione, e mira in seguito a un’ipotetica intersezione negoziabile tra questi loro diversi sistemi di valori. Se uno degli interlocutori utilizza di preferenza i luoghi della quantità (il numero più grande vale di più del numero più piccolo) e se l’altro non è sensibile che agli argomenti della quantità (lo scandalo, la rarità e l’eccellenza valgono di più del grande numero), allora l’oratore non ha che due soluzioni: (i) o una strategia di compromesso: egli non utilizzerà i luoghi della quantità che nella misura in cui restano compatibili con lo scandalo e l’eccellenza; (ii) o una strategia di distanza enunciativa: grazie a un gioco polifonico di citazioni e di allusioni, egli farà assumere i luoghi della quantità da una “voce” debraiata, la quale gli permetterà di non compromettere il suo ethos agli occhi del suo interlocutore che preferisce l’altro tipo di argomento. Le due soluzioni sviluppano un’“intersezione assiologica”: il compromesso, sotto forma di intersezione paradigmatica, predisponendo una zona comune; la distanza enunciativa, sotto forma di una co-esistenza sintagmatica, grazie all’istallazione di una terza enunciazione. La negoziazione dell’intersezione assiologica non può descriversi che all’altezza della pratica, poiché nel solo testo non si potrà osservare che il risultato linguistico (degli enunciati assiologicamente neutri, o degli eventuali scarti tra piani di enunciazione). Il caso di questi ultimi è particolarmente significativo poiché, per riconoscere l’effetto strategico di questi scarti enunciazionali, bisogna identificare la divergenza assiologica, ricostituire i sistemi in presenza e imputarli a ciascun interlocutore; tanto vale dire: bisogna, come Buffon con il suo osso fossile, ricostituire l’insieme della scena pratica. Inoltre appena si tenta di rendere conto di questi tipi di effetti argomentativi in termini di intensità (la “forza” di impegno e/o di persuasione) e di estensione (la portata dell’argomentazione, e l’estensione dell’uditorio suscettibile di essere persuaso), vale a dire poggiandosi sulle tensioni tra valenze inverse (la valenza di intensità e la valenza di quantità), si convoca ipso facto la scena predicativa della pratica. Infatti, solo gli interlocutori della pratica predicativa, e non le istanze enuncianti del solo testo, possono esercitare una percezione delle valenze graduali e assumere le posizioni assiologiche estreme definite da queste due valenze, quand’anche le forme testuali (compromesso e distanza enunciativa) riguardano la neutralità e i gradi più deboli. Insomma la valutazione delle “valenze” argomentative è un atto che è ancorato nella pratica, mentre i valori differenziali che derivano si manifestano nel testo stesso. 180 5.2.3. Le presunzioni La questione della “presunzione” è veramente molto complessa: sappiamo che al momento dell’interazione le attese dell’ascoltatore, come anche la reputazione dell’oratore, possono essere solo oggetto di “presunzioni”: per esempio, nel genere giudiziario ciascuno dei due interlocutori può attribuire all’altro dei “pregiudizi” a proposito della causa che deve essere stabilita e giudicata; i “pregiudizi” non derivano direttamente dall’interpretazione delle posizioni adottate nel discorso argomentativo e devono essere l’oggetto di un “calcolo” e di una imputazione a titolo di “potenziale” e di credenza preliminare; non sono dunque che delle presunzioni, e si sa che queste presunzioni indeboliscono gli argomenti che utilizza l’oratore, dal momento che esse sembrano allora più determinate dalle posizioni e dalle credenze anteriori e potenziali che gli vengono attribuite piuttosto che dalla preoccupazione di costruire la verità davanti all’uditorio e di fornire a quest’ultimo gli elementi per giudicare. Nel testo le presunzioni possono funzionare come semplici presupposti, eventualmente ricostruibili a partire dagli enunciati prodotti: è il caso di ogni argomento, per esempio, che “fa come se” l’accusato fosse già stato reputato più o meno colpevole, o più vagamente, “condannabile”. Ma in questo caso non è più possibile distinguere i presupposti ordinari che non hanno effetti sull’orientamento argomentativo dai presupposti di credenza che funzionano come presunzioni. Più in generale, anche, non si può interpretare un presupposto come presunzione a meno che non ci si riferisca all’orizzonte d’attesa dello scambio argomentativo, una sorta di promessa implicita che è associata al fatto stesso di avviare un tale scambio. Vale a dire che, se si cerca di persuadere un altro, è per condividere con lui una verità in costruzione, e non per imporgli un’opinione preliminare; in altri termini, la presunzione non può essere intesa come tale che sullo sfondo di una struttura tensiva la quale, all’altezza della pratica argomentativa o anche della strategia, associa attraverso una correlazione inversa la forza degli argomenti attuali e il grado di anteriorità delle credenze su cui questi poggiano. Lo statuto dei presupposti (e della maggior parte degli impliciti) potrebbe vantaggiosamente essere riconsiderato alla luce delle pratiche, cose che permetterebbe di disfarsi della loro definizione effettivamente troppo logicista (perché indebitamente troppo testuale). In realtà il presupposto deriva, nel testo, da un semplice calcolo semantico il cui prodotto è considerato virtuale; in compenso nella pratica la presunzione è un’attribuzione di credenza o di pregiudizio, da uno degli interlocutori all’altro; questa attribuzione ha il carattere sia di un giudizio, sia di un simulacro passionale proiettato sull’altro e modalizzato (credere, poter essere, voler essere, etc.), e deriva quindi da un atto strategico e non più da un calcolo semantico. Inoltre, e anche nel testo, la maggior parte delle figure che poggiano su una presunzione sfuggono a una simile ricostruzione semantica per presupposizione. Sono dunque dei componenti della pratica la cui incidenza sulla composizione testuale resta indiretta: Perelman fa osservare, per esempio, che per neutralizzare anticipatamente ogni presunzione, colui che vuole calunniare deve costringersi 181 a congratularsi all’inizio, o che colui che vuole congratularsi deve fare posto alla critica e al riserbo, tutto con qualche effetto di distanza nell’assunzione enunciazionale. Strategia paradossale che, nel testo, non si potrebbe capire, dopo aver constatato la coesistenza di due posizioni contrarie, se non come l’effetto di un’etica della misura, del giusto equilibrio. Ma, come precisa Perelman, la giusta misura e il senso dell’equilibrio non sono che degli effetti secondari e superficiali (nel testo) di una strategia più profonda e più sofisticata (nella pratica): si tratta di dissuadere preliminarmente l’uditorio dall’attribuire all’oratore dei pregiudizi sfavorevoli (quando vuole biasimare) o favorevoli (quando vuole lodare), e di inibire un tipo di controstrategia e di routine difensiva che tutto l’uditorio potrebbe mettere in opera. Questa strategia mira insomma a separare da un lato la valutazione che l’uditorio esprimerà sulle argomentazioni, e dall’altra quella che esprime già sulle presunte opinioni dell’oratore: come dice Perelman si tratta di “contenere” il rapporto tra l’atto (gli argomenti) e la persona (i pregiudizi e l’ethos). Ma nella prospettiva che abbiamo delineato si tratta anche di “contenere” il rapporto tra il contenuto degli argomenti (che si può osservare a livello testuale) e l’ethos acquisito dell’oratore (che non si può osservare che a livello prassico). 5.2.4. Retorica delle integrazioni e sincopi persuasive Le strategie che vertono sulle presunzioni, l’ethos e le rappresentazioni degli interlocutori si appoggiano dunque in parte sulla maggiore o minore solidarietà tra il testo (il suo contenuto, la sua forma, i suoi argomenti, la sua credibilità) e gli altri elementi della pratica. La strategia consiste dunque qui, molto precisamente, in operazioni di integrazione ascendente e discendente (tra il testo, l’enunciato degli argomenti, da una parte e gli elementi della pratica dall’altra), così come di sincopi che possono mascherare o sospendere questa integrazione. Le operazioni della retorica integrativa tra i piani di immanenza non sono dunque soltanto “descrittive”, ma anche “esplicative” e operative. Nel caso del discorso argomentativo il percorso e la retorica di integrazione così come li abbiamo definiti sono veramente efficienti e i loro effetti dipendono giustamente, secondo la tradizione, dalla retorica generale. I “contenimenti” e le “rotture” descritti da Perelman a proposito della pratica argomentativa possono dunque essere qui definiti come delle strategie retoriche che consistono nel riaffermare o nell’indebolire l’integrazione ascendente o discendente tra il testo persuasivo e la pratica argomentativa, e addirittura la situazione inglobante. 5.2.5. Il tempo della pratica e della strategia Per di più è da molto che è stato fatto osservare (in particolare da Aristotele) che il tempo della persuasione giocava anche un ruolo nella significazione e nel peso degli argomenti. Ma questo “tempo” è evidentemente quello di una pratica discorsiva e non quello di un testo enunciato. Per esempio si constata che l’adesione dell’ascoltatore al discorso fluttua in funzione della rapidità o della lentezza, dell’urgenza o della dilazione, ed essa 182 “prende un certo tempo” incomprimibile ma elastico. L’argomentazione può essere ripetuta, interrotta, ripresa: questo tempo non è quello del testo bensì quello dell’azione, cioè quello della sua prassi enunciazionale. Nello stesso modo, quando la tattica argomentativa organizza l’ordine degli argomenti (nel testo), essa agisce anche sul tempo dell’adesione, delle resistenza e delle accettazioni (nella scena pratica), poiché si tratta allora di modulare non più soltanto l’ordine testuale ma la forza relativa degli argomenti, in funzione della supposta evoluzione della ricettività postulata dell’enunciatario, evoluzione che si produce nel corso dello svolgimento della scena pratica, e non nel testo. Si tratta sempre del tempo della pratica. In compenso dipendono dal tempo della strategia le fasi anteriori e posteriori alla scena argomentativa propriamente detta, che nondimeno esercitano un’influenza decisiva sulla condotta dell’argomentazione: - le fasi anteriori: costituzione dell’ethos acquisito, reputazione, notorietà, etc.; accumulo di luoghi, di usi retorici, motivazioni della disputa o della produzione del discorso; eventi diversi, esperienze che devono essere oggetto di ricordi, di racconti e di interpretazione e che “motivano” il discorso argomentativo; - le fasi posteriori: cambiamento di credenza, acquisizione di conoscenze, sviluppo della competenza, passaggio alla decisione e all’azione, etc., che orientano e finalizzano il discorso argomentativo. Le une e le altre fanno parte di altre pratiche rispetto a quella in corso. In particolare, è bene mettere l’accento sulla fase ulteriore rispetto alla scena strettamente argomentativa: la credenza, l’adesione, la decisione, o l’azione che si ritiene possano seguire la conclusione argomentativa - almeno se questa è stata riconosciuta e condivisa - costituiscono anche il momento di ricompensa e di riconoscimento dell’attante persuasivo. Inoltre, il passaggio alla decisione o all’azione può essere ritardato: una struttura aspettuale permette dunque di strutturare il tempo argomentativo che anche in questo caso eccede non soltanto il testo, ma anche la sua enunciazione pratica, poiché si basa su un programma d’azione più vasto, all’interno del quale essa stessa viene compresa. Queste proprietà temporali possono essere eventualmente e parzialmente manifestate nel testo, ma non può essere che sotto forma di simulacri, di rappresentazioni virtuali o proiettate: il testo può rappresentare questi tempi della pratica e della strategia argomentativa, ma unicamente in ragione delle possibili integrazioni discendenti che permettono la “messa in testo” dei livelli di pertinenza superiori. Ma soprattutto, come ha fatto osservare Aristotele15, seguito in questo da Denis Bertrand (1999), i grandi generi della retorica rappresentano anche di15 Cfr. Aristotele: “V’è chi decide sul futuro, come il membro dell’asssemblea; quello che decide sul passato, come il giudice; quello che decide sul talento dell’oratore, cioè lo spettatore; cosicché necessariamente vi saranno tre generi della retorica: il deliberativo, il giudiziario, l’epidittico”. (Retorica, libro 1, capitolo III, 4; trad. it., Opere. Vol. X, Laterza, Roma-Bari, 1973). 183 versi modi di situarsi nel tempo, attraverso l’intermediazione della sequenza narrativa di cui costituiscono ciascuno una tappa. Il deliberativo è rivolto verso il futuro, verso le cose da realizzare, verso i programmi dell’azione da svolgere, esso anticipa e prevede; il dibattito, l’arringa, le discussioni per “rifare il mondo”, il saggio di futurologia, l’utopia politica, il giornale meteo sono alcuni generi di discorso che sfruttano questa direzione del tempo. L’epidittico si occupa del presente (eventualmente allargato) dei valori: quale che sia la posizione temporale dell’atto o della persona da valutare, è sempre quella che è valida in questo momento che è enunciata, messa in scena, presentata come vivente per lo spettatore; l’orazione, il ditirambo, l’apologia, il complimento, il brindisi, le felicitazioni, il biasimo: tutti questi generi decidono dell’assiologia al presente e “in presenza”. Il giudiziario decide infine del passato, valuta il compimento di un atto e, retrospettivamente, rapporta le azioni a intenzioni e a obiettivi anteriori, così come all’insieme dei giudizi della stessa natura di cui la collettività ha serbato il ricordo: la storia, l’inchiesta, il giornalismo investigativo, la perorazione e la requisitoria ne sono dei generi derivati. È molto chiaro che questi tre orientamenti temporali (prospettivo, presentificante, retrospettivo) non funzionano che all’altezza della pratica argomentativa, e che, se condizionano alcune scelte temporali nel testo stesso (cosa che non è assicurata), non sono completamente compresi nella narrazione; nel testo, per esempio, il genere giudiziario può presentarsi semplicemente come un racconto (dei fatti da ricostruire) e non è che nella pratica inglobante che esso assumerà tutta la sua dimensione di sanzione. Più in generale se c’è una sequenza narrativa canonica soggiacente alla suddivisione dell’arte retorica in tre generi, essa non può rendere conto che della struttura narrativa (attanti, modalità, trasformazioni) di una pratica argomentativa collettiva (di una macro-scena predicativa), la cui portata è quella dell’intera vita di una comunità umana. Ciascuno dei tre generi caratterizza e specifica dei momenti di questa pratica definendo delle “sottopratiche” e colorendo differentemente i ruoli e le relazioni attanziali allo stesso tempo dei regimi temporali. Dunque, non è che all’interno di questi generi prassici che è possibile definire dei “generi testuali” (per esempio, per il genere della prassi giudiziaria, i sotto-generi testuali storici e giornalistici), sapendo che questi sotto-generi testuali fanno appello alle proprietà attanziali e narrative del genere prassico inglobante. 6. PER FINIRE: ACCENNI TIPOLOGICI Questa presentazione che mirava principalmente a studiare le relazioni e interazioni tra “testi” (testi verbali, immagini, etc.) e “scene pratiche” ha permesso di fare l’inventario provvisorio delle relazioni critiche tra questi due piani di 184 immanenza, che devono essere esplorati più attentamente e essere fatti oggetto, eventualmente, di descrizioni tipologiche e sintattiche. Esse sono essenzialmente: i. Il ruolo giocato dal testo all’interno dei ruoli e dei costituenti canonici della scena; può essere aiutante, destinante, oggetto, etc.; può essere il vettore di una manipolazione modale o passionale, o semplicemente di una prescrizione circostanziale e tecnica, etc. ii. Si potrebbe anche, più precisamente, esaminare lo statuto del testo in quanto oggetto della pratica: può essere prodotto, utilizzato, consumato, distrutto, trasposto, tradotto, etc., e fluttua allora non soltanto tra due ruoli attanziali (per esempio oggetto modale/oggetto di valore) ma anche tra due universi di valore differenti (a seconda che sia trattato come unico, singolare, eclatante, o moltiplicabile, riproducibile, addirittura distruttibile). iii. Le interazioni tra i modi semiotici e sensibili: da un lato, quello proprio del testo, e dall’altro, quello degli altri costituenti della pratica: si tratta allora dell’organizzazione tattica dei sincretismi e delle associazioni sensoriali. iv. Le operazioni di integrazione ascendente e discendente, con o senza sincopi, vale a dire la retorica generale dei modi semiotici; abbiamo notato in particolar modo il valore euristico, specialmente nelle pratiche argomentative, delle interazioni passionali e persuasive tra il testo e la scena pratica. Resta la sfida maggiore per la semiotica delle culture: dopo aver istituito la diversità e la gerarchia dei piani di immanenza, occorre prendere delle decisioni sulla forma del contenuto di ciascuno di questi piani. Perché finora niente ha potuto addurre la dimostrazione della loro uniformità (le stesse strutture del contenuto si ritroveranno a tutti i livelli) o della loro distinzione (ogni livello di pertinenza disporrebbe delle sue proprie strutture del contenuto). E, per quanto riguarda il piano di immanenza esplorato proprio qui, bisognerà ben domandarsi se il senso pratico differisce dal senso testuale e dal senso strategico. 185 Bibliografia Bertin, Erik 2003 “Penser la stratégie dans le champ de la communication. Une approche sémiotique”, Nouveaux actes sémiotiques, nn. 89-90-91, Limoges, Pulim. Bertrand, Denis 1999 Parler pour convaincre, Paris, Gallimard Education. Bertrand D. - Costantini M., (a cura di) 2006 Transversalité du Sens, Paris, P.U.V. Deni, Michela 2005 “Les objets factitifs” in Fontanille J. e Zinna A. 2005. Fontanille, Jacques 2004 “Textes, objets, situations et formes de vie. Les niveaux de pertinence du plan de l’expression dans une sémiotique des cultures”, in Bertrand D. e Costantini M., (2004). Fontanille, Jacques - Zinna, Alessandro (a cura di) 2005 Les objets au quotidien, Limoges, Pulim. Greimas A.J., Courtés J. 1979 Sémiotique-Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Tome 1, Paris, Hachette. (trad. it., Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Firenze, La Casa Usher, 1986). Gibson, James 1979 The ecological approach to visual perception, Hillsdale, Eribaum (trad. it., Un approccio ecologico alla percezione visiva, Bologna, Il Mulino, 1999). Landowski, Eric 1989 La société réfléchie, Paris, Seuil (trad. it., 1999, La società riflessa, Roma, Meltemi). 2003 “De la stratégie, entre programmation et ajustement”, introduzione a Bertin 2003. 2004 Passions sans nom, Paris, PUF, 2004. Perelman, Chaïm e Olbrechts-Tyteca, Lucie 1958 Traité de l’argumentation. La novelle rhétorique, Presses Universitaires de Frances, Bruxelles (trad. it. Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino, Einaudi, 1989). 186 RHÉTORIQUE ET PRAXIS SÉMIOTIQUE. POUR UNE SÉMIOTIQUE DE L’ABSENCE Denis Bertrand Avant-note Initialement proposé sous le titre “Pratiques rhétoriques” dans le programme du Séminaire intersémiotique de Paris (2004-05), le texte qu’on va lire s’attache à justifier les termes de son nouvel intitulé: praxis plutôt que pratique, en raison d’abord des connotations référentialistes du mot “pratique”, et surtout parce que s’agissant ici de l’énonciation du sens ou du sens en acte, rapporté à des instances, le mot “praxis” paraît moins ambigu. Et puis pour une sémiotique de l’absence, par référence et différence, par jeu aussi, avec la “sémiotique de la présence” dont on a beaucoup entendu parler ces dernières années, et qui pourtant, à mes yeux, présuppose certaines qualités et propriétés de l’absence. On y reviendra bien entendu. 1. INTRODUCTION Le thème du séminaire cette année manifeste le vœu d’une ouverture considérable de la sémiotique: comme s’il s’agissait de libérer cette discipline du carcan 187 méthodologique de l’immanence, aussi bien du côté du texte-objet, considéré comme un “tout de signification” refermé sur lui-même, que du côté de la théorie contrainte par la règle structurale des différences, des dépendances et des tensions internes, considérées comme seules voies d’accès scientifiquement légitimes à la saisie et à la description des significations. Cette ouverture, du reste, est déjà depuis longtemps pratiquée par de nombreux sémioticiens: entre autres, Jean-Claude Coquet, qui oppose au principe d’immanence le principe de réalité dans une phénoménologie incorporée du langage; ou Eric Landowski, qui développe aussi depuis longtemps une sémiotique des interactions effectives, trans-subjectives et trans-objectales, dans l’expérience sensible et actualisée du sens. Mais cette ouverture néanmoins inquiète: en ouvrant la boîte de Pandore du réel, la sémiotique ne risque-t-elle pas de perdre son âme, identifiable justement par la double exigence absolue des règles de pertinence adossées au principe d’immanence? De ce point de vue, le texte inaugural de Jacques Fontanille peut être compris comme une mise en garde, doublée d’une mise en place d’un vaste filet de protection qui permet de préserver ces règles et ce principe tout en étendant le champ de la description à l’ensemble des parties prenantes du sens, dans une sémio-pragmatique générale. Le modèle alors proposé, comme parcours génératif du plan de l’expression, se présente comme un étagement raisonné des différents niveaux d’articulation et d’intégration progressives, allant du signe aux formes de vie, en passant par les textes, les supports, les pratiques et les stratégies, ou en sens inverse, remontant les strates, des formes de vie, le sens globalement vécu, aux textes et aux signes qui en sont les traces locales et les voies d’accès singulières, avec les conversions et les distorsions qui ne manquent de survenir en chemin, et que l’analyse à travers ce modèle en quelque sorte prévoit. Il s’agit d’un modèle d’intégration remarquable, dont les rouages de conversion d’un niveau à l’autre sont soigneusement verrouillés, et j’ai pu moimême le vérifier en l’expérimentant lors d’une intervention récente devant les responsables du design de la RATP qui s’interrogeaient sur les transformations possibles de la fameuse “tête de vache”, la marque d’arrêt des autobus édifiée sur les trottoirs parisiens, et m’avaient demandé de leur présenter une analyse sémiotique de ce signe nommé “potelet”� Car le titre “Pratiques sémiotiques” peut aussi être légitimement entendu comme “exercices pratiques”� Et j’aimerais alors évaluer ce modèle en le confrontant à une autre pratique, d’un tout autre ordre mais pourtant tout aussi réelle, celle de la lecture d’un auteur controversé - très précisément parce qu’on ne peut pas s’en tenir à l’immanence, au sens traditionnel, de son texte, ou plutôt parce qu’il y a un risque éthique évident à s’en tenir à cette seule dimension, et donc un malaise dans la lecture: je veux parler de Louis-Ferdinand Céline. Mais le propos que je voudrais développer d’abord concerne les conditions de la praxis, en envisageant sous un certain angle, que certains jugeront peut-être trop particulier, le paradoxe de la pratique. Ce paradoxe se fonde, en termes 188 véridictoires, sur la fausse évidence du concret. Fausse évidence derrière laquelle je voudrais déceler, en m’en tenant aux catégories de la véridiction, non pas un “secret” ou un mystère qu’il s’agirait de mettre à nu ou de révéler, ni une illusion ou un mensonge qu’il s’agirait, à la manière de Nietzsche, c’est-à-dire même “au sens extra-moral”, de dénoncer, mais plus radicalement, une fausse évidence du concret dans la pratique, au sens du dernier terme restant sur le carré, et qui ne manque pas de faire problème, celui de la “fausseté”. C’est là que je situerai ma discussion sur l’absence, auquel je préférerai substituer en cours d’analyse le terme “d’impropriété”, qui justifie à mes yeux la montée en puissance d’un champ problématique nouveau, celui de “l’ajustement” dont Jacques Fontanille a parlé à la suite d’Eric Landowski, et que, pour ma part, je référerai à la question de la “justesse”, la justesse comme forme de vie, sur laquelle j’ai travaillé il y a une quinzaine d’années, et qui, me semble-t-il, permet d’envisager une réponse à la question: ajustement entre quoi et quoi? Sur la base de quels critères? Dans ce milieu flottant du sens en pratique, ou plutôt de la praxis du sens, je verrai ainsi se dessiner la place de la rhétorique, véritable discipline de l’absence et de l’impropriété du sens, qui en articule l’espace ouvert et peuple de signes sensibles une vacuité toujours menaçante. Voilà, à grands traits, le programme que je vais m’efforcer de suivre, avant de proposer, en seconde partie, les implications d’une telle démarche sur la saisie effective de la praxis à travers l’exemple que j’ai évoqué. 1. LE PARADOXE DE LA PRATIQUE Un peu de prétérition… après tout, nous sommes en rhétorique! Je ne parlerai donc pas des définitions du mot “pratique” dans les dictionnaires, ni de son histoire (cf. Alain Rey1). Mais je retiendrai pourtant quelques éléments définitionnels¥ Tout d’abord le champ catégoriel de base: praktikê (sous-entendu tekhnê, comme on parle de tekhnè rhetorikè), qui désigne “la vie active, la conduite effective, l’application des règles et principes”, est opposé, depuis Platon, à theoretikê (théorie) ou gnôstikê (gnose) qui désignent l’activité spéculative. Cette catégorie, dans le projet collectif de ce séminaire, tend à être dépassée, car il s’agit bien de construire sémiotiquement la théorie de cette pratique. En deuxième lieu, l’aspectualisation: la dimension aspectuelle de la pratique est double. En effet, d’un côté, par son ancrage originel dans le verbe prassein (“accomplir, faire, achever”), c’est l’aspect accompli qui y est manifesté, avec ses valeurs de réalisation effective, d’irréductible achèvement, de 1 N.d.C. Alain Rey, forse meno noto dal pubblico italiano, è un linguista e lessicografo francese che ha collaborato fin dai primi anni cinquanta con Paul Robert alla stesura del celebre, omonimo dizionario e che è divenuto l’emblema di una ricerca sulle culture mediata dallo studio del lessico (si veda l’appena edito Dictionnaire Culturel en langue française). 189 ce sur quoi on ne peut pas revenir, parce que “c’est fait”; et, d’un autre côté, la définition courante de la pratique comprend un autre trait aspectuel, celui de l’itérativité: c’est la “manière habituelle de faire quelque chose” qui se confirme dans nombre d’expressions figées “avoir la pratique, avoir une bonne pratique de qqch.”, c’est-à-dire “une expérience, une habitude des choses”, et cela va jusqu’au “par cœur” (je renvoie à “faire qqch. de pratique” aujourd’hui disparu) et jusqu’à la répétition du rituel: la “pratique religieuse” par exemple. Par cette double aspectualisation, à la fois accomplie et itérative, la pratique intègre la dimension de l’usage, comprenant la sédimentation temporelle de la mémoire et la dimension impersonnelle, toutes deux échappant à l’assomption immédiate du jugement individuel et intégrant de fait une dimension de partage collectif. C’est pourquoi, en reprenant cette notion d’usage au sens hjelmslévien, je rapporterai la pratique à la praxis, terme qui, depuis son acception chez Marx, ajoute la dimension narrative de la transformation (“transformation du milieu naturel par l’homme pour répondre à des besoins”, en vue donc d’un résultat), transformation qui a pour effet d’engager l’individu dans la structure sociale. Rapporté à la signification discursive, le domaine de la pratique, ou de la praxis, est déjà largement pris en charge par les sciences du langage. Et on peut craindre d’enfoncer des portes depuis longtemps ouvertes� C’est bien, depuis deux millénaires, l’objet de la rhétorique, on va y revenir. Mais c’est aussi celui, depuis quelques décennies, de la pragmatique linguistique, dans laquelle la prise en compte de la situation est constitutive de la définition même de l’énonciation. Comme on le sait, en suivant O. Ducrot par exemple, les paramètres de locution et les formes de la polyphonie renvoient à différents niveaux d’ancrage repérables dans le discours et dans la situation de discours, qui font que l’énonciation est conçue comme une résultante de ce qui s’accomplit dans cet acte de discours. A cela, bien sûr, il faudrait ajouter les orientations convergentes de la sémiotique depuis une dizaine d’années: la problématique du discours en acte ou de la signification en acte, l’approche de l’intimité du sens, saisi “au plus près” de son émergence, dans le corps (J.-C. Coquet), dans les tensions internes qui se jouent au sein de la catégorie (sémiotique tensive), dans les modes de coexistence simultanée, éventuellement compétitives, de grandeurs différentes et différenciées par leur mode d’existence et d’avènement (rhétorique tensive), dans la sémiotique de la présence, des interactions, des ajustements stratégiques et des effets de contagion du sens (Landowski). Je voudrais ici, pour terminer cette évocation lapidaire, souligner l’enjeu paradoxal de la problématique qu’on nomme “pratique”: c’est par le plus proche et par le plus ténu, par l’intime et le non-articulé, par ce qui est “sans nom” comme les passions ainsi innommées d’Eric Landowski, par ce qui se noue au creux de l’esthésie pour que la perception “prenne” et fasse sens (comme l’iconicité de Jean-François Bordron), c’est par les formes les plus en amont de l’épreuve signifiante (“l’éprouvé” d’A. Hénault) que se dessinent les voies 190 qui doivent permettre d’appréhender, en aval, la globalité de l’expérience effective, celle de la signification concrètement vécue, celle que condense le mot “pratique”. 2. L’ABSENCE, AU CŒUR DE LA PRATIQUE Ce paradoxe justifie la localisation de mon intervention. Ainsi, à première vue, la notion de “pratiques sémiotiques” pourrait être assimilée à la prise en charge de la réalité syncrétique d’une présence du sens. Or, mon objectif est de suggérer, et de montrer si possible, comment cette présence est en fait conditionnée par une absence qui lui est corrélée et qu’elle présuppose, ou encore comment la pratique du sens est fondée sur la réalité impérative d’une absence (je mets ainsi l’accent sur cela “qui se dérobe”, selon l’expression de Greimas dans De l’imperfection). Qu’est-ce que cette absence? Sans chercher à la définir, ni esquisser une typologie des modes du non-paraître, ou des formes de l’abstention du sens, je voudrais indiquer combien cette problématique forme une véritable trame dans l’histoire de l’interrogation sémantique, et surtout indiquer son lien qui me paraît essentiel avec la rhétorique. Il est important de souligner tout d’abord, en effet, combien ce motif de l’absence est de longue date décliné, depuis le Cratyle de Platon, “Sur la justesse des noms”, où Hermogène déclare ne “pouvoir (se) persuader que la justesse du nom soit autre chose qu’un accord et une convention”. Puisque, je cite, “la nature n’assigne aucun nom en propre à aucun objet”, la chose n’est qu’”affaire d’usage et de coutume chez ceux qui ont pris l’habitude de donner des noms.”2. Mais, par delà “l’arbitraire du signe” bien connu, et dans beaucoup d’autres directions, ce motif de l’inadéquation du langage à la réalité a connu de multiples développements en philosophie, en philosophie du langage, en sémiotique, développements si nombreux et sans doute si variés dans leurs attendus et dans leurs implications qu’il serait utile de voir une étude spécifiquement consacrée à l’examen de ce motif dans l’histoire des idées jusqu’à aujourd’hui. Pour ma part, je n’en retiendrai que quelques traces, manifestées sous les diverses formes de l’inaccessibilité, de l’imperfection, du manque, de l’impropriété: - C’est par exemple l’inaccessibilité du “quoi” de l’objet dans la psychologie de la perception et dans la phénoménologie, de Erwin Strauss à Merleau-Ponty, la perception se construisant comme discours dans les collaborations pluri-sensorielles, comblant ainsi les manques et les vides pour donner consistance à un objet en lui-même insaisissable, en raison de l’écart irréductible entre l’objet visé et l’objet saisi, écart fondateur de 2 Cité par F. Warin et Ph. Cardinali, in F. Nietzsche, Vérité et mensonge au sens extra-moral, [Ecrits posthumes, 1970-1873], Actes sud, 1997, p. 48. 191 - - - l’intentionnalité (je renvoie ici au noème husserlien, écran et passerelle du sens, dont l’analyse récente de J.-F. Bordron en termes de fait de langage articulé en plans de l’expression et du contenu, sous la forme de l’indice, de l’iconicité et du symbole régulé, constitue la version, à mes yeux magistrale, la plus récente. D’une autre manière, mais articulant le même motif dans le cadre de son approche de l’esthétique, on doit situer l’axiologisation aspectuelle de l’imperfection chez Greimas, fondée sur le paraître imparfait du sens, qu’illustre cette définition hyper-modalisée de la figurativité, comme “écran du paraître dont la vertu consiste à entr’ouvrir, à laisser entrevoir, grâce ou à cause de son imperfection, comme une possibilité d’outre-sens.” (p. 78) Définition, soit dit en passant, qui n’a rien à voir avec les thématiques littéraires et esthétisantes de l’évanescence et de l’indicible, quoi que celles-ci soient probablement des formes secondes, indirectes et idéologisées manifestant de cette réalité de l’absence. Et on peut encore aussi rattacher à ce même motif le moteur dynamique du manque en narrativité, fondement de son orientation téléologique, où la hantise de l’absence et de la privation figurativise l’inadéquation fondatrice du sens en l’investissant dans des objets revêtus de valeurs, objets qui n’existent, en propre, qu’à travers elles. Or, j’ai pu constater récemment que c’est encore le même motif qui se trouve exprimé dans les premières pages du document d’Habilitation à Diriger des Recherches d’un éminent chercheur en biologie du développement cellulaire à partir des cellules souches, Bruno Canque (Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris). Celui-ci place en effet son travail sur l’hématopoïèse (centré sur les étapes précoces des mécanismes de formation des lymphocytes dans l’embryon) sous le signe de “l’impropriété du langage”, impropriété “dont les implications biologiques commencent seulement à être ressenties” (p. 6). Ce terme, poursuit le chercheur, “qualifie l’inadéquation relative, l’ajustement imparfait, d’une désignation à son objet.” (id.) Mais l’intérêt de ce rapprochement se précise lorsqu’on lit, quelques lignes plus loin, que “cette impropriété constitue très vraisemblablement l’un des caractères essentiels des systèmes biologiques, non pas du fait de la souplesse, source d’adaptabilité, qu’elle serait supposer leur conférer, mais plutôt parce qu’il s’agit très certainement, avec la capacité de mémorisation de l’information, de l’un des deux déterminants majeurs de l’évolution des êtres vivants.” (id.) Ce déterminant le conduit à proposer, pour articuler le passage du physico-chimique non-vivant au vivant, la catégorie de base “inerte” vs “impropre”! Ainsi, dans la genèse cellulaire du vivant, l’impropriété rend compte de cette caractéristique qu’ont les agencements complexes qui leur sont propres, “de se constituer immédiatement en objets historiques capables à la fois d’adaptation, de reproduction et d’évolution” (id.). Et cette transmission de traits et de caractères distinctifs “inclut nécessairement un certain degré d’indétermination.” (p. 7) 192 Le terme choisi, “impropriété”, est riche d’implications, et c’est pourquoi je l’élirai, en le mettant au centre de ma réflexion. En effet, impropriété “provient à la fois”, comme l’indique le Dictionnaire historique de la langue française d’Alain Rey, de “impropre” et de “propriété”; mieux, il condense en un lexème les qualités de l’“impropre” et de la “propriété”. Ainsi, sans forcer le sens, on peut dégager le conflit sémantique à l’œuvre dans l’impropriété qui signale simultanément l’inadéquation à l’objet, qu’il ne peut toucher en propre, et la construction de propriétés qui lui confèrent une existence autonome, des modalités de régulation, ces caractères qu’ont les “agencements complexes”, cellules souches ou phénomènes sémantiques, “de se constituer immédiatement en objets historiques” et de faire sens. C’est ainsi que je voudrais établir ma réflexion sur cette isotopie de base de l’absence, en en enrichissant la notion et en l’articulant à travers la composition double et tensive de l’“impropriété”, où se joue cette scène que je viens d’évoquer de l’impropre et de l’inajusté aux choses mêmes d’un côté mais aussi, de l’autre côté et de manière complémentaire, des propriétés qui assurent l’efficience du sens. On peut alors considérer que les “pratiques sémiotiques” comme prise en charge de la globalité du réel, entre le corps sensible et les interactions entre sujets et objets de divers ordres dans l’événement de signification, impliquent que les langages et les croisements de discours qui y concourent y parviennent effectivement parce qu’il ne touchent pas au réel en lui-même, mais tracent des parcours, croisent des liaisons, tentent les chances d’une affectation, précisément à partir de leur impropriété fondatrice, c’està-dire le non-propre d’un côté et le jeu des “propriétés” de l’autre. On parle bien abusivement d’un sens “propre”. En allant plus loin, on pourrait dire que l’impropre est la condition de développement des propriétés. Dans ce cadre général, mon hypothèse est que la rhétorique peut être considérée à bon droit comme la discipline de cette absence et de cette impropriété. Et j’entends ici discipline à la fois comme domaine de connaissance et comme instrument de régulation ou de contrôle. Mon objectif essentiel sera de soutenir cette hypothèse et d’en développer quelques implications. Pour renforcer et attester ce caractère d’impropriété, je voudrais renvoyer aux propositions de Claude Zilberberg sur la rhétorisation des structures élémentaires3. Il pose, je cite, que “la moitié de la rhétorique tropologique, celle qui est “utile” à tout un chacun, gravite autour de l’intensification, de l’emphase, d’une quête du retentissement.” Et en se référant ensuite à Tension et signification, il étend cette catégorie de l’intensification à son complémentaire inverse, en soulignant que la sémiotique tensive a “mis en avant les notions d’ascendance et de décadence, lesquelles s’opposent l’une à l’autre, mais non à elles-mêmes.” 3 C. Zilberberg, “Remarques sur le double conditionnement tensif et rhétorique des structures élémentaires de la signification”, in D. Bertrand et M. Costantini, eds., Transversalité du sens (à par.). 193 De là se dégagent selon lui quatre dynamiques signifiantes, quatre propriétés caractéristiques du champ rhétorique: celle du relèvement et du redoublement qui commandent l’intensification et l’emphase; et celle de l’atténuation “qui éloigne de la saturation et de la plénitude” et de l’amenuisement “qui achemine jusqu’à la nullité”. Mais, si on accepte que les contenus effectifs de saturation, de plénitude ou, à l’inverse, de nullité, ne sont pas en eux-mêmes assignables à une localité définie et restent donc mouvants, soumis à des évaluations fluctuantes (comme les critères de goût), alors force est de constater que la dimension rhétorique du discours se construit sur l’impropriété sinon fondamentale, du moins fondatrice, de la signification. Pour préciser ce point, je voudrais évoquer un caractère essentiel dans l’histoire de la rhétorique, à savoir ses deux grands modes de manifestation, sa grande disjonction en deux massifs. 3. LES DEUX MODES DE MANIFESTATION DU RHÉTORIQUE Dans son exposé introductif sur les “Pratiques sémiotiques”, Jacques Fontanille a convoqué à deux reprises la dimension rhétorique. Tout d’abord, lorsqu’il analyse ce qu’il a appelé les “rhétoriques ascendantes et descendantes”. Là se réalise au sein de ce qu’il a défini comme le parcours génératif de l’expression, des “intégrations et des syncopes”, dans un sens ou dans l’autre, entre les différents niveaux d’articulation qu’il a dégagés: du signe au texte, du texte à son support d’inscription, du support à l’objet, de l’objet à la pratique, de la pratique aux ajustements stratégiques et de ceux-ci, enfin, aux formes de vie. Le phénomène de syncope, on s’en souvient, consiste à ‘sauter’ un ou plusieurs niveaux dans le parcours d’intégration canonique”. Il rejoint clairement le motif de l’absence, à travers les espaces qu’il condense, synthétise ou libère, à ceci près qu’il suppose une structure sous-jacente fluide et pleine, non-syncopée. On peut s’interroger sur la nature de cette “plénitude”: n’est-elle pas avant tout celle du modèle?4 Et il convoque cette dimension rhétorique du discours, en second lieu, lorsqu’il examine l’argumentation - la tekhnê rhétorique -, en termes de situation, de pratique et de stratégie, comme interaction effective entre orateur et auditeur (pp. 31-37), et plus largement, lorsqu’il suggère de traiter “la pratique de l’in- 4 J. Fontanille écrit ainsi : “Ces inversions du mouvement d’intégration, et ces syncopes qui l’affectent, induisent et recouvrent donc, d’un point de vue stratégique, des substitutions, des tensions et des compétitions entre les différents niveaux de l’expression, et des opérations sur les modes d’existence (virtualisation, potentialisation, actualisation et réalisation). L’ensemble : tensions et compétitions en vue d’accéder au plan de l’expression, résolutions et redéploiement grâce aux modifications des modes d’existence, constitue la base conceptuelle même de la dimension rhétorique dans la perspective d’une sémiotique tensive.”, version tapuscrite de l’exposé, p. 24. 194 fluence” comme une sémiotique-objet. Le problème de l’ethos de l’orateur, celui des présomptions dont il doit contrôler le réglage, celui des phénomènes de “freinage” et de “rupture” (louer pour blâmer, etc.), celui des orientations temporelles, etc., ne relèvent pas du texte, mais plutôt, comme il le souligne, des ajustements stratégiques au sein de la pratique. Les deux définitions de la rhétorique sont-elles identiques dans chaque cas, leurs fondements sont-ils les mêmes? Dans le cas des inversions et des syncopes dans le parcours d’intégration des composantes, il s’agit de la rhétorique telle qu’elle est définie, selon une approche tensive, d’abord dans Sémiotique et littérature , et plus précisément dans “Tensions rhétoriques” (Langages, 2000). A savoir une problématisation des contenus co-occurrents, mis en concurrence et opérant sur les modes d’existence du sens (virtualisation, actualisation, réalisation), comme autant de tensions à résorber ou à résoudre, se donnant comme aire de jeu les jeux du sens inaccompli. Dans le cas de la tekhnê argumentative, il s’agit cette fois de la gestion des écarts et des relations entre orateur et auditoire, à travers les ajustements stratégiques des partenaires de la communication. Comment s’intègrent ces deux approches du phénomène rhétorique? On peut se demander tout d’abord si elles ne recoupent pas l’ancienne distinction majeure dans l’histoire de la rhétorique, qui a imposé la frontière, aux XVe-XVIe siècles, entre la première rhétorique (celle de la prose et de l’argumentation) et la seconde rhétorique (la poétique), cette distinction s’approfondissant par la suite dans le fossé qui s’est creusé entre, d’un côté, la rhétorique de l’inventio et de la dispositio, et de l’autre, la rhétorique de l’elocutio, entre celle des lieux et des techniques opératoires les plus aptes à convaincre ou a persuader un auditoire, et celle des figures d’ornementation du discours les plus aptes à susciter l’adhésion sensible du plaire et de l’émouvoir. Surprenante fracture, qu’on ne saurait réduire à une quantification sous forme de rhétorique étendue et de rhétorique restreinte (Genette), et qui mériterait d’être réarticulée plus profondément dans le champ de l’histoire de cette discipline et de ce qu’elle révèle dans la conception du langage. Dans la présentation ici évoquée, la distinction est frappante entre, d’un côté, une rhétorique qui joue sur les creux du sens dans l’échafaudage des niveaux d’articulation et de leurs plans d’expression, et une rhétorique qui fonde son efficience sur les marges de manœuvre entre les partenaires du discours en situation. Cette distinction ne prend-elle pas acte de l’autre distinction attestée par ailleurs, dans l’histoire de la rhétorique, dont elle proposerait une nouvelle formulation, en révélant du même coup le fonds commun qui les relie l’une à l’autre? Or, ce qui ferait en effet étroitement le lien entre ces approches distinctives et fonderait l’unité des deux massifs rhétoriques, serait précisément cette impropriété qui est au cœur de la signification en acte, celle précisément qui est à l’œuvre dans la pratique sémiotique. Et on pourrait alors en dégager deux régimes d’impropriétés, opérant à deux niveaux différents, l’un relevant de la dénomination des choses, et l’autre relevant de l’interaction entre acteurs (personnes ou objets). 195 4. LES DEUX RÉGIMES D’IMPROPRIÉTÉ: D’OÙ SORTENT LES INSTANCES? Avant d’envisager ces deux régimes et pour argumenter la définition générale que j’ai proposée de la rhétorique comme discipline de l’impropriété, il me paraît révélateur d’envisager les grands “noyaux sémiques” de cette discipline - générateurs d’un bon nombre de ses termes-clefs. J’en verrais quatre, termes stratégiques à mon sens, dont l’agencement est susceptible de former un véritable schéma rhétorique: ce sont la topie, la phorie, la bolie et la tropie. Et je m’attacherai, tout en ayant bien conscience des limites d’une démarche étymologique mais en reconnaissant cependant sa validité dans un domaine de lexicalisations savantes peu sujettes aux variations de l’usage, aux significations originelles, détournées sans doute, mais néanmoins résistantes, de ces termes. - - - - La topie (> des topiques à l’isotopie). Le terme, comme chacun sait, est issu de topos, avec son double sens: “ce qui est relatif à un lieu” et “ce qui est installé en un lieu”. C’est la problématique centrale des “lieux” du sens, et plus précisément des “lieux communs” (dans les topiques aristotéliciennes), ceux qui sont convoqués dans le discours pour asseoir l’efficacité des enthymèmes, c’est-à-dire valant comme “preuve” (les lieux d’enthymème), assurant la persuasion et le partage du sens entre l’orateur et son auditoire. L’isotopie sémiotique, fille de l’ancienne topique, mais définie aspectuellement par l’itération d’un élément sémantique dans le texte, est rapportée à l’immanence du sens, mais elle peut également, sans altération de sa définition, être comprise comme condition fondamentale de la mise en communauté et en partage de la signification discursive, dans la lecture, dans la conversation, dans l’échange. La phorie (> avec au premier rang la célèbre métaphore) vient de pherein, “porter, supporter, transporter, se mouvoir” (phora, “action de se mouvoir”). Comme on le sait, ce terme de phorie a été réactivé par la sémiotique des passions pour désigner le foyer sensible et la mise en mouvement de la masse thymique, en se catégorisant selon les deux orientations affectives de l’eu-phorie et de la dys-phorie. La * bolie (> avec les métaboles et le symbole et la parabole) est issue du grec ballein ”jeter, atteindre d’un trait”, le symbole consistant à “jeter ensemble” du concret et de l’abstrait, et la parabole à “jeter auprès de”, d’où “mettre côte à côte, comparer”. La tropie enfin (avec l’ensemble des figures ainsi techniquement nommées tropes) articule sa double source grecque, trepein “tourner, diriger vers” et tropos, “qui qualifie généralement tout ce qui concerne le changement” (A. Rey) et particulièrement le changement de direction, ou plus précisément encore une réaction d’orientation (cf. les “tropismes” de Nathalie Sarraute). 196 La sélection de ces quatre termes peut être discutée, mais ils recouvrent selon moi le foyer rhétorique de la signification. Ainsi, il est frappant de constater que seul “topie” désigne un contenu localisé, stabilisé, statique, alors que les trois autres, au contraire, désignent, de manière aspectuellement évolutive, d’abord la mise en mouvement d’un corps (phorie), puis un déplacement orienté (bolie), et finalement un changement de direction du sens (tropie). C’est un véritable schéma! On pourrait alors considérer que la topique forme le référent interne des autres opérations, chargées en quelque sorte de l’animer. Mais la topique elle-même est instable, comme le montrent les jeux du “bien entendu” et du “malentendu” dans l’enthymème. Et toute tentative de référentialiser la topique dans une ontologie du lieu (en passant de ce qui a lieu d’être dans le discours au lieu de l’être du sujet, et à son enracinement - dans spatium, il y a spes, dans espace, il y a espoir…5), tentative effectuée par les phénoménologues de l’Ecole de Kyôto (Nishida Kitarô) qui ont identifié le sujet et le lieu, est bien sujet à caution (cf. l’adhésion au totalitarisme qui a marqué cette école philosophique à la fin des années 1930). Ainsi, la topique, lieu virtuel, incertain et vacillant du sens voit sa potentialité réalisée dès lors qu’elle prise en charge par les forces actualisantes de la phorie, de la bolie et, plus généralement, de la tropie. J’aimerais, dans ce contexte, isoler le caractère propre du trait “bolique”. En effet s’il agit bien dans l’heureuse réunion du symbolique, transcendant la signification sensible, et de même dans l’hyperbolique, pour actualiser d’une autre manière les ascendances du sens, c’est que, préalablement, ces mouvements reposent logiquement sur une opération première de séparation, de découplage du réel inaccessible, opération qui pose le “dia-bole” avant le “sym-bole”, ou le dia-bolique avant le symbolique. Il faut donc d’abord diaboliser pour pouvoir ensuite symboliser ou hyperboliser. Evidemment, le mouvement de diabolisation, tel que je l’emploie ici doit être entendu avec une valeur neutralisée: en disant par exemple que la symbolisation est une présupposante et que la diabolisation est une présupposée. La diabolie peut être à l’émergence de contenus ce que le débrayage fondateur est à l’énonciation, une petite schizie, enfouie dans chaque mot, nécessaire à l’avènement rhétorique du sens, et qui prend acte de son impropriété fondatrice. A partir de là, il est possible de revenir aux deux régimes d’impropriétés manifestées par l’analyse rhétorique du discours, laquelle implique, rappelons-le, la réalité de son effectuation comme pratique. 4.1. Le premier régime d’impropriété Le premier régime d’impropriété concerne la dénomination. Je me réfère ici au texte de Nietzsche, extrait des p. 14 à 16 de Vérité et mensonge au sens extra-moral (cf. note 1), texte lui-même très court (une trentaine de pages), 5 Cf. H. Maldiney, “Topos, logos, aisthesis”, in coll., Le sens du lieu, Ousia, 1996, p. 14 et 17. 197 un des premiers du philosophe, publié dans les Ecrits posthumes, et portant en germe selon ses commentateurs la plupart des thèmes futurs de la réflexion nietzchéenne: la critique de l’humanisme et de l’anthropomorphisme de toute connaissance (ultérieurement formulée sous le concept de “perspectivisme”), l’analyse du rôle du langage porteuse de la dénonciation à venir de la “philosophie de la grammaire” faite de la confusion entre les mots et les choses, la critique du cogito et des illusions de la conscience, l’analyse des valeurs comme expression de “besoins vitaux”, la compréhension de l’éthique comme oubli d’une politique fonctionnant sur le mode de la réminiscence, et surtout la question de la “vérité”, etc. Cette liste thématique, développée par les commentateurs François Warin et Philippe Cardinali dans l’édition de ce texte, en 1997 chez Actes sud, montre le caractère central de la thèse ici développée, dans le cadre précisément d’un cours de philologie et de rhétorique, à savoir “l’absence” au creux de la dénomination elle-même et son statut originellement tropique et métaphorique. C’est la métaphore et non le concept qui est premier, et celui-ci résulte d’un engendrement par métaphorisation. On ne sort jamais du champ métaphorique - et ce texte lui-même l’assume, tout plein qu’il est de métaphores - puisque le concept même de métaphore est une métaphore, une “translation spatiale”, imposant donc le discours comme une mise en abyme de métaphores, comme “métaphores de la métaphore”, selon l’expression de Sarah Koffman, dans Nietzsche et la métaphore. Le postulat fondamental est celui de l’inaccessibilité des choses mêmes (“l’énigmatique X de la chose en soi”, “un X qui reste pour nous inaccessible et indéfinissable”). A partir de là, la dénonciation consiste à rejeter la “suture symbolique”, qui verrait dans les sons émis par la voix les “symboles” des affections de l’âme (selon la tradition aristotélicienne) et à lui opposer une “rupture diabolique”, au sens où je viens de proposer d’entendre cette image, à savoir une disjonction préalable entraînant une série disjonctive infinie. Celle-ci opère en trois temps: 1. Disjonction entre les choses et l’excitation sensorielle dans la perception: première métaphore. (“Une excitation nerveuse d’abord transposée en une image! première métaphore.”, p. 13). 2. Disjonction entre l’excitation sensorielle et le mot formé pour désigner: deuxième métaphore. (“L’image à son tour remodelée en un son! Deuxième métaphore.”, p. 13). 3. Disjonction entre le mot et le concept, par où s’opèrent les attributions de valeurs génériques, hiérarchisées, commandantes, et finalement abstraites: troisième métaphore. On peut ici noter que la coexistence compétitive du sens, telle qu’elle est aujourd’hui analysée par la rhétorique tensive, se trouve déjà présente et manifeste, dès le premier niveau. Au total, “Qu’est-ce donc que la vérité? Une 198 armée mobile de métaphores, de métonymies, d’anthropomorphismes, bref une somme de corrélations humaines qui ont été poétiquement et rhétoriquement amplifiées, transposées, enjolivées, et qui, après un long usage, semblent à un peuple stables, canoniques et obligatoires.” (id., p. 16). La boucle de mon schéma rhétorique est ainsi bouclée: la topique est tropique. Mais je voudrais surtout insister sur deux énoncés, dont le premier est antérieur à l’extrait cité: “La “chose en soi” (ce qui serait précisément la vérité toute pure et sans effets) reste entièrement insaisissable même pour le créateur de langue et ne lui paraît nullement désirable.” (p. 13) et le second marque la fin de l’avant-dernier paragraphe de l’extrait: “Les vérités sont des illusions dont on a oublié qu’elles le sont, des métaphores qui ont été usées et vidées de leur force sensible”. Ces deux énoncés séquentialisent, narrativisent et surtout temporalisent le processus de métaphorisation; des acteurs modalisés prennent place et réalisent des parcours. - La phase initiale préside à la création de langue. Elle est marquée par la non compétence cognitive du créateur: la chose en soi reste inaccessible au connaître. Et cette modalisation est immédiatement doublée d’une autre, de l’ordre du vouloir, ou plutôt du non-vouloir, cette fois: la chose en soi “ne lui paraît nullement désirable”, pourquoi? Parce qu’elle romprait le lien de “perspective”, la corrélation par laquelle les choses sont rapportées à l’homo loquens grâce à l’image, et par laquelle il contrôle, maintient et entretient sa relation avec les choses. Qu’en serait-il du face à face du corps sensible avec les choses mêmes? (on pense aux expériences de mescaline du poète Henri Michaux, qui “verbalisent” dans l’infra-verbal cet affrontement). - La phase finale dissipe le créateur de langue dans un collectif indifférencié, “un peuple” dit le texte, les générations d’utilisateurs, de passants de langue, les vecteurs du “long usage” grâce auquel les figures semblent “stables, canoniques et obligatoires”. L’usage devient usure, et l’usure est la condition de l’impression véridictoire; je vais y revenir. Ainsi esquissée, cette histoire de la formation des illusions de vérité dans le langage est non seulement inscrite dans une pratique, elle est littéralement constituée par cette pratique, ou plutôt cette praxis, ouvrant la disponibilité des figures, en fonction de leurs propriétés disjointes des objets, à l’accueil d’une signification toujours ordonnée par la perspective du discours. A cette considération s’attachent les analyses de la sémantique structurale (cf. la “tête” de Greimas et non le “siège” de Pottier) et, exemple parmi tant d’autres dont on a parlé à propos des relations entre temps et discours, la disponibilité des temps verbaux à accueillir et à manifester les formes les plus diverses de la temporalité. Ainsi donc aussi, deuxième conséquence, le rhétorique se situe bien en deçà de la tekhnê qui articule cet espace dans l’intersubjectivité, il tapisse les vides, s’occupe des impropriétés, et invente les lieux dans le mouvement même de la désignation. 199 4.2. Le second régime d’impropriété Le second régime d’impropriété concerne l’argumentation: il correspondrait à une seconde articulation de l’impropriété première. Et là, je rejoindrai les propositions de Jacques Fontanille sur “la pratique de l’influence”, fondée sur les configurations modales du croire non pas inscrites dans le texte, mais émergeant de la situation, des positions, des rôles et des stratégies d’ajustement. Elles intègrent les jeux croisés de l’ethos et du pathos, l’ethos centré sur l’orateur et le pathos sur l’auditoire, l’un n’allant pas sans l’autre, l’un étant la raison de l’autre, parce que, précisément, il n’y a pas de place préalablement assignable aux positions de sujet dans l’échange des croire. Mais j’insisterai cependant sur l’espace rhétorique de l’argumentation en le fondant sur l’impropriété première dont elle est, en quelque sorte, le prolongement et la résultante. La rupture entre les deux massifs de l’inventio / dispositio d’un côté, et de l’elocutio de l’autre est de cette manière résolue. Car, si on suit l’analyse de l’impropriété telle qu’elle est développée par Nietzsche, l’elocutio avec sa figuration première fondée sur l’impropre est évidemment de part en part et toujours à l’œuvre. Tout se passe en quelque sorte comme si on avait accepté la normalisation stabilisatrice de l’usage pour ouvrir le champ aux espaces stratégiques de l’argumentation, alors même que ceux-ci ne peuvent se déployer que dans les conditions modales d’inaccessibilité, d’imperfection et de manque qui caractérisent les mouvements intensificateurs et amenuisants, hyperboliques ou hypoboliques de l’elocutio, et en justifient les réglages incertains. Je ne prendrai pour exemple que l’enthymème, mode central du raisonnement rhétorique, qui prend en charge justement les lieux comme instruments de preuve, ou pièces à conviction. On a évoqué le cas d’un orateur qui exploiterait la topique de la quantité (plus vaut mieux que moins) devant un auditoire plutôt sensible à la rareté qualitative. Deux stratégies persuasives sont alors disponibles pour opérer l’ajustement entre les partenaires du discours, celle du compromis (quantité oui, mais éclatante) ou celle de la distanciation (en faisant assumer par un autre dans son discours les valeurs de la quantité). Mais, derrière ces stratégies se trouve l’impropriété constitutive de tout enthymème, à savoir qu’un terme décisif au raisonnement échappe à la manifestation, reste sinon inaccessible, du moins hors de portée de l’énonciation, c’est le terme qui instituerait en vérité le critère de l’évaluation. Et, dans cette situation, l’enthymème, comme son nom l’indique, puise à la ressource de la thymie, le fonds sensible de l’humeur. L’orateur, par exemple, peut séduire en changeant le régime même de son discours, en figurativisant par exemple la quantité (par des métaphores et des exemples), en exploitant les possibilités prosodiques, en sollicitant l’émotion, etc. Il me semble donc que l’impropriété est le matériau premier de la rhétorique, enraciné aux sources même des langages. Et que les deux versants du rhétorique ne forment, au fond, que deux manières d’en prendre acte. 200 1) L’impropriété du côté du plan des contenus énoncés, dans le rapport à la chose même, qui appelle à l’existence les propriétés du plan de l’expression, autonomisées, qui vont jusqu’à la consistance substitutive du poétique. 2) L’impropriété du côté de la co-énonciation, dans l’argumentation par exemple, qui appelle à l’existence les stratégies conduisant à l’incorporation, à l’appropriation, au faire sens de ces propriétés pour soi. Ainsi, la conclusion nietzschéenne, dans ce texte, de l’inconsistance liée à l’inconscience et à l’oubli générateurs d’un effet illusoire de vérité, me semble ne pas prendre en compte ici la force des propriétés substitutives, iconisantes, et finalement constitutives, des formes que le rhétorique met en œuvre pour occuper l’espace de la pratique du sens Pour conclure ce point, je voudrais dire un mot sur un emploi qui me paraît révélateur du mot “rhétorique”. On utilise souvent ce mot pour qualifier, avec une légitime impatience, une utilisation dévoyée du langage, vidant le sens de toute sa substance, un “discours creux”: cette critique accompagne la rhétorique depuis son émergence, depuis Platon, et est encore aujourd’hui d’un emploi courant. Le “rhétorique” signifie le superfétatoire, ou mieux, le vide du sens. Je me demande si, en réalité, ce reproche ne manifeste pas plutôt l’horreur du vide sur lequel est, de toutes façons, suspendu le langage, l’anxiété devant cette vacance que la rhétorique justement révèle dans le fourmillement des simulacres propres à donner l’illusion du plein! Mais tout ici est peut-être une affaire de mesure: d’où le point suivant que j’ai annoncé, celui des stratégies d’ajustement. 5. LES STRATÉGIES D’AJUSTEMENT Sur le fond de toile de cette absence ou de cette impropriété conditionnante circule donc le sens, ses vectorisations, ses directions, ses analogies, ses résonances, ses partages négociés ou non. C’est le niveau des stratégies (développé notamment par Eric Landowski), entre sujets bien entendu, mais également entre sujets et objets, et entre les différents niveaux de manifestation et modes d’existence de ces sujets et / ou de ces objets. Le concept-clé qui tend à s’imposer est ici celui d’ajustement. Ce concept n’est pas vraiment stabilisé, comme l’attestent les différences de définition et d’approches des auteurs qui le revendiquent. E. Landowski, par exemple, oppose la traditionnelle conception “jonctive” du sens (conjonction et disjonction en sémiotique narrative) à celle qui est commandée par le régime de l’union. La première donne lieu, en matière d’interaction, à la “confrontation”, et la seconde précisément à l’“ajustement”. La confrontation se subdivise en polarités contractuelle ou polémique; et il en est de même pour l’ajustement. Celui-ci peut donner lieu, version contractuelle, à un accompagnement du partenaire de manière à ce que l’accomplissement de celui-ci se réalise comme 201 condition de l’accomplissement de l’accompagnateur (version “amour”!); ou il peut donner lieu, version destructrice, à un accompagnement des virtualités négatives du partenaire, de manière à ce que leur actualisation se retourne contre lui et qu’ainsi il s’auto-détruise (version “perverse”, ou simplement polémologique)6. Il n’en va pas ainsi chez J. Fontanille, où ce sont les contraintes propres au déploiement des situations et de leurs scènes prédicatives qui appellent un ajustement entre les pratiques et un ajustement à l’environnement. Tel est le programme des stratégies. Ici, il s’agit davantage d’optimisation des parcours en fonction de critères définis, au sein des parcours croisés qui caractérisent les pratiques (usages sociaux, rites, comportements complexes), que de formes d’interaction sensibles entre partenaires7. Mais dans les deux cas, une question se pose: ajustement entre quoi et quoi au juste? ou plutôt quelle est la mesure et quel sont les repères de l’ajustement? L’intérêt de ce concept d’ajustement est qu’il ne prévoit pas de critère fixe en fonction duquel il peut s’établir. Et chez les deux auteurs, c’est la scène seule qui dicte, à chaque fois, dans l’interaction effective, le régime de l’ajustement. C’est que celui-ci se réalise précisément sur fond d’absence et d’impropriété. Dès lors, je crois qu’on peut développer cette problématique en mettant en évidence trois opérateurs de l’ajustement: la justesse, le milieu et la praxis. Dans le parcours qui conduit de l’un à l’autre se consoliderait pas à pas le flottement modal qui lui semble inhérent. 1. La justesse. Je me permets de renvoyer ici à une étude ancienne que j’avais faite de cette notion, identifiée précisément comme “forme de vie”, c’est-àdire comme ce qui culmine au sommet de la pratique (selon le modèle proposé par Jacques Fontanille). Or, l’analyse montrait que la justesse marquait un lieu vide par excellence, comme l’attestent les différents paramètres de ses emplois: sur le plan figural, la justesse dessine un espace flottant entre le milieu et un bord (“c’est juste” peut valoir indifféremment pour “c’est un peu juste”, ou “trop juste”); sur le plan aspectuel, la justesse combine le perfectif et l’imperfectif (“il est midi juste” et “il est tout juste midi”, à peine�); sur le plan narratif, la justesse marque l’équilibre instabilisé de l’échange, signale le déséquilibre virtuel de la transaction, installe la valence plus que la valeur (cf. le ton juste qu’un rien dégrade dans l’exercice de la politesse); sur le plan axiologique, la justesse est accueillante à l’ensemble des axiologies (elle tend à la justice dans l’axiologie éthique, à la 6 7 E Landowski. Passions sans nom, Paris, PUF, 2004, p. 31-32. J. Fontanille, “La dimension stratégique consiste pour l’essentiel en un déploiement figuratif, spatial et temporel de la situation (notamment en termes d’ancrage déictique ou non-déictique), ainsi qu’en contraintes diverses (modales, isotopiques, aspectuelles et rythmiques) qui participent à l’ajustement à l’environnement. Elle rassemble des pratiques pour en faire de nouveaux ensembles signifiants, plus ou moins prévisibles (des usages sociaux, des rites, des comportements complexes), que ce soit par programmation des parcours et de leurs intersections, ou par ajustement en temps réel.”, op. cit., p. 12. 202 beauté dans l’axiologie esthétique, à la vérité dans l’axiologie cognitive, à la bonté dans l’axiologie relationnelle); sur le plan passionnel, elle occupe une position d’équilibre instable entre l’insuffisance et l’excès. Bref, sous tous ces éclairages, la modalité centrale est celle de l’incertain. Et la résolution de cette instabilité ne peut être trouvée que dans l’ordre esthésique du sensible, qui en est le recours ultime. Et le mot de Musil, “nous vivons dans l’excitation de la justesse” illustre simultanément le lien avec le stade premier du parcours de Nietzsche, celui de “l’excitation nerveuse transposée en image”, et avec la béance de l’impropriété. 2. Le milieu. Première stabilisation. Le milieu, topique des topiques? le milieu, le mi-chemin parcouru. Mais là aussi, il faudrait se pencher sur les différents sémèmes du milieu: il y a d’un côté, la médiété, le juste milieu, l’aurea mediocritas, “ce juste milieu qui vaut de l’or”, et de l’autre, l’espace ambiant, sans borne, pur foyer d’émergence, marquant là aussi, dans son indétermination, le voisinage de l’impropriété (cf. la revendication juridique du milieu); et puis il y a, en troisième lieu, l’énergie, la vitesse (cf. Deleuze). 3. La praxis, enfin; la praxis énonciative. Au regard de l’approche proposée ici, le concept est décisif, la praxis apparaissant comme l’instrument de stabilisation. Il me semble qu’on peut distinguer deux acceptions différentes de l’expression “praxis énonciative”, dans l’usage qui en est fait au sein de la sémiotique. - D’un côté, la mise en œuvre effective et individuelle de l’énonciation dans son déploiement sur fond d’usage, et non plus seulement à titre de présupposition comme dans l’approche strictement textuelle. En d’autres termes, l’énonciation envisagée à travers ses agencements en situation, les rôles qu’elle projette en interaction, l’ajustement spatial et temporel entre les pratiques qu’elle instaure. - De l’autre côté, la prise en compte plus radicale de la dimension impersonnelle de l’énonciation, modelée par l’usage et l’histoire, dont les formants de dimension diverse indéfiniment convocables se sédimentent en métaphores affaiblies ou éteintes, en phraséologie calcifiée, en schémas discursifs, en représentations figées dans la stéréotypie des lieux communs, tout ce matériau qui assure, à la base, la communication du sens, et qui se trouve, de fait, mobilisé au sein des pratiques. L’usage modelant jouit alors d’un surplomb sur les pratiques individuelles, puisqu’il est à la fois façonné et façonnant dans l’histoire collective, puisqu’il est pris dans le mouvement des amenuisements et des relèvements (selon les mots de Claude Zilberberg), des extinctions et des resensibilisations, puisqu’il prend acte de la “vieillesse de la langue”8 et de ses forces de révocation ou de renouvellement. 8 La vieillesse de la langue. Cf. Jacques Roubaud, La vieillesse d’Alexandre; cf. aussi J. Mouton, Sombr’héros 203 C’est cette seconde acception que pour ma part je retiens. Le schème qui la caractérise à la base, serait alors le suivant: usage > usure > soudure L’usage implique l’usure qui implique la soudure. L’usage conduit à l’usure: c’est la métaphore dont parlait Nietzsche tout à l’heure, qui “se vide de sa force sensible”, et entre dans des agencements de métaphores à la fois entrecroisées et éteintes. Mais cette usure est aussi la condition de la soudure des formants sémantiques entre eux. Cette soudure opère comme ces objets usés dans la conception lévi-straussienne du bricolage, qui grâce à cela se découvrent des compatibilités nouvelles et servent de nouvelles fins, ou comme ces matériaux élimés qui, perdant les bornes de leur spécificité, se fondent les uns dans les autres donnant alors forme à une matière métissée nouvelle. Cet enchaînement de l’usage à l’usure et de celle-ci à la soudure est précisément ce qui, gommant l’utopie d’une expérience sensible originelle, résulte de la praxis et la constitue, tout en assurant, dans l’épaisseur d’histoire que chaque fragment recèle comme mémoire, la consolidation illusoire et pourtant réelle du sens. On peut donc dire que les stratégies d’ajustement dans la praxis sémiotique présupposent l’inadéquation des significations aux choses mêmes, l’absence et plus précisément l’impropriété. Ces ajustements se fondent sur les critères incertains et instables de la justesse, immergés dans un milieu, soumis aux pressions de la praxis. La rhétorique est la discipline des ajustements ainsi compris. On en suggérera quelques exemples dans la seconde partie de cette étude. 6. LA RHÉTORIQUE ET SES AJUSTEMENTS Claude Zilberberg réclame la “sémiotisation de la rhétorique et la rhétorisation de la sémiotique”. Je partage ce souhait. Les pistes que j’ai explorées jusqu’ici dans cette perspective reposent indirectement sur les propositions que j’ai essayé de formuler au cours de la première partie. Elles portent sur quelques notions rhétoriques, avec comme position de départ que tel ou tel concept rhétorique, et peut-être tous, recouvre un champ phénoménal dans la pratique du discours qui n’a pas été épuisé par la définition traditionnelle de ce concept, plus ou moins figé dans ses acceptions scolaires, champ phénoménal qui se trouve ainsi en quelque sorte masqué par cela même qui le révèle. C’est ainsi que j’ai évoqué tout à l’heure le concept central de topique, qui me paraît devoir être mis en relation avec l’esthésie. La topique, qui installe un lieu de convenances pour le discours et assure les conditions de son partage; son lien avec la signification sensible du “lieu”, ancrage, lieu d’être, lieu de l’être, à commencer par la généalogie, topique par excellence (l’origine, la cause 204 première, la raison ultime, etc.). Cf. La critique des schèmes généalogiques par F. Noudelmann, Pour en finir avec la généalogie. Je pourrais rappeler aussi quelques autres motifs de la rhétorique auxquels je me suis intéressé ces dernières années, sans considération de la distinction entre les deux blocs de la rhétorique, mais en fondant l’approche sur le fond d’absence et d’impropriété, de non ajustement préalable, qui installe l’aire de jeu des significations et les modalités de leur prise en charge. L’enthymème, et son mode de raisonnement “troué”, qui tend la perche et cherche son partenaire pour compléter. La catachrèse, mère des métaphores, foyer de leur déploiement, qui émerge d’un milieu de dénominations par ajustement approximatif; ainsi la métaphore serait par essence graduelle, prise dans le jeu des convocations et des révocations de la praxis énonciative, à partir de quelque catachrèse originaire? La prosopopée, qui donne de la voix à une absence, qui transforme l’absence en instance de discours. Le phénomène de l’impropre m’a ainsi conduit à mettre en avant la question de l’instanciation. L’instance est ainsi comprise comme le foyer inaperçu, inaccessible, l’actant en attente de manifestation et de prise de contrôle du sens. L’instance est ce qui réclame avènement (instamment): elle manifeste la prise en charge d’un sens en attente. Dans ce cadre, les modes d’existence forment le milieu des instances. La rhétorique, à travers la finesse de sa grille phénoménale, est l’instrument qui donne le jour à ces instances (ou plutôt nomme et qualifie cette venue au jour du sens des instances enfouies). 7. L’EXEMPLE DE CÉLINE, ENVISAGÉ COMME PRATIQUE DU SENS EN LECTURE Mais venons-en maintenant à l’exemple. En grec moderne, le mot metaphoros désigne l’autobus, sur fond de translation spatiale (cf. supra, l’absolu de la métaphore, selon Nietzsche). Et Céline, lorsqu’il parle de sa “petite invention”, celle de l’écriture émotive, “embraque”, dit-il “tout [son] monde dans le métro, pardon!... je fonce avec: j’emmène tout le monde!... de gré ou de force!... avec moi!... le métro émotif, le mien!...” (Entretiens avec le Professeur Y, Pléiade, T. 4, p. 536-537). Au regard des considérations ici développées, je crois qu’on peut dire que ces incidences communes de figures (ces co-incidences) font en elles-mêmes partie intégrante de la problématique que j’essaie de présenter. La prise en compte de la lecture comme pratique invite à sortir, comme cela a déjà été souligné, de la relation exclusive entre le texte dans son immanence et un lecteur abstrait ou idéal. Qu’il s’agisse des types de livres, des genres et de leurs implications, des formes et moments de la lecture, de la relation que le lecteur prévoit d’entretenir avec les contenus, etc., la lecture entre dans le 205 champ de la pratique et est soumise du même coup aux diverses régulations que chaque constituant fait intervenir à son niveau. Or, dans le cas particulier d’un genre, le roman, qui appelle une pratique de lecture linéaire, et qui tend à suspendre toute relation avec le monde extérieur, dans le temps de la “petite hallucination momentanée” qu’il provoque chez le lecteur (selon le mot de Valéry), je voudrais évoquer le cas qui me paraît particulier de la lecture de Céline. Lire Céline� pose me semble-t-il clairement quelques problèmes directement liés à la lecture comme pratique. Et, pour nourrir la thèse que j’ai présentée et soutenue, je voudrais montrer que la lecture de Céline repose tout entière, et de manière radicale, sur le fond d’impropriété d’où émerge, cahin-caha, les significations du discours. Comment se manifestent ces impropriétés? Sans examen systématique, un peu en désordre, je les listerai comme suit. - Tout d’abord, du point de vue du genre textuel, on sait que le genre “roman” exerce sur le lecteur un certain type de contraintes, d’ordre actantiel et spatio-temporel, qui régissent le pacte de lecture. Ce sont les distinctions qu’il impose au lecteur entre l’auteur, l’énonciateur, le narrateur, l’acteur, chacun à sa place, disposé selon des protocoles soigneusement mis en place par les poétiques narratives et dépliés par la théorie du récit. Or, chez Céline, ces distinctions sont brouillées, travaillées par l’indistinction, sous le couvert d’un “je” constant, dirigeant la totalité des huit romans qui, du même coup, lieux, personnages, époque et temporalité aidant, ne semblent plus relever de ce genre mais plutôt de celui de l’autobiographie, tout en n’en relevant tout de même pas du tout, en raison des bifurcations, déplacements, constructions diverses qui interdisent cette nouvelle définition générique. On est dans le “ni-ni”. - Ensuite, la modalité véridictoire est elle aussi malmenée, instabilisant le statut de la fiction. Le continuum des référents historiques, les identités croisées de personnages à la fois fictionnellement et référentiellement identifiés, les événements rapportés tout autant que ceux dont la rumeur se fait entendre en arrière-plan, tout cela rend indécidable la modalité véridictoire du discours qui relève simultanément de plusieurs contrats énonciatifs, habituellement contradictoires ou exclusifs. On est dans le ”et-et”. - Pour ne retenir que ces traits, dans le “ni-ni” et dans le “et-et”, force est de constater que lecteur se trouve toujours confronté au “non-propre”, à l’impropre, à l’altération des propriétés. Or, ce qui est plus important, c’est que cette position dans la poétique narrative se trouve corrélée à une quête, la quête célinienne par excellence, qui est celle de combattre avec acharnement l’impropriété originaire du langage, celle qui fait que les mots ne touchent pas les choses. C’est en effet très exactement le rôle dévolu à ce que Céline appelle “l’écriture émotive”, “le métro émotif”, celle qui tend à nier le débrayage fondateur, la dia-bolie, pour manifester en continu un régime discursif qui serait celui du “proto-embrayage”. Cette manière de raconter des histoires implique non seulement le corps globalement, dans 206 - le régime vocal hurlant de l’oralité, mais aussi et surtout le corps interne, la chair, la viande, celle de l’énonciateur mais aussi celle du lecteur: “descendre dans l’intimité des choses, dans la fibre, le nerf, l’émotion des choses, la viande, et aller droit au but, à son but, dans l’intimité, en tension poétique, constante, en vie interne, comme le “métro” en ville interne droit au but” (Lettre à Claude Jamet, avril 44). Et ce voyage incorpore le lecteur: “j’emmène tout le monde!... de gré ou de force!... avec moi!... le métro émotif, le mien!” (Entretiens, déjà cité). Enfin, dernière phase, cette incorporation du lecteur au cœur de ces réseaux d’impropriété implique du même coup la rencontre avec l’auteur et ses pratiques, ses engagements et ses aberrations idéologiques. L’antisémitisme rageur des pamphlets, mais qui se trouve aussi dans les romans. Ainsi, le lecteur se trouve soumis à des contraintes qui l’obligent à un compagnonnage révulsant, l’obligeant à des contorsions entre l’admiration pour le génie du style et la révolte pour la barbarie idéologique. Il n’y a pas de lieu de la lecture, pas de topie stabilisée. Pour conclure en deux mots sur ce point, je dirais que le texte de Nietzsche sur l’empire absolu de la métaphore éclaire l’interprétation qu’on peut faire de cette pratique de lecture. Le texte célinien se présente comme illustration et “preuve” rhétorique de l’argumentation nietzschéenne. Dès lors, en effet, que se trouve assumée à ce niveau d’intensité le phénomène de l’impropriété du langage et de l’illusion fondatrice qu’il véhicule, l’isotopie fondamentale est celle de la non-vérité. La quête utopique et forcenée de l’adéquation dans l’écriture émotive atteste, à rebours, cette assomption de l’inaccessible vérité du sens. Dès lors, toutes les catégories ordonnatrices de la narration, celles qui semblent “à tout un peuple, stables, canoniques et obligatoires”, mais aussi toutes les catégories de la pratique de lecture, celles qui forcent l’adhésion, l’empathie, la participation, sont entraînées dans cette dénégation généralisée. La fiction coexiste avec la non fiction, le roman avec le non roman, la construction élaborée d’une esthétique avec la spontanéité émotionnelle du cri, les passions altruistes comme la générosité avec les passions éradicatrices comme la haine, etc. Et le lecteur, dans sa pratique même se trouve contraint d’affronter, à chacun de ces niveaux, le choc de la résistance à la stabilisation du sens. Et pour conclure globalement, et justifier le titre de cette étude, ce sont là les raisons pour lesquelles il me semble qu’on peut mettre la praxis sémiotique sous l’éclairage d’une rhétorique revisitée, dès lors qu’on assume que son objet, depuis l’origine de la discipline et à travers ses très nombreux avatars, est de s’occuper de l’inadéquation fondatrice du sens dans les langages (y compris celui du monde naturel), et de s’attacher à en arpenter l’espace pour rendre compte des processus signifiants en interaction effective, dans la praxis sémiotique. 207 Bibliographie Coquet, Jean-Claude 1997 La quête du sens, Paris, Puf. Fontanille Jaques 2004 “Textes, objets, situations et formes de vie. Les niveaux de pertinence du plan de l’expression dans une sémiotique des cultures”, in E/C, www.associazionesemiotica.it.; poi in D. Bertrand & M. Costantini (eds.), Transversalité du Sens, Paris, P.U.V., 2006. Greimas, Algirdas Julien 1987 De l’imperfection, Périgueux, Fanlac. Landowski, Eric 2004 Passions sans nom, Paris, PUF. Zilberberg, Claude 2006 “Remarques sur le double conditionnement tensif et rhétorique des structures élémentaires de la signification”, in D. Bertrand et M. Costantini, eds., Transversalité du sens, Paris, P.U.V. 208 TESTO, PRATICHE E TEORIA DELLA SOCIETÀ* Pierluigi Basso “Se il mondo coincide con la totalità del caso, il fare non si lascia includere in questa totalità. In altri termini ancora, il fare fa sì che la realtà non sia totalizzabile” (Ricœur 1986, 260). 1. TESTO E TESTUALITÀ 1.1. Accoppiamenti e intervalli di confidenza Pensare il senso testuale come disimplicabile a partire dalla situazione comunicativa significa non comprendere che anche il contesto interazionale, nonché le pratiche che vi hanno corso, vivono delle loro determinazioni di senso, o meglio del loro essere costantemente interrogate in termini di poste di significazione da gestire nel * Il testo è il frutto dell’accorpamento di due interventi, tenuti a breve distanza di tempo (Limoges, marzo 2005 e Parigi, giugno 2005), e nati in stretta relazione l’uno con l’altro (ed anche con Basso 2005). Dato che il dibattito in corso su tali questioni ha già avuto ulteriori sviluppi, abbiamo preferito, per correttezza, mantenere i testi originali presentati ai convegni, per quanto essi siano imperfetti. 209 tempo. Approcci immanentisti e approcci pragmatici, polemicamente contrapposti, possono risolversi solo nella federazione di prospettive incrociate. I testi, assunti all’interno di certe pratiche, sono costantemente in grado di riarticolare le relazioni e il tenore di esse, nonché di modulare le competenze degli attori sociali coimplicati; possono anche descrivere e risignificare la pratica in corso. Come il contesto mette in prospettiva i testi, anche questi ultimi, una volta assunti all’interno di una pratica, possono divenire guida e orizzonte di senso del corso d’azione. Le connessioni tra testo e pratiche sono bilaterali; non possiamo allora costruire una relazione gerarchica tra semiotica del testo e semiotica delle pratiche: esistono solo accoppiamenti tra testi e pratiche sotto l’egida di una gestione del senso (cfr. Basso, 2002). Se proprio si vuole portare il ragionamento a una deriva paradossale, allora si potrà riconoscere che per quanto i testi siano suscettibili di descrivere le pratiche, essi a loro volta necessitano di una pratica di lettura. Questa “superiorità” gerarchica delle pratiche è adducibile argomentativamente come loro sigillo d’irriducibilità alla testualità, ma non meno si dovrà riconoscere che le prassi si tramandano testualmente (memoria culturale) e che l’incassamento delle prospettive testuali e pragmatiche conduce, risultativamente, al circuitare del senso all’interno di un accoppiamento. I testi sono funzione delle pratiche di produzione e ricezione che li costituiscono come configurazioni di senso; essi risultano di fatto illeggibili se non vengono ricondotti ad esse. L’autotelia del testo estetico è una pura “finzione” da questo punto di vista, a partire dal fatto che esso deve essere “colto” come tale, ossia come un oggetto culturale dotato di un certo statuto che ne governa l’implementazione pubblica. Nei testi le strategie di gestione del senso si imperniano sulla costituzione di una configurazione linguistica grazie a cui si patteggia la tesaurizzazione e l’autonomizzazione relativa – rispetto all’ancoraggio spaziotemporale dell’enunciazione – di percorsi di senso; nel caso delle pratiche, tali strategie si esplicano invece nei termini di una conduzione in atto della semantizzazione rispetto agli scenari con cui ci si confronta, al fine di ponderare e decidere una presa di iniziativa. Questa asimmetria, pur all’interno di una reciproca messa in prospettiva, porta a dissimilare l’assunzione strategica del testo come un “tutto di significazione” dalla caratterizzazione tattica delle pratiche come sintassi di mosse. Per esempio, ricondurre una situazione conversazionale allo scenario unificato di una configurazione discorsiva globale, in grado di omogeneizzare i turni di parola in un fascio di semantizzazioni integrate, significherebbe deproblematizzare esattamente la posta in gioco di una semiotica delle pratiche: vale a dire descrivere l’articolarsi di mosse di attori sociali diversi, la permutazione di regimi di semantizzazione, la gestione del senso lungo una pluralità di accessi (traduzioni, interpretazioni, interrogazioni, ecc.). Ridurre la situazione a una configurazione discorsiva pensata come un tutto di significazione equivarrebbe ad assumere una posizione dall’alto, e non dal basso (ossia quella occupata dall’attore sociale implicato). Una visione dall’alto dei fenomeni di significazione comporta la derubricazione della questione della conduzione del senso da parte di un attore sociale in situazione. 210 Ciò è, del resto, quanto ci insegna la linguistica della parole ricercata da Saussure; per il parlante la langue non è qualcosa che gli preesiste e che deve essere “spesa” in situazione. La langue si costituisce e si rigenera costantemente nel suo essere agita, contribuendo alla ristrutturazione semantica e sintattica delle relazioni tra gli interlocutori: è in tal prospettiva, ad esempio, che Saussure sostiene che non si dà alcun significato letterale, nemmeno come uso medio o prototipico. Sostenere l’esistenza di un senso letterale come statisticamente rilevabile in una comunità di parlanti è frutto di una visione dall’alto che non corrisponde in nulla al posizionamento di un attore sociale. Del resto, anche la statistica non riesce a restare sul piano quantitativo, tanto da divenire la scienza che maggiormente usa la categoria della significatività. Infatti, i rilievi statistici hanno un bel po’ di fattori da rivendicare per risultare valevoli: l’attendibilità (correttezza dell’indagine), la non casualità (la possibile generalizzazione dei dati), la non speciosità (la cogenza rispetto al fenomeno studiato). In particolare, significatività è termine tecnico in statistica che riconduce la prospettiva disciplinare dall’“osservazione dall’alto” a quella “dal basso”, tanto che si lega al rapporto tra stima statistica e intervallo di confidenza. Se non la statistica si emancipa dalla significatività, figuriamoci se lo può fare l’agire sociale, dove in gioco non è la letteralità o la denotazione, bensì la familiarità, la dimestichezza, il saper gestire il senso in quell’intervallo di confidenza che anche in statistica indica il range di valori stimati come attribuibili a una data grandezza; e l’affidarsi a una stima di tali valori è ragionevole perché il loro divenire non ha altra via nomologica per essere indagata (indeterminazione di localizzazione e/o causazione). Ciò che una semiotica delle pratiche ci insegna è allora che la prospettiva “dal basso” è l’unica che ci consenta di porci a livello delle strategie di valorizzazione. Rispetto a una gestione del senso interna alle pratiche, la testualità si propone come tentativo di autonomizzazione di una configurazione significante, così come i sistemi linguistici si pongono come un tentativo di calmierare l’infinitizzazione dei sensi possibili, facendo leva sul loro carattere socializzato e minimamente istituzionalizzato (attraverso il patteggiamento di una serie di convenzioni). L’autonomizzazione di una configurazione significante è la posta stessa della sua costituzione, vale a dire la sua trasmissibilità culturale e la sua capacità di porsi come memoria di percorsi di senso che sono già stati possibili, sotto l’egida di un certo sistema linguistico (nel senso debole sopra esposto). In questa prospettiva, l’autonomizzazione relativa del testo non risponde più solamente ai criteri epistemologici di descrivibilità; ciò si evince non appena si assume il quadro teorico integrato di una semiotica delle culture, ove la costituzione di testualità risponde di una gamma di pratiche di cui l’analisi semiotica è parte. 1.2. A quali condizioni si può parlare di testualità Ci si può domandare legittimamente a quali condizioni un oggetto costituito nell’intorno esperienziale di un soggetto osservatore possa essere assunto come testo; in Peirce qualsiasi cosa può essere assunta come segno e persino come 211 segno di sé stesso (ostensione): possiamo dire lo stesso della testualità? Vediamo di rispondere a tale quesito, in apparenza, piuttosto obliquo. Si può ritenere che la semiotizzazione attraversi ogni dominio esperienziale, per cui ogni determinazione di senso è articolazione di espressione e contenuto; tuttavia, qualsiasi configurazione sensibile costituita lungo il flusso esperienziale è passibile di essere semantizzata altrimenti. È ciò che succede quando cogliamo una relazione tra una serie di alberi ad alto fusto e una coltre di dense nubi basse come une tensione drammatizzata tra forme: il fusto è colto come un protovettore verso l’alto e la coltre come una massa materica passibile di esercitare una resistenza. Le torsioni della semantizzazione sono almeno due: una semantizzazione plastica che si articola a partire dall’opposizione verticale/orizzontale e una semantizzazione figurale in cui la modalizzazione e le proprietà corporali costituzionali sono funzione di una prefigurazione di una sintassi immaginaria non riconducibile alle proprietà materiali degli oggetti; vale a dire, colgo gli alberi come se potessero librarsi in aria - sensomotricità - e le nubi come se avessero davvero un involucro capace di opporre resistenza. Da questo esempio evinciamo una serie di considerazioni: a) la demoltiplicazione degli accessi al senso, ossia la sintassi di semantizzazioni, pertiene alla ecologia esperienziale ed è modulata dalle forme di vita antropiche; b) ogni configurazione ha in memoria non solo il processo della sua costituzione semiotica, ma la sua relazione sintattica con altri ordini di semantizzazione; c) i fasci di pertinentizzazioni che costituiscono – rispetto alla materia del mondo-ambiente - espressioni e contenuti propri di ogni singola semantizzazione non conquistano una dimensione socializzabile fintantoché non sono calmierati da un gradiente di normatività proprio a pratiche istituite: il gradiente più intenso di tale normatività è la riconduzione delle configurazioni costituibili a linguaggi e a regimi di testualità allografiche; d) la costituzione e riconduzione di una configurazione a un linguaggio, quand’anche sotto regime allografico, non neutralizza affatto la memoria di una primaria costituzione dipendente dall’afferenza di ogni segno pubblicamente prodotto alla dimensione esperienziale. Perché si abbia un’immagine, ad esempio, vi è bisogno che uno spazio d’esperienza possa essere ritagliato e risemantizzato come “terreno fittivo” in grado di supportare nuove articolazioni significanti dipendenti da uno specifico gioco linguistico (sia pure esso a bassissima grammaticalizzazione). In questo caso uno scenario sensibile (per esempio, un paesaggio) viene trasposto in una dialettica tra valori operanti e valori operativi che gode di una relativa autonomia; l’immagine viene ricondotta a una soppesazione estetica, al filo della rimemorazione individuale, al rilievo geologico, ecc. Vi è testualità perché la configurazione diviene terreno di una moltiplicazione di accessi al senso, dipendenti non solo da traslazioni pertinenziali, ma anche da forme di mediazione, quale innanzi tutto i tipi di spazio entro cui l’immagine si iscrive. 212 Non ci sarebbero problemi di gestione del senso senza moltiplicazione di semantizzazioni; i testi non solo reclamano strategie di gestione dei percorsi di senso che si rendono possibili grazie ad essi, ma sono essi stessi una forma di gestione, in particolare una forma di emancipazione relativa del senso dal contesto di produzione e di sua tesaurizzazione tentativa nel tempo. L’iscrizione testuale può essere impermanente, sul piano materiale; ma, per esempio, si parla del carattere memorabile di un’immagine che si è avuta, incidentalmente, di un certo paesaggio o di una persona. Il memorabile è un “cassetto” sempre aperto del nostro arredamento identitario che garantisce accessi dati nel tempo alla significazione di quell’immagine. La registrazione di performance non dà materialità iscrizionale a un testo impermanente, ma ne estende, sotto specifiche negoziazioni sociali, un circuito di memorabilità. 1.3. Testualità e testo La testualità è (i) una demarcazione strategica di una configurazione al fine di poterne dare anche una semantizzazione seconda, autonoma rispetto alla sua apprensione percettiva, ed è (ii) posta sotto l’egida di una pratica istituita e di un linguaggio (ossia, di una grammatica qualunque che sia in grado di controllare e ridurre le possibilità di semantizzazione). La testualità non è coestensiva dell’identità dell’oggetto culturale chiamato testo. Esso è suscettibile di esemplificare, a livelli diversi di pertinenza, una rete diagrammatica di relazioni (configurazione), di rinviare a un’archeologia della sua istanziazione (prodotto), di offrirsi come mediatore rispetto ad altri oggetti culturali e alle relazioni che gli attori intrattengono con essi e tra di loro (discorso). Il testo è (i) una costruzione stratificata di apprensioni e di pertinentizzazioni che tiene in memoria le sue costituzioni semiotiche in quanto configurazione, in quanto prodotto e in quanto discorso; (ii) tale costruzione è funzione di una economia di valorizzazioni sensibili, esistentive e mediazionali1; (iii) le valorizzazioni attivate dipendono dalla relazione tra pratica interpretativa e istanziativa, il che individua il testo come una mossa enunciazionale, cronotopicamente attestata, entro un dominio culturale. In questo senso un testo ha (1) una afferenza interpretativa (esso dipende dalla pratica che lo costituisce come tale sotto un ordine di motivazioni), (2) un’afferenza storica (dipende da una pratica di attestazione e convocazione entro una rete di relazioni culturali), (3) un’afferenza linguistica (dipende da un regime allografico o autografico di funzionamento simbolico – in senso goodmaniano e da grammatiche di riferimento, che tuttavia non ne risolvono affatto il senso2). Sostenere che il testo è una costruzione stratificata di apprensioni e di pertinentizzazioni significa affermare hjelmslevianamente che si danno articolazioni 1 2 Cfr. P. Basso (2004a). Cfr. Basso (2003). 213 semiotiche plurime dove la determinazione reciproca tra espressioni e contenuti è posta sotto l’egida di diverse semantizzazioni. Tra l’altro, non bisogna confondere il carattere motivato della determinazione reciproca di espressione/ contenuto, una volta scelta la prospettiva di semantizzazione, dall’arbitrarietà linguistica ereditata dal fascio di pertinentizzazioni sui due piani (doppio fascio per i linguaggi biplanari). Ciò ci conduce a sostenere che il testo non è identificabile con la sola organizzazione discorsiva, ma che quest’ultima non può essere nemmeno ridotta a organizzazione semantica indipendente, dato che resta ineludibilmente connessa con la costituzione congiunturale dei significanti. 1.4. Contraddizioni interne alla teoria testuale greimasiana Nel momento che si riconosce con Jacques Fontanille (1999) che “l’universo della significazione deve essere considerato più come una prassi che come un incassamento di forme stabilizzate” ci si può legittimamente domandare se la forte distinzione tra manifestazione e realizzazione, posta da Hjelmslev a partire dal 1943 possa ancora suffragare la legittimità del percorso generativo greimasiano, o se - come ci indicano Rastier e Utaker, ma ancor prima il Saussure inedito (2002) - è necessario ritornare a una preminenza della parole. Ora, è certo vero che nella tradizione strutturalista si è sempre pienamente riconosciuto che la manifestazione è solo un punto di vista sul testo che lo costituisce come “fatto linguistico”, pur sapendo che esso è prima di tutto un “fatto sociale”. Piuttosto, ciò che è oggi necessario avanzare è il rifiuto di assumere il fatto linguistico come qualcosa di indipendente dalla gestione del senso: ovvero, l’autonomizzazione di una semantica linguistica deve potersi coniugare con l’idea che essa si costituisce nel quadro delle pratiche. Esse non riconducono i linguaggi a puri usi funzionali, non solo perché questi sono forgiati e costantemente rinnovati dalle diverse culture, ma perché essi stessi sono costantemente interrogati dalle poste di senso. Le semiotiche linguistiche sono una forma di gestione del senso, e ciò impedisce di svincolare la generatività delle forme del contenuto da quelle dell’espressione. La trasposizione e traduzione di senso tra linguaggi non è data da una semantica discorsiva indipendente dalla giunzione con un piano dell’espressione, ma nasce dalla pratica di gestire e patteggiare possibili trasferibilità di effetti di senso nel modo con cui ci giochiamo la significazione di testi di altre semiotiche. Per esempio, si è cominciato a praticare cinema astratto patteggiando livelli di semantizzazioni trasponibili dalle pratiche di fruizione della musica strumentale a quelle della ricezione cinematografica. Sostenere che “il testo è costituito unicamente dagli elementi semiotici conformi al progetto teorico della descrizione” (Greimas, Courtés 1979, voce testo) significa barare sotto la scusante della correttezza epistemologica. Si bara perché non si può decidere di semantizzare un testo se non riascrivendolo a una pratica e a uno statuto, che è cosa diversa dal sottolineare che esso sarà poi studiato sotto il fascio di pertinenze che sono funzione dello sguardo disciplinare. 214 Sostenere che la testualizzazione è “linearizzazione e giunzione con il piano dell’espressione una volta che il percorso generativo è interrotto” (ivi) significa pensare la generatività del senso al di qua delle pratiche della sua gestione. Greimas e Courtés sono in realtà andati oltre, spinti dalla tradizione hjelmsleviana: la testualizzazione è “l’insieme delle procedure - volte a costituirsi in sintassi testuale - che mirano a costituire un continuum discorsivo, anteriormente alla manifestazione del discorso in questa o quella semiotica” (ivi, voce testualizzazione). I principi guida della testualizzazione sono la linearizzazione, l’elasticità discorsiva e l’anaforizzazione. Ora la prima (linearizzazione) è dipendente dalla natura del significante, la seconda (elasticità discorsiva) dipende da strategie retoriche, la terza (anaforizzazione) da strategie di disseminazione isotopica dei valori testuali. Certo, si può sostenere che l’anteriorità della testualizzazione è propria del modello ipotetico-deduttivo di una scienza ricostruttiva e che quindi si osserva semplicemente l’assettarsi del percorso generativo in funzione della realizzazione linguistica in cui si estrinseca. Purtuttavia, i principi guida sopra ricordati dimostrano come l’organizzazione semantica del testo ha in memoria le dipendenze da forme di costituzione del significante e da pratiche di comunicazione. Per dirla con i termini del dizionario, l’analisi del testo deve ritrovare in memoria anche le procedure di sintesi, ossia quelle che stanno alla base della produzione testuale (si veda Greimas, Courtés 1979, voce: sintesi). Ora, la semiotica generativa ha lasciato come eredità una concezione simmetrica dell’enunciazione rispetto alle posizioni di enunciatore e di enunciatario, almeno in quanto a percorsi della semantizzazione sotto il controllo delle costrizioni testuali. Per prima cosa, allora, il posizionamento della testualizzazione nel percorso generativo doveva essere pensata come immediatamente ribattuta anche sul piano dell’enunciazione-interpretazione. In secondo luogo, la memoria delle operazioni di sintesi interessa non solo il momento terminativo del percorso generativo, ma tutti i suoi livelli, dalla costituzione di un universo figurativo e di simulacri dell’enunciazione, fino alla categorizzazione. Sul primo punto, emerge come in memoria debba essere posta anche la gestione del significante lungo il processo di semantizzazione e non solo la memoria di una necessaria articolazione con le esigenze poste da una produzione testuale che deve scegliere inevitabilmente una forma dell’espressione. Sul secondo punto, possiamo affermare che la conversione da livello a livello è memoria di una sintesi e di una attanzializzazione che sta alla base delle pratiche di gestione del senso. Il percorso generativo non parte da una semantica o sintattica profonda, ma da un’attanzializzazione che costruisce un dominio significante per qualcuno dotato di corpo (è il portato di Fontanille 2004a). Lo spostamento di prospettiva è fondamentale per articolare completamente la pragmatica fino all’interno di un paradigma semiotico generale: (i) non ci sono solo localmente vincoli posti al percorso generativo dalla produzione testuale, ma ogni conversione ed elaborazione del senso è vincolata da una pratica; 215 (ii) non si potrà opporre programmazione narrativa e sviluppo della testualizzazione come indipendenti e irrapportabili dato che in primo luogo le configurazioni narrative sono elaborate e gestite grazie a una pratica istituita e a un linguaggio d’afferimento; in secondo luogo, anche la testualizzazione non può darsi che come una drammatizzazione della istanziazione e della interpretazione sotto l’egida di una teoria dell’enunciazione e della narratività. Oramai, la nostra riflessione si pone a molta distanza dall’affermazione del dizionario che in fondo il testo è una “rappresentazione semantica del discorso (...) indifferente ai modi semiotici di manifestazione” (Greimas, Courtés 1979, voce textualisation). Non ci appare lecito pensare il testo come un’organizzazione sintagmatica definita da un preciso inventario di unità (Greimas 1983, “Fatti testuali nelle scienze umane”), dato che esse non sono colte indipendentemente dalle strategie di costituzione e di assunzione delle configurazioni semiotiche demarcabili. Nella tradizione greimasiana classica, l’oblio dell’afferenza testuale alle pratiche e ai domini culturali era mascherato dalla costituzione in vitro dell’analista, confondendo così il rigore dell’approccio epistemologico con il necessario confronto con le strategie e i regimi di semantizzazione. In particolare, la predilezione teorica iniziale per i testi allografici ha spinto a riconoscere l’autonomizzazione della testualità dalla costituzione di configurazioni sensibili significanti, e tale svincolamento è stato ritenuto tanto radicale da derubricare il piano dell’espressione a puro supporto dell’organizzazione semantica. La testualità è stata concepita sul modello delle lingue naturali, ma sovrapponendo nell’argomentazione due questioni distinte: la doppia articolazione e il regime allografico della testualità. In “Semiotica del mondo naturale” Greimas, rapportando comunicazione gestuale e comunicazione linguistico-verbale, giunge a sostenere che “è proprio la trasposizione da un ordine sensoriale in un altro che crea le condizioni adeguate per una articolazione autonoma del significante, le cui figure vengono a trovarsi così opportunamente distanziate rispetto alle figure del contenuto. Viceversa, finché una tale trasposizione non abbia avuto modo di prodursi, la significazione del mondo non potrà mai completamente liberarsi dalla sua piattaforma fenomenica” (Greimas, 1970, trad. it. 86). L’argomentazione ha una dose di ambiguità: per un verso rappresenta una fondamentale esemplificazione di come non si possa confondere piano dell’espressione e configurazione sensibile. Dall’altro lato, si affaccia la liberazione della testualità dalla piattaforma fenomenica; i significanti possono essere visti come configurazioni di femi, svincolate da una stretta attinenza al sensibile e funzione delle configurazioni semantiche che devono supportare; inoltre, la memoria istanziativa dell’espressione può essere narcotizzata proprio perché, sul modello dell’allografia, si può pensare un radicale svincolamento dei testi dalla storia della loro produzione (il che ha comportato l’indifferenza del metodo rispetto al differente statuto genetico delle immagini). Riassumendo: come condizione per la piena affermazione di una doppia articolazione dei linguaggi Greimas pare porre in gioco la messa a lato tattico- 216 metodologica di qualsiasi audizione/mostrazione in quanto imprudente base di partenza nello studio dell’economia testuale, dato che la conservazione del canale modale tra costituzione percettiva di un valore e apprensione del piano dell’espressione del testo che lo predica porterebbe a una mancata distinzione tra il linguistico e il fenomenico. Fatta la giusta distinzione, quest’ultimo non viene più ritenuto pertinente per la significazione testuale. In secondo luogo, la piena autonomizzazione della testualità viene esemplificata dai testi allografici dove l’identità di compitazione (sameness of spelling) che li individua va colta rispetto a un fascio di pertinentizzazioni che narcotizzerebbero qualsiasi effetto di senso dipendente dall’apprensione del piano dell’espressione (per es. grafematica) e dalla memoria discorsiva della sua istanziazione. Prima di approfondire la questione posta dal regime allografico bisogna riconoscere che al Greimas che edifica il percorso generativo e una nozione di testualità entrambi autonomizzati dal piano generativo dell’espressione, si contrappone un altro Greimas, quello del discorso poetico (si veda l’introduzione agli Essais de sémiotique poétique del 1972). È il Greimas che mette al centro dell’attenzione la rimotivazione nel rapporto espressione/contenuto, che affianca la poli-femia accanto alla polisemia, che parla di organizzazioni discorsive che dipendono anche dalla ricerca di regolarità fonemiche, che ragiona sul fatto - per usare le sue parole - che così come “la significazione “aggancia” la sonorità” altrettanto si dovrà riconoscere che “l’espressione seleziona il contenuto” (Greimas, 1972). Da questi studi emergeva l’idea di una testualità dipendente da una manipolazione di sistemi di dipendenze incrociate tra espressione e contenuto data dalla congiunturalità della loro determinazione; come ci hanno insegnato Rastier e Zilberberg, la prosodia non è che la forma d’organizzazione della testualità che maggiormente trasuda di tale interdipendenza. Ma prosodia e testualizzazione non sono rimasti che riconoscimenti residuali, nel modello generativo, della implicazione reciproca e irresolubile tra un percorso E_C e un percorso C_E, ossia tra quelli che Fontanille chiama “punto di vista testuale” e “punto di vista discorsivo” (Fontanille, 1999b). Solo un modello che rende conto di tale implicazione reciproca, la quale procede per processi in parallelo, può rendere davvero conto della semioticità come prassi di gestione del senso. Pensare il testo come realizzazione del discorso vuol dire derubricare la problematica della costituzione del testo dipendente dal quadro di una semiotica delle pratiche e dal paradigma di una significazione pensata essa stessa come prassi. La costituzione del testo in quanto organizzazione discorsiva che risolve l’eterogeneità semiotica e regola la polifonia enunciazionale dipende da una pratica; e come detto, non è nemmeno la sola costituzione che individua il testo. Il testo è funzione di una demarcazione strategica a fini interpretativi e di un processo di attestazione; come sottolinea Rastier, il testo non possiede una definizione morfosintattica. L’analisi testuale dovrebbe cercare di costruire un piano di commensurabilità dei modi con cui mettiamo a significare un testo costituendolo come configurazione, come prodotto e come discorso. Definire le modalità di accesso al testo 217 non significa non poter costruire un modello generalizzabile del modo con cui esso si articola con le diverse strategie di semantizzazione. Una teoria del testo deve cooptare un modello semiotico che tiene in memoria le pratiche da cui dipende, in modo tale che si possa caratterizzare la gestione locale del senso che esso stesso media, ossia la sua interpretazione. Quest’ultima dipende da un’osservazione di secondo ordine sulla moltiplicazione degli accessi al senso, e pertiene tanto all’ambito di una semiotica dell’esperienza, quanto di una semiotica testuale, oltre naturalmente a quello delle pratiche. Queste semiotiche possono essere federate sotto un paradigma comune (semiotica della cultura) posto all’insegna della gestione del senso (Basso, 2002). 1.5. Proposte Tematizzaziamo alcune soluzioni possibili dei nodi irrisolti della tradizione greimasiana attorno alla questione del testo. a) Il testo non deve essere necessariamente fissato su un supporto come iscrizione persistente; si può parlare di testo per le forme di espressione orale e in genere per le performance sotto regime autografico prive di iscrizione permanente; anzi, esse esemplificano ancor meglio come nella testualità non sia in gioco una fissazione delle sua significazione, ma una sua gestione rispetto alle diverse possibilità di costituirlo come configurazione, come prodotto e come discorso. Per esempio, nei testi orali vi è in ogni caso: i) la continua messa in valore della sintassi figurativa istanziatrice, (ii) l’emancipazione dall’intenzionalismo e dai riferimenti ostensivi per via delle forme di soggettività delegata e la costituzione di assi di inter-referenza tra costituzioni semiotiche diversificate (discorso e mondo-ambiente), iii) l’estensione potenziale dei destinatari visto la difficile “separatezza” dei luoghi della performance, ma soprattutto vista la trasmissibilità orale, iv) l’attestazione che è funzione della memoria sociale e di procedure di ritualizzazione. b) Per quanto l’enunciazione possa emanciparsi da un’audizione/mostrazione dei valori figurativi declinati (non conserva cioè il canale modale normalmente deputato ad apprenderli), essa non può mai bypassare completamente la costituzione del testo in quanto configurazione sensibile. In tale prospettiva, ciò che era stato costituito come piano dell’espressione dell’organizzazione discorsiva si presta ad essere ripertinentizzato in funzione di un’apprensione percettiva. Ciò vale anche nel caso di testi sotto regime allografico. È certo vero che nella semantizzazione di questo tipo di testi si può ritenere che le qualità sensibili della notazione, così come la traccia della sua iscrizione, non siano pertinenti per gli effetti di senso, ma è anche vero che tale dimensione sensibile è riguadagnata dall’esecuzione, la sola che conduce ad una piena implementazione pubblica del testo. È altrettanto vero che lungo la fruizione dell’esecuzione di un testo allografico, esso non viene costituito come una configurazione che satura tutta la densità dei tratti coglibili, così come avviene per il testo autografico; infatti, il contratto enunciazionale statutivo del regime allografico sollecita la pertinentizzazione, 218 in vista della costituzione del piano dell’espressione testuale, dei soli tratti rinviabili a un linguaggio ed aventi una qualche relazione di “generatività” o dipendenza rispetto alla notazione: è quella che Goodman chiama riduzione allografica. Tale riduzione allografica della classe d’invarianza delle esecuzioni è tuttavia alla base della costituzione del testo in quanto discorso, e nulla toglie che possa essere costituito altrimenti, mettendo in valore gli elementi accidentali di una singola esecuzione oppure l’esecuzione come prodotto di un interprete (rilettura autografica). c) Oltre al gradiente di autonomia della costituzione testuale (dal regime autografico a quello allografico) va considerato che l’identità di un oggetto culturale può essere articolata su una classe di varianti testuali (versioni), sulla frammentarietà di un reperto testuale, su una attestazione che distingue configurazioni testuali identiche ma afferenti a periodi storici diversi. 1.6. Testo e oggetto culturale Operativamente, il quadro di riflessioni che abbiamo messo in campo dovrebbe riproblematizzare come la determinazione strategica della testualità in sede d’analisi deve essere riconnessa a un quadro di pratiche di istanziazione e di assunzione proprie della semiotica di una cultura. In secondo luogo, la costituzione della testualità emerge come plurale e dipendente dalla demoltiplicazione degli accessi al senso. In terzo luogo, l’assunzione del testo come discorso non resta incommensurabile rispetto alla sua costituzione come configurazione sensibile, in quanto sempre implementato in uno spazio sociale d’apprensione, e come prodotto, in quanto tiene memoria del suo processo di istanziazione. La semiotica deve assumere una visione sulla significazione nei termini di una gestione del senso nel tempo e di una intersemantica che connette articolazioni significanti costituite a livelli diversi. Ecco allora che la pluralità di “letture” (plastica, figurativa, figurale) che la tradizione semiotica ha riconosciuto, la rilevazione delle tracce dell’enunciazione (enunciazione enunciata, le pieghe metatestuali e le diverse apprensioni della significazione (molare, sensibile, utopica, critica) possono e debbono ritrovare un piano unificato di trattazione che meglio si riconosca in un modello semantico dipendente da una semiotica delle pratiche, ossia quello che abbiamo posto sotto l’etichetta di una gestione del senso. La prospettiva enunciazionale, proprio perché pensata come comune tanto al produttore quanto al ricevente, pone il testo come una risorsa che è sempre possibile “giocare” sotto diversi rispetti. È bene allora costruire una cartografia delle prospettive sotto cui il testo può essere costituito, stratificando la sua semantica. Spostiamo dunque per un attimo allora la prospettiva che coglie il testo come una configurazione le cui reti strutturali (diagrammatiche) sono suscettibili di imbrigliare dei percorsi di semantizzazione (piano dell’enunciato), verso la relazione che l’assetto enunciazionale detiene nei riguardi dello scenario di implementazione: ecco che il testo quale risorsa ci appare come uno snodo locale, un crocevia di percorsi interpretativi, se si vuole, come un segno. Tale 219 prospettiva è quella che consente una riunificazione della prospettiva testualista greimasiana con quella peirciana. Ne diamo qui una presentazione sinottica, dove è reperibile una mappatura delle costituzioni testuali che nel loro insieme restituiscono l’identità di un oggetto culturale. VALENZE DIPENDENTI DALLE _ TRE CATEGORIE CENOPITAGORICHE configurazione Primità Secondità Terzità QUALISEGNO SINSEGNO LEGISEGNO _determinabilità diagrammatica _determinazione figurativa _determinazione operazionale ICONA INDICE _memorabilità esperienziale _archeologia esistentiva _ determinazione identitaria e genealogia istituzionale REMA DICISEGNO ARGOMENTO _statuto _testualità _metatestualità (valenze diagrammatiche) (valenze esistentive) (valenze mediazionali) SIMBOLO prodotto discorso _ COSTITUZIONI PERTINENZIALI DEL TESTO IN RAPPORTO ALL’ENUNCIAZIONE Su questo punto, ci limitiamo qui a una brevissima illustrazione. Ogni oggetto culturale: i) può essere terreno di determinazioni plurime e aperte (determinabilità diagrammatica), restando un costituendo dentro una istruttoria in fieri della sua fungibilità semantica; ii) viene determinato dentro uno scenario inter-attanziale (determinazione figurativa); iii) è ascritto a una famiglia di oggetti riconosciuta come “moneta corrente” (ossia come risorsa operativa/operabile) dentro pratiche specifiche (determinazione operazionale); iv) si apre a una sintassi di frequentazioni che collezionano e stratificano le qualità e relazioni interne che esso esemplifica (memorabilità esperienziale); v) si offre come traccia indiziaria dell’istanziazione che ne è alla base (archeologia esistentiva); 220 vi) viene riconosciuto come un costrutto simbolico afferente a uno specifico dominio sociale (determinazione identitaria e genealogia istituzionale); vii) è ritenuto suscettibile di ricoprire una certa posizione all’interno di un sistema di relazioni discorsive (statuto); viii) viene assunto come qualcosa in grado di predicare autonomamente tutti i tipi di valenze (testualità); ix) gli si imputa la capacità di mettere in prospettiva porzioni della cultura di cui è parte integrante (metatestualità). Non c’è testo che non abbia anche una dimensione “oggettale”, così come non vi sono oggetti che non vengano costituiti anche come agenti discorsivi, come testi di una memoria culturale in fieri. Le valenze esistentive circolano discorsivamente sulla base di una contrattazione indiziaria di prove e su effetti di veridizione, ma non meno esse conoscono dei gradi di pregnanza percettiva, di cogenza esperienziale e di inerenza pragmatica. Spetta alle valenze esistentive innescare (in positivo o in negativo) il confronto con tutti i tipi di valori. Le valenze mediazionali sono quelle che si frappongono a qualsiasi opposizione esclusiva e che trovano piani di commensurabilità tra valori e prospettive di apprensione. Il loro ruolo è fondamentale per costruire l’appaiamento tra l’elaborazione esperienziale e l’elaborazione discorsiva dei valori e la gestione integrata delle loro valenze. Le valenze diagrammatiche sono quelle che propongono forme di organizzazione relazionale, sia afferenti alle proprietà esemplificate, sia afferenti al rapporto di esse con l’osservatore. La gestione del senso è sempre dipendente dalla costituzione di una configurazione diagrammatica, la quale può essere definita, a livello figurativo dell’esperienza, come un quadro di relazioni inter-attanziali dotata di un certo assetto e di una certa dinamica; parleremo di scenario non appena tale configurazione sarà dimensionalizzata da memoria e prefigurazione di assetti futuri, e di situazione non appena lo scenario verrà riferito alla sedimentazione e istituzionalizzazione di una pratica sociale. Ciò ci inoltra nel secondo versante di questo studio che prende ad oggetto le pratiche. 2. PRATICHE E GESTIONE DEL SENSO 2.1. La questione sociosemiotica Per prima cosa, non è affatto la stessa cosa parlare di sociosemiotica e di semiotica delle culture: la cultura informa esperienza, testualità, e pratiche sociali. È una mediazione semiotica ubiqua, coestensiva del nostro mondo-ambiente (semiosfera). Ora, porre in gioco una sociosemiotica dovrebbe significare assumere ad oggetto il carattere sociale della comunicazione e della gestione della significazione lungo le pratiche. Ma è davvero opportuno separare lo studio delle pratiche sociali, ossia pretendere una specificità dello sguardo sociosemiotico? Vediamo. 221 Le pratiche a) mediano produzione e ricezione dei testi; b) “incorniciano” le esperienze degli individui, dando loro un orizzonte di senso che trascende il campo di presenza fenomenico. A loro volta, le pratiche c) si offrono a una continua reinterpretazione grazie alla loro rifigurazione narrativa nei testi; d) divengono intelligibili solo se vengono anche riconnesse alla dimensione corporale e all’ordine dei vissuti di significazione. Ecco allora che qualsiasi tentativo di disconnettere esperienza, testualità e pratiche appare come profondamente riduzionistico. Inoltre, già nei padri fondatori della semiotica (Saussure e Peirce), il carattere sociale della langue o degli interpretanti è fortemente affermato. Per tali ragioni si potrebbe ritenere, di primo acchito, che la pretesa di uno specifico sguardo sociosemiotico sia fallace e immotivata. Vediamo, tuttavia, di esaminare una serie di osservazioni che potrebbero spingersi ad assumere eventualmente una posizione contraria: a) per prima cosa è opportuno rilevare che ogni teoria può operare delle distinzioni senza pretendere che le entità così distinte siano disconnesse e autonome; b) il fatto di rivendicare giustamente che la mediazione semiotica è ubiqua non significa sostenere che l’indagine di tale mediazione non richieda punti di vista diversi e accortezze epistemologiche specifiche; c) la semiotica strutturale si è costruita attorno all’indagine della testualità; ma non è solo l’estensione incontrollata della nozione di testo che può risultare sospetta, quanto il fatto che così facendo si è infine indagata la significazione studiando solo un versante dell’accoppiamento che rela testo e interprete secondo una gamma di doppie dipendenze; in ombra, sono rimaste così i modi di costituzione ed assunzione della testualità; d) per quanto si sia infine adottata la prospettiva dell’enunciazione in atto (Fontanille, 1999), ciò non si è tradotto in una vera e propria indagine del modo con cui gestiamo e negoziamo il senso; e) si constata una totale mancanza in semiotica, ed in larga parte anche nella sociosemiotica, di una teoria della società, se non nella riduzione di quest’ultima ai testi che essa produce e in cui si riflette (Landowski 1989). La necessità di una teoria della società può apparire del tutto surrettizia in semiotica; per tale ragione la considereremo sub iudice, e solo nel corso della nostra argomentazione cercheremo di dimostrarne l’ineludibilità per una semiotica delle culture. 2.2. La semiotica delle pratiche in J. Fontanille In un contributo recente di Fontanille (2004b) possiamo riscontrare come esperienza, testualità e pratiche sono convocate assieme sotto uno sguardo teorico comune che risulta esplicativo rispetto a livelli d’analisi diversificati ma incassati e gerarchizzati. Nel contempo troviamo un problema metodologico generale: l’eterogeneità costitutiva di ogni livello di pertinenza semiotico deve trovare una qualche soluzione a fini di significazione. 222 Due prime osservazioni: a) se il minimum di semioticità a livello di una semiotica del corpo è una relazione inter-attanziale, la semioticità a livello prassico deve essere reperita nella preservazione di un’istanza formale che prende in carico delle istanze materiali e sensibili; b) in Fontanille (2004b) possiamo inoltre notare come la messa a fuoco della situazione di comunicazione provenga dalla “esperienza di interazione con il testo attraverso i suoi supporti materiali”: ossia, esso viene colto come oggetto. Per prima cosa, anche l’esperienza sensibile mediata dal corpo è già “formatrice”, ossia “semiotizzatrice”, cosa che Fontanille studia in maniera alquanto approfondita in Figure del corpo. In secondo luogo, la situazione comunicativa resta uno scenario esperienziale. In tale quadro, è allora proprio la testualità che deve ritrovare un’adeguata concettualizzazione, cosa che abbiamo tentato di intraprendere nella prima parte di questo studio. Ora, secondo Fontanille, una situazione comunicativa trova una propria dimensione predicativa grazie alla conversione di un’esperienza pratica in “dispositivo di espressione semiotica”: vale a dire essa viene convertita in uno scenario attanzializzato dove i ruoli enunciazionali sono giocati da testi, utenti, elementi ambientali, ecc. La scena predicativa si allarga - per così dire - dal testo alla città: un principio di razionalità semiotica guida l’idea di cogliere quest’ultima come una configurazione significante i cui effetti di senso siano dipendenti da una integrazione delle enunciazioni incassate, in modo da ricostruirla come un tutto coerente. I principi metodologici del testualismo vengono proiettati sugli scenari sociosemiotici e il principio di immanenza può essere salvaguardato. La città esemplifica questa idea di “cantiere semiotico” che preallestisce percorsi di senso in virtù delle situazioni ad alta o bassa istituzionalizzazione e degli scenari predicativi. Con la situazione-strategia (Fontanille, 2004b), ossia con la dimensione strategica della situazione di comunicazione, cambia completamente il punto di vista teorico; la configurazione di uno scenario figurativo diviene congiunturalmente, per via di un’assunzione, il problema da gestire da parte di un soggetto che deve adattarsi, coordinarsi rispetto alla concomitanza/successione di scene e pratiche. Ma tale cambiamento di prospettiva (che sfalda il quadro predicativo, divenendo scenario decisivo per qualcuno) viene poi controbilanciato e persino deproblematizzato teoricamente dalla cristallizzazione delle scena-strategia: essa è prevedibile e lavorabile pragmaticamente secondo prassi o procedure. L’aspetto configurativo è recuperato e il fare stesso diviene solo un sistema di rientro (reentry) entro un quadro di auto-organizzazione delle situazioni attorno a pratiche interconnesse. L’effabilità dell’agire è colto dall’esterno e già pre-giudicato dalla razionalizzazione della sua eterogeneità di base. Al fare strategico che deve procedere per aggiustamenti, si sostituisce la situazione-strategia: all’agire si sostituisce la procedura che trova già decisa a monte la sua sensatezza. Tuttavia, Fontanille affianca il problema dell’ottimizzazione in tempo reale delle connessioni signifi- 223 canti tra pratiche: solo che tale appaiamento teorico (prevedibilità/ottimizzazione) nasconde una discontinuità: non è più la configurazione-forma che deve essere presa in carico dalla teoria, ma esattamente il configurare. Le forme di vita sono un modo per recuperare la centralità del soggetto (individuale o comunitario): esse emergono come stili (ritmici e strategici), ossia come “effetti di presenza” isotopici dell’attore rispetto alla sintagmatica dell’agire. Si pone però una questione; sono “effetti di presenza” rispetto a situazioni-strategiche stereotipiche (dunque, ne adibiscono eventualmente una deformazione coerente) o invece tali effetti si pongono sul filo di soluzioni strategiche in fieri? Il problema non è specioso: la forma di vita, che riteniamo una delle nozioni semiotiche più produttive degli ultimi anni, è l’articolazione di una prosodia esistenziale con un regime di valorizzazioni. Ma per una semiotica delle pratiche il problema non è cogliere la forma di vita sedimentata e archiviata testualmente; si tratta di cogliere la forma di vita come quadro di reggenza della significazione che deve scendere a patti con le circostanze congiunturali. Già la nozione stessa di forma di vita non dovrebbe mancare di suggerirci di porre l’accento sulla sua tenuta, sul suo sapersi preservare o ripensare. Sintetizzando i nostri rilievi, possiamo dire che il lavoro recente di Fontanille si offre come la massima estensione possibile, lo sfruttamento più ottimizzato della semiotica testuale all’ambito delle situazioni comunicative. Il rifiuto di un riduzionismo nell’impostazione del quadro teorico convoca la problematica relazione tra esperienza, testualità e pratica, ma finisce per schiacciare la natura specifica di tali istanze teoriche l’una sull’altra, e ciò perché Fontanille non è disposto ad accettare il travalicamento delle pertinenze semiotiche tradizionali, visto che ciò potrebbe comportare uno sconfinamento disciplinare non più controllabile. Per contro, si tratta di continuare a studiare configurazioni significanti, di taglia diversa, oggettivando i modi specifici con cui queste controllano dei percorsi di significazione. In tal senso l’impostazione fontanilliana è accorta: i punti critici da noi rilevati possono divenire pertinenti solo nel momento in cui divengono problematiche abbordabili per una semiotica, cosa tutta da dimostrare. O meglio, essa è dimostrata, ma sotto un altro paradigma, quello interpretativo, che cerca solo condizioni di descrivibilità locali e mette al centro l’ermeneutica materiale, per dirla con Rastier. Ora, consentiamoci tre riflessioni esplorative: a) Come l’esperienza è irriducibile al testo, così la pratica risulta irriducibile alla situazione. b) Se testo e situazione sono articolabili per via di scenari predicativi prototipici e risultano descrivibili sotto l’egida di una teoria dell’enunciazione, esperienza e pratica affacciano la problematica di una gestione del senso e sono abbordabili sotto l’egida di una teoria dell’interpretazione. c) Come abbiamo visto fin dall’inizio, l’eventuale discriminazione di queste prospettive non significa affatto disconnetterle, anzi esse vanno pensate come punti di vista incrociati. 224 PROSPETTIVA EPISTEMOLOGICA SEMIOTICA DELL’ESPERIENZA SEMIOTICA DEL TESTO SOCIOSEMIOTICA regime di significazione in presentia presenza vicaria/ assenza delegativa doppio regime (in presentia e in absentia) assetto della comunicazione identità/prossimalità simulacralità distalità forme di soggettività implicate me-carne, sé-corpo proprio identità narrativa ruoli identitari in situazione apporti specifici domini, contesti inter-attanzialità discorsività configurata istituzionali, pratiche, esperita (innesco dei statuti e generi (trattamento dei valori) contrattati (circolazione valori) regolata dei valori) pertinenza testuale incrociata iscrizione ed apprensione della testualità immanenza testuale testo agito sullo sfondo di contesti istituzionali e forme di vita pertinenza esperienziale incrociata costituzione e stabilizzazione percettiva di uno scenario interattanziale drammatizzazione discorsiva dell’esperienza socializzazione dell’esperienza pertinenza sociosemiotica incrociata sensibilizzazione del sociale (aisthesis collettiva) testualizzazione e rifigurazione dei vincoli e delle relazioni sociali istituzionalizzazione dei valori e delle prassi enunciazionali memoria semantica memoria incorporata (percorso esperienziale) memoria discorsiva (percorso di testualizzazione) memoria culturale (percorsi nelle reti semantiche dei diversi domini sociali) ACCESSI AL SENSO Di fatto, è su questa base che abbiamo elaborato il programma di una semiotica delle culture come federazione di tre prospettive epistemologiche diversificate ed incrociate: semiotica dell’esperienza, semiotica del testo e sociosemiotica (Basso, 2002). Non perderemo qui tempo a illustrare le nostre posizioni generali: ci è sufficiente mostrare come tale quadro fornisce piena legittimità alla proiezione della prospettiva testualista sulle pratiche, ma estende nel contempo il numero delle prospettive esplicative, per cui vale anche al contrario: si può assumere una prospettiva sociosemiotica sulla testualità, e così via. La posta in gioco non è affatto quella di adibire una macchina teorica in grado di produrre banalmente delle prospettive diversificate: il quadro della teoria ambisce a porsi come quadro della cultura vissuta, elaborata ed agita. Parallelamente, dovremmo distinguere un agire esperito (vissuto), un agire rifigurato/tesauriz- 225 zato da testi e un agire socio-coordinato. Una volta distinti, dovremmo vedere come ciascuno si riapplica agli altri. Le reti culturali non sono configurazioni rizomatiche di rinvii, ma applicazioni ricorsive di prospettive l’una sull’altra: ciò spiega la loro natura multidimensionale. 2.3. Tre cardini problematici per una semiotica delle pratiche Le pratiche non sono riducibili al fare: per prima cosa il fare non esiste che sotto qualche descrizione, qualche messa in prospettiva (osservazione di primo ordine). In secondo luogo, le pratiche non accettano di ridurre la deliberazione, che sta alla base dell’iniziativa ad agire, a mero calcolo (come voleva Aristotele, con il suo sillogismo pratico). La pratica non può ridursi a previsione e intenzione finalistica dato che consiste in quanto tale (a monte e a valle dell’agire) solo lungo il monitoraggio della sua sensatezza (osservazione di secondo ordine sulla significazione). Ogni scopo, ogni fine non si autogiustifica, cosicché la pratica si trova soggetta a un ordine di motivazioni il cui senso rimane questionabile (re-interrogabile) all’infinito. Nella riproposizione di un quadro teorico delle pratiche ci occuperemo sostanzialmente di tre questioni: a) il movente; b) l’osservazione di secondo ordine, e in particolare l’auto-osservazione; c) la tenuta nel tempo delle valenze (intese come valere dei valori) in mancanza di un loro fondamento ultimo. Tali questioni sono strettamente interconnesse e si pongono al cuore delle difficoltà affrontate anche dagli altri sguardi disciplinari nel momento in cui si sono confrontati con le pratiche. 2.3.1. Il movente. (i) Per prima cosa il movente diviene problematica centrale di una semantica dell’azione nel momento in cui viene riconosciuta la non sovrapponibilità tra la nozione di causa (l’agency causativa) e quella di motivo (l’agency motivazionale). (ii) Se questa divaricazione ha impegnato la filosofia analitica dell’azione, meno tematizzata è stata la distinzione tra ragione e motivazione. Il quadro di senso dell’agire non si esaurisce né nel puro ordine dell’intervento causativo, né in quello della razionalizzazione strategica. La sensatezza, quale ordine di motivazioni date nel tempo, esplicita come nelle pratiche non sia in gioco solamente la trasformazione di valori sotto la guida di una programmazione razionale (previsioni, procedure, strategie, ecc.): è in gioco, infatti, anche la giustificazione (il perché dell’agire) rispetto a un quadro di possibilità aperte (le alternative in memoria e gli effetti sul breve o sul lungo periodo). (iii) In terzo luogo, assistiamo a un altro passaggio qualitativo tra motivazione e movente; ciò dipende dalla centralità che assume il ruolo della decisione e dell’iniziativa. Il movente è una motivazione che non solo “viene chiamata in causa”, ma che si pone anche come fonte di mobilitazione. In questo senso, il movente drammatizza il passaggio all’azione e può affidare un ruolo all’emozione nella presa di iniziativa, anche “accecando” le poste destinali. Il desiderio, accampato come movente, è tale perché è “ragione 226 d’agire” almeno quando si pone come “forza” che spinge a fare, che riempie, eventualmente, lo iato tra programma e azione, ossia si sostituisce alla decisione. La mozione del volere è in ogni caso tutt’altro che auto-assolvente, questiona l’identità del soggetto aprendo l’interpretazione della sensatezza dell’agire ancora a nuove, più recondite ragioni. 2.3.2. L’auto-osservazione. Le pratiche umane si contraddistinguono perché ogni corso d’azione non solo viene soppesato nei termini di “cos’è meglio, cos’è preferibile?”, ma anche interrogato rispetto alla domanda: “che cosa significa adottare tale condotta?” Il fatto che le pratiche, oltre a trasformare, ci trasformano può essere opportunamente colto nei termini di una osservazione di secondo ordine sul proprio e altrui agire. Si osserva, cioè, “l’agire guidato” e le traiettorie di senso in tal modo gestite, rendendo la semantica dell’azione altrimenti accessibile. Questa demoltiplicazione degli accessi al senso è propria dell’interpretazione. Essa si regge sempre su un’osservazione di secondo ordine che consente una re-interrogazione del senso agito e l’apertura di un quadro eristico: il valevole apre sempre un contenzioso. 2.3.3. La tenuta del senso nel tempo. Il valevole interpretato si ritrova assoggettato al divenire e al pericolo di desemantizzazione. La pratica sensata non nasconde la sua precarietà e quindi risponde (ossia deve offrirsi essa stessa come risposta possibile) al deficit di fondazione dei valori, e quindi del senso. La sensatezza di una pratica si dà solo fintantoché un ordine di motivazioni reggono nel tempo come valevoli (per il soggetto dell’agire) o quantomeno risultano significative (per un soggetto osservatore esterno). Per questo, la pratica ha come orizzonte la gestione stessa del senso. Ecco allora che, focalizzandoci sulle pratiche, non solo passiamo dalla semantizzazione di una configurazione all’attività configurante, ma cogliamo anche quest’ultima come dipendente da una gestione tentativa del senso. 2.4. Una revisione della nozione di narratività Alcune nozioni generali della semiotica vengono ridefinite da questo quadro problematico, a cominciare da quella di narratività. Parlare di narratività significa immediatamente radicarsi all’interno di un regime d’auto-osservazione dove l’autoascrizione dell’esperire e dell’agire non è più procedura cognitiva scontata e il senso non è più paesaggio ininterrogato (non questionato) di disponibilità/indisponibilità di valori. La narrativizzazione pertiene all’inevidenza, all’emergere della consapevolezza delle connessioni mancanti e della fondazione forzatamente precaria del valere dei valori. La narrativizzazione dell’esperienza è pratica discorsiva che “si prepara” a sopperire alle lacune di senso e a ricostruire una coerenza minima della traiettoria esistenziale dei soggetti e delle loro identità. In questa prospettiva, si rigiustifica la sudditanza dell’intenzionalità agentiva alla narrativizzazione configuratrice dell’esperienza. Come ha rilevato insospettabilmente John Searle, troviamo delle lacune di senso ovunque: tra l’intenzione 227 precedente alla realizzazione dell’azione e l’intenzione-in-azione, da un lato, e tra quest’ultima e le motivazioni della continuazione dell’agire, dall’altro. Il configurare narrativamente il senso è l’unico modo per gestire un quadro di snodi che fungono da conversione del valere dei valori e ricercano singolarmente un quadro di motivazioni, o persino un movente. La narratività non si regge quindi su un principio di immanenza (su una chiusura e una determinazione), ma sulla gestione stessa del senso rispetto a pratiche che scendono a patti con lacune, con punti ciechi del progettare, del decidere, dell’agire. Se si può parlare ancora di immanenza essa è quella che si declina secondo una serie di accoppiamenti; tra soggetto e ambiente, attore sociale e spazio istituzionale, fruitore e testo. All’interno del quadro teorico qui disegnato risuonano alcuni temi peraltro classici, e attestati per esempio in Lotman: a) la strutturazione delle pratiche e dei domini di una cultura va di pari passo con la dinamica irrequieta di quest’ultima, dato che essa cerca di far fronte all’incolmabile non-finitezza (Lotman, Uspenskij 1975, p. 59) della sua costruzione di forme, saperi e fondamenti: parlare di pratiche significa assumere la cultura come un cantiere aperto; b) ad ogni bivio decisionale incontrato le pratiche tengono in memoria e custodiscono come sfondo archeologico della propria traiettoria di semantizzazione i cammini non intrapresi (Lotman 1993, 78 e ss.). Ecco allora che l’interpretazione comincia a rielaborare il senso dell’azione intrapresa secondo una prospettiva di risonanze paradigmatiche; c) in un quadro intersoggettivo, la semantica delle pratiche dipende sempre da un ordito, da un va e vieni tra, da una parte, le ascrizioni di ruolo (in ragione del comportamento attestabile degli attori coimplicati) e, dall’altra, prensioni analogizzanti dell’altrui esperienza corporale, emotiva, decisionale (Lotman, 1993, p. 52 e ss). Le pratiche sono il fronte della semiotizzazione; nell’auto-monitorarsi, una pratica non solo gestisce il senso della sua attività configuratrice, ma stabilisce punti di frontiera della semiotizzazione, espungendo dalla propria auto-organizzazione ciò che Lotman chiamava appunto l’extrasemiotico. 2.5. L’esempio della provocazione Abbiamo detto come la pratica non si riduca al semplice fare, e non si limita neppure alla produzione di effetti provocati da una presa di iniziativa. La pratica non si pone nemmeno, in tal senso, come una mera negazione di passività. La pratica si reclama, si autodestina a una validazione, si auto-osserva come commisurata a certi moventi e a una certa tenuta delle valenze su cui opera. Prendiamo come esempio la provocazione. Colui che viene provocato tende a denegare anticipatamente la propria responsabilità riguardo una sua eventuale risposta (“non rispondo delle mie azioni”). Ora, le migliori e più interessanti provocazioni sono quelle fini a se stesse; esse non consentono che la deresponsabilizzazione della reazione altrui possa passare per un mero trasferimento di responsabilità all’iniziativa del provocatore. La pura 228 provocazione è sempre un colpo di genio nichilista: si “chiama allo scoperto” l’altro cercandone una risposta che travalichi forze e determinazioni modali inibenti. Per fare ciò, si cerca di dare sufficiente motivazione al provocato affinché deprogrammi la propria competenza e la propria moralizzazione dell’agire, solo che tale motivazione è un’offerta di senso surrettizia senza doppio fondo. Vale a dire, cedere alla provocazione è rimanere irretiti da una motivazione alla reazione che non può reggere a un teatro del valore più vasto dell’angusta sfida, fine a se stessa, in cui ci si imbattuti. Soprattutto, l’offerta di senso della provocazione si estingue reagendovi. È questo stesso esito a giustificare il programma del provocatore, per il quale non ha prezzo la conquista di pertinenza di un teatro intersoggettivo del valore bilateralmente riconosciuto; non badando a spese, è pronto a condividere un’“estinzione del senso” accampato. Dovremmo maggiormente esplorare tale estinzione, dato che in vista di essa possono comunque concrescere e alimentarsi la sensatezza dell’agire strategico del provocatore e quella della risposta tatticamente devolutiva del provocato (costui reagisce anticipando di non rispondere di ciò che farà). Una volta innescata e accettata la provocazione, l’asimmetria delle rispettive posizioni può essere tentativamente rigiocata - per quanto risulti una partita bilateralmente “disperata” - a favore del provocato; se il provocatore gode finalmente di un teatro del valore comune, per quanto rimasto “a secco” (in effetti, la riconquista di una determinazione identitaria per confronto paradigmatico si dà nel mentre essa appare come non qualificata e non qualificante, ossia mediocre), il provocato può profittare dell’estinzione del senso nel prodursi della sua reazione per annoverare tacitamente un dead point della ricorsività interpretativa. “Non rispondo delle mie azioni” non è banalmente dire “sarà tutta colpa tua”, bensì la reazione non avrà ulteriori determinazioni di senso oltre il quadro interpretativo della provocazione da cui si è “sensatamente” partiti. La reazione del provocato parte da una interpretazione della situazione e da un quadro di senso: estinguendosi quest’ultimo (la provocazione era fine a se stessa), non vi è spazio per ulteriori accessi al senso di quanto si è agito. Insomma, il provocato mirerebbe a essere vinto dall’emozione in pace con sé stesso valendosi della conflittualità disperata e nichilista dell’altro. Il problema è se trova pace - e non necessariamente per la “rovinosa” comparsa sulla scena di un ruolo attanziale terzo che reinterpreta l’accaduto e giudica. Vediamo. Il provocato annuncia che il gioco non lo appassiona, ma che si predispone ad agire in preda all’onda emotiva, nel mentre tale reazione si pensa come non ascrivibile alla sua forma di vita proprio perché gli appare lecito che l’emozione “travolgente” non sia ulteriormente interpretata, ossia non venga letta come una passione che lo individua. È invece il provocatore che dovrebbe rimanere nudo con la passione che lo ha evidentemente mosso. Ma se la provocazione è un gioco sempre di moda è proprio perché l’esito è sempre incerto: e tale incertezza è tale perché entrambi i contendenti mirerebbero a uno “stallo” del senso, tant’è che in qualche modo vanno d’accordo (stanno al gioco). Solo che il senso “dato” o “estinto” non è mai senza ulteriore destino: ciò che si è agito viene inevitabilmente riquestionato, perché il regime delle valenze, per l’uomo, è la sensatezza, ossia un ordine di motivazioni che devono reggere il 229 tempo. Per trovar pace, non c’è archiviazione che tenga; l’unica via d’uscita è la rimozione di una provocazione (o di una risposta ad essa) di troppo. 3. LE PRATICHE: DELIMITAZIONI DI UN OGGETTO DI STUDIO E PROBLEMATICHE APERTE 3.1. Prassi, procedure e protocolli di fronte all’escogitazione Dopo le sollecitazioni che abbiamo tratto dall’indagine precedente, è ora di dividere alcuni punti fermi della nostra argomentazione accanto a questioni che emergono nella loro difficile trattabilità semiotica. Vediamo. Cercando di evidenziare alcuni dei perni fondamentali della pratica, ne presentiamo qui i termini oppositivi, lasciando sottointese le posizioni intermedie. La pratica ha: a) come spazio dell’iniziativa: uno scenario figurativo mediazionale (“terreno di gioco”) che sottende una dialettica tra valori già operanti e valori operabili; b) come propri limiti preparatori: l’escogitazione o il protocollo; c) come quadro d’innesto: la decisione o l’emozione; d) come quadro ermeneutico: il movente o la legge. Tali assi prassici sono fortemente interconnessi: i) la pratica dipende da una strategia o da una tattica escogitata, a seconda del fatto che il soggetto che la intraprende detenga o meno l’iniziativa (tra cui l’aver scelto il territorio di valori su cui operare); ii) la pratica diviene prassi per potenzializzazione, procedura per convenzionalizzazione, protocollo per autovalidazione di sé come parametro di razionalità. L’indebolimento dell’escogitazione che procede dalla prassi verso i protocolli è inversamente proporzionale alla plasticità dell’agire e al monitoraggio degli effetti prodotti. Più è protocollare l’agire, più esso diviene “esibizione di buone intenzioni” (Luhmann) e cecità rispetto ai caratteri incidentali dello scenario in cui opera; iii) più si va verso la prassi e la procedura, più l’agire depotenzia il ruolo delle emozioni e passa dalla drammatizzazione della decisione locale all’affidamento a pronunciamenti distali nel tempo e nello spazio (le leggi promulgate responsabilizzano gli attori sociali solo in vista del loro rispetto); iv) anche la pratica più idiosincratica patteggia la propria sensatezza entro un arco ermeneutico che connette il proprio movente con la legge. L’escogitazione può interessare non solo la prospettiva d’intervento, ma anche la costituzione stessa di un ruolo, al di là della distribuzione delle posizioni attanziali previste istituzionalmente; essa può prevedere, cioè, una rideterminazione del “terreno di gioco”, enfatizzando con ciò la natura esplorativa della pratica, nonché giocare talora a proprio favore il rischio di una opacizzazione dello scenario intersoggettivo (es. le pratiche di raggiro). Dalla pratica escogitativa al protocollo, si assiste sempre e in ogni caso a un monitoraggio delle valorizzazioni, in cui tutti gli scenari predicativi testua- 230 lizzati si prestano a divenire orizzonte di controllo, mappa possibile del corso d’azione (dal libretto di istruzioni a un volume di filosofia). Vale a dire che i dispositivi discorsivi non solo realizzano degli atti (i performativi), ma si offrono come modellizzazione disponibile dell’agire comunicativo. Di fatto, ogni agire è comunicativo, nel senso che, ben al di là di qualsiasi solipsismo intenzionalista, ogni pratica è co-gestita rispetto alla sua sensatezza. I partner semantizzano l’agire osservandosi come soggetti di semantizzazione: Dean and Juliet MacCannell (1982), per quanto distanti dalla nostra impostazione, parlavano significativamente, a questo proposito, di second semiotics. La ricorsività di tali osservazioni viene talvolta additata come negoziazione del senso, ma in realtà non vi è affatto bisogno di un carattere esplicito della cogestione del senso, né di un qualsivoglia razionalistico principio regolativo, come quello di tendere verso l’intesa (Habermas). Piuttosto la contingenza dell’intendere dell’uno e la contingenza dell’intendere dell’altro è esattamente ciò che infine fa sistema: un sistema di prospettive incrociate in cui un partner include nel proprio orizzonte di senso la possibile prospettiva di semantizzazione dell’altro e viceversa3. Questo continuo passaggio di prospettive che si autoincludono ricorsivamente sono il sigillo dell’interpretazione come tentativo di accedere al senso sempre altrimenti; e l’interpretazione così come cerca di porre rimedio alla distribuzione ineguale delle valorizzazioni, essendo radicate in prospettive distinte (la propria e l’altrui), si ritrova inevitabilmente a riproporre nuove ineguaglianze qualitative (l’interprete dice: “ora ho inteso meglio, o persino meglio dell’altro”). 3.2. Senso e destinalità nelle pratiche Quanto sostenuto nel paragrafo precedente è sufficiente per mostrare come una semantica delle pratiche sia funzione dell’emergenza di un quadro sociale della gestione del senso. Non c’è pratica senza osservazione di secondo ordine ed essa non ha senso senza una relazione con un aspetto paradigmatico (ethos) e un aspetto sintagmatico (habitus). La pratica non opera solo su valori, ma distribuisce valorizzazioni ineguali tra soggetti coimplicati, assegnandosi fin dal suo esordio alla moltiplicazione degli accessi al senso, intersoggettivamente e nel tempo. Se ciò è garanzia di sufficienti disequilibri nel tempo4, favorevoli a una vita della significazione (risemantizzazioni), dall’altro lato tale moltiplicazione di accessi al senso è sopportabile solo a patto di ridurre la complessità; di qui il ruolo di grammatiche e testi. Quanto alla significazione in atto, il senso prassico non si realizza, ma si destina: a questo proposito ricordiamo come i modi di esistenza in Peirce siano significativamente il virtuale, l’attuale e il destinale. Ogni determinazione di senso transita per il proprio futuro, e si pone come 3 4 Si veda la nozione di doppia contingenza in Luhmann (1984) e la sua idea che la fiducia nell’intendersi è funzione della riduzione della complessità; si tratta di instaurare significative relazioni malgrado quozienti alti di indeterminazione, rispetto al nuvolo di possibilità in gioco. Le pratiche contano sulla variabilità del divenire dei valori, almeno tanto quanto aspirano a una tesaurizzazione delle valenze: non viene a caso allora l’uso del termine “gestione”. 231 destino, come affidamento al suo reggere nel tempo e per altri. Ogni pratica si regge sulla precettazione destinale di un orizzonte di senso atto a gestirne la significazione, o meglio la significatività, il suo valere per qualcuno. 3.3. Semantizzazione dall’interno ed estroversione Una difficoltà insormontabile per uno studio semiotico delle pratiche sarebbe dato dal fatto che, rispetto all’accoppiamento strutturale soggetto/mondo-ambiente, esso si troverebbe a indagare il fascio di semantizzazione che va dall’interprete verso le configurazioni, e non quello contrario, quello cioè che coglie il tentativo dei testi di mappare e guidare un percorso di senso modellizzando una soggettività che vi si articoli. Il rischio è quello di una deriva psicologistica e di una inattingibilità dei vissuti di significazione. Ma è proprio l’autoinclusione reciproca della prospettiva altrui e il problema di ridistribuire prospettive di valorizzazioni ineguali tra i co-agenti che infine esteriorizza la significatività differenziale dell’agire. La significazione estroversa della pratica è data dal suo potenziale comunicativo e autocomunicativo. “Guidare” una pratica attraverso una certa condotta significa porsi nell’immanenza di un sistema di osservazioni di secondo ordine. La necessità di una riduzione della complessità, ossia della infinità dei sensi reclamabili, nonché il socio-coordinamento dell’agire rispetto a una tempistica dell’intervento, offrono un altro quadro esplicativo alle mediazioni semiotiche: dai codici alla produzione di simulacri, dalle protesi alle leggi. 3.4. L’ansia della sensatezza socialmente impercepita Il soggetto agente, per mostrarsi decisivo, deve avere un orizzonte di senso in qualche modo decidibile: egli si offre al rischio della (in)sensatezza, meno a quello della mancata posta di semantizzazione ab origine: di ogni intervento reclama almeno il senso della propria iniziativa, se non della propria efficacia. L’ansia provocata da una posta di significazione suscettibile di restare socialmente impercepita si manifesta in tutte le pieghe metacomunicative dell’agire. Ecco che qualunque pratica è ritenuta suscettibile: a) di manifestare un monitoraggio di sé stessa; ogni conversazione, ad esempio, presenta sempre delle pieghe metaconversazionali in cui si cerca di controllare l’interazione in corso e la sensatezza del proprio “intervenire”; b) di emanciparsi dalla configurazione del comportamento, malgrado lasci trapelare la propria condotta; vale a dire, tra l’informatività del comportamento e la strategia comunicativa c’è sempre uno iato, dato che la pratica include la prospettiva del partner comunicativo, prevedendone le risposte. Ciò spiega perché, anche sul piano delle pratiche, l’identità si costituisca sempre sul piano dei simulacri proiettati, ossia all’interno del cantiere della soggettività discorsiva (l’identità è sempre un’identità narrativa, ma che nasce all’interno della circolazione e del patteggiamento intersoggettivo dei simulacri). Paradossalmente, un piano meta-osservativo procede a una narrativizzazione dell’agire che tende ad espropriare la sensatezza dal quadro effettuale delle relazioni, per assegnarlo - direbbe Goffman - alla stratificazione di frame e ai footing che li avvicendano. 232 3.5. Pratiche e forme di mediazione La semiotica, uscendo dall’immanenza delle configurazioni testuali, si trova di fronte alla semiotizzazione stessa, all’attività configurante e a tutto lo stuolo di mediazioni che preformano la cultura. Uscendo dal confino testuale, la semiotica trova rimotivata la propria concezione del senso come trasformazione di valori da gestire nel tempo, di narratività quale tentativo di suturare conversioni assiologiche e lacune motivazionali. Inoltre, si trova a restituire pienamente un ruolo predominante alla lingua agita, alla parole ed ad affiancare al paradigma differenziale la persistenza della differenziazione. La pratica è un processo di significazione cogestita e sottesa da ruoli attanziali tra loro asimmetrici, almeno ad un qualche livello. Essa ha una tensione configurante che asintoticamente reclama una chiusura, ma in realtà essa è sempre costantemente riaperta, sia dalle osservazioni di secondo ordine, sia dalla desemantizzazione dipendente dal divenire (se non è il proprio/altrui punto di vista a traslare, è il mondo-ambiente pertinentizzato che passa da uno stato all’altro). L’imperfettività della chiusura semantica porta poi ogni pratica a dover rendicontare nel tempo la mancanza di un fondamento certo ai moventi e agli effetti. Tutte le pratiche sono mediate: tale mediazione non è solo protesica, come nel caso degli oggetti, ma anche linguistica. I linguaggi aumentano le possibilità di riflessività ricorsiva dell’agire socio-coordinato (mediatizzazione), mentre la medialità, ossia l’esercizio dei media, consente un’emancipazione della gestione del senso dal contesto percettivo dove gli interlocutori rispettivamente si collocano. I domini (l’arte, la religione, il diritto, la scienza, ecc.), a loro volta, mediano (mediumalità) la tenuta nel tempo delle valenze, cercando di rendere periferica l’interrogazione del loro fondamento e autonoma la forma della loro surrogazione, attraverso l’istituzionalizzazione e la differenziazione (Basso, 2002; 2005). 4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE E PROSPETTIVE DI RICERCA Lo spazio teorico per una sociosemiotica non è affatto dubbio. Essa si pone a superamento della concezione della pratica come mera praxis potenzializzata dalla memoria culturale o per contro come proairesis (ragione psicologica d’agire). In un qualche modo, la sociosemiotica deve ambire a collocarsi a livello della saggezza pratica, della phronesis, che inquadra l’agire come intersezione di calcolo, desiderio e iniziativa. Ma ciò non basta ancora. La semantica ha evaso problemi affidandoli come proprio scarto alla pragmatica e la pragmatica ha spesso derubricato dallo studio di credenze, intenzioni, regole, massime conversazionali il problema della gestione del senso. Attestando le prassi invalse, e il pericolo rappresentato dalla loro violazione, la pragmatica ha disegnato un orizzonte irenico delle comunicazione e l’ha depauperata in larga parte delle poste semantiche che stanno alla base della metacomunicazione e del monitoraggio interno a ogni pratica. Per contro, la semantica dell’iniziativa non si dà se non nell’ineludibile, imminente contropiede. Non decidere è essere infine decisi. Decidere secondo 233 legge è conciliare il deciso con il decidibile. Tuttavia, anche in questo caso l’iniziativa tende a riguadagnare una propria drammatizzazione; basta un’autoosservazione ed ecco che anche la decisione più “istituzionale” è suscettibile di essere riletta come a suo modo decisiva. Il risultare decisivi è ciò che rende la decisione stessa desiderabile, quanto temibile. L’iniziativa propria ad ogni pratica può scegliere tra optare per il decidibile istituzionalizzato, e quindi assumere la parvenza di una preservazione della totalizzazione razionale di un sistema sociale inglobante, oppure escogitare una propria decisività, e di conseguenza costituire un nuovo sistema tentativamente chiuso (ha i propri moventi), ma che non consente più un quadro di totalizzazione. In quest’ultimo caso, la pratica non vanta più appoggi nelle prassi consolidate, responsabilizza l’agente e dovendo trovare motivazioni pronte a reggere nel tempo finisce per volersi proporre a sua volta come soluzione archiviabile (e rigiustificabile a posteriori) come condotta sensata. Per quanto le pratiche dipendano da forme di organizzazione sociale gerarchicamente superiori, esse sono il luogo topico di una cultura, tanto che la rendono irriducibile a una grammatica generale, a un sistema di codici o a una enciclopedia ordinata e coesa di testi. La cultura è tale in quanto polemologicamente agita e la sua semantica possiede il formato di una rete relazionale di risorse da gestire. L’applicazione di tali risorse è ricorsiva e posta in gioco rispetto a qualsiasi iniziativa, cosicché non è tanto la risorsa ad essere individuata a fini funzionali, ma le funzioni a dipendere da un paesaggio semantizzato. La pratica può innestarsi solo in un paesaggio figurativo minimamente stabilizzato, ossia un paesaggio inter-attanziale, incorporato e intersoggettivo, ma questo si costituisce solo all’insegna di un’ecologia delle relazioni, tarata sulla individuazione di salienze e sull’elezione di pregnanze. Ecco allora che nelle pratiche il differenzialismo e la determinazione in negativo dei valori propri delle semiotiche linguistiche divengono operazioni in positivo di dissimilazioni, di distinzioni e di distribuzioni ineguali delle valorizzazioni. Se le pratiche divengono un oggetto teorico legittimo di prospettive semiotiche diversificate, l’approccio sociosemiotico deve specificarsi uscendo dal confino testualista. Solo la scarsa riflessione semiotica sulla decisione meriterebbe opportuni supplementi di ricerca e una specifica di “sguardo”. Ma più in generale i problemi che abbiamo cercato di “agitare”, affinché possano palesarsi in superficie, richiedono l’elaborazione di un metodo di indagine. L’obiettivazione sotto qualche descrizione di situazioni, scenari, pratiche ha arrovellato discipline con molta più tradizione della semiotica, e quest’ultima non può certo permettersi di profilare un proprio contributo deproblematizzando questo nodo metodologico preliminare. Sul piano dei modelli teorici, l’ambizione di pervenire a una modellizzazione generalizzabile delle pratiche deve essere sottoposta a opportuna riflessione critica. Se la testualità è esattamente un oggetto che esemplifica al meglio un tentativo di chiusura relativa e di stabilizzazione configurazionale della significazione, le pratiche, comprese quelle della semiotica, si trovano a dover gestire il senso lungo snodi che lo riarticolano costantemente. 234 Accanto a un’opportuna organizzazione concettuale per interdefinizioni, la semiotica può procedere, rispetto alle pratiche, solo all’esercizio di un’indagine articolata su un fascio di caratterizzazioni. Tali caratterizzazioni hanno il compito di “scolpire” le sfaccettature dell’agire sociale, partecipando alla sua intelligibilità e, quindi, non ultimo, al suo divenire. Non avendo qui il tempo di sviluppare argomentativamente questo delicato punto ci limitiamo a una laconica presentazione sinottica in grado di fungere, tutt’al più, da mappatura di una possibile ricerca. OSSERVAZIONE DI OSSERVAZIONE DI PRIMO ORDINE SECONDO ORDINE SULL’AGIRE SULL’AGIRE partizione topologica, mereologica territorio terreno di gioco Asimmetrizzzione del controllo sulle variabili valoriali ineguaglianze competenziali dominanza risorse d’aggregazione o di gerarchizzazione Asimmetrizzazione della distribuzione valoriale ineguaglianze qualitative motivo motivazione movente Mobilitazione del quadro interattanziale tensioni trasformative calcolabilità prefigurativa istruttoria casistica (protocollo vs escogitazione) Risoluzione all’agire convogliamento di forze impulso decisione Assunzione di ruolo punti singolari intervento iniziativa Performance di ruolo traiettoria comportamento condotta Informatività riconfigurazione risultato efficacia Memoria paradigmatica configurazionale perizia classificatoria e traspositiva di esperienze elaborazione di modelli di e di modelli per Applicazione dei saperi quoting framing footing ASSI DI SCENARIO CARATTERIZZAZIONE INTER-ATTANZIALE Delimitazione del quadro valoriale in trasformazione 235 Se assumiamo come esempio il rito, ecco che tale mappatura ci permette di discriminare invarianti definitorie e variabili specifiche, ma anche le tensioni interne tra osservazioni di primo grado e di secondo grado. Per restare a qualche nota puramente esemplificativa, potremmo qui rilevare come il rito comporti: 1. una rideterminazione elettiva di uno spazio come terreno di operazioni simboliche; ciò comporta sempre una osservazione di secondo ordine sulla disponibilità dei tratti territoriali a fungere fittivamente da ancoraggio a operazioni discorsive; qualsiasi accidentalità imprevista è deliberatamente trascurata e percepita come potenzialmente dissolutrice della “serietà” del gioco profondo che è il rito (a meno che non sia assunta come manifestazione trascendente, il che qualifica paradossalmente il rito come efficace); 2. una risemantizzazione dei ruoli sociali di dominanza nei termini di una riaggregazione e ridistribuzione di ruoli che si ancorano a un piano trascendente; 3. ciò comporta che la motivazione che può eventualmente spingere a esercitare il rito deve ritradursi in un motivo non ulteriormente questionabile (l’asimmetria della distribuzione valoriale è creduta essere detenuta da istanze trascendenti); si passa così a un’osservazione di primo ordine; 4. il coordinamento dei partecipanti al rito tende ad assumere la forma di un protocollo, perché in sé stesso, e nella sua globalità, è una soluzione di un nodo valoriale, foss’anche la sua semplice celebrazione; 5. il rito sgrava il peso della decisione, e può facilmente prodursi per atti ad impulso programmato, dato che esso può prevedere l’asemanticità locale dei singoli gesti che lo portano a realizzazione; ecco allora che la gestione del senso lungo la sua realizzazione è “schermata”; 6. il rito affida il problema dell’intervento a scansioni ritmiche e a forme di iterazione, che tendono a de-drammatizzare la questione di una presa di iniziativa; in questo senso, esso tende ad esemplificare il chiasma tra aisthesis sociale e socializzazione del sensibile; 7. il problema della performance di ruolo si traduce in un’assunzione di ruolo caratterizzata da una desoggettivazione, la quale può prendere la via della mera prestazione del proprio officio, o quella della compulsività del gesto; 8. l’informatività del rito non si basa su un’effettualità risultativa immediata (ciò sarebbe troppo rischioso per la propria economia semantica nel tempo), ma su un’efficacia che seleziona autonomamente il proprio livello di pertinenza; ciò consente al rito non solo di avere un fondamento distale (ossia afferente a una trascendenza), ma anche una imponderabilità della sua efficacia immediata, dato che è potenzialmente sempre rinviabile a livelli di pertinenza imperscrutabili; 9. il legame tra memoria culturale e rito è tale che esso si tramanda sempre anche come modello di essa, cosicché l’esercizio del rito ha sempre un controeffetto sulla solidificazione della tenuta identitaria di una comunità; la periodicità del rito è in tal senso funzionale anche alla sottolineatura della sua memorabilità; 236 10. il rito inaccetta la contiguità marcata con altre pratiche; tende a demarcare la propria delimitazione, anche temporale perché deve essere un momento d’eccezione nell’habitus e una sintesi intensiva dell’ethos; in tale prospettiva esso tendenzialmente mal sopporta ogni osservazione di secondo ordine sulla possibilità di cambiare di frame, di cornice significante alla pratica in atto; di per sé stessa, l’attualizzazione di tale possibilità squalifica o ironizza il rito stesso. Se ribadiamo che non abbiamo nessuna pretesa definizionale del rito (esso deve basarsi su studi di corpus), non meno vorremmo qui mostrare come una prospettiva che proceda per fasci di caratterizzazione assuma una prospettiva interpretativa che è quella necessaria per una semiotica della pratiche. L’interpretazione, infatti, non è che un’osservazione di secondo ordine sulla significazione, cosa che qualifica l’elaborazione culturale. Ma c’è anche un altro portato di questo breve tratteggiamento del rito; significazione e comunicazione si dimostrano dimensioni coalescenti e non gerarchizzabili delle relazioni sociali e la gestione del senso ha un assetto che non può essere disgiunto da queste ultime. Insomma, se una semiotica delle pratiche può essere chiamata “sociosemiotica” è perché una teoria delle società le è consustanziale. L’instabilità del senso è in primo luogo il riflesso della precarizzazione destinale individuale e dell’organizzazione sociale, e della loro dialettica. I principi di razionalità semiotica (a cominciare dallo stesso configurare senso), nonché la pratica disciplinare stessa in quanto tale, non possono non confrontarsi con l’ecologia della significazione che i sistemi sociali adibiscono. Far luce sulla co-gestione del senso significa elaborare un modello di semantica sociale che possa davvero confarsi al paradigma programmatico di una semiotica delle culture. 237 Bibliografia Basso, Pierluigi 2002 Il dominio dell’arte, Roma, Meltemi. 2003 Confini del cinema, Torino, Lindau. 2004a “Peirce e la fotografia”, Dispense del corso di Semiotica della fotografia (Università di Bologna); ora in P. Basso - M.G. 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