La fête en mouvement dans l`arc alpin occidental

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La fête en mouvement dans l`arc alpin occidental
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
ACTES DE LA
CONFÉRENCE
ANNUELLE
SUR L’ACTIVITÉ
SCIENTIFIQUE
DU CENTRE D’ÉTUDES
FRANCOPROVENÇALES
LA FÊTE EN MOUVEMENT
D A N S L’ A R C A L P I N
O C C I D E N T A L
S A I N T - N I C O L A S
13-14 DÉCEMBRE 2008
Région Autonome de la Vallée d’Aoste
A s s e s s o rat d e l ’ é d u c at i o n e t d e l a c u lt u r e
Assessorat de l’éducation
et de la culture
Assessorato istruzione
e cultura
Préparation et mise en page de l’ouvrage
Rosito Champrétavy
Révision des textes
Les auteurs
Photos
Diego Pallu - Châtillon (Aoste)
© 2009
Région Autonome Vallée d’Aoste
1, place Albert Deffeyes
11100 Aoste
www.regione.vda.it
Copie hors commerce
Hommage de la Région Autonome Vallée d’Aoste
Assessorat de l’éducation et de la culture
ACTES DE LA
CONFÉRENCE
ANNUELLE
SUR L’ACTIVITÉ
SCIENTIFIQUE
DU CENTRE D’ÉTUDES
FRANCOPROVENÇALES
LA FÊTE EN MOUVEMENT
D A N S L’ A R C A L P I N
O C C I D E N T A L
S A I N T - N I C O L A S
13-14 DÉCEMBRE 2008
Préface
Laurent Viérin
Assesseur à l’éducation et à la culture de la Région autonome Vallée d’Aoste
La fête est certainement née avec l’homme. Depuis que les sociétés humaines se sont
organisées, elles ont ressenti la nécessité d’interrompre la routine des jours qui se suivent
avec des pauses festives, quand la communauté se retrouve pour s’amuser en compagnie, pour boire et manger, pour faire de la
musique, bref, pour resserrer les liens interpersonnels, suivant le rituel ancestral. Ce
modèle de fête est entré en crise avec l’affirmation de la société industrielle et l’éclatement du système social traditionnel, fondé
sur l’humus paysan.
Après la seconde guerre mondiale, de
nouveaux rituels, à vocation plus universelle,
impliquant parfois des foules immenses, opportunément médiatisés, souvent commercialisés, ont progressivement influencé, modifié, voire remplacé les anciens.
Mais avec la postmodernité de la fin du siècle passé, de nouveaux ferments se manifestent. Les manifestations de masse ne satisfont plus une partie importante de la société
qui part à la redécouverte d’anciennes fêtes. De quelques-unes au moins : le carnaval, les
représentations théâtrales de village et de rue, certaines fêtes patronales, voire même des
processions religieuses. Certaines fêtes anciennes semblent renaître et, au fil des années,
elles redeviennent vigoureuses.
Voilà donc que de nouvelles questions se posent : elles viennent du monde scientifique mais aussi des personnes ordinaires, attentives aux signaux sortant de la société.
Pourquoi ce retour à l’ancien ? S’agit-il vraiment d’un retour ? Quelles sont-elles les nouveautés ? Comment s’imposent les changements ? Et puis encore…
C’est pour essayer de répondre à ces questions que nous avons voulu organiser, en
collaboration avec le Centre d’Études francoprovençales “René Willien”de Saint-Nicolas,
deux journées de colloque. Des spécialistes : ethnologues, historiens, sociologues, réunis
dans le décor, majestueux et familier à la fois, du Centre de Saint-Nicolas, nous parleront
de la fête dans les alpes occidentales, dont notre vallée fait partie et, plus particulière5
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
ment, de la fête en mouvement, comme le titre du colloque le souligne. Élément de la
tradition, la fête change, évolue, s’adapte aux exigences modernes, comme la tradition.
Le programme de ces rencontres est riche et stimulant. Il nous propose des cas exemplaires étudiés en profondeur et des théorisations originales sur les phénomènes étudiés qui
nous permettent de mieux comprendre et d’interprèter.
Je suis sûr qu’il répondra tout à fait aux attentes du public qui participe à cette
Conférence Annuelle du Centre. Comme d’habitude, la présence de spécialistes valdôtains permet à notre Vallée de s’insérer dans un débat international et de prendre place
dignement dans l’univers scientifique. C’est de la confrontation que les idées se parfont,
que les connaissances avancent et que les communautés s’enrichissent culturellement.
Ce qui est dans les objectifs du Centre d’Études et qui est aussi en pleine syntonie avec
les projets et les aspirations de la classe politique dont je fais partie.
6
La missione del nuovo Istituto Centrale
per la Demoetnoantropologia
Stefania Massari
Ai sensi del decreto del Ministero per
i Beni e le Attività culturali del 7 ottobre
2008 registrato alla Corte dei Conti il
20 ottobre 2008 (registro 45 foglio 371)
è stato costituito l’Istituto Centrale per la
Demoetnoantropologia (IDEA). La nascita
del nuovo Istituto appare coerente
all’attuale concezione giuridica del bene
culturale il cui valore da tutelare non si
identifica più con gli oggetti legati al bene
materiale ma con i valori ad esso sottesi
che del bene costituiscono l’essenza per
offrire, di tali valori, la migliore fruizione
in favore della collettività. La missione
della nuova istituzione è infatti finalizzata
alla salvaguardia e alla valorizzazione
del patrimonio culturale, materiale e immateriale, e a promuovere iniziative
volte a tutelare il settore fortemente legato all’identità collettiva e al senso
di appartenenza dei vari gruppi sociali presenti sul territorio, nonché alle
espressioni delle diversità culturali ratificate rispettivamente con le leggi n°
19/2007 e 167/2007. Per poter svolgere queste attività si è pensato ad una
struttura fortemente dinamica e in grado di essere attiva sul territorio in linea
con i cambiamenti imposti dai tempi che impongono alla dirigenza di operare
nell’interesse generale e di attivare risorse nel settore di competenza. Alla base la
constatazione che l’istituzione è più efficace quanto più è fonte di iniziative che
possano creare sviluppo sia culturale che sociale ed economico. Fondamentale
è stata per la creazione del nuovo istituto che assorbe le competenze del
Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari (MAT), l’analisi dei documenti
relativi ai concetti ispiratori che ne hanno determinato la nascita risalente alla
grande Mostra di Etnografia Italiana realizzata a Roma da Lamberto Loria
(1855 - 1913) nell’ambito dell’Esposizione Internazionale del 1911 i cui obbiettivi
prioritari erano mirati sia alla valorizzazione del carattere “multianime”
della cultura italiana che a favorire l’economia in particolare l’artigianato
e le piccole industrie1. La mostra del 1911 è stata dunque il modello teorico
sul quale abbiamo lavorato per il rinnovamento dell’istituzione il cui valore,
senza dubbio incontrovertibile, è consistito essenzialmente nel valorizzare il
7
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Sala abitazione
(foto M. Berretta)
patrimonio culturale diffuso nel paese destinato, secondo le intenzioni degli
organizzatori di allora, a sostenere e alimentare le differenti economie locali in
sintesi a promuovere “quell’insieme complesso” che costituisce la cultura di
un popolo con le sue pratiche, usanze, costumi e credenze2.
L’istituto, che è il risultato del paziente lavoro decennale svolto dalla
scrivente, è nato dalla constatazione che la particolarità del bene e la peculiare
diffusione territoriale del patrimonio antropologico comporta automaticamente
la sua vulnerabilità motivata, oltre che dai processi di globalizzazione, dalle
trasformazioni che investono la società e il suo territorio, vulnerabilità che può
essere attenuata solo mediante la sua conoscenza. L’obbiettivo primario che ci
siamo prefissati è stato quello di individuare e analizzare gli elementi chiave
che, nella costituzione di un sistema di valorizzazione culturale del settore,
possano incidere sull’assetto organizzativo e sulle funzioni da espletare in
grado di pianificare, nel medio e lungo periodo, strategie e programmi locali o
nazionali di sviluppo. Nell’ambito dell’Amministrazione l’istituzione è dunque
innovativa e per tematica, metodi e impianto organizzativo, unica delegata
per competenza alla rilevazione della “cultura materiale e immateriale” del
paese punto di partenza per una futura, quanto necessaria, valorizzazione del
vastissimo patrimonio composto di abitudini, tradizioni orali, usi, costumi,
poesie e canti popolari, danze, suoni, feste, cerimonie (ecc.) indissolubilmente
legato agli altri settori produttivi quali l’artigianato agroalimentare o turistico
(ecc.) che giocano un ruolo importante nello sviluppo del paese.
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La missione del nuovo Istituto Centrale per la demoetnoantropologia
L’istituto centrale dunque supera la tradizione logica di tutela e conservazione
del bene culturale per proporre un nuovo modello di osservazione della realtà
antropologica su scala nazionale in grado di favorire la creazione di una rete di
esperienze di ricerca ed attività progettuali e pervenire alla costituzione di una
conoscenza condivisa capace di organizzare e gestire le informazioni del settore
attraverso lo studio sistematico. Si tratta di un approccio analitico che non si
limita a considerare il singolo bene antropologico isolato dal contesto ma lo
considera nella sua globalità quale risorsa importante per lo sviluppo del paese,
nelle sue varie componenti che lo legano alle tradizioni e agli usi, al paesaggio
e all’ambiente, ben consapevoli delle problematiche inerenti al connubio tra
patrimonio culturale e sviluppo e fermo restando il riconoscimento della priorità
della funzione culturale rispetto alle eventuali ricadute economiche. Si è preso
atto della necessità più volte sollevata dalle differenti istituzioni (Regioni, enti
locali e associazioni ecc.) di coordinare e condividere le esperienze di ricerca
sul campo per poter definire modelli efficaci di tutela e valorizzazione, stabilire
criteri comuni che prevedano un corretto utilizzo del bene antropologico. In
tal senso la costituzione dell’istituto centrale, punto di riferimento scientifico
e tecnologico e di elaborazione di politiche attive, nello scenario nazionale e
internazionale, assume un valore strategico che presuppone la costituzione di
una conoscenza condivisa che passa attraverso il censimento e la formazione di
banche dati che dovranno raccogliere, organizzare e gestire le informazioni e i
dati relativi al patrimonio e costituiranno la base per la creazione di una “Carta
del patrimonio etnoantropologico” e delle sue problematiche in relazione
alle diverse realtà ambientali e paesaggistiche del paese. È noto che senza la
Sala delle colonne
(foto M. Berretta)
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Presepe napoletano
(foto M. Berretta)
conoscenza non può esserci valorizzazione il censimento, qualunque sia la
metodologia adottata, determina sempre una dinamica di promozione del
patrimonio censito. L’attività del nuovo istituto sarà dunque volta essenzialmente
a rintracciare temi e analogie che coinvolgono il bene antropologico in una
rete di comparazioni e tematiche sempre più ampie estensibili all’ambiente e ai
siti di interesse storico artistico o archeologico per poter contribuire alle scelte
di pianificazione urbanistica e territoriale, permettendo di fissare criteri e
metodologie d’indagine. Conoscendo l’esistenza di tale patrimonio è possibile
valutare il potenziale culturale in ambito territoriale e individuare le misure da
prendere per operare azioni di valorizzazione e formulare modelli di gestione
integrati a livello territoriale.
In questi anni le esperienze di ricerca nel settore, molteplici e complesse,
condotte faticosamente in partenario, hanno evidenziato la necessità di
prevedere una struttura operativa in grado di coagulare sinergie e di
potenziare le singole realtà operanti sul territorio. Considerazioni che hanno
portato ad elaborare nuovi modelli di gestione del bene su scala nazionale
e favorire la creazione di una rete di ricerca ed attività progettuali sui beni
etnoantropologici in grado di pervenire alla costituzione di una conoscenza
condivisa capace di organizzare e gestire le informazioni del settore sia esso
un aspetto particolare della tradizione, di vita sociale o religiosa, una festa o
un rito, un canto o un espressione orale o un’usanza. Si tratta di una gestione
del bene che, sottolineiamo, deve essere strettamente legata al suo territorio,
10
La missione del nuovo Istituto Centrale per la demoetnoantropologia
al paesaggio e all’ambiente, la cui tutela, conoscenza e valorizzazione va
condivisa tra differenti attori. L’attività del nuovo istituto sarà in tal senso volta
essenzialmente a rintracciare temi e analogie che coinvolgono il bene in un
mosaico di comparazioni e tematiche sempre più ampie estensibili ai siti di
appartenenza, la conoscenza delle diverse realtà locali permettendo valutare
il potenziale culturale in ambito territoriale potrà contribuire alle scelte di
pianificazione urbanistica. Sarà così possibile individuare modelli di fruizione
sostenibile del patrimonio etnoantropologico da applicare a progetti ricadenti
in aree caratterizzate da particolari risorse culturali verificandone l’efficacia
per poterli assumere successivamente come prassi nella gestione del bene e del
territorio.
A tale scopo potranno essere sfruttate le elevate potenzialità di valorizzazione
insite nei settori strategici artigianale, turistico e agroalimentare o nei vari
segmenti di filiere produttive ad essi connesse in grado di valorizzare siti
poco conosciuti o attualmente marginalizzati dai principali circuiti nazionali.
Di fatto il settore dell’artigianato fortemente legato al tradizionale “saper
fare” e alla cultura dei luoghi può svolgere una funzione propulsiva, aiutare
l’economia del territorio e rilanciare l’immagine all’estero dei prodotti italiani
appartenenti al più vasto concetto del “Made in Italy”. L’artigianato fondato
sullo stretto legame con la cultura materiale del luogo è, infatti, comunemente
ritenuto un elemento di valorizzazione delle economie locali oltre ad essere
attraverso lo “scambio di saperi” un modo fondamentale d’integrazione tra
vecchie e nuove generazioni.
n o t e
Cfr. Massari, S., Arti e Tradizioni. Il Museo Nazionale dell’Eur, Roma, De Luca Editori d’Arte
2004.
2
Cfr. Kluckhohn, Clyde, Kroeber, Alfred L., Il concetto di cultura, Bologna, il Mulino 197.
1
11
Cartografie dell’immateriale(*)
Emilia De Simoni
La Convenzione per la salvaguardia del
patrimonio culturale immateriale1, formulata
nella XXXII sessione dell’Unesco2 e
ratificata in Italia dalla Camera dei Deputati
nel 20073, definisce “patrimonio culturale
immateriale” l’insieme di pratiche,
rappresentazioni, espressioni, conoscenze,
che le comunità riconoscono come parte
della loro cultura. La Convenzione si propone
lo scopo di salvaguardare il patrimonio
immateriale, assicurandone il rispetto e
stimolando la consapevolezza della sua
importanza, a livello locale, nazionale
e internazionale. Per salvaguardare
questo patrimonio, occorre identificarlo,
documentarlo, studiarlo, valorizzarlo e
trasmetterlo. Tra i più recenti esempi di attuazione di queste direttive ricordiamo
il progetto di etnografia visiva avviato nel 2005 dal Museo Nazionale delle Arti e
Tradizioni Popolari, attualmente Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia,
e dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Molise, con
l’obiettivo di documentare il patrimonio immateriale della regione, in particolare
le tradizioni festive. Le riflessioni che qui si propongono nascono dall’esperienza
di questo progetto che, tra il 2005 e il 2009, ha prodotto una documentazione di
20 000 fotografie e 100 ore di riprese relative a più di 60 eventi festivi4.
«Noi non annotiamo fiori», disse il geografo. «Perché? Sono
la cosa piu bella». «Perché i fiori sono effimeri»5.
La necessità di un lavoro sistematico di documentazione, a livello
istituzionale, dei beni demoetnoantropologici in Italia appare ancor più forte
alla luce della devastazione provocata in Abruzzo dal terremoto del 6 aprile
2009.
Nella geografia culturale alterata dal sisma meritano ricostruzione e recupero
non soltanto i beni storici, artistici e architettonici, ma anche quegli elementi
indispensabili per la riacquisizione di una identità dei luoghi, che non può risolversi
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Acquaviva Collecroce, 1 maggio 2007
Festa del Maja
(foto di E. De Simoni
Archivio Fotografico dell’Istituto Centrale
per la Demoetnoantropologia)
nella riedificazione di contenitori
e spazi privi di orizzonti di senso.
Il superamento della crisi, che
eventi di tale portata producono,
può avvenire soltanto attraverso
una elaborazione del lutto, nella
quale un ruolo centrale hanno le
“figure del ricordo”, gli elementi
della tradizione, funzionanti come
ponti tra passato e presente. Sono
questi i beni di nostro interesse,
oggettuali e inoggettuali, più
facilmente restaurabili i primi,
nella loro materialità, talvolta
museale, difficili da annotare i
secondi, come i fiori del Piccolo Principe, se nessuno ne ha salvato i semi. In un
paese come il nostro le unità di crisi dovrebbero essere organizzate anche per
questo settore, con l’apporto essenziale delle comunità in sofferenza.
Documentare i beni immateriali significa dunque fissare le tracce per la
progettazione di un nuovo possibile futuro, con cui contrastare il rischio di
un ricominciamento senza storie, individuali e collettive.
Jean Baudrillard ci ricorda che nella nostra società, sopraffatta
dall’accelerazione, la realtà sembra essere privata del tempo che le consenta di
aver luogo6. Marc Augé afferma che
«la difficoltà di pensare il tempo deriva dalla sovrabbondanza d’avvenimenti del mondo contemporaneo»7.
In un tempo sovraccarico di eventi “la storia ci tallona”, il mondo sembra
troppo raggiungibile: tanto si è ristretto con lo sviluppo e l’accessibilità dei mezzi di
trasporto da non meritare di essere ancora esplorabile. In questa situazione di eccessi
l’individuo rischia di cadere in una condizione che, ricorrendo evocativamente a
Ernesto de Martino8, si può definire di “angoscia territoriale”.
Oggi il territorio, secondo la ben nota definizione di Augé, è segnato
soprattutto da “nonluoghi”, spazi nei quali si transita senza stabilire un
rapporto, in una fluidità avversa a ogni definizione, per dirla con Zygmunt
14
Cartografia dell’immateriale
Bauman9 in un procedere “liquido” di sempre nuovi inizi. Forse nei paesi si
possono ritrovare ancora spazi identitari, relazionali e storici, esempi di quei
«luoghi di vita prodotti da una storia più antica e più
lenta, ove gli itinerari singoli si incrociano e si mescolano,
ove le parole si scambiano e le solitudini si dimenticano
per un istante…»10.
Luigi M. Lombardi Satriani mette in evidenza l’inquietudine territoriale delle
città contemporanee, luoghi “della massima indecisione e dello smarrimento”11
e ricorda come la cultura folklorica tradizionale fosse in grado di elaborare
strategie tali da superare il rischio della perdita, rafforzando la presenza del
soggetto nello spazio.
«È molto bello il vostro pianeta. Ci sono degli oceani?» «Non
lo posso sapere», disse il geografo. «Ah! (il piccolo principe fu
deluso). E delle montagne?» «Neppure lo posso sapere», disse
il geografo. «E delle città e dei fiumi e dei deserti?» «Non lo
posso sapere», disse il geografo. «Ma siete un geografo!»
«Esatto», disse il geografo, «ma non sono un esploratore»12.
Non esistono isole felici, completamente esenti da spaesamenti e solitudini.
È pur bello il nostro pianeta, ma il geografo senza esploratori non è in grado
di confermarlo al Piccolo Principe. Le poetiche suggestioni di Antoine de SaintExupéry ci introducono al problema della restituzione del territorio, in questo caso
del territorio segnato non solo da elementi duraturi ma soprattutto da elementi
“effimeri” quali i fiori, che il geografo, catalogatore dei pianeti, non ritiene passibili
di annotazione. Partendo dalla citatissima frase di Alfred Korzybski “La mappa
non è il territorio”13, oggetto di acute rielaborazioni da parte di Gregory Bateson14,
come ci ricorda Massimo Canevacci, possiamo sottolineare che ciò che si trasferisce
sulla mappa non è il territorio, ma la differenza:
«Una carta geografica 1:1 (in cui la mappa coincide col territorio) è il risultato di un narcisismo senza limiti, ovvero di
un io, di uno scienziato, di un etnografo che mira a coincidere con l’oggetto della propria ricerca…»15.
Le differenze sono appunto le informazioni che riportiamo sulla mappa.
Naturalmente il territorio che viene restituito, in base ai nostri codici interpretativi,
alle nostre prospettive e ai nostri mezzi, non sarà mai completamente descritto
dalla mappa.
«Dunque, quando la moralità dell’esploratore sembra
buona, si fa un’inchiesta sulla sua scoperta». «Si va a vedere?». «No, è troppo complicato. Ma si esige che l’esploratore
fornisca le prove»16.
15
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Palata, 13 giugno 2008. Festa di Sant’Antonio di Padova
(foto di E. De Simoni - Archivio Fotografico dell’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia)
L’oggettività e la fedeltà sono soltanto illusioni e lo sa bene il geografo che diffida
degli esploratori, tanto da ritenere necessaria un’inchiesta sulla loro moralità. Per
testimoniare l’esistenza di una montagna occorrono grosse pietre, per i fiori nulla,
poiché sono “effimeri”. Queste tracce letterarie sono un espediente per riflettere
sulle difficoltà di “fornire le prove” del patrimonio immateriale, cioè del produrre
documenti che ne attestino la presenza sul territorio “esplorato”. L’etnografo, che
oggi si fa geografo dell’immateriale, sa di affrontare un’impresa la cui ambiguità è
superabile soltanto esercitando modestia e sincerità nell’azione. In realtà dei fiori è
effimera unicamente la fioritura, in quanto rinascono e si ricreano nelle giuste stagioni
quando il clima lo consente, se vi sono semi e terra fertile che possa accoglierli.
Viene da chiedersi perché questo patrimonio sia sempre denominato in
negativo, ovvero non-materiale, non-tangibile, con terminologie mutuate
dall’economia, dalla finanza e dal diritto. In un testo pubblicato nei primi decenni
del xix secolo leggiamo che i beni immateriali
«si generano da noi stessi e dipendono unicamente dal sistema delle nostre sensazioni»:
«Sono questi i bisogni della curiosità, della contemplazione,
del bello, del buono e del giusto… tutti quei bisogni ideali,
16
Cartografia dell’immateriale
che hanno radice nell’amor di noi stessi… è perciò che i bisogni dell’uomo altri sono corporei o materiali… ed altri sono
incorporei o immateriali… Gli uni e gli altri costituiscono lo
stato di vita o di esistenza dell’uomo essenzialmente civile» 17.
È necessario sottrarre questi beni alla dimensione della mancanza, della
negatività espressa anche nel tempo imperfetto in cui vengono spesso collocati,
nell’accezione prevalente di tradizioni, sulla scia di una pratica nostalgica
comune a tutte le epoche. Per superare questi limiti occorre riconoscere la vitalità
dei beni immateriali e la loro forza di contrasto, ma è necessario anche rifiutare
ogni “accanimento terapeutico”, proposto in nome della salvezza ad oltranza. La
tradizione deve adattarsi per continuare a esistere, ciò che vale è il presente:
«il, n’y a rien de fixe, rien d’immuable dans la tradition, tout
en elle peut changer à tout moment» 18.
Nel territorio non esistono solo montagne, fiumi, colline, cose durature della
natura, o edifici, ponti, strade, cose materiali prodotte dall’uomo, la sua facies
culturale è determinata da quella sorta di fioriture che sono i beni immateriali,
in continua interazione con la natura, l’ambiente e la storia di un gruppo umano
presente in una località. Si tratta dunque di quell’eredità intangibile che consente
a una comunità di riconoscersi in una cultura propria e di acquisire identità e
presenza nel mondo attraverso la differenza. Fare una mappa di questi beni significa
rilevare le differenze che la creatività umana continua a produrre, nonostante lo
stravolgimento del tempo e dello spazio dell’epoca attuale. Si utilizza il controverso
termine comunità pur tenendo presenti le considerazioni di Francesco Faeta che,
sulla scia di Arjun Appadurai19, preferisce adottare il termine località:
«Propongo innanzitutto di sostituire il termine comunità
(che ho sin ora usato in conformità alla terminologia
dell’epoca), un termine comunque su cui già allora, con
concreto riferimento al Mezzogiorno italiano, ci si interrogava perplessi, con quello di località. La comunità presuppone,
in effetti, una lettura olistica e autoreferenziale dei luoghi
che, com’è noto, i luoghi spesso non hanno, o non hanno
coscienza di avere. La località, invece, che non è mai una
realtà essente ma il frutto di un diuturno processo di costruzione, è un movimento di aggregazione, in risposta alla
complessa estraneità del mondo…» 20.
Ricordiamo tuttavia che la Convenzione frequentemente fa riferimento alle
“communities” 21, sottolineando inoltre, all’art. 15, come punto fondamentale, la
necessità della loro partecipazione alle operazioni di salvaguardia del patrimonio
immateriale. È proprio a causa di quella “complessa estraneità del mondo” che
le risposte del differenziarsi sono molteplici e disomogenee, influenzate da
agenti sociali, politici, istituzionali, non annotabili dunque unicamente come
17
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
dispositivi rituali per recuperare ricordi fondanti, in una sfida che, con Jan
Assmann, potremmo definire contrappresentistica22.
L’attenzione alle comunità e ai gruppi, raccomandata fortemente dalla
Convenzione, dovrebbe caratterizzare la ricerca sui beni immateriali, in particolare
sui sistemi festivi, nei quali è prevalente la dimensione comunitaria. È quanto
suggerisce Faeta, ribadendo la necessità di una visione più ampia, che tenga
conto non soltanto degli elementi consuetudinari e canonici, ma anche
«… della interazione politica tra codice rituale, libera interpretazione degli attori festivi, presenza e volontà performativa del contesto locale nel suo complesso, sguardo del
mondo, modulazione del frame significativo (per cui medesime azioni possono assumere significati di volta in volta
diversi)… » 23.
Una lettura della festa che privilegi l’aspetto gruppale può anche attingere
ai suggerimenti che provengono dalla psicologia del sé, in particolare da alcuni
aspetti del pensiero kohutiano24, come propone Alfredo Lombardozzi:
Venafro, 18 giugno 2009. Festa di San Nicandro
(foto di E. De Simoni - Archivio Fotografico dell’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia)
18
Cartografia dell’immateriale
«Heinz Kohut stesso, infatti, faceva un ampliamento della
funzione degli oggetti-Sé dal contesto individuale a quello
di gruppo e sociale, quando definiva l’oggetto-Sé culturale… Questi oggetti sé culturali rispondono sul piano sociale,
secondo Kohut, ai bisogni fondamentali dell’individuo, in
particolare quelli di rispecchiamento e di sostegno collegati
anche alla capacità di essere creativi…» 25.
In questa prospettiva i beni immateriali afferenti ai sistemi festivi si potrebbero
paragonare a oggetti-Sé culturali, che consentono alle comunità e agli individui
di rafforzare la propria presenza nella differenziazione, funzionando come
dinamiche costitutive dell’identità.
«L’essenziale è invisibile agli occhi», ripetè il piccolo principe, per ricordarselo.26
Ma una riflessione sull’elemento “festa” non può prescindere da alcune
questioni relative alla sua intrinseca complessità. La prima riguarda
l’inconoscibilità, affrontata da Faeta nel saggio già citato, con riferimento critico
alla posizione di Furio Jesi, che sostiene l’impossibilità di conoscere la festa27.
Il problema consisterebbe piuttosto nella prevalenza di un approccio culturale
che non si sofferma sui meccanismi sociali dei fenomeni festivi, in una pratica
etnografica spesso episodica:
«Certe volte le communitates rituali o festive (per ricordare
Victor Turner) sono viste esclusivamente nel momento
parossistico (per ricordare Claude Lévi-Strauss) della
loro azione e l’indagine sull’universo festivo si risolve in
un’indagine sulla forma festiva, quale appare nell’attimo
epifanico dell’incontro con lo studioso» 28.
Continuando l’elenco delle impossibilità, la seconda questione riguarda
l’irriprendibilità ed è direttamente collegata alle tecniche di documentazione
filmica. Nessun dispiego di mezzi, postazioni, operatori etc., per quanto ampio e
professionalmente ineccepibile, potrebbe restituire nella sua interezza una festa.
Ricordiamo in proposito come la necessità di delimitare la ricerca audiovisiva,
privilegiando temi “buoni da riprendere”, sia stata più volte ribadita da Diego
Carpitella:
«In che cosa consiste il contributo cognitivo del documento
cinematografico (in pellicola o in elettronica) nello studio
etnologico, antropologico sociale, ecc? Nel documentare cose
che la parola e lo scritto non possono costituzionalmente
restituire: la musica, la danza, i comportamenti cinesici,
ecc… Mirare un evento nel suo dettaglio è un contributo alla
scientificità, anche nelle scienze umane» 29.
19
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
È dunque indispensabile esercitare la selezione dello sguardo sui singoli
eventi che compongono il fenomeno, senza pretendere di realizzare una “carta
1:1”. La terza questione si può riassumere in un aspetto che, a nostro avviso,
dovrebbe caratterizzare la festa: la sua inesportabilità. Sottrarre la festa al
territorio, decontestualizzarla, come accade nelle spettacolarizzazioni promosse
da certe tendenze di mistificatoria valorizzazione30, toglie senso al fenomeno e lo
umilia in una dimensione di sfruttamento esibitorio. Le feste non possono essere
rappresentate attraverso una selezione di “attori” o di oggetti rituali, vanificando
il coinvolgimento della comunità. Indescrivibili, se non vissute, inesportabili,
come gli odori, le emozioni e l’impegno dei partecipanti, prove sempre nuove,
talvolta rischiose, per le comunità che le organizzano e le vivono.
n o t e
Una versione più estesa di questo articolo è stata pubblicata con il titolo «Etnografia
visiva tra mappa e territorio» in: Patrimonio immateriale del Molise, a cura di Emilia De
Simoni, numero monografico della rivista “Conoscenze”, a. IV, n. 1/2007, Betagamma,
Viterbo 2009, pp. 1-6.
(*)
http://www.unesco.org/culture/ich/doc/src/00009-IT-PDF.pdf
Parigi 29 settembre - 17 ottobre 2003.
3
Legge 27 Settembre 2007, n. 167 «Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, adottata a Parigi il 17 ottobre 2003 dalla
XXXII sessione della Conferenza generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per
l’educazione, la scienza e la cultura (UNESCO)”. GU n. 238 del 12-10-2007.
4
I risultati del progetto sono esposti in: Patrimonio immateriale del Molise, cit.
5
Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, 1943, cap. XV.
6
Jean Baudrillard, Il delitto perfetto, Raffaello Cortina, Milano, 1996, p. 51.
7
Marc Augé, Nonluoghi, Elèuthera, Milano, 1993, pp 32-33.
8
Ernesto de Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini,
“Studi e Materiali di Storia delle religioni”, vol. XXIII, 1951-52, pp 51-66.
9
Zygmunt Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari, 2006.
10
Marc Augé, op. cit.: p. 63.
11
Luigi M. Lombardi Satriani, Il sogno di uno spazio. Itinerari ideali e traiettorie simboliche
nella società contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, p. 12.
12
Antoine de Saint-Exupéry, ibidem.
13
Alfred Korzybski, Science and Sanity An Introduction to Non-Aristotelian Systems and
General Semantics, 1933.
14
Gregory Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1984.
15
Massimo Canevacci, Ecologie svincolate. La sperimentazione come godimento delle differenze, in Gregory Bateson, a cura di Marco Deriu, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 140.
16
Antoine de Saint-Exupéry, ibidem.
17
Adeodato Ressi, Dell’economia della specie umana, Vol. III, Bizzoni, Pavia, 1819, p. 207.
18
Albert Marinus, Journal of the International Folk Music Council, Vol. 9, 1957, p. 15.
19
Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001.
20
Francesco Faeta, La festa religiosa nell’Europa meridionale contemporanea. Qualche riflessio1
2
20
Cartografia dell’immateriale
ne per la definizione del suo statuto teorico, in Festa viva. Continuità, mutamento, innovazione,
a cura di Laura Bonato, Omega, Torino, 2005, p. 26.
21
Si veda il contributo di Toshiyuki Kono, Definition of “community” as a bearer of
Intangible Cultural Heritage (ICH), Expert Meeting on Community Involvement in
Safeguarding Intangible Cultural Heritage: Towards the Implementation of the 2003
Convention (13-15 March 2006, Tokyo, Japan), http://www.accu.or.jp/ich/en/pdf/
c2006Expert_KONOfinal.pdf
22
Jan Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà
antiche, Einaudi, Torino, 1997.
23
Francesco Faeta, op. cit.: pp. 32-33.
24
Heinz Kohut (1913-1981), psicoanalista austriaco, teorizzatore della Psicologia del Sé.
25
Alfredo Lombardozzi, «Antropologia e psicoanalisi. A partire da alcune riflessioni sul
sacro», in: Figure del dialogo. Tra antropologia e psicoanalisi, Borla, Roma, 2006, p. 33.
26
Antoine de Saint-Exupéry, op.cit., cap. XXI.
27
Furio Jesi, La festa. Atropologia, etnologia, folklore, Rosemberg & Sellier, Torino, 1977.
28
Francesco Faeta, op. cit.: p. 24.
29
Diego Carpitella, «Archeocinema e documentazione antropologica», in: Guido
Aristarco, Il Cinema: verso il centenario, Dedalo, Bari, 1992, pp. 158-159: p.159.
30
In particolare ho affrontato questi temi nell’articolo «Patrimonio intangibile / comunità tangibili», pubblicato in: La festa: dinamiche socio-culturali e patrimonio immateriale, a
cura di Katia Ballacchino, L’arcael’arco, Nola, 2009, pp. 109-129.
21
Riti e cicli festivi in una comunità
francoprovenzale del Piemonte
Valentina Porcellana
1. Premessa
Giaglione è un paese di circa 700
abitanti, formato da dieci borgate situate
fra i 600 e gli 800 metri di quota nella
media Valle di Susa (Torino). L’interesse
per il suo patrimonio culturale e, in
particolare, per il suo ciclo festivo deriva
da più fattori. In primo luogo, Giaglione
è un comune di minoranza linguistica
francoprovenzale che ha mantenuto viva
la lingua locale, trasmettendola, con una
certa consapevolezza culturale, da una
generazione all’altra. Inoltre, in paese le
tradizioni festive non hanno mai cessato
di essere praticate; a metà degli anni
Settanta, grazie alla sensibilità di alcuni abitanti è stato recuperato anche l’uso
di alcuni “oggetti simbolici”, tra i quali il bran, l’albero fiorito alla cui base
si trova un pane circolare, caduti in disuso in concomitanza con il secondo
conflitto mondiale e che caratterizzano il complesso ciclo di feste che si celebra
durante l’anno con l’intensa partecipazione della popolazione locale. La
continuità della pratica ha dunque consentito il passaggio dei saperi collettivi,
carichi di valenze identitarie.
L’inizio del ciclo annuale, che ingloba le principali feste religiose e alcuni
appuntamenti laici, viene fatto coincidere con il ciclo che si può definire “delle
priore” che si inaugura la prima domenica di ottobre, quando si festeggia la
Madonna del Rosario.
Il calendario interno alla comunità conta anche il ciclo festivo “delle
borgate” o “delle cappelle” e quello della confraternita maschile. Al
calendario interno si potrebbe inoltre collegare quello esterno alla comunità,
tenendo conto delle feste dei paesi vicini con cui Giaglione ha sempre
intessuto rapporti sociali e economici (Le Ramats di Chiomonte, Novalesa,
Venaus, Urbiano di Mompantero, Gravere), compresi i comuni francesi di
Lanslebourg, Termignon e Bramans.
23
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Secondo Paolo Sibilla, le feste che ritornano con regolarità a scandire il
calendario annuale «chiudono con i loro rituali e i loro quadri cerimoniali un ciclo
temporaneo e ne aprono uno nuovo dando così vita ad un processo di
rigenerazione del tempo» (Sibilla, 2004, p. 50). Contemporaneamente, anche lo
spazio partecipa di questa rigenerazione rituale: le processioni tracciano geografie
simboliche che plasmano l’identità collettiva. Insieme, a piedi, lentamente, si
percorrono le strade del paese. Anno dopo anno, toccando tutte le frazioni, anche
i giovani e i nuovi residenti sono condotti in ogni angolo del paese, in una sorta
di cammino iniziatico che conduce alla conoscenza dello spazio vissuto.
2. Il ciclo festivo delle priore: una descrizione etnografica
Le priore (prioùřeus, in giaglionese) sono sei donne, due giovani nubili, due
sposate e due anziane. A loro è affidata l’organizzazione delle sei principali
feste annuali: Santa Caterina, San Vincenzo e Ottava, Corpus Domini e Ottava,
Madonna del Rosario1.
L’incarico delle nuove priore, annunciato nel mese di ottobre durante la
celebrazione della Madonna del Rosario, diventa “operativo” nel mese di novembre,
in occasione della festa di Santa Caterina. Le nuove priore fanno così la loro prima
uscita ufficiale indossando l’abito tradizionale (la savouiarda o lou coustum). In
occasione di Santa Caterina, la priora festeggiata è la più anziana tra le giovani.
La ritualità festiva prevede che la banda musicale del paese, la muzica, si
raduni con gli ospiti a casa della priora festeggiata intorno alle 10.00 del
mattino, prima della funzione religiosa solenne delle 11.00. Dopo un breve
rinfresco e un breve concerto in onore della padrona di casa e dei suoi ospiti, si
forma il corteo diretto alla chiesa parrocchiale. La banda musicale apre il corteo
seguito dalla portatrice del bran, una giovane donna nubile in abito savoiardo
che porta in bilico sulla testa una struttura alta due metri totalmente coperta di
fiori, frutti e nastri colorati. Due giovani uomini le stanno accanto per aiutarla
ad issare e a posare il pesante albero. Dietro di lei, nel corteo, si trovano le sei
priore, a due a due, seguite dai fedeli. La festeggiata e la sua compagna
avanzano per prime, seguite dalle altre due coppie di priore.
Poco prima di entrare in chiesa le priore ricevono dai chierichetti un cero
decorato che ricambiano con una moneta. I primi due banchi sul lato destro
della chiesa, foderati di rosso, sono riservati alle sei donne. A Santa Caterina le
due giovani si siedono nel primo banco. Il bran viene sistemato in una cappella
laterale nella navata sinistra della chiesa mentre le priore accendono i loro
lunghi ceri. All’inizio della funzione, il parroco impartisce la sua benedizione
sulle priore e sul loro mandato annnuale.
Al termine della funzione, mentre la banda si appresta ad un breve concerto,
a tutti i convenuti vengono offerti i mazzi di crisantemi, rosmarino e lauro
24
Riti e cicli festivi in una comunità francoprovenzale del Piemonte
preparati dalle priore. Intorno alle 12.00, si ricompone la processione per
accompagnare a casa la festeggiata. La festa si conclude con un altro rinfresco
offerto dalla prioretta e dalla sua famiglia.
La ricorrenza più solenne dell’anno si celebra il 22 gennaio, in occasione del
santo patrono di Giaglione, San Vincenzo. La tradizione iconografica, a cui si
richiama la statuaria giaglionese, raffigura Vincenzo con l’abito liturgico dei
diaconi e con gli attributi legati al martirio: la palma, il libro, gli uncini e la
graticola della tortura, il corvo. Inoltre, il santo tiene in mano un grappolo
d’uva a simboleggiare il suo patronato sui vignaioli.
Il 22 gennaio a Giaglione sono festeggiate la priora della Madonna del
Rosario (la più giovane tra le anziane), che offre il rinfresco prima della messa,
e la priora di San Vincenzo (la più anziana delle anziane) che ne offre un altro al
termine della celebrazione e altri nel pomeriggio, prima e dopo i vespri.
Intorno alle 9.30 del mattino gli ospiti, la banda, la portatrice del bran e i
quattro spadonari, li spadounèiře, che indossano una casacca e un grambiule
damascati, un pesante copricapo ornato di fiori e nastri e brandiscono una
pesante spada, si ritrovano a casa della priora della Madonna del Rosario. Poco
prima di mettersi in marcia verso la chiesa, la banda suona qualche brano
musicale per ringraziare la priora e la sua famiglia dell’ospitalità. Il corteo è
aperto dai quattro spadonari in fila indiana, seguiti dalla banda, dalla portatrice
del bran affiancata dai due aiutanti, dalle sei priore a due a due, con le due più
anziane in prima fila, e dalla popolazione.
Appena partita la processione, per qualche centinaio di metri la banda suona
una delle marce, gli spadonari procedono danzando e la portatrice del bran
tiene l’albero issato sul capo. Poi segue un momento di pausa in cui il corteo, in
silenzio, cammina verso la chiesa. Quando si giunge in vista della parrocchiale,
musica e danza riprendono fino all’arrivo. Come di consueto, fuori dalla chiesa
i chierichetti attendono le priore per consegnare loro i sei lunghi ceri decorati in
cambio di una moneta. Gli spadonari si dispongono a due a due sotto il
porticato, scortando così l’ingresso delle priore e dei convenuti. Mentre le priore
si siedono nei banchi a loro destinati, gli spadonari si spostano danzando,
insieme alla banda, in direzione del municipio, andando incontro agli
amministratori e agli ospiti più illustri che percorrono la strada verso la chiesa,
preceduti dal gonfalone.
Si forma così un nuovo corteo formato da spadonari, banda, gonfaloniere e
amministratori. Ancora una volta, giunti sotto il portico della chiesa, gli
spadonari si schierano ai lati, a due a due, per far entrare gli ospiti. Entrano
quindi anch’essi nell’edificio e, percorrendo la navata centrale, si avviano
all’altare. Saliti i pochi gradini, tenendo con la mano destra la pesante spada,
battono la punta sul pavimento e vanno a posizionarsi ai due lati dell’altare
dove rimangono solennemente in piedi per tutta la funzione.
25
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Prima della celebrazione della messa, il sacerdote benedice la statua e le
reliquie di San Vincenzo che stanno per essere portate in processione intorno
alla chiesa. Nella navata sinistra sono intanto arrivati anche i confratelli della
confraternita maschile del SS. Nome di Gesù in saio bianco e gli alpini. La
processione, che si avvia lungo il perimetro esterno dell’edificio, vede
susseguirsi i bambini con il gonfalone delle Figlie di Maria2, la banda che suona,
la portatrice con il bran in testa, le sei priore, li arvitû cioè i confratelli del SS.
Nome di Gesù con il cero, li tsantre cioè la corale della chiesa, i chierichetti, lou
prevost e li prèiře, il parroco e i sacerdoti invitati per concelebrare la messa, due
spadonari che precedono le reliquie del santo sorrette da quattro alpini3, due
spadonari che precedono la statua di San Vincenzo portata da altri quattro
alpini, li poumpìe, i pompieri che scortano la statua del patrono, il gonfalone
comunale, lou sandic e lou counsèlh, gli amministratori del Comune e infine i
fedeli. Terminata la breve processione, viene celebrata la messa.
Verso la fine della funzione viene distribuito il pane benedetto, offerto dalle
priore, che riporta l’effigie del gallo, simbolo di Giaglione. Poco dopo, intorno
alle 12.00, sul sagrato della chiesa gli spadonari eseguono le danze con le spade.
Infine il corteo si ricompone per accompagnare a casa la priora di San Vincenzo.
Nel pomeriggio, intorno alle 15.00, ci si ritrova per celebrare i vespri durante i
quali si usa baciare la reliquia del santo.
La stessa festa si ripete la domenica successiva, per la cosiddetta “Ottava”,
ma senza la celabrazione dei vespri che sono ora sostituiti dal concerto della
banda musicale. La festeggiata è, in questa occasione, la più giovane delle
priore di Santa Caterina.
Il giorno seguente a quello di San Vincenzo, detto di Sèinta Viseunda (per la
Chiesa è la festività dello Sposalizio della Vergine), le priore preparano una
merenda pre-serale, mařeunda sinoira, intorno alle 18.00, per la banda, gli
spadonari, il priore della Confraternita e alcuni ospiti. Il pasto è a base di
anchouveus aou veurt, tartifleus è toumò grasa, soutisa (acciughe al verde, patate e
toma grassa, salamino).
Sessanta giorni dopo la Pasqua si festeggia la solennità del Corpus Domini.
A Giaglione la festa è in onore della più anziana tra le priore del Sacro Cuore,
mentre all’ottava si festeggia la più giovane della coppia. Le due ricorrenze si
celebrano seguendo la complessa ritualità che caratterizza le altre feste principali,
ma non è prevista la presenza degli spadonari, che danzeranno nuovamente in
ottobre, in occasione della festa della Madonna del Rosario.
Con la prima domenica di ottobre termina l’incarico delle priore. Alla mesò
granta de Notra Dona dou Ruzaře, il parroco fa i nomi delle sei nuove priore che
avranno l’onere e l’onore di organizzare le feste, partecipare alle funzioni
religiose e alle sepolture… Ma la festa vera e propria di cui è protagonista la
priora della Madonna del Rosario (la più giovane delle vièlheus) si celebra solo
26
Riti e cicli festivi in una comunità francoprovenzale del Piemonte
nel pomeriggio. La festeggiata offre il rinfresco agli ospiti, alla banda e agli
spadonari prima e dopo il vespro. La priora viene scortata in processione dagli
spadonari che danzano fino alla chiesa parrocchiale aprendo il corteo.
Il ruolo delle priore non si esaurisce nelle sei maggiori festività in cui
indossano l’abito tradizionale: esse partecipano ad altre processioni durante
l’anno e alle novene di Natale e di San Vincenzo. Le priore del Sacro Cuore
partecipano ai funerali di tutte le donne defunte del paese e di quegli uomini
che, in vita, hanno versato un obolo per loro. Le priore di San Vincenzo e della
Madonna del Rosario, in periodo natalizio, passano di casa in casa per la colletta
dell’olio santo, raccogliendo offerte per la chiesa, e assistono a tutti i funerali che
avvengono in paese durante l’anno in cui sono in carica.
3. La festa: un patrimonio comune
Giaglione è un esempio di società complessa che ha selezionato dalla sua
storia quegli elementi simbolici, rituali e quelle pratiche sociali che rinsaldano
l’identità collettiva. Le tradizioni giaglionesi sono azioni radicate nella vita
sociale e culturale della comunità. Quello di tradizione è un concetto che
emerge sempre all’interno di una consapevole modernità, non è un prodotto
del passato, ma «una riappropriazione selettiva di una porzione di esso, una
filiazione inversa», come sottolinea Fabio Mugnaini (2004, p. 37). Non è dunque
soltanto il passato a costruire il presente, ma è anche l’oggi a selezionare ciò che
della storia può essere utile. Tuttavia non è la mancanza di creatività che
riconduce l’uomo a formule sperimentate dai suoi antenati, bensì un certo
desiderio di sentirsi legato al passato. Questo, però, non impedisce di inserire
elementi innovativi nei riti e nelle credenze.
Dato che ci rendiamo conto che parlare di “patrimonio culturale” può
condurre alla «fossilizzazione di una autenticità culturale fittizia e quindi
ravvivare particolarismi, se non favorirne addirittura l’insorgenza» (Fabietti,
1995, p. 77), è necessario chiederci perché documentare queste cose, dato che
non c’è nessuna “cultura autentica” da salvare, ma un flusso di vita in continua
trasformazione.
Perché il rito, i saperi impliciti, le pratiche comunitarie, i ruoli sociali e di
genere sono temi di grande rilevanza che, se sono interpretati oltre che descritti,
possono far comprendere la complessità dell’agire umano e la diversità con cui
si presenta.
Per non cadere nel localismo e nell’illusione che i caratteri culturali siano
esclusivi di un luogo, è necessario ricordare che il contatto con altre comunità,
quotidiano nel contesto alpino, ha diffuso non solo oggetti della cultura
materiale, ma anche elementi della cosiddetta cultura immateriale (valori,
simboli, credenze, saperi, pratiche). Ogni comunità ha elaborato col tempo,
27
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
autonomamente, il modo di accoglierli e di incorporarli, dando vita a forme
culturali originali.
Se, da una parte, dobbiamo evitare di cadere nell’illusione del particolarismo,
dall’altra dobbiamo sfuggire alla tentazione di rappresentare oleograficamente
il “mondo contadino”, definito come una categoria etnocentrica proiettata «al
di là del Grande Fossato della modernità» (Dei, 2002, p. 28). Chi volesse leggere
le pratiche rituali giaglionesi alla luce di certe teorie sulla cosidetta “cultura
popolare” rimarrebbe deluso. In quel dibattito, infatti, la cultura popolare era
considerata come caratterizzata da «condizioni di ritardo, legata a contesti
storico-sociali che indugiano o sono trattenuti nella pre-modernità» (ibid., p. 68).
Come riconoscere Giaglione in questa descrizione? Ma come riconoscere anche
il resto del territorio alpino in questa immagine desolante?
Da qualche decennio ormai, come scriveva Gian Luigi Bravo all’inizio degli
anni Ottanta,
«si è rifiutata l’immagine del mondo contadino compatto e
indifferenziato; si è visto invece nella comunità rurale un
sistema diversificato e organizzato, con rapporti all’esterno
che si attuano attraverso forme diverse di mediazione e che
possono svilupparsi al punto da rendere addirittura
problematico, come può accadere oggi, parlare di comunità».
(Bravo, 1981, pp. 21-22)
Solitamente, però, è proprio nel residuale, nei contesti meno conosciuti e
toccati dalla “modernità” che l’etnologo e l’antropologo hanno cercato il
proprio oggetto di studio. Superata la perifericità, il ritardo (se mai c’è stato),
l’esclusione dalla comunicazione, entrato Giaglione nella modernità che
costruisce il bran in plastica, che cosa resta da studiare? Non è più cultura
“vera”? Ma chi decide che cosa è vero, che cosa è importante, che cosa deve
essere reiterato nel tempo e consegnato al futuro?
Evidentemente sono molti gli attori in gioco in questa partita: ma l’attore
principale è sempre l’uomo. La sua memoria seleziona, i suoi interessi lo
guidano, le sue paure lo condizionano, i suoi sogni lo sospingono. Chiedersi
perché ancora oggi feste e riti comunitari, il cui significato non è più trasparente,
sono così importanti per i giaglionesi e studiare etnograficamente il modo in cui
tali significati si determinano nelle concrete pratiche sociali significa rimettere
l’uomo al centro, l’uomo contemporaneo che vive nella modenità, ma che si
serve ancora di modelli culturali ricevuti dal passato. Che cosa vede in essi? A
cosa gli servono? Come li riplasma per servirsene nell’oggi? E dunque cosa
resta del significato passato?
Attraverso la festa la comunità si rinsalda. Come sottolinea Gian Luigi
Bravo, la festa «mentre inscena la comunità [...] contribuisce in misura
28
Riti e cicli festivi in una comunità francoprovenzale del Piemonte
sostanziale a crearla» (Bravo, 1984, p. 116). A Giaglione dunque, il complesso
ciclo festivo diventa un’importante risorsa per rinnovare, con una certa
frequenza, i legami comunitari in cui l’io individuale si rispecchia rico­
noscendosi nel noi collettivo. La festa ha un ruolo di mediazione, di regolazione
dei ruoli (essa mette in connessione abitanti di frazioni diverse, uomini e donne,
diverse generazioni) e veicola saperi incorporati. È un sistema complesso che si
compone di molti elementi; ogni partecipante trova la sua funzione, prende
parte all’evento e alla sua preparazione. È questo che lega i nodi della rete
sociale: tutti garantiscono che la macchina festiva funzioni e quindi che la
comunità si costruisca continuamente.
n o t e
Le priore, che derivano la loro carica da antiche confraternite miste, si dividono in tre
coppie: le più giovani, nubili, sono le priore di Santa Caterina, le dzouveun o le prioureteus
de Sèinta Catlinò, dette anche catlinéteus; le due adulte sono le priore del Sacro Cuore, dou
Sacro Côř; le due più anziane, le vièlheus, sono la priora di San Vincenzo, detta anche priora
del Santissimo Nome di Gesù, e la priora della Madonna del Rosario.
2
La Compagnia delle Figlie di Maria è esistita in Giaglione fino agli anni Sessanta del
Novecento. Le Figlie di Maria portavano in processione la statua di Sant’Agnese la
domenica prima di San Vincenzo.
3
Quando il numero di coscritti (li couscrî) è sufficiente, l’incarico di portare in
processione la statua del Santo è affidato a quattro ventenni, mentre le reliquie sono
portate da quattro diciottenni. Un tempo durante la processione anche i coscritti
indossavano l’abe, il saio dei Confratelli, con appuntato un mazzolino di fiori. Oggi sono
riconoscibili dal foulard che portano al collo.
1
R i f e r i m e n t i
b i b l i o g r af i c i
Bravo, G. L., (a cura di), Festa e lavoro nella montagna torinese e a Torino, Regione
Piemonte, Torino, 1981.
Bravo, G. L., Festa contadina e società complessa, Franco Angeli, Milano 1984.
Cassarin, P., Giors, P. P., Ponsero, U., Porcellana, V., Ponte, G., Vayr, E.,
Zola, L., Riti e cicli festivi nella comunità francoprovenzale di Giaglione in Valle
Susa, Priuli & Verlucca, Scarmagno, 2009.
Dei, F., Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Meltemi, Roma, 2002.
Fabietti, U., L’identità etnica: storia e critica di un concetto equivoco, NIS, Roma, 1995.
Mugnaini, F., Introduzione. Le tradizioni di domani, in Clemente P., Mugnaini F.
(a cura di), Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società
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Sibilla, P., La Thuile in Valle d’Aosta. Una comunità alpina fra tradizione e modernità,
Olschki, Firenze, 2004.
Turner, V., Simboli e momenti della comunità. Saggio di antropologia culturale,
Morcelliana, Brescia, 2003.
29
Modelli di ritualità e celebrazioni festive
nelle Alpi Occidentali.
Riflessioni sulla badoche della Valdigne
Paolo Sibilla
Tra il 18 e il 19 settembre 1971 fui
invitato a partecipare a un convegno
tenuto al Castello di Châtillon sulle
Tradizioni religiose popolari e Letteratura
religiosa che vide la partecipazione di
eminenti studiosi dei settori interessati.
In quella circostanza il Professor Ettore
Passerin d’Entrèves che ci ospitava nella
sua dimora, sempre così sollecito nel
pensare alla cultura e alla storia della sua
Valle, mi aveva ripetutamente esortato a
presentare una comunicazione sulla badoche, pratica rituale festiva che, come sappiamo, affonda le proprie radici nelle
tradizioni prevalentemente profane di
alcuni paesi dell’Alta Valle alle quali,
comunque, il fatto religioso non è affatto estraneo.
La generosità e il credito che concesse alla mia ancor giovane età quel grande
intellettuale valdostano che fu il Professor Ettore Passerin d’Entrèves, contribuirono a consolidare i miei interessi per l’antropologia e l’etnografia del mondo
alpino, settore di studi allora saltuariamente praticato da uno sparuto manipolo
di studiosi stranieri che operavano prevalentemente in alcune comunità svizzere
e francesi. In quella stessa circostanza il Professor Lin Colliard non aveva mancato di osservare nella sua comunicazione che trattava dell’Archivio Storico di Aosta
nel campo delle tradizioni Religiose Popolari Valdostane che sembrava
«…incredibile a dirsi, gli studi di etnografia e di folklore
non hanno raggiunto in Valle d’Aosta l’intensità e il livello
che ci sarebbe potuti attendere in una zona così fertile di tradizioni religiose e popolari»
(Colliard L., 1974, p.175).
Il richiamo di Lin Colliard, tanto puntuale quanto opportuno, trattava di un
ambito di indagine che oggi può contare un discreto numero di cultori e che a
partire dai primi anni Settanta sarebbe diventato una delle occupazioni centrali
della mia attività di ricerca che dura ancora, anche se da quella data sono trascorsi quasi quarant’anni.
31
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Oggi, ringrazio gli organizzatori e gli animatori di questo incontro che mi
offre l’opportunità di presentare qualche frammento delle mie ricerche sulle
culture alpine che hanno anche toccato, tra gli altri, il tema delle celebrazioni
festive. Desidero anticipare che manterrò solo parzialmente fede al titolo della
mia comunicazione che avrebbe dovuto trattare di modelli di ritualità festiva in
uso nelle Alpi occidentali, tema che se trattato adeguatamente non avrebbe
potuto essere liquidato nel lasso di tempo che viene normalmente concesso a
una comunicazione. D’altra parte ritengo che nell’intervento successivo Pier
Carlo Grimaldi e Davide Porporato trattando l’argomento dell’Atlante delle
feste popolari piemontesi forniranno certamente materia per riflettere sulla
demologia della festa anche in chiave comparativa.
Nel mio intervento necessariamente breve intendo ragionare sul filo di alcune riflessioni che sono maturate nel corso degli anni ogni volta che mi accingevo a valutare quale poteva essere l’approccio più conveniente per un antropologo che si accingeva ad analizzare fenomeni come quelli delle feste che solo
apparentemente potevano essere trattati come fatti a sé stanti, svincolati dal più
ampio contesto rappresentato dalla società in cui avevano luogo.
Qualsiasi descrizione di un momento festivo che assuma l’andamento accattivante di un “racconto” tende ad utilizzare la tecnica narrativa che prende il nome
di “presente folklorico”, tecnica che viene normalmente usata da chi si occupa di
letteratura o di espressioni popolari di tradizione orale. L’uso di per sé legittimo
del presente folklorico, come del resto di quello etnografico, acquista il suo pieno
significato solo se tiene conto della concreta problematica che emerge dalla situazione storica in cui l’esperienza festiva ha luogo e solo se ci si muove in una prospettiva che tenga conto di un insieme che include le dimensioni strutturali, culturali, economiche, simboliche e ambientali che compongono le realtà comunitarie in cui si producono gli eventi, e, nel nostro caso gli eventi festivi.
In questa prospettiva qualsiasi rituale festivo che comporti un coinvolgimento comunitario presenta evidenti implicazioni pluridimensionali e, in un
contesto antropologico di rilievo, assume pertanto la forma di un “fatto sociale
totale”, per dirla con Marcel Mauss.
Tutto ciò al fine di evitare le altrimenti inevitabili interpretazioni riduttive e
deformanti che si accompagnano ad una preparazione monocorde quando si
perde di vista l’esigenza di guardare a questi problemi di ricerca, di per sé complessi e polivalenti, da punti di vista prospettici molteplici allo scopo di coglierne i significati nella loro pienezza.
Per fornire un senso pratico a quanto fin qui si è sostenuto, prenderò in
esame il tema di una festa annuale ben conosciuta in Valle d’Aosta: quella
rappresentata dalla badoche. Elemento distintivo della cultura locale, questo
evento ha la valenza antropologica di una rappresentazione collettiva di origine antica che segue un copione derivato da una tradizione che ha subito
32
Modelli di ritualità e celebrazioni festive nelle Alpi Occidentali. Riflessioni sulla badoche della Valdigne
qualche sensibile e inevitabile cambiamento nel corso del tempo. I comuni
interessati che l’hanno mantenuta in vita, pur con qualche interruzione, sono
quelli di La Thuile, Courmayeur, Pré-Saint-Didier, La Salle e Morgex, tutti
appartenenti alla Valdigne dove si organizza in occasione delle ricorrenze
patronali. Sempre in Valle d’Aosta sono state attestate altre celebrazioni
annuali organizzate secondo un modello cerimoniale che può presentare alcuni punti di contatto con la badoche, come è stato opportunamente segnalato
(Bétemps A., 1990). Lascerò da parte una più completa descrizione della cerimonia, ricostruita compiutamente nei suoi caratteri e nelle diverse fasi che ne
segnano lo svolgimento, rimandando a resoconti etnografici che sono stati
realizzati in tempi diversi (Tibaldi T., 1892; AVAS, 1990). Avendo io stesso
descritto la badoche in almeno due occasioni (Sibilla P., 1978; 2004), mi limiterò a individuarne alcuni aspetti che attraverso una lettura antropologica si
rivelano come particolarmente significativi. Così facendo si finirà per far prevalere il momento esplicativo rispetto a quello descrittivo.
Al di là delle apparenze che oggi possono far pensare ad un uso strumentale
della tradizione a beneficio di un’economia turistica, la badoche, come espressione
autentica della ritualità festiva che caratterizza un’area culturale ben localizzata,
risponde ad esigenze ben più complesse rispetto a chi la interpreta in modo
riduttivo come una semplice espressione folklorica. In primo luogo essa continua
a svolgere un ruolo non trascurabile in vista della conservazione dell’identità dei
gruppi che all’interno delle comunità locali l’organizzano e la interpretano.
Una spiegazione restrittiva che va per la maggiore vuole che la badoche rappresenti un semplice caso di “questua collettiva” organizzata da giovani per i loro
particolari scopi di prevalente ordine ludico. Ciò significa voler attribuire una
evidenza eccessiva ad un singolo episodio che, pur essendo centrale ed importante, limita di molto la portata e il senso di un fenomeno collettivo di notevole valore culturale che presenta ben più ampie implicazioni che interessano le strutture
costitutive delle comunità. La badoche va intesa come un modello culturale performativo che coinvolge i giovani d’ambo i sessi, purché non coniugati e di età non
inferiore ai 17 anni. Costoro svolgono un ruolo centrale in quanto organizzatori e
interpreti principali della celebrazione festiva che tuttavia non manca di coinvolgere l’intera comunità. La componente giovanile si riunisce annualmente dando
vita alla “società della badoche”, organizzazione localistica che assume la struttura
del gruppo corporato di tipo cerimoniale le cui premesse culturali di natura estetica e formale trovano diffusione nelle società rurali del passato. Casi comuni di
società effimere organizzate a scopo celebrativo e festivo sono state attestate
ampiamente nel mondo alpino sia in Italia come in Francia; basti pensare alle
approfondite indagini sviluppate da Arnold Van Gennep sul folklore savoiardo
che testimoniano la proliferazione del fenomeno che è stato individuato nelle sue
varianti locali (Van Gennep, A, 1972).
Seguendo le indicazioni dello stesso autore (Van Gennep, A., 1909), fra i
significati sociali più evidenti vi è quello di considerare per quei giovani che
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
sono prossimi al matrimonio e che quindi partecipano alla loro ultima badoche,
come un autentico rito di passaggio che sancisce un sensibile cambiamento di
status sociale ritualmente sancito che, come il passaggio d’età, avrà un carattere
definitivo.
Come in ogni cerimonia festiva anche nello svolgimento della badoche si può
valutare l’importanza della componente temporale e di quella spaziale.
Già nella fase preparatoria, che anticipa di qualche giorno lo svolgimento
della festa, si procede al taglio di alcune conifere che vengono trasportate in
corteo dal bosco al centro del paese.
L’albero più alto e frondoso avrà la funzione di “maggio”, simbolo stagionale ampiamente riconosciuto dagli studiosi di folklore, che richiama le antiche
cerimonie agrarie che celebravano il risveglio primaverile della natura. Simbolo
centrale della festa, il pino verrà rizzato sulla piazza del paese. Contornato da
altre piante frondose sarà attorno a questo emblema di vita e naturale fertilità
che il momento celebrativo raggiungerà il suo culmine con la dance de place.
Espressione coreutica collettiva, prevede che i balli d’apertura vengano dedicati
ai notabili e alle categorie sociali e professionali ritenute più importanti. Gli
invitati a cui viene riconosciuto questo privilegio sono tenuti ad elargire pubblicamente denaro per avere diritto ad eseguire un giro di ballo con una esponente
della società giovanile giudicata più avvenente. La consuetudine vuole che le
danze si svolgano sotto la direzione degli stessi giovani. Da un certo punto in
poi, devono essere rese accessibili a tutti coloro che intendono parteciparvi,
compresi i visitatori esterni come possono essere i turisti e chi è convenuto dai
paesi vicini. Il ballo in piazza è uno dei momenti forti di questa festa che al
calar della notte procede verso la sua conclusione. Il momento prevede che si
realizzi un grado di partecipazione corale e intensa: le distanze sociali vieppiù
si riducono a beneficio del massimo coinvolgimento dei partecipanti anche sul
piano emozionale. Come è stato efficacemente osservato, durante il tempo festivo, in presenza di prescrizioni rituali codificate e condivise, si impone un ordine ideale ed esemplare che tende a porsi al di sopra delle passioni che possono
dominare il consueto sistema dei rapporti che, per definizione, risulta sempre
imperfetto e non privo di contrasti (Turner V., 1972).
Il tempo celebrativo propriamente detto inizia ufficialmente all’alba del
giorno che precede la festa. Già al mattino, il corteo dei giovani, aperto da un
gruppo di suonatori, compie un primo giro delle diverse frazioni del paese. Si
tratta di una forma di circumambulatio che segna i confini delle aree abitate e ha
la funzione di annunciare solennemente che si è entrati in un tempo diverso, in
un tempo festivo. La mattina del giorno successivo quando cade la celebrazione
del santo patrono (San Nicola a La Thuile, San Casciano a La Salle) si ricompone il corteo dei suonatori che apre la sfilata dei giovani sui quali primeggia la
coppia dei Badochis, soggetti che si pongono ai vertici della società giovanile.
Questi esprimono non solo la differenza di genere ma anche i loro ruoli premi34
Modelli di ritualità e celebrazioni festive nelle Alpi Occidentali. Riflessioni sulla badoche della Valdigne
nenti che vengono esteriorizzati grazie all’uso di oggetti simbolici e a un abbigliamento molto ricco che si rifà alla tradizioni del paese. È in questa circostanza che ha luogo il rito di questua che si svolge fra le case dei vari villaggi che
nel loro insieme formano la comunità. Presso ogni abitazione viene prevista
una sosta che frutta offerte in denaro, vino, oppure sigarette e altri beni voluttuari che hanno il significato di offerte cerimoniali che, raccolte su un vassoio,
andranno a beneficio dei soggetti centrali della festa ossia dei giovani che l’hanno organizzata. I doni augurali più o meno ricchi vengono ripagati con la musica, frizzi e motti di spirito rivolti ad ogni offerente.
Va segnalato che l’abbigliamento appare fra gli apparati simbolici più
importanti. Anche ai giorni nostri la cerimonia della badoche costituisce una
delle poche occasioni durante le quali vengono indossati ricchi abiti tradizionali, anche se non tutti gli uomini del corteo vestono le marsine dai colori vivaci e
calzano i cappelli a cilindro che nella cultura agro-pastorale del passato erano
parte dell’abito maschile riservato ai momenti celebrativi più importanti.
Ancora oggi l’abbigliamento femminile trova modo di essere indossato e continua, almeno in questa circostanza a fungere come elemento di identificazione,
un simbolo di appartenenza ad una determinata comunità che viene esibito con
orgoglio, anche se nel contesto attuale appare evidente la sua prevalente funzione performativa e promozionale oggi legata alla manifestazione festiva che
va anche a beneficio dei turisti.
In momenti ritualmente determinati, l’instaurarsi del tempo festivo fa emergere, anche la dimensione della sacralità. Questa non si esprime solo attraverso
il culto dei santi patroni ma anche come percezione religiosa dello spazio. Ciò
avviene nel momento in cui lo spazio comunitario e i limiti che servono a conferirgli gli attributi di ampiezza, singolarità e autonomia vengono ridisegnati e
simbolicamente riconfermati per mezzo dei percorsi cerimoniali dati dagli spostamenti collettivi e dai riti di questua. Il riferimento all’uso protocollare del
territorio da parte della società giovanile e, di riflesso da parte di tutti coloro
che partecipano alla festa comunitaria, ci porta a ricordare che il mondo della
domesticità, della convivenza e della quotidianità è di per sé un valore di ordine superiore. Esso dà luogo ad un processo di trasfigurazione simbolica di
quell’istinto territoriale, che l’uomo ha in comune con gli animali, e che « …
recita un ruolo fondamentale nella creazione delle festività rituali, celebrative
del gruppo sociale e della sua identità ». (Tullio-Altan C., 1995, p. 28).
Qualche ultima annotazione che desidero proporre a conclusione del mio
intervento riguarda il substrato economico che si propone in tutta la sua centralità attraverso un’analisi delle procedure ritualizzate che caratterizzano questa
festa schiettamente popolare che svolge la funzione primaria di raggruppare e
coinvolgere le diverse categorie di attori. Nelle ritualità festive che ricalcano il
modello della badoche è possibile individuare l’emergere di prestazioni economiche che al pari di altre relazioni sociali, vengono regolate in modo ritualistico
e soggiacciono alle regole del cerimoniale. La loro natura appare evidente se si
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
considerano gli scambi che si praticano nel corso della dance de place e durante
l’attività di questua. In entrambi i casi ci si trova di fronte a dei movimenti di
beni e servizi che hanno le caratteristiche di prestazioni e controprestazioni
effettuate sotto forma di donativi in teoria volontari ma in realtà fatti e riconosciuti rispettando una sorta di obbligo morale che tutti si sentono tenuti ad
osservare. Queste relazioni a sfondo economico sono una ulteriore espressione
della natura arcaica della badoche perché si producono al di fuori di qualsiasi
principio generale imposto dalle moderne regole del mercato. Lo scambio di
beni materiali perlopiù di tenue valore e le prestazioni immateriali che si hanno
nel corso della festa può essere considerato come un tipo particolare di commercio o scambio sociale. In questa circostanza, come in altre analoghe situazioni di pari interesse culturale, il commercio sociale, soprattutto sotto il profilo
performativo, ovvero della rappresentazione festiva considerata nelle sue
diverse componenti, non si può praticamente distinguere dallo scambio di
merci. Tuttavia va osservato che nel caso dello scambio sociale prevale il trasferimento di simboli, per cui il veicolo primario è rappresentato dal gesto e dalla
parola connessi alle rappresentazioni cerimoniali. Nel caso dello scambio di
beni, tipico delle transazioni commerciali che soggiacciono ai principi dettati
dal mercato, si realizza invece il passaggio di mano di beni e cose materiali che
risponde a fini utilitaristici e avviene normalmente in presenza di moneta. Si
può così concludere che nella badoche, che deve essere soprattutto intesa come
un momento di convivialità, le prestazioni e le relative controprestazioni rientrano in un sistema di comunicazione grazie al quale si trasmettono norme e
valori che servono ad assicurare per quanto possibile la continuità sociale e culturale che serve a cementare lo spirito di unità e di collaborazione comunitaria.
r i f e r i m e n t i
b i b l i o g r a f i c i
AVAS, Place pour la Badoche de La Salle, Aosta, Musumeci, 1990.
Bétemps A., Introduction, in AVAS, 1990.
Colliard L., L’operato dell’Archivio storico di Aosta nel campo delle tradizioni religiose popolari valdostane, in «Lares», XL, n. 2, 3, 4, 1974, pp.175-182.
Sibilla P., La Badoche come rappresentazione rituale. Note antropologiche su di un
complesso culturale valdostano, in «Lares», XL, n. 2, 3, 4, 1978, pp. 183-188.
Sibilla P., La Thuile in Valle d’Aosta. Una comunità alpina fra tradizione e modernità,
Firenze, Olschki, 2004.
Tibaldi T., La Badoche, in « Le Valdôtain », XVI, 1892, p. 14-18.
Tullio-Altan C., Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici, Milano,
Feltrinelli, 1995.
Turner V., Il processo rituale, Brescia, Morcelliana, 1972.
Van Gennep. A., Les rites de passage, Paris, Guilmoto, 1909.
Van Gennep A., Manuel de folklore français contemporain, t. 1er, Paris, Picard, 1972.
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L’Atlante delle Feste Popolari Piemontesi:
una nuova base di conoscenza (*)
Piercarlo Grimaldi e Davide Porporato
1. Presentazione
I patrimoni materiali e immateriali etnoantropologici sono, al presente, parte
della coscienza civile e scientifica non solo degli studiosi che si occupano di
questo tema ma, sempre più, di persone e istituzioni che nei saperi della tradizione riconoscono una risorsa indispensabile per affrontare le rapide trasformazioni della società contemporanea. Possiamo ragionevolmente considerare finito il lungo periodo in cui la cultura contadina veniva sacrificata al mito dello
sviluppo e della modernizzazione del Paese e i processi industriali erano considerati oppositivi ai valori della tradizione.
Oggi cogliamo con sempre maggior trasparenza che i patrimoni etnoantropologici sono una risorsa per l’uomo che ogni giorno affronta i problemi della
complessità. A tal fine è possibile sostenere che la postmodernità è l’esito di un
confronto attivo, creativo dei valori della modernità con quelli della tradizione.
Piercarlo Grimaldi e Davide Porporato
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Le feste che persistono, le feste che rinascono e contribuiscono a ricostruire
parti del cervello folklorico della società contemporanea, sono state catturate
nella rete, la rete informatica che ha permesso di mettere a punto un complesso
quanto vasto progetto: l’Atlante delle Feste Popolari del Piemonte (AFPP). A tre
anni dall’inizio della ricerca, frutto di una convenzione tra il Laboratorio
Ecomusei della Regione Piemonte, il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale e l’Università di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo - Bra, gran parte della struttura multimediale
dell’Atlante è presente on-line 1.
Oltre duemila feste del Piemonte sono state schedate in un archivio digitale
che fonda la sua ragione strategica nel non essere una scheda che ha la presunzione di contenere l’universo di un bene immateriale, la festa, peraltro, per
molti versi intraducibile e sfuggente ai furori della formalizzazione ad oltranza.
L’archivio, oltre a strategiche informazioni spazio-temporali che permettono
di creare una solida rete per catturare i dati e incrociarli tra di loro al fine di
organizzare promettenti categorie parlanti e trasparenti, cerca di fornire
all’utente dell’Atlante, in altro modo, le tantissime informazioni, i preziosi segni
che ogni festa si porta appresso. A tale proposito l’Atlante contiene basi di dati
che possono contenere e conservare un alto numero di fotografie, di video, di
suoni e di documenti di ogni tipo. Un patrimonio immateriale in linea che solo
un lavoro condotto sistematicamente sul territorio festivo piemontese per oltre
tre decenni alla ricerca delle fonti, permette ora di realizzare.
La festa è stata osservata, ri-osservata, fotografata, filmata, documentata,
costruendo nel corso degli anni, nel giro delle stagioni, un prezioso e unico granaio folklorico che oggi, inserito nel progetto dell’Atlante delle feste popolari del
Piemonte, permette un’inedita visione diacronica e sincronica, uno sguardo
esaustivo, critico e nel contempo complesso del tempo festivo. Se poi le singole
feste schedate vengono posizionate sul territorio piemontese attraverso la pratica della georeferenziazione, possiamo ampliare i contenuti territoriali che contribuiscono a spiegare la festa e a originare cartografie tematiche non immediatamente prevedibili a livello di ipotesi di ricerca.
Alla schedatura elettronica delle feste del Piemonte, all’implementazione
dell’Atlante, possono partecipare le persone che a vario titolo sono interessate a
condividere, a far conoscere, a promuovere un evento festivo, un territorio folklorico. La condizione per accedere all’archivio in qualità di schedatori è di
seguire il corso di autoformazione che è parte dell’Atlante in rete e di osservare
le analitiche, puntuali indicazioni predisposte per ogni variabile che, nell’insieme, costituiscono l’esemplare protocollo tecnico del progetto.
Questa impostazione di lavoro che apre a tutti coloro che sono interessati
alle tradizioni popolari, agli intellettuali locali, la possibilità di partecipare attivamente ad un grande progetto collettivo che aspira a censire la totalità delle
38
L’Atlante delle Feste Popolari Piemontesi: una nuova base di conoscenza
feste e la loro trasformazione nel panorama piemontese, assume pure un non
trascurabile carattere civile e democratico che ben difficilmente ritroviamo nelle
ipotesi di lavoro delle ricerche accademiche e non solo. D’altra parte la determinante funzione che gli intellettuali locali hanno avuto nel farsi degli studi delle
tradizioni popolari in Piemonte è stata ampiamente attestata recentemente
(Grimaldi, 2007).
In ultima analisi, lavorare al farsi delle tecniche e delle metodologie etnoantropologiche che, nel confronto attivo e creativo con l’informatica, con la
multimedialità, trovano una strategica e potente risorsa, vuol dire contribuire
a fare diventare la tradizione, le feste, il mezzo e il luogo dove si rappresenta
il futuro.
2. Il contenuto dell’Atlante
Quando sentiamo o utilizziamo il termine atlante, tradizionalmente associamo a questa parola una serie di carte geografiche contenute in un libro di
grande formato. Questo termine evoca, dunque, gli atlanti geografici, quelli
che ci aiutano a comprendere il territorio (fisico, politico, storico, economico,
ecc.) di una regione, di una nazione, di un continente o dell’intero pianeta.
Anche se la parola “Atlante” porta con sé questa forte connotazione geografica occorre ricordare che, più in generale, questo termine viene utilizzato per
definire collezioni di tavole figurate che illustrano la diffusione di fenomeni
diversi, quali gli atlanti linguistici, botanici, astronomici, ecc.
Nel caso che qui presentiamo, il termine “Atlante” si giustifica poiché il progetto AFPP è finalizzato non solo a raccogliere in un archivio multimediale le
informazioni relative alle feste e alle cerimonie, attive e non attive, che rinviano
al ciclo annuale e al ciclo della vita ma, anche a restituire criticamente i risultati
attraverso la produzione di specifiche mappe tematiche georeferenziate che
permettono di organizzare e visualizzare i risultati della ricerca divisi per
tempi, territori, categorie e azioni cerimoniali.
Il ciclo annuale organizza le informazioni folkloriche che scandiscono il
corso dell’anno caratterizzato da riti sacri e profani, da calendari liturgici e laici
e dalle attività produttive agropastorali. I periodi rituali più importanti sono,
ad esempio: il Ciclo santorale, Capodanno, Carnevale, Quaresima, Settimana
santa e Pasqua. Queste feste sono intimamente connesse al ciclo produttivo
agropastorale e si concentrano, in particolare, nel lungo periodo carnevalesco e
in quello primaverile.
Durante il tempo del Carnevale i faticosi lavori dei campi erano prossimi al
risveglio. Il contadino della tradizione, nel periodo che va dall’inizio dell’anno
fino all’inizio della primavera, ritornava a rafforzare, intensificare, i rapporti
sociali, comunitari che si erano allentati nel corso dell’isolante inverno. La mas39
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
sima densità folklorica della trasgressione carnevalesca si raggiunge nell’ultima
settimana e, in particolare, nella giornata del martedì grasso che precede l’inizio
della Quaresima e chiude questo intenso arco temporale festivo.
Proprio in questo periodo, che segna la fine dell’inverno e l’inizio della
primavera, si svolgevano rituali di propiziazione volti a favorire la fertilità
dei campi e il ritorno della luce dopo la lunga stagione invernale. Il complesso legame uomo-natura lo si può osservare in alcuni carnevali tradizionali ancora attivi, in particolare nell’arco alpino, che vedono la significativa
presenza di maschere inferiche, figure selvagge e animali mitici.
Molte di queste cerimonie carnevalesche sono delle riproposte, sono feste
rivitalizzate che ricompaiono rifunzionalizzate nei calendari festivi contemporanei delle comunità, spesso dopo lunghi periodi di assenza. Parliamo di rifunzionalizzazione poiché è evidente, come è già stato detto, che:
«i tratti di queste tradizioni, gli elementi che vengono riproposti quindi non sono più utili, non sono più funzionali a
una comunità contadina a tutto tondo […]. Le feste non servono più a scandire i ritmi produttivi e religiosi di una
comunità contadina». (Bravo, 2005b, p. 161)
Oltre alle feste del ciclo dell’anno, nell’Atlante sono inserite le informazioni
etnografiche riguardanti i sistemi festivi che rinviano al ciclo della vita tradizionale. Si tratta di un insieme di riti e cerimonie che nelle comunità tradizionali
contrassegnano il susseguirsi delle fasi, dei ritmi costitutivi della vita degli individui. Tra queste, ancora attive sul nostro territorio, vanno segnalate le feste dei
coscritti, riti di passaggio che scandiscono il cambiamento di status del giovane
all’interno della comunità anche se, da pochi anni, il servizio militare di leva
non è più obbligatorio (Bravo 2005a).
3. L’archivio informatico
Dopo aver brevemente delineato le principali categorie delle feste popolari
del territorio piemontese che possono essere archiviate nell’Atlante, vediamo
ora di illustrare la metodologia adottata per creare la complessa base di dati
relazionale che genera l’Atlante.
La costruzione della scheda, la scelta dei campi, richiede un forte processo
di formalizzazione volto a definire la tipologia, il numero e la dimensione delle
singole variabili. La fase di progettazione è particolarmente delicata poiché
nell’assegnare tali valori alla struttura d’archivio ne stabiliamo anche il fine e
l’utilizzo. Un archivio, elettronico o manuale, per configurarsi come un valido
strumento di gestione dell’informazione deve necessariamente essere dimensionato a un quadro teorico di riferimento e agli obiettivi principali del lavoro.
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L’Atlante delle Feste Popolari Piemontesi: una nuova base di conoscenza
Se si adottano questi principi di carattere generale si avranno dei notevoli
vantaggi nella gestione complessiva dei dati poiché, come sappiamo,
«l’archiviazione informatizzata rende l’informazione più
accessibile ai vari tipi di fruitori (ricercatori, operatori
culturali ecc.) permettendo ulteriori applicazioni o sviluppi e modalità di conservazione più efficiente del materiale etnografico a volte disperso e concretamente deperibile. Si tratta, quindi, di formulare una base di dati ordinati secondo un criterio tematico orientato».
(Grimaldi R., 1996, p. 17)
Nel nostro caso i dati inseriti e organizzati in una struttura di record possono,
in un secondo momento, essere recuperati criticamente mediante la formulazione di interrogazioni e rappresentati, anche graficamente, mediante la produzione di mappe tematiche.
Nella definizione della struttura dell’archivio AFPP abbiamo tenuto conto di
alcune rilevanti ricerche demoetnoantropologiche che hanno richiesto la costruzione di schede d’archivio informatizzate per la gestione critica di dati relativi a
eventi festivi e cerimoniali. In particolare, siamo partiti dai risultati di due
recenti esperienze di documentazione che si sono confrontate, contaminate e
sono cresciute in accordo scientifico, soprattutto per quanto attiene alle strutture degli archivi e al trattamento informatico dei dati.
La prima indagine, condotta all’interno di un programma di ricerca di rilevante interesse nazionale, ha prodotto una scheda informatizzata denominata
«Archivio multimediale della ritualità piemontese – AMRP»2. La struttura d’archivio è in grado di registrare:
«[…] vari dati di rilievo scientifico: gli spazi e percorsi rituali, gli attori e i collegamenti con i cicli calendariale e produttivi; essa è mirata inoltre ad una pronta ricognizione della
distribuzione delle cerimonie sul territorio, all’accertamento
della qualità degli informatori e delle fonti cui sono dovute
le notizie registrate, e di conseguenza alla predisposizione
di uno strumento di tutela, sostegno ed eventualmente indirizzo e orientamento nel quadro di una programmazione
territoriale. L’arricchimento con la dimensione culturale è
assicurato sia mediante le indicazioni relative ad archivi
sonori, fotografici, filmici, video, iconografici, pertinenti, sia
mediante l’apertura diretta di contributi audio, video e fotografici da ogni scheda».
(Bravo, 2001, p. 292)
La seconda scheda, denominata «Festa Progetto Finalizzato – FPF», è stata
invece elaborata nel quadro delle attività previste dal Progetto finalizzato Beni
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Culturali finanziato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)3. Il tracciato
presenta una complessità superiore alla scheda AMRP e registra:
«[…] oltre ai dati identificativi e di collocazione temporale,
un’ampia articolazione delle informazioni relative alle molteplici componenti che gli antropologi analizzano in quel
fenomeno stratificato, e realizzato in molti codici diversi,
che è appunto la festa. Citiamo così: gli attori della cerimonia, i loro costumi, le azioni in cui ognuno s’impegna; il tipo
di organizzatori e di partecipanti alla festa, ed il tipo di
risorse di cui ci si giova; la presenza rituale di animali, vegetali, alimenti, elementi figurativi, sonori e gestuali e altri
ancora oggettuali. Si registrano le componenti rituali tipiche
presenti quali processioni, danze, acrobazie, azioni drammatiche, questue, ecc. e le credenze e la documentazione orale
connessa». (Bravo, 2001, p. 292)
Anche questo tracciato offre la possibilità di indicare in uno specifico paragrafo le fonti primarie e secondarie di cui ci si è avvalsi per la compilazione dei
numerosi campi e di accedere direttamente, come per la AMRP, alla documentazione digitalizzata inserita a corredo della scheda.
Oltre a considerare le interessanti esperienze di ricerca che hanno originato
gli archivi informatici multimediali AMRP e FPF, ci siamo anche confrontati con
l’imponente tracciato della scheda ministeriale BDI. La scheda Beni
Demoetnoantropologici Immateriali (BDI), pubblicata nel 2002 dall’Istituto
Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) del Ministero per i Beni e
le Attività Culturali, è il risultato di un lungo e articolato confronto tra più enti
pubblici, studiosi e ricercatori, che rappresentano anche istanze molto diverse4.
È sufficiente scorrere l’elenco delle istituzioni e dei soggetti che, a vario titolo,
hanno contribuito alla definizione della struttura del tracciato, per avere
un’idea della pluralità dei contributi presi in considerazione e dibattuti e, di
conseguenza, della sintesi necessaria, della mediazione scientifica per arrivare
alla formalizzazione della scheda d’archivio (ICCD, 2002, pp. 3-7).
Il risultato di questo vasto impegno è una scheda unica che presenta, per
numero e tipologia, un elenco elevato di variabili è può essere utilizzata per
registrare la complessità dei beni etnoantropologici immateriali. La fase progettuale è così sintetizzata da Roberta Tucci:
«Si tratta, pertanto, di un tracciato del tutto nuovo, sperimentale, mediante il quale si è cercato di offrire uno strumento unificato per catalogare una pluralità di beni, quali
giochi, danze, spettacoli, tecniche, comunicazioni non verbali, autobiografie, onomastica e toponomastica orali, saperi,
consuetudini giuridiche, ecc.».
(Tucci, 2006, pp. 98-99)
42
L’Atlante delle Feste Popolari Piemontesi: una nuova base di conoscenza
Proprio la molteplicità d’uso della BDI, su cui insiste Tucci, ovvero la possibilità
di registrare dati riferiti a categorie etnoantropologiche differenti, non è riscontrabile nella scheda AFPP. L’archivio da noi realizzato elenca un numero di campi molto
inferiore rispetto al tracciato BDI ed è volto unicamente a ospitare dati connessi alle
feste e cerimonie. Di conseguenza il numero delle variabili che definiscono la struttura d’archivio è dimensionato unicamente al dato che si intende registrare e, più in
generale, al quadro di riferimento che si vuole raggiungere.
Occorre però osservare che la scheda AFPP, seppur limitata a un obiettivo scientifico specifico è composta per la quasi totalità da variabili che appaiono nella scheda ministeriale BDI. I restanti campi sono frutto di informazioni che non sono presenti nella scheda BDI ma che sono strategici e indispensabili per la restituzione critica digitale delle fonti presenti nell’Atlante; ad esempio i dati che permettono la
georeferenziazione e la collocazione su Google Maps della singole feste catalogate.
L’archivio multimediale AFPP che qui proponiamo è, dunque, il frutto di
diverse esperienze scientifiche che si sono svolte in più lustri e da cui abbiamo
tratto utili indicazioni. L’esito è una complessa struttura relazionale di informazioni che si articolano in cinque distinte aree di contenuti, ognuna delle quali
raggruppa al suo interno dati specifici. Il sistema prevede un archivio principale denominato “Festa” sul quale si innestano gli altri quattro sotto-archivi:
“Testimoni della tradizione”, “Documentazione festa”, “Attori festa” e “Media
festa”. Questi ultimi possono essere creati e consultati solo a partite dall’archivio “Festa” e l’insieme delle parti genera una sola scheda (Figura 1).
Figura 1. – Struttura dell’archivio AFPP
43
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
3.1 L’archivio in rete
I programmi informatici delle schede di catalogazione AMRP e FPF, realizzati all’interno dei progetti di ricerca cui abbiamo fatto riferimento e la versione informatica del tracciato ministeriale BDI, presente nel sistema informativo
“Guarini Patrimonio Culturale” sviluppato dalla Regione Piemonte, sono stati
realizzati per permettere che l’attività di catalogazione si svolga “in locale”.
Questa strategia di schedatura della festa che presenta indubbi vantaggi, prevede tuttavia che i programmi siano installati direttamente sulle singole
postazioni informatiche. Solo a queste condizioni è possibile inserire dati e
realizzare nuove schede di inventario o di catalogazione ed effettuare ordinamenti e ricerche sulla base di informazioni. Inoltre, se la catalogazione coinvolge più soggetti che operano su più computer, occorre prevedere una procedura finalizzata all’accorpamento in un unico archivio di tutte le schede realizzate e “salvate” in luoghi diversi.
A differenza di questi sistemi di catalogazione l’AFPP è stato realizzato
affinché i dati etnografici possano essere inseriti nell’archivio unicamente
tramite l’accesso alla rete Internet. La catalogazione avviene utilizzando il
modello di comunicazione client / server e non richiede quindi la presenza di
software specifico sul computer (client). I soggetti autorizzati possono, anche
contemporaneamente, introdurre informazioni nell’archivio, associare alle
schede e trasferire sul server le diverse risorse multimediali. Dunque, i ricercatori, per aggiungere, modificare o eliminare una scheda o una risorsa multimediale associata ad essa devono semplicemente collegarsi all’archivio in
rete dell’Atlante.
Per la costruzione dell’archivio AFPP si è utilizzato un Data Base
Management System (DBMS) relazionale denominato MySQL. Il software utilizza il noto linguaggio SQL per l’aggiunta, l’accesso e l’elaborazione dei dati
contenuti nel database. Si tratta di un sistema open source che può essere installato su server, come nel nostro caso, con sistema operativo Linux.
Per la creazione delle pagine web dinamiche, che permettono all’utente di
interagire con l’archivio MySQL, si è scelto di utilizzare un linguaggio di
scripting interpretato denominato PHP, acronimo ricorsivo di Hypertext
Preprocessor, un linguaggio open source che permette di definire sequenze di
istruzioni (script). Gli script PHP sono incorporati nelle pagine HTML, vengono eseguiti e interpretati sul server in seguito a una richiesta specifica
dell’utente (client) e possono quindi variare a seconda dei parametri immessi.
L’interprete PHP è liberamente disponibile e viene utilizzato in particolare su
server web con sistema operativo Linux. Si è scelto, come abbiamo appena
detto, di adottare, per la realizzazione dell’Atlante, un insieme di tecnologie
di rete open source che ha comportato, anche rispetto alle precedenti esperienze di catalogazione, una diversa metodologia di lavoro; in questa nuova
impostazione la catalogazione in rete diventa partecipata e condivisa.
44
L’Atlante delle Feste Popolari Piemontesi: una nuova base di conoscenza
3.2 Georeferenziare la festa
Il termine georeferenziazione indica l’assegnazione di coordinate geografiche
ai punti di un’immagine o di una mappa. Nel processo di georeferenziazione gli
oggetti del mondo reale (la festa), le caratteristiche geografiche e i dati territoriali
vengono associati alle coordinate spaziali (longitudine e latitudine) definite dagli
standard del sistema di riferimento adottato. Le informazioni così raccolte possono essere successivamente organizzate attraverso specifici sistemi informatici e
collegate a una base cartografica.
In altre parole la georeferenziazione permette di ‘ancorare’, collocare, ricollocare, la festa al territorio di riferimento e ciò rappresenta una straordinaria opportunità per comprendere i nessi, le connessioni tra la festa e gli altri elementi
ambientali, le attività dell’uomo peculiari di un preciso contesto geografico.
Raccogliere le coordinate geografiche di un bene immateriale, quale un evento
festivo, significa, dunque, stabilire un forte legame tra il bene e il contesto originario. Questa semplice operazione che oramai le tecnologie rendono amichevole
e disponibile su vasta scala, permette di fornire un importante contributo per la
patrimonializzazione dei beni culturali demoetnoantropologici. Infatti, ‘appoggiare’ o ‘ri-appoggiare’ sul territorio di appartenenza le feste, al centro del nostro
lavoro, significa favorirne la conoscenza, lo studio e renderle patrimonio specifico
del luogo in cui la testimonianza immateriale si è generata.
Inoltre, i dati georeferenziati possono essere elaborati utilizzando software
specifici denominati GIS (Geographical Information System). Un sistema GIS è un
insieme di strumenti per raccogliere, memorizzare, recuperare, trasformare e
visualizzare dati spaziali del mondo reale per un particolare insieme di scopi
(Burrough, McDonnell, 1998).
Con un sistema GIS è, dunque, possibile inserire le informazioni relative ai
dati del territorio ed eseguire un’ampia gamma di operazioni, ad esempio,
interrogazioni critiche, creazione di report e produzione di mappe tematiche.
I sistemi GIS permettono, in molti casi, la creazione di mappe personalizzate
che favoriscono la correlazione tra specifiche località geografiche e informazioni di contesto di vario genere. Questa possibilità di rappresentazione articolata
e su più livelli concettuali è possibile grazie all’integrazione di basi di dati che,
oltre a contenere le informazioni di carattere geografico, raccolgono e organizzano tutti gli attributi che possono essere ricondotti al dato geografico stesso:
elementi descrittivi, topologici o di altro genere. Le principali funzionalità che
caratterizzano un sistema GIS e che a nostro avviso risultano particolarmente rilevanti per la realizzazione dell’Atlante, sono le seguenti:
1)Visualizzazione dei dati associati alle aree geografiche. Le rappresentazioni geografiche possono essere arricchite e corredate da informazioni di
vario genere, ad esempio, immagini, testi, dati e tabelle;
45
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
2)Sovrapposizione (overlay) delle mappe. È possibile combinare due o più
distinte rappresentazioni per creare una nuova mappa. A ciascun livello
della rappresentazione corrisponde una tipologia di informazioni diversa;
3)Query sui dati georeferenziati. Le visualizzazioni possono essere personalizzate immettendo delle query specifiche o definendo le condizioni per
filtrare i dati descrittivi.
La figura 2 è stata predisposta per esemplificare come i dati di cultura popolare possano integrarsi con altri livelli di rappresentazione del territorio.
Legenda
1. Rappresentazione delle feste popolari.
2. Rappresentazione delle risorse turistiche.
3. Rappresentazione della viabilità.
4. Rappresentazione dei dati topografici.
5. Rappresentazione dei dati urbanistici.
Figura 2.
Livelli di rappresentazione del territorio
I sistemi GIS si sono diffusi rapidamente trovando applicazione in settori
diversi. In particolare sono stati adottati nella produzione cartografica, nel monitoraggio delle risorse naturali, nella valutazione degli impatti ambientali, nelle
analisi storiche, nella gestione urbanistica e in numerose attività commerciali.
Negli ultimi anni abbiamo anche assistito alla proliferazione di strumenti
cartografici ad accesso libero e disponibili sulla rete Internet: tra i più conosciuti
segnaliamo Google Maps, Yahoo Maps e Live Maps 5. I sistemi offrono alcune delle
funzionalità tipiche dei programmi GIS e, tramite l’utilizzo di API (Application
Program Interface) pubbliche, possono essere liberamente utilizzati per la creazione di applicazioni cartografiche personalizzate.
Questo modello di lavoro ci permette di rappresentare i contenuti del tempo
festivo su mappe personalizzate che possono rinviare anche ad altri contesti: culturali, sociali, economici, ecc. Si possono realizzate carte tematiche che illustrano
la presenza e la distribuzione, sul territorio piemontese, del “carro processionale”,
delle “sacre rappresentazioni”, delle feste caratterizzate da un particolare cibo
rituale. In questo modo sarà possibile definire e visualizzare, di volta in volta, i
dati di cultura etnoantropologica su cui si intende lavorare, si potrà anche leggere
e interpretare il territorio in rapporto alla densità folklorica che lo caratterizza.
46
L’Atlante delle Feste Popolari Piemontesi: una nuova base di conoscenza
La dimensione della ricerca diviene ancor più articolata e promettente se la
lettura del territorio passa attraverso l’integrazione di più livelli di informazione. L’utilizzo di un sistema GIS, come abbiamo visto, ci permette di procedere
in questa direzione rappresentando agevolmente dati collocati su differenti
livelli. Nel nostro caso, risulterà particolarmente interessante associare le fonti
etnoantropologiche archiviate nell’AFPP con altri archivi contenenti, ad esempio, dati socioeconomici, informazioni turistiche e flussi migratori.
Al termine della presentazione della base di conoscenza riguardante le feste
popolari presenti in Piemonte, proponiamo la Carta 1, dove sono rappresentate le
comunità in cui è ancora attiva la pratica e/o la memoria collettiva del pane. Oltre
duemiladuecento feste costituiscono il patrimonio festivo sino ad ora schedato e
archiviato. Di queste, centoventidue, circa il cinque per cento, testimoniano la
presenza del pane. Ad una prima lettura della carta si può notare come l’uso del
pane cerimoniale sia diffuso in modo omogeneo su tutta la regione e, quindi, tale
pratica non sembri essere particolarmente condizionata dai principali tratti morfologici che caratterizzano il territorio regionale. Carte che organizzano altri cibi
rituali indicano a loro volta distribuzioni non facilmente prevedibili che permettono di condurre inediti e sorprendenti percorsi critici.
L’Atlante delle Feste Popolari Piemontesi è dunque una base di conoscenza
che comincia a fornire, a redistribuire, frutti etnografici complessi che permettono di riscrivere, sin da ora, una storia diacronica e sincronica delle feste popolari della regione.
Carta 1.
Distribuzione sul territorio piemontese delle feste in cui compare
il pane cerimoniale
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
n o t e
(*)
Il saggio è l’estratto, con alcune aggiunte, del volume: Porporato Davide (2007), Feste e
musei. Patrimoni, tecnologie, archivi etnoantropologici, Torino, Omega Edizioni. Il punto 1. è
da attribuire a Piercarlo Grimaldi (Università degli Studi di Scienze Gastronomiche), gli altri
punti a Davide Porporato (Università degli Studi del Piemonte Orientale).
Si veda http://www.atlantefestepiemonte.it/
L’archivio multimediale è uno dei prodotti dei Programmi di ricerca scientifica di
rilevante interesse nazionale finanziata dall’allora Murst (1998/2000): «Archivio multimediale della ritualità tradizionale», coordinato, a livello nazionale, da Antonino
Buttitta dell’Università di Palermo. In particolare, questo è il risultato del lavoro svolto
dalle due unità operative locali coordinate rispettivamente da Gian Luigi Bravo del
Dipartimento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico- Territoriali dell’Università di Torino e da Piercarlo Grimaldi del Dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale. Si vedano Bravo (2001, 2005c),
Grimaldi (2001) e Porporato (2001).
3
La ricerca, finanziata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), 1996 - 2001, è stata
svolta all’interno del Sottoprogetto 4: Archivio Biologico ed Etnoantropologico. Titolo
del lavoro: «Sistema ipermediale interattivo relativo ai culti, alle pratiche e alle tecniche
agrarie tradizionali con riferimento ai comportamenti religiosi e festivi nel Nord Italia e
ai prodotti museografici della cultura materiale». Si vedano Bravo (2001, 2005c),
Grimaldi (2001) e Porporato (2001).
4
La struttura della scheda BDI (ICCD, 2002) e le norme di compilazioni (Tucci, 2002)
sono disponibili in rete al seguente indirizzo web http://iccd.beniculturali.it.
5
I siti web sono raggiungibili ai seguenti indirizzi: http://maps.google.it/; http://
maps.yahoo.com/; http://maps.live.com/.
1
2
riferimenti bibliografici
Bravo, G. L., Schede multimediali su feste con danza delle spade in Piemonte, in
Grimaldi P. (a cura di), Le spade della vita e della morte. Danze armate in
Piemonte, Torino, Omega Edizioni, 2001, pp. 291-329.
Bravo, G. L., Feste, Masche, Contadini. Racconto storico-etnografico sul Basso
Piemonte, Roma, Carocci, 2005a.
Bravo, G. L., Il calendario rituale contadino: vecchie e nuove pratiche della tradizione,
in Merisi F. (a cura di), I fuochi rituali. Fuochi di festa lungo l’Arco Alpino e la
Pianura Padana. Riti di fuoco in Sicilia e Sardegna. Il falò di Pescarolo, Cremona,
Annali della Biblioteca Statale e Libreria Civica di Cremona (Volume LVII),
2005b, pp. 151-163.
Bravo, G. L., La complessità della tradizione. Festa, museo e ricerca antropologica, a
cura di Bonato L., Grimaldi P., Milano, Franco Angeli, 2005c.
Burrough, P. A., McDonnell, R., Principles of geographical information systems,
Oxford, Oxford University Press, 1998.
48
L’Atlante delle Feste Popolari Piemontesi: una nuova base di conoscenza
Costa, V. M., Informatica e antropologia, Palermo, Sellerio Editore, 2006.
Grimaldi, P., (a cura di), Le spade della vita e della morte. Danze armate in Piemonte,
Torino, Omega Edizioni, 2001.
Grimaldi, P., (a cura di), Parlandone da vivo. Per una storia degli studi delle tradizioni
popolari: Piemonte, Torino, Omega Edizioni, 2007.
Grimaldi, R., (a cura di), Tecniche di ricerca sociale e computer, Torino, Omega
Edizioni, 1996.
ICCD, Strutturazione dei dati delle schede di catalogo. Scheda BDI Beni demoetnoantropologici immateriali, prima parte, Roma, ICCD, 2002.
Porporato, D., (a cura di), Archiviare la tradizione. Beni culturali e sistemi multimediali, Torino, Omega Edizioni, 2001.
Porporato, D., (a cura di), Feste e musei. Patrimoni, tecnologie, archivi etnoantropologici, Torino, Omega Edizioni, 2007.
Tucci, R., (a cura di), Beni demoetnoantropologici immateriali. Scheda BDI, prima
parte, norme di compilazione, Roma, ICCD, 2002.
Tucci, R., (a cura di) Beni demoetnoantropologici immateriali. Scheda BDI, seconda
parte, norme di compilazione, Roma, ICCD, 2006.
49
Le feste della tradizione walser
Vittorio De La Pierre
Sono dunque qui a parlare di tradizioni walser, o, almeno, più precisamente, di
tradizioni proprie di quel gruppo di famiglie che costituiscono le comunità walser
di Gressoney e di Issime, da circa ben otto
secoli popolando l’alta valle del Lys.
Certamente una prima curiosità che
può affacciarsi a tutti voi, ma, detto sinceramente, anche a me stesso, è sapere
come, quando, dove e perché esse siano
nate. La risposta però fatalmente si
perde. Si perde o addirittura nelle lontane terre dell’Alemania, o lungo interminabili sentieri percorsi e alti valichi superati, o in faticosi insediamenti e adattamenti alla dure condizioni di vita e di lavoro in alta montagna.
E nasce ancora un altro quesito, cioè come abbiano fatto ad affermarsi in
modo consistente e poi a sopravvivere e mantenere la loro freschezza; ma anche
a questo riguardo la risposta non è facile.
Potrei in proposito riferire quanto può emergere da un esempio, che è quello
mio personale.
Queste tradizioni, la maggior parte, ho avuto modo di attraversarle direttamente, le altre, quasi tutte, almeno indirettamente. Le ho attraversate, ma loro
non sono invece riuscite ad attraversare me. E spiego subito cosa intendo dire:
io le ho vissute, per il tempo da loro richiesto, uscendone poi per riaffrontare
naturalmente la solita realtà quotidiana; loro invece sono penetrate in me, ma
senza attraversarmi, cioè senza uscirne, mai più, e continuando invece ad albergare dentro di me con tutta la loro carica emotiva e con il piacere dei ricordi che
suscitano; e sono veramente diventati mia storia, mia cultura, mia identità. Il
fatto di non uscire non ha però rappresentato l’arresto del loro percorso, bensì
solo una variazione dello stesso, fortunatamente per tramandarsi alla generazione dei figli, poi a quella dei nipotini, e speriamo oltre. Purtroppo non tutte le
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
nostre tradizioni sono riuscite a sopravvivere, e durante la loro descrizione avrò
modo di accennare ad alcune circostanze pratiche di ciò responsabili.
Ho pensato di accompagnare la descrizioni con delle immagini fotografiche,
ma anche con alcuni disegni realizzati da persone della nostra comunità, perché
hanno il pregio, anche senza essere eccezionali, di costituire valida testimonianza di tanta sensibilità al riguardo.
In questi giorni ci troviamo a poca distanza da due ricorrenze che da sempre
non manchiamo di festeggiare, seguendo le abitudini che ora illustrerò. E
voglio iniziare con quella da poco trascorsa, il 6 dicembre, la festa di san Nicola,
lasciando invece per ultima l’altra che sappiamo attenderci fra breve, cioè il
capodanno.
San Nicola è festeggiato dai bambini, sono loro i suoi privilegiati, è a loro
che porta i suoi doni.
Nell’iconografia vediamo solitamente posto presso di lui un mastello con tre
bambini nudi, a testimonianza del suo aiuto soprattutto ai piccoli ed a quelli
più poveri. In una cappella a Gressoney in un quadro è rappresentato invece
con tre palle d’oro poste ai suoi piedi, a ricordo di simile omaggio fatto a tre
fanciulle intenzionate di sposarsi ma impedite dal fatto di non possedere mezzi
per procurarsi l’indispensabile corredo. A Gressoney ci sono due cappelle dedicate al Santo, ed esistono sue raffigurazioni anche una nella Chiesa
parrocchiale di Saint Jean, e due
altre in cappelle sui monti. A questo
Santo è dedicata, e di esso porta il
nome, Nikolaital, anche la valle che
per prima i walser hanno risalito,
per portarsi, lasciato il Vallese,
verso Zermatt e da qui nelle zone
meridionali del Monte Rosa.
La sera del 5 dicembre sul tavolo
della camera di abitazione i bambini posano capovolte (operazione in
titsch definita welpe) delle ciotole ed
accanto un bigliettino con il loro
nome. Nel buio e nel silenzio della
notte il Santo passa per riempire le
ciotole di doni che naturalmente i
piccoli al risveglio corrono a godersi. Talvolta però trovano anche una
San Nicola porta i doni ai bambini 1
52
Le feste della tradizione walser
piccola verga a disposizione dei genitori per qualche eventuale mancanza.
Quelli che non hanno ceduto al sonno hanno anche la possibilità di incontrare
direttamente il Santo ed intrattenere con lui un breve colloquio, soprattutto
accogliere le sue raccomandazioni di comportarsi sempre correttamente. Gli
adulti hanno occasione di partecipare alla messa celebrata nelle cappelle dedicate al Santo, con successivo rinfresco o pranzo in comune. Va ricordato che
fino alla mia generazione e a quelle vicine non c’era alcuna usanza di regali
portati a Natale, cioè da parte di Gesù Bambino, usanza che invece i nostri
nipotini hanno ben volentieri introdotto, naturalmente non in sostituzione ma a
complemento di quella del 6 dicembre.
Nella notte non sempre splendono solo la luna e le stelle, ma qualche volta
si alzano al cielo grandi fiammate accese nei villaggi a mezza quota, i cosidetti
béerga, per annunciare e propiziare una pausa di gioia, un giorno di festa. È possibile avere questa visione ad Issime, puntando gli occhi verso le alture, alla
vigilia del 20 gennaio, essendo questo il primo segnale dei festeggiamenti in
onore di san Sebastiano, patrono invernale della parrocchia. Ad Issime si celebra anche, due giorni prima della ricordata festa di san Nicola, sfidando i rigori
del tardo autunno, la ricorrenza di santa Barbara, creatura tanto mite ma assurta, forse perché morta fulminata, a protettrice dei robusti uomini soliti a far uso
della potenza del fuoco o a dominarlo, minatori, artiglieri, pompieri, e quindi
anche di quegli uomini di Issime che lasciando il paese si recavano all’estero
per dedicarsi alla lavorazione della pietra. La sua statua si trovava nella cappel-
Welpe (i doni di san Nicola nella scodella)
53
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
la di San Grato, ma ora è ritirata nel museo di arte sacra. Forte è l’adesione alla
festa di santa Barbara ed a quella di san Sebastiano perché ricorrono nel periodo
in cui le famiglie sono al completo, gli uomini essendo tornati dai lavori all’estero
e gli alpigiani essendo scesi dagli alti pascoli, per cui è possibile raccogliersi tutti
insieme e manifestare per tutto il giorno con canti e suoni quel senso di comunità
che già al mattino la funzione religiosa ha innescato. Una bella statua di san
Sebastiano si può ammirare nella Chiesa parrocchiale, dove fa parte dell’altare.
Improntati ad uno spirito certamente più pagano giungono in febbraio i
giorni del carnevale. Può capitare di vedere in giro delle maschere di vario tipo,
alcune dall’aspetto terribilmente truce, emerse dal mondo di chissà quali fantasiose leggende. Ricordo le nostre più modeste maschere da bambini, fatte con
dei panni, qualche volta con pelli conciate di coniglio, la parte pelosa verso
l’esterno, due fori per gli occhi ed uno più largo alla bocca, onde poter emettere
qualche strano brusio significante richiesta ed introdurre i frutti corrisposti,
cioccolatini e dolcetti.
Al giovedì grasso, de feiste frontag, bisogna essere molto abili. Uno si introduce
in casa di parenti o vicini, e cercando in qualche modo di distrarli, va furtivamente in cucina e ruba la pentola sul fuoco, o tutta intera oppure solo asportandone il
contenuto, e talvolta sostituendo lo stesso con oggetti vari. Parlo al presente, ma è
da pensare che al giorno d’oggi uno scherzo del genere avrebbe tutte altre conseguenze che una festosa allegria. Al venerdì, de broamte frittag cioè il venerdì sporco di carbone, bisogna invece rubare dal focolare un pezzettino di carbone, avvicinarsi senza destare sospetto ai
compagni, e tutto d’improvviso tracciare sui loro volti qualche schizzo
nerastro, a guisa di primitivo, spontaneo ma certamente non duraturo
tatuaggio. La domenica si festeggia
all’esterno, con la neve ben disposta
a fare da base, specialmente dopo
che l’avvento degli sci ha offerto la
possibilità di esibizioni e gite.
Ma i walser rispettano anche,
come avviene in Lombardia, quello
che è definito il “carnevale vecchio”
der oalte fassnachtsonntag, rallegrandolo di eventi spassosi, organizzando per esempio una breve gara di
fondo in sci per chi tali attrezzi non
ha mai adoperato. E quanta solennità per la premiazione!
Strenna di Capodanno ai bambini
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Le feste della tradizione walser
Festa patronale di Gressoney-Saint-Jean (san Giovanni): la processione e l’offerta degli agnelli
A marzo chi ha occasione di una bella festa, pranzo conviviale ed allegria, in
onore del più famoso di loro, san Giuseppe, sono ovviamente i falegnami, che
si godono un giorno di meritato riposo, loro, così presenti e così importanti in
tutta la vita delle famiglie.
Aprile porta le feste pasquali, il cui significato e la cui solennità emergono
dai riti religiosi; ai bambini piace colorare le uova.
Seguono invece tre mesi in cui esplodono di entusiasmo le Parrocchie perché
arriva il giorno del patrono e bisogna festeggiarlo nel modo più degno e con
tutto lo slancio del cuore.
Tocca per prima a Gressoney La Trinité. Un affresco sulla facciata della
Chiesa ed un suggestivo gruppo scultoreo al suo interno, sopra all’altare, indicano chiaramente che essa è dedicata alla Santissima Trinità, per cui si fa grande festa alla domenica che la vede inserita nel calendario liturgico. In mattinata
alla celebrazione eucaristica segue una processione per le vie del capoluogo,
lasciando poi spazio al folclore, al pranzo comunitario, sovente ad una lotteria
o altri divertimenti pomeridiani e serali.
Il 24 giugno è la festa di san Giovanni, der Täufer, il Battista, annunciata alla
vigilia dal suono prolungato della campana maggiore e dall’accendersi in tanti
villaggi di grandi falò i cui bagliori sono accompagnati dalla gioia e da canti e
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Festa della comunità a Issime
suoni di chi vi accorre. Al mattino, all’Offertorio durante la Messa non sono
portati all’altare solo pane e vino, bensì anche, in segno di ringraziamento o per
invocare grazie da parte delle famiglie, una schiera di agnellini, poi messi in
vendita a sostenere con il provento le necessità della Parrocchia. Fa seguito una
solenne ed affollata processione per le vie del centro, con reliquie e statua del
Santo, ed al ritorno in Chiesa la tradizionale benedizione dei bambini che non
esitano a porgere un bacio alle reliquie.
Un pranzo conviviale in amicizia precede gli allegri divertimenti, canti,
suoni e danze, del pomeriggio.
A fine luglio, il 25, è festa ad Issime, la festa del patrono san Giacomo. Una
statua, ora posta nel Museo di arte sacra, mette in evidenza una dignitosa maestà. Si è già ricordato che questa parrocchia riconosce anche un altro patrono
festeggiato d’inverno per i motivi già esposti, ma essendo oramai cessata l’emigrazione, e data anche la presenza dei turisti nella stagione estiva, la festa di
san Giacomo può ora essere celebrata con maggior fasto, con gran partecipazione della gente locale, dai più piccoli agli anziani, di tanti del tutto assorti in preghiera e di altri a che intendono manifestare abilmente con il suono dei loro
strumenti musicali tutta la loro devozione.
Nel pieno dell’estate, dall’alto, di qua o di là, giunge il suono del corno,
ancestrale mezzo di richiamo e di comunicazione. E infatti ci avverte che oggi è
56
Le feste della tradizione walser
Festa all’alpe Bätt (sant’Anna)
festa all’alpeggio, è pausa di festa anche dove tutti gli altri giorni è lavoro duro
e fatica continuativa, talmente continuativa che persino in questa ricorrenza
non può essere del tutto interrotta. In molti di questi luoghi, nel bisogno di una
reciproca solidarietà e di uno spirito fraterno, nei momenti favorevoli ma
soprattutto in quelli mai assenti di difficoltà e di avversità, l’invocazione di un
aiuto divino si è anche concretizzato nella costruzione di cappelle o di più
modesti oratori. Sono sede della parte più religiosa della festa, mentre i prati
attorno, messi naturalmente a pascolo nei giorni precedenti, sono a disposizione per il pranzo all’aperto, ricco di polenta e di prodotti locali. Seguono poi,
anche all’interno delle baite, divertimenti e giochi, fra cui non mancava anche
quello della “morra” oramai da vari anni proibito. In una cappella di alpeggio
si trova esposta in centro sull’altare la statua di una Madonna nera, con in braccio il Bambino Gesù, e ciò non a caso, ma perché questa cappella è sorta lungo il
lungo percorso che porta ad alcuni valichi dai quali poi scendere nel Biellese,
per recarsi ad Oropa, al Santuario appunto della Madonna Nera, meta molto
sovente raggiunta a piedi anche dagli sposi per il loro viaggio di nozze.
Arrivano poi i mesi autunnali. Settembre è il mese in cui si svolge, a cadenza
triennale, la festa più grande dei Walser, il loro incontro internazionale, in località scelte a rotazione, i nostri paesi, Gressoney-Issime, già ben due volte su
sedici. La partecipazione è progressivamente aumentata nel tempo, sino ad
assumere ormai proporzioni eccezionali. A garantire questo successo intervengono sicuramente sia il piacere di conoscersi o di rivedersi, sia l’emozione inte57
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
riore di intensificare la consapevolezza della propria cultura ed identità, sia la
suggestività pittoresca della grande varietà e ricchezza di costumi.
Per noi che come le altre popolazioni walser in Italia percepiamo forte e
minaccioso il rischio di veder scomparire le nostre lingue, nascono rafforzati stimoli alla loro persistente ed intensa salvaguardia, possibilmente anche alla loro
diffusione.
Tornando alla realtà locale, possiamo dire che anche i walser danno risposta
all’invito espresso dal noto carme dannunziano «settembre andiamo, è tempo di
migrare!». Infatti, generalmente il giorno di san Michele, cioè il 29, le mandrie
lasciano gli alpeggi e scendono, accompagnate e validamente sorvegliate da
tutta la famiglia pastorale, formando un corteo che è oramai diventato spettacolo gradito anche ai turisti, grazie al suono dei campanacci ed ai fiori che adornano le corna della regina del combattimento e della regina del latte per mettere in
evidenza le loro specifiche dominanti qualità. Una volta che sono stabilizzate
nel piano, e prima di essere éngschtellté come noi diciamo, cioè rinchiuse nelle
stalle per trascorrervi l’inverno, queste bestie diventano oggetto di vendite e di
scambi in genere affidati alla tradizionale fiera autunnale del bestiame. Fiera
caratterizzata dal fatto di essere comparazione ed esperienza, ma anche occasione di incontro, di festa, di rinnovo di legami di solidarietà e di amicizia.
Ora è il caso di parlare di una tavola apparecchiata per una soddisfacente
cena. Nulla di diverso da quelle abituali di famiglia, ma del tutto straordinaria
per il tipo di ospiti attesi. Si tratta infatti di persone che sono realmente persone
di famiglia, ma già scomparse da tempi più o meno lunghi. Nella notte che precede la giornata, il 2 novembre, dedicata al loro ricordo, potrebbero forse aver
occasione di ripassare per un momento nelle loro case, di gustare dei cibi preparati ancora alla loro maniera, di constatare che non esistono condizioni di povertà. Qualcuno si limita a preparare solo una coppa di castagne cotte, e tante famiglie come segno di accoglienza lasciano accesa la luce in soggiorno per tutta la
notte, mentre da fuori, almeno per qualche ora, giungono solenni i rintocchi
della grande campana della Chiesa.
Di quella Chiesa accanto alla quale tutti i walser da sempre hanno posizionato i loro cimiteri, per assicurare una visita frequente, una cura decorosa e la possibilità di una sempre assidua partecipazione ai funerali. La presenza è assidua
anche alle funzioni in cimitero nel giorno dedicato ai defunti, ad esse non mancando di partecipare anche molti che vivono lontano, tutti riuniti nella speranza
chiaramente incisa su molte pietre tombali Trennen ist unser Los, Wiedersehen
unsere Hoffnung “Separarci è il nostro destino, rivederci la nostra speranza”. I
funerali hanno luogo di mattina, e dopo di essi per tre pomeriggi di seguito un
gruppetto di parenti e amici si reca nuovamente alla tomba per accompagnare
ancora con le preghiere il loro Caro. È desiderio di tutti essere sepolti nella
tomba di famiglia, e quando ciò per regolamenti vari non è concesso, si sceglie
la cremazione affinché almeno le ceneri possano essere riposti in quella dimora.
58
Le feste della tradizione walser
Il dolore per il distacco ha anche una sua testimonianza esterna, che è il costume femminile cosiddetto da lutto: il colore del vestito non è rosso vivo, ma tendenzialmente scarlatto, mentre i ricami, gli orli ed anche la cuffia sono in argento anziché, come abitualmente, risplendenti di oro.
Tralascio di ricordare matrimoni, eventi vari, specialità gastronomiche ed
altro, perché è ora di giungere alla fine di questa esposizione, che intendo chiudere, come annunciato, con la descrizione della festa oramai prossima del capodanno. Festa non certo riservata ai walser, ma da loro trascorsa secondo abitudini particolari tramandate da secoli.
Quasi tutto è imperniato su di un antichissimo canto che i walser hanno
condotto con sé lungo i percorsi dell’immigrazione, e mai dimenticato. Inizia
con il rivolgere a tutti, von Herzensgrund, dal profondo del cuore, un augurio di
bene, facendo seguire ad esso una serie di riflessioni sul corso della vita, quasi
ad indurre serenità anche per i momenti meno favorevoli, purché si abbia rinchiuso in sé un anelito verso l’Altissimo. Ad intonare questo canto si impegna il
coro parrocchiale durante la Messa di vigilia, e sa farlo con vera maestria. Ma
poi tocca ai ragazzi: incominciando all’imbrunire e fino a notte inoltrata, e partendo dai villaggi più distanti fino a raggiungere il centro, gruppi di ragazzi si
recano a cantarlo di casa in casa, contenti naturalmente della strenna che viene
loro offerta, magari anche accompagnata da qualche dolce. Più sul tardi e con
prolungamento fin quasi al mattino, è la volta di giovani e meno giovani, anche
Fiera autunnale del bestiame a Gressoney-Saint-Jean (primo sabato di ottobre)
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
loro intenzionati di portare l’augurio cantato ai vicini del villaggio, a parenti, ad
amici. Vengono naturalmente invitati in casa ed omaggiati di spuntini e bevande, fino a che lo scoccare della mezzanotte induce allo scambio dell’amichevole
bacio, particolarmente caloroso se è presente la persona del cuore. Il suono
della fisarmonica, qualche volta anche di una trombetta, induce alla danza; e se
ci può essere, come sovente, disagio perché ristretto è lo spazio il rimedio è
offerto dal piacere di una vicinanza un po’ più stretta alla ballerina prescelta.
Il correre al mattino di veloci macchine di sciatori avviati ad una giornata di
gioiose discese e quello sia pur più lento ma dalla guida piuttosto incerta di chi
ha trascorso la notte in festa, ha cancellato l’usanza dei bambini di recarsi anche
loro di villaggio in villaggio ad esprimere alle famiglie il loro augurio es guets
nus joar wénsché, òn Gott gabtos “io vi auguro un felice anno nuovo e Dio ve lo
conceda”, raccogliendo poi il meritato compenso di una modesta strenna.
Quello che in qualche modo essi cercano ancora di fare è raggiungere almeno
la porta dei nonni, o di zii o di altre persone con cui esistano motivi di legame.
Ora devo rubare ancora un attimo, per soddisfare il desiderio dei walser di
farvi conoscere almeno la prima strofa di questo loro canto, e per soddisfare
anche e soprattutto il loro vivo desiderio di rivolgere questo augurio, von
Herzensgrund, a tutti voi, alle vostre famiglie, alle vostre associazioni:
60
Le feste della tradizione walser
n o t a
1
Le foto sono di Vittorio De La Pierre
61
Une chanson de pèlerinage :
La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
André Carénini
Le Var est un très gros torrent des
Alpes méridionales, qui reçoit l’appellation
“fleuve” simplement parce qu’il se jette
directement dans la Méditerranée, entre
les Villes de Nice et de Cagnes. Ce cours
d’eau ne se trouve plus aujourd’hui en
limite du département provençal auquel il
a donné son nom : depuis plus d’un siècle,
l’arrondissement de Grasse en a été détaché
pour s’unir avec l’ancien Comté de Nice et
former ainsi l’actuel département des AlpesMaritimes. La source du Var est entourée
de sommets qui avoisinent les 3000 mètres
d’altitude et c’est donc à juste titre que l’on
peut parler des “Alpes sur la mer”.
Dans le premier tiers de son cours, l’eau du Var s’écoule direction Nord-Sud ;
puis, bifurquant presque à angle droit, le second tiers chemine d’Ouest en l’Est ;
enfin, après un second virage à 90 degrés, le dernier tiers reprend la direction
Nord-Sud.
La cité d’Entrevaux est enrochée au début de la seconde section du Var, très
exactement au confluent avec la Chalvagne. Elle fut jusqu’à la Révolution le
siège d’un évêché qui portait le nom de Glandève et possédait la particularité
exceptionnelle de se trouver à cheval sur deux états : dans sa partie occidentale
les paroisses étaient françaises, et dans sa partie orientale les paroisses, relevant
administrativement du Comté de Nice, appartenaient à la Maison de Savoie.
L’évêque était suffrageant d’Embrun, et l’on imagine aisément que sa position
fut souvent très difficile, surtout lorsque France et Savoie étaient en guerre, et
qu’une moitié de ses paroisses combattait l’autre moitié. La cité est aujourd’hui
chef-lieu de canton des Alpes de Haute Provence et conserve une enceinte
fortifiée datant de 1624-1682. Durant longtemps poste frontière, son système de
défense fut remanié et agrandi par Vauban de 1692 à 1706.
Le Saint-Patron d’Entrevaux est Jean-Baptiste, que l’on fête encore aujourd’hui
avec beaucoup de dévotion et de solennité le 24 juin et le 29 août. À ces deux
63
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
occasions la population se rend en pèlerinage jusqu’à un vénérable ermitage situé
en montagne. C’est à une brève étude de cette tradition hors du temps que les
pages suivantes sont consacrées. Le document qui servira de fil conducteur est
une ancienne chanson narrative propre à ce pèlerinage. La version en 29 couplets
publiée ici est inédite.
Saint-Jeannistes en montagne
(photo André Carénini)
Comme toujours en pareil cas, surtout en monde alpin, il convient de
consulter le père du folklore français. Arnold Van Gennep, dans son Manuel de
Folklore Français contemporain (t. I, vol IV, p. 2079, chapitre sur le culte populaire
de saint Jean-Baptiste, p. 2079), mentionne la chapelle de Saint-Jean au-dessus
d’Entrevaux : il précise qu’il n’y a pas de spécialité médicale mais qu’on s’y
rend plutôt pour obtenir la protection de tout le territoire et de ses récoltes.
En note, il indique : bonne description du cérémonial ancien par Charles
Jacquet dans son ouvrage Une trilogie provençale (sans date, Nice, imprimerie
Don-Bosco, 180 pages) et aussi l’article d’André Varagnac intitulé Feux de la
Saint-Jean (revue l’Illustration N° 88 in folio, spécial été 1947, non paginé mais
effectivement p. 24-29).
Dans l’ouvrage de Charles Jacquet (p. 171-176) la description de la Fête de saint
Jean-Baptiste d’Entrevaux est construite pour l’essentiel d’après les informations
contenues dans les couplets de cette vieille Chanson du Désert. Cette publication,
bien que non datée, est de 1937 : Charles Jacquet y retranscrit intégralement deux
couplets, et nous confirme indirectement l’ancienneté de sa principale source
lorsqu’il mentionne le rôle essentiel de l’église Saint-Martin, ancienne paroissiale
détruite en 1808.
64
Une chanson de pèlerinage : La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
L’article d’André Varagnac, rédigé durant l’Occupation mais publié
en 1947, se base également sur certains couplets de cette vieille chanson de
pèlerinage, qu’il cite de manière très fragmentaire et laconique. L’auteur précise
qu’il dispose d’une remarquable documentation photographique réalisée
vers 1936 par Raymond Gid (conseiller graphique de la revue l’Illustration :
l’article comporte douze photos d’une émouvante qualité). De toute évidence
André Varagnac n’a jamais assisté à la célébration qu’il tente de décrire, tout
en proposant des comparaisons folkloriques audacieuses. Il parle de tout, et
même, « près de la Vallée d’Aoste, d’un rocher, en plein alpage, qui est l’objet
le 10 août d’un pèlerinage en l’honneur de saint Besse » : nul doute que notre
auteur voulait rendre hommage à Robert Hertz, admirable chercheur disparu
lors de la Grande Guerre, mais qui ignorait très probablement tout de la SaintJean d’Entrevaux.
Arnold Van Gennep et André Varagnac resteront toujours des Maîtres. Si
exceptionnellement (comme pour la Saint-Jean d’Entrevaux) ils furent un peu
rapides, ils ont ainsi laissé à la génération suivante la possibilité de publier
encore quelques documents comme, par exemple, l’intégralité des couplets
de cette exceptionnelle chanson de pèlerinage au Désert de Saint-Jean proche
d’Entrevaux, texte jusque là encore ignoré des folkloristes dans son intégralité.
Au tout début des années 1900, une carte postale présentait sur la moitié
de sa face illustrée une photographie du buste reliquaire de saint Jean
d’Entrevaux et, sur l’autre moitié, quatre couplets de la chanson. Dans les
années 1945 une feuille volante recto-verso, imprimée chez Corporandy à
Puget-Théniers, retranscrivait 27 couplets. Personnellement, j’en ai collecté
29, ce qui ne signifie absolument pas que les 29 soient chantés chaque année ;
il existe des années à 27 ou à 28. Comme nous le verrons au fur et à mesure de
l’analyse des couplets, le texte de cette chanson remonte au premier quart du
xviiie siècle. Essentiellement descriptive, cette complainte de pèlerinage a très
certainement joué un rôle dans le maintien de la tradition qui, par plusieurs
aspects, se voyait figée par la précision de la narration.
Avant d’aborder l’édition et l’analyse proprement dite des couplets, il est
nécessaire de citer intégralement deux auteurs du dix-neuvième siècle.
J. -J. -M. Féraud, dans son Histoire, géographie et statistique du département des
Basses-Alpes (1861, Digne, imprimerie Vial, 744 pages, cf. p. 516) précise :
« On trouve à 12 km de la ville (d’Entrevaux) et sur une
montagne une chapelle dédiée à Saint Jean du Désert ou
des Prés. Une grande prairie, quelques terrains non cultivés
et un bois assez vaste en font partie. Des restes d’anciens
bâtiments prouvent que dans les temps reculés l’habitation
était considérable. On croit qu’une communauté religieuse
y était attachée. La chapelle, qui par elle même, n’offre rien
65
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
de remarquable est très ancienne et attire chaque année un
concours considérable, le jour de la Nativité de saint JeanBaptiste. Les fidèles s’y rendent encore le jour de la Décollation
de ce saint, 29 août. Des religieux ermites sont préposés à la
garde de la chapelle ».
Albin Bernard, dans son Essai historique sur Entrevaux et sur les privilèges et
franchises dont cette ville a joui jusqu’à la Révolution (1889, Castellane imprimerie
A. Gauthier, 92 pages, cf. Chapitre XI), ajoute :
« Il existe encore à Entrevaux, l’usage depuis fort longtemps
établi, d’aller en procession, la veille de la fête de saint JeanBaptiste, patron de la paroisse, à une chapelle située à 2
lieues dans la montagne et appelée Saint-Jean du Désert
ou des Prés. La construction de cette chapelle, qui se
trouve comme l’indique son nom, loin de toute habitation
et sur une montagne aride, remonte, croyons-nous, au xe
siècle. À cette époque, la route assez fréquentée qui reliait
Entrevaux à Castellane, traversant ces montagnes, passait à
cet endroit et les templiers y avaient bâti un couvent pour
donner l’hospitalité aux voyageurs et les aider à terminer
leur chemin. Il ne reste plus de cette construction que la
chapelle conservée par la reconnaissance des habitants.
Chaque année, à la Saint-Jean, presque toute la population
d’Entrevaux et des environs se rend, avec dévotion, à cette
chapelle en portant le buste du saint. La coutume s’est
perpétuée d’escorter en armes la procession et de loin en
loin de brûler de la poudre en l’honneur du patron : c’est
ce qu’on appelle “la bravade”. Les autorités civiles et
religieuses se chargeaient, à raison de la moitié chacune, des
frais qu’occasionnait chaque fête ».
Avant ces deux auteurs, seul l’historien Honoré Bouche avait publié dans
sa Chorographie (publiée en 1664) le résultat de son enquête personnelle sur la
source de Saint-Jean des Prés : ce document apparaîtra au moment voulu, après
le couplet correspondant.
Chanson en l’honneur de saint Jean-Baptiste sur la route du Désert
Version interprétée par Paul Marius capitaine des Hallebardiers, texte
reconstitué d’après les enregistrements réalisés durant six célébrations (1978 à
1983 inclus). Elle est chantée le vendredi soir au foyer de la Société de saint
Jean, le samedi soir à l’ermitage après le dîner, le dimanche à l’ermitage après le
déjeuner, le dimanche soir en fin de célébration au foyer. Le nombre de couplets
chantés varie selon les lieux.
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Une chanson de pèlerinage : La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
Saint-Jeannistes et buste reliquaire dans sa caisse
(photo André Carénini)
Venez cher peuple d’Entrevaux je vous en prie,
Venez tous promptement pour aller à Saint-Jean,
Le vingt-trois du mois, c’est la réjouissance
De tous les bons enfants en l’honneur de saint Jean.
La veille et le jour tout le monde prépare
Les armes et les mousquets comme de bons guerriers,
Les fifres et les tambours battront la générale,
Il faut se préparer pour aller au Désert.
Aller à Saint-Jean ou aller au Désert signifie se rendre en pèlerinage au sanctuaire
situé en montagne, ce qui nécessite de gravir en 12 kilomètres un dénivelé de 850
mètres par rapport à l’altitude de la cité d’Entrevaux. Les “bons enfants” sont
les jeunes hommes du pays formant l’infanterie qui défilera et processionnera
en arme et avec des mousquets, au rythme des airs militaires joués par les fifres
et tambours. La fête commençait la veille, c’est à dire le 22 juin au soir, par une
première parade intra muros en arme et costumes. En de nombreuses paroisses
des Alpes de haute Provence, cette ouverture nocturne, avec utilisation bruyante
et festive de “poudre à tirer”, s’appelait le guet ou gach.
Puisqu’il nous faut partir à midi ou à une heure,
Major préparez vous pour faire ranger tout.
Quand le Corps Saint sortira vous ferez trois décharges
Et vous suivrez les rangs comme de bons enfants.
67
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Cette “bonne infanterie” ou troupe disciplinée était sous les ordres d’un
Major qui, à l’instant même où le buste reliquaire sortait de l’église paroissiale,
le 23 juin vers midi, commandait trois décharges successives pour rendre les
honneurs à la sainte relique de Jean-Baptiste. Il s’agissait de tirs à blanc d’armes
à feu du type mousquets : c’est le vacarme de la détonation qui était censé
honorer la relique du saint et nous retrouvons cette pratique nommée “bravade” dans toutes les fêtes patronales de la Provence, et principalement dans sa
partie alpine. À Entrevaux, la “bravade” avec armes à feu disparut peu avant la
Grande Guerre 14-18, suite à l’explosion accidentelle d’une arme à feu qui
estropia un habitant.
Depuis un siècle, la sortie du buste reliquaire est saluée uniquement avec des
armes blanches. Quatre par quatre les douze porteurs de spontons (autrefois
espontons, lance à courte lame) de l’actuelle confrérie des Saint-Jeannistes
viennent devant le buste reliquaire incliner lentement la pointe de leur arme
jusqu’au sol. Ce geste terminé, les Spontons (confrères porteurs de cette lance)
retirent leur chapeau et s’inclinent devant le buste de saint Jean. Le même triple
salut se reproduit lors d’une halte dans la rue du Milieu et également à la porte
Royale. Depuis le xvie siècle l’esponton est la marque distinctive des officiers
d’infanterie.
Aujourd’hui, les Spontons sont encore sous les ordres d’un Major et composent
la moitié de l’actuelle confrérie des Saint-Jeannistes. L’autre moitié est constituée
de douze Hallebardiers (malgré cette appellation le fer de leur arme est celui
d’une pertuisane) qui ont pour mission principale la garde rapprochée de la sainte
relique : il s’agit d’une dent de saint Jean-Baptiste. Parmi les confrères de la Société
de saint Jean-Baptiste à Entrevaux, il convient d’ajouter le flûtiste (autrefois “fifre”)
et le tambour, sans oublier la personnalité la plus importante qui est Monsieur
l’aumônier, c’est à dire aujourd’hui, l’Archiprêtre de l’ancienne cathédrale.
À l’époque où ce couplet fut rédigé, la relique sortait de l’église paroissiale
Saint-Martin (aujourd’hui place Charles Panier). Depuis le premier Empire la
relique sort de l’ancienne cathédrale du diocèse de Glandève, Notre-Dame de
l’Assomption où elle est conservée toute l’année dans son buste reliquaire. Le
premier triple salut des Spontons a lieu en haut des marches du parvis de l’ancienne cathédrale. Compte tenu du concordat de 1802, qui supprima plusieurs
diocèses d’Ancien Régime, on peut dire que la relique de saint Jean-Baptiste n’a
jamais séjourné dans la cathédrale lorsque le diocèse de Glandève existait encore. Précisons au passage que ce même Concordat supprima pour toute la France
le jeûne qui devait obligatoirement précéder la célébration de la Nativité de
saint Jean-Baptiste, en mémoire de sa vie pénitente dans le désert.
Messieurs les magistrats marcheront à la tête,
La trompette devant avec tous ses sergents,
L’esponton à la main, la cocarde en dentelle,
Avec ses beaux gants blancs pour aller à Saint-Jean.
68
Une chanson de pèlerinage : La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
Fouquet et Maître Henry feront l’arrière garde,
Le sabre à leur côté avec le mousquet,
Quand le major criera : amis, prenez-vous garde,
Et le drapeau flottant pour aller à Saint-Jean.
Entrevaux était une place forte avec troupes stationnées. En 1717 et 1721, les
officiers de la garnison, vexés de ne pas figurer aux premières places, dans les
cérémonies organisées à l’occasion des fêtes du pays, demandèrent au maréchal
de Villars de les y faire admettre avec tous les honneurs dus à leur rang. Ainsi, la
cocarde en dentelle et avec ses beaux gants blancs, le Commandant de la place devait
marcher du côté droit de la procession, le Juge royal du côté gauche. Les Consuls
venaient ensuite, car le Major et les officiers de la garnison n’étaient point en
usage de suivre immédiatement le Commandant et le Juge : ils devaient laisser
cette place d’honneur à Messieurs les Consuls d’Entrevaux.
En 1728, le Commandant d’Auvare responsable de la place d’Entrevaux voulu
appuyer une nouvelle demande des Consuls auprès du Roi pour qu’il autorise
de dépenser une plus importante somme d’argent (pour l’achat de poudre à
tirer) à la fête de la Saint-Jean. Dans son témoignage de soutien, d’Auvare précise
que « la dévotion et le zèle des habitants sont si grands, qu’il y a ordinairement
250 mousquetaires sous les armes et sous la conduite du Premier Consul ». Le
Premier Magistrat était donc Capitaine de la bravade. On comprend mieux,
comme nous précise le couplet, que Fouquet et Maître Henry aient été obligés
d’assurer l’ordre à la fin d’un cortège aussi important, puisqu’il comptait 250
hommes en armes (les Henry sont une très vieille famille d’Entrevaux, mais
Fouquet est peut-être un antonyme utilisé comme sobriquet puisque c’est un des
noms de l’écureuil et que le mot lui-même signifie agitation désordonnée ou
effervescence incontrôlable).
Messieurs les hallebardiers ne soyez point sévères.
Aux pauvres étrangers qui viennent vous prier,
L’hallebarde à la main vous ferez sentinelle,
Et vous empêcherez de la porte enfoncer.
Le buste reliquaire en argent se rend en procession solennelle, sous un dais,
de l’église paroissiale à la petite chapelle Saint-Jean hors les murs. Ce petit
édifice est encaissé au pied de l’Eventail (très exactement à la base d’une des
deux monumentales barrières rocheuses qui particularisent le site Entrevaux. Il
s’agit d’un emplacement tout à fait exceptionnel, qui aujourd’hui jouxte la route
nationale 202 menant de Nice à Digne). La procession solennelle effectue un
parcours d’environ 600 mètres.
Dans cette petite chapelle la relique est de nouveau offerte à la vénération
des fidèles qui pénètrent par la porte à claire-voie de la façade, et ressortent
par la petite porte latérale. Les Hallebardiers, garde rapprochée de la relique,
canalisent et disciplinent la foule des étrangers venant en nombre des paroisses
69
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
voisines. Grâce à leur vigilance, tout se passe calmement et sans dégradation.
Le précédent couplet nous prouve que la préoccupation était déjà la même il y a
trois siècles, et que la porte ne devait pas être enfoncée par la pression de la foule
des dévots. Ma propre grand-mère, originaire de Puget-Théniers, me certifiait
qu’en 1900 cette vénération pouvait durer près de deux heures, en raison du très
grand nombre de pèlerins, venus parfois de très loin.
Aujourd’hui, et depuis au moins 150 ans, c’est dans cette chapelle, à la fin de
la vénération, que le buste reliquaire en argent du xviie siècle est déposé dans
un coffre en bois, à portes latérales et brancards amovibles, pour être acheminé
en toute sécurité jusqu’au sanctuaire du Désert. Le trajet, d’environ 12 kilomètres par des sentiers escarpés, est particulièrement pénible car l’ensemble du
buste reliquaire dans sa caisse pèse actuellement 120 kilogrammes. Les deux
plus anciens Saint-Jeannistes la mettent en chemin à l’aide de deux harnais
d’épaules mais, très vite (moins d’une minute), ils font une pose afin d’être
remplacés par quatre hommes plus jeunes qui, saisissant directement une extrémité des deux brancards, hissent la charge à l’épaule. Les porteurs confient provisoirement leur arme à un confrère.
Il est très probable qu’il n’en fut pas toujours ainsi : la tour du clocher de
l’ancienne cathédrale conserve deux vieilles caisses à portes latérales et munies
également de brancards. La plus grande, fabriquée par le père Blachas, servait encore
au début des années 1980. L’autre coffre est d’une dimension réduite et serait dans
l’impossibilité de contenir le buste reliquaire en argent qui monte actuellement au
Désert. Comme ce second coffre est plus ancien, il devient raisonnable de penser
Salut des Spontons au buste sortant de la cathédrale
70
(photo André Carénini)
Une chanson de pèlerinage : La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
qu’avant le rattachement définitif de l’ancien Comté de Nice à la France (1860), la
relique de saint Jean-Baptiste (une dent conservée dans une custode) changeait de
reliquaire et passait d’un buste lourd et solennel à une autre plus léger et moins
précieux. Les Saint-Jeannistes eux-mêmes changent bien de costume, revêtant un
plus usagé pour aborder la pénible ascension vers le Désert.
De manière comparable, aujourd’hui encore, le buste reliquaire possède
plusieurs écharpes de procession de couleur rouge où sont cousues diverses
offrandes précieuses (bijoux, médailles). Sous la responsabilité du capitaine des
Hallebardiers, celles-ci se succèdent sur le poitrail de saint Jean selon le lieu.
L’utilisation exclusive du buste reliquaire en argent est intervenue vers le milieu
du xixe siècle, certainement durant la Restauration Sarde sur le Comté de Nice
(1815-1860), mais il est actuellement impossible d’être plus précis.
Si tous ces étrangers donnaient une dardaine,
Tout le long du chemin pour baiser le Corps Saint,
Il serait à propos d’avoir une bourrique
Pour porter tout l’argent que l’on donne à saint Jean.
Dès le départ de la chapelle hors les murs, le buste reliquaire était et est encore
enfermé dans son coffre. Plusieurs haltes sont traditionnellement prévues, toutes
marquées par un oratoire. La caisse, déposée sur un socle en pierre spécialement
aménagé au pied de l’édicule, est alors ouverte : les Saint-Jeannistes se découvrant
chantent à trois reprises Sancte Johannes Baptista, ora pro nobis. Ensuite, la relique
de saint Jean est offerte de nouveau à la vénération des pèlerins présents qui ne
manquent pas de laisser une offrande.
Comme on le devine, la dardaine était une pièce de menue monnaie. Le mot
pouvait s’écrire dardaine ou dardène. C’était une monnaie en bronze qui valait 2
liards ou 6 deniers, c’est à dire pas grand chose. Cette pièce fut frappée durant les
toutes dernières années du règne de Louis xiv. En ancien Français un dardanaire
ou un dardanier c’est un avare qui ne lâche même pas une toute petite pièce.
Dans la vallée de l’Ubaye l’expression Val pa n’a dardèna signifiait que c’est un
individu qui ne vaut pas cher. La mention de cette monnaie dans le couplet
confirme l’ancienneté de la chanson mais, aussi, veut attester du grand nombre
de pèlerins, puisqu’un âne serait nécessaire pour transporter la “mitraille”.
Il serait à propos d’avoir une charrette
Pour porter les mousquets jusqu’à Saint-Jeannet.
Tous ces bons vieillards qui n’ont pas bonnes jambes,
On les voit retourner ne pouvant plus marcher.
Quand nous arriverons à l’endroit où l’on repose,
Nous dirons mes amis, nous sommes tous ici !
Il faudra se munir d’un bon plat de rayolles,
Avec du bon pain, un bon flacon de vin.
71
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Saint-Jeannet est le nom du col d’où l’on aperçoit pour la première fois le
sanctuaire au loin. Un oratoire s’y élève, avec une niche spécialement aménagée
pour déposer le buste reliquaire sorti de son coffre. En venant du côté d’Ubraye,
c’est à dire en venant au Désert par un chemin diamétralement opposé, il existe
également un oratoire au point précis où l’on aperçoit pour la première fois la
chapelle : on l’appelle Saint-Jeannet d’Ubraye.
En montagne, le rayonnement d’un sanctuaire correspond au champ visuel
que l’on peut appréhender lorsqu’on s’y trouve ; de là découle l’importance des
cols d’où le pèlerin découvre visuellement les bâtiments. Aujourd’hui encore,
c’est à Saint-Jeannet que le buste reliquaire abandonne pour quelques heures
son coffre de transport. Ce précieux objet est soigneusement arrimé à un brancard et confié à quatre porteurs en aube blanche chargés de l’acheminer sous un
dais jusqu’à sa chapelle du Désert, encore distante de 2 kilomètres. D’après les
couplets de la chanson, Saint-Jeannet c’est aussi l’endroit où l’on repose après une
pénible ascension, et où l’on se restaure pour reprendre des forces.
Une centaine de mètres avant l’oratoire du col, les Saint-Jeannistes porteurs
du coffre et tous les autres se mettent à courir. Tout se passe comme si les
confrères de saint Jean voulaient prouver à leur saint patron (et accessoirement
aux pèlerins présents) qu’ils sont toujours frais et dispos pour le servir, surtout
au moment où sa précieuse relique pénètre à nouveau dans l’espace où rayonne
son ermitage. La présence des mousquets prouve que les Bravadaires reprenaient leurs prérogatives à partir du col et qu’ils allaient bientôt pouvoir honorer le saint de nouvelles déflagrations.
L’espace saint d’un lieu correspond également au territoire sur lequel
s’étend le son de sa cloche. En de nombreux pèlerinages la cloche du sanctuaire commence à sonner lorsqu’il y a le premier contact visuel. En se rendant au Désert de Saint-Jean, on commence à entendre la cloche peu de
temps après le départ de l’oratoire de Saint-Jeannet. Très souvent, et c’est le
cas pour notre pèlerinage, cet endroit particulier est associé à la croyance
qu’un homme pieux a trouvé la mort en ce lieu et il convient de commémorer son souvenir en apportant une pierre que l’on jette sur sa tombe.
Actuellement, dans tous les exemples connus (y compris celui que nous examinons) la pierre est ramassée sur le chemin, peu de temps avant d’être
jetée. Plus anciennement, il fallait apporter une petite pierre de chez soi afin
de laisser en permanence quelque chose de personnel en ce lieu, qui correspond toujours à un des points d’entrée sur le territoire qui se trouve sous la
protection du sanctuaire.
Sergents et caporaux, avertissez la troupe
De charger les mousquets puisqu’il les faut tirer.
Puis nous défilerons pour ce bel ermitage
Et là nous chanterons en vidant nos flacons.
72
Une chanson de pèlerinage : La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
Le territoire de l’ermitage de saint Jean est en forme de vaste fer à cheval,
fermé au couchant par une barre rocheuse sur laquelle s’adossent, juste sous
la crête, la chapelle et les autres constructions : la plus haute des toitures est au
même niveau que le sommet rocheux, qui voisine à quelques mètres en arrière.
La troupe qui escortait le buste reliquaire jusqu’à sa chapelle, avait pour mission
de tirer à intervalles réguliers des charges de mousquets. L’écho répercutant et
multipliant les détonations, l’effet produit devait être absolument extraordinaire.
Toute personne, qui connaît le site du Désert et vénère sincèrement saint Jean,
en tremble d’émotion et de bonheur rien qu’en essayant d’imaginer la scène. Ça
devait être prodigieux, surtout si l’on songe que les déflagrations provoquaient
nécessairement des avalanches plus ou moins importantes dans les roubines,
ces couloirs d’éboulements propres aux montagnes de nature schisteuse, très
friables à certains endroits. Après les neiges de l’hiver et les pluies du printemps,
on est même en droit de se demander si ce n’était pas l’un des buts secondaires
recherchés par ces déflagrations : purger les roubines au début de l’été, afin de
protéger les moutons trop téméraires qui pourraient s’aventurer à proximité.
Trois cents mètres avant d’arriver à l’ermitage se trouve le dernier oratoire.
Quatre par quatre, les Spontons refont devant le buste reliquaire très exactement
le même salut que celui qu’ils firent au moment de sa sortie de la cathédrale. Le
frère de saint Jean, qui est en charge de la garde du sanctuaire, doit venir jusqu’à
cet oratoire à la rencontre de la relique en apportant avec lui la petite statue en
bronze de saint Jean, celle qui reste toute l’année au Désert.
Saint Jean posé au Désert, l’on voit toute la troupe
Marcher en procession pour aller dans un fond,
Traversant un grand pré l’on va à la fontaine
Que l’on bénit tous les ans pour l’honneur de saint Jean.
Installé sur son autel latéral dans la chapelle du Désert, le buste reliquaire
restait sous la garde de Hallebardiers. Les pèlerins reprenaient brièvement leur
procession pour se rendre à une fontaine qui sourdait dans le grand pré situé au
pied de la butte rocheuse où s’élève l’ermitage. En fait de fontaine, il s’agissait
d’un filet d’eau, tellement modeste que certaine années il était invisible lorsque
la procession arrivait.
Le 23 juin de l’an 1655, le père Honoré Bouche se trouvait au Désert près
d’Entrevaux pour voir et considérer tout ce qui se faisait lors du pèlerinage en
l’honneur de saint Jean-Baptiste, notamment autour de la fontaine dite de SaintJean-des-Prez. Il nous apprend que le clergé, suivit des pèlerins, descendait dans
ce pré pour y bénir une petite source d’eau qui, en vertu de cette bénédiction,
guérit de beaucoup d’infirmités et surtout des écrouelles.
Honoré Bouche ajoute : Le petit peuple fait de grands contes des merveilles de
cette fontaine mais, outre la bénédiction de l’Eglise qui imprime à cette eau une vertu
surnaturelle, il ne s’y rencontre rien qui ne soit naturel (page 280 du t. I). Pourtant
73
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
les pèlerins pensent qu’il s’opère des choses miraculeuses à cette fontaine lors
de la fête de saint Jean-Baptiste : ainsi, certaines fois il n’y a point d’eau avant
la bénédiction du prêtre, et après cette bénédiction l’eau apparaît. Notre auteur
estime que c’est chose naturelle et propose une explication : après la bénédiction
de l’emplacement de la source, ceux qui sont présents ramassent immédiatement
de la terre ou de la boue ce qui permet à l’eau peu profonde d’apparaître
naturellement. Les pèlerins veulent rapporter chez eux de cette terre arrachée à
la source pour s’en servir en cas de besoin dans leurs infirmités. L’eau, qui était
cachée sous une mince couche de terre plus ou moins sèche selon les années,
commence à paraître naturellement puisqu’elle y était avant la bénédiction du
clergé. Après la bénédiction que l’Église fait sur ses eaux au jour de la veille de
saint Jean-Baptiste, cette fontaine coule durant toute l’octave de la fête du même
saint, et guérit plusieurs sortes d’infirmités, et particulièrement les fièvres, les
écrouelles et la gale.
Il est important de noter que Honoré Bouche fréquenta plusieurs années
le pape Urbain viii, celui-là même qui par brefs du 20 décembre 1639 accorda
une indulgence plénière à toute personne qui, le jour de la Saint Jean, visitera
la chapelle de Saint-Jean-des-Prez à Entrevaux et priera dans l’intention de la
paix.
On peut aussi proposer, comme explication de l’apparition de l’eau au bout
de quelques minutes, la pression de plusieurs tonnes exercée sur le sol par
le poids du très grand nombre de pèlerins présents tout autour de la source.
Dernier point rapporté par notre historien, cette fontaine du Désert avait déjà été
mentionnée par Gervaise (Gervais de Tilbury : Otia Imperialia, Diverstissement
pour un Empreur) qui écrivait vers l’an 1200 et par Pierre Martini (Pietro Marini)
Evêque de Glandèvez, aux environs de l’an 1448, en son manuscrit de Prédications,
livre conservé dans le couvent des Augustin de la ville d’Aix (cf. bibliographie :
Fauris de Saint-Vincent).
Les pèlerins rapportaient de la terre de la source très probablement pour s’en
faire des cataplasmes en l’humidifiant en cas de besoin.
Un homme fort expert à faire un artifice,
En fait un tous les ans à ses frais et dépens.
Après l’avoir tiré, il dit à ses camarades :
Il faut aller souper et ne point se coucher.
Après avoir mangé, bien bu, vient notre Capitaine
Qui nous dit tout hardiment : courage mes amis,
Venez avec moi vous charger de fascines
Pour faire un feu ardent en l’honneur de saint Jean.
L’expert en artifice c’est l’artificier chargé de tirer les boetes, appellation
populaire de petits mortiers hauts de 30 centimètres environ. Pendant que
74
Une chanson de pèlerinage : La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
les pèlerins étaient à la source, l’artificier plaçait sur l’esplanade qui se trouve
devant le sanctuaire cinq, huit ou dix mortaïrets chargés de poudre et de bourre.
Il les faisait ensuite exploser en série, à l’aide d’une mèche, lorsque la procession
gravissait la butte pour regagner l’ermitage, juste avant la tombée de la nuit.
Dès que l’obscurité était totale, le Capitaine ordonnait d’aller chercher les fagots
(fascines) préparés à l’avance pour faire un feu ardent en l’honneur de saint Jean.
Avec le temps la fameuse source du pré s’est complètement tarie. Depuis
1965, elle est remplacée par une véritable fontaine qui se trouve à mi-chemin
entre Saint-Jeannet et l’ermitage. Aujourd’hui, la bénédiction de la source a
donc lieu avant d’arriver au sanctuaire. Quand le buste reliquaire est posé sur
son autel les chants, hymne, litanies et cantiques commencent immédiatement.
Les Saint-Jeannistes et les pèlerins ne ressortent que pour l’allumage et la bénédiction du feu. Ensuite tout le monde rentre à nouveau dans la chapelle pour la
Vénération du Saint Sacrement. Puis c’est la collation qui dure jusque vers
minuit.
Après avoir soupé les femmes et les filles,
Elles se retireront dans la Sainte Maison.
Elles passeront la nuit à chanter des cantiques,
D’un air modestement pour l’honneur de saint Jean.
Aux toutes premières heures du jour de la fête de saint Jean-Baptiste, une
première messe nocturne était célébrée, car sa Nativité fut toujours considérée
par l’Eglise comme une Aurore. Au Désert d’Entrevaux, la messe des premières
heures de la nuit fut célébrée jusqu’à la fin du second millénaire : sa disparition
est toute récente : actuellement l’office est remplacé par une veillée de prière
sous la direction de l’Aumônier.
Durant des siècles, la messe de la fête de la Nativité de saint Jean-Baptiste
n’avait point de Credo. On en donne pour raison liturgique que saint Jean,
comme précurseur du Messie, n’appartient pas à la loi nouvelle. Néanmoins, le
Rit romain dit le Credo en cette fête lorsqu’elle est célébrée, soit dans une église
qui est dédiée à Jean-Baptiste, soit quand elle tombe un dimanche, soit quand
elle tombe pendant l’Octave de la Fête-Dieu. Depuis plusieurs décennies, les
trois jours de la fête de saint Jean à Entrevaux sont reportés au week-end le plus
proche. C’est une évolution indispensable si les organisateurs veulent avoir du
monde. La grand messe de la matinée au sanctuaire du Désert tombe aujourd’hui
nécessairement un dimanche, et la question du Credo ne peut plus se poser.
Puisqu’il fut le Baptiseur, le jour de sa fête, la Vénération du Saint Sacrement
pouvait se faire devant les autels consacrés à Jean-Baptiste. Il y a encore une
vingtaine d’années, c’est ce qui se passait lorsque le buste reliquaire arrivait
au sanctuaire du Désert. Actuellement la vénération du Saint Sacrement a lieu
dans le chœur, devant le maître autel. Une fois encore, le report des célébrations
au week-end le plus proche a considérablement amoindri les prérogatives du
75
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Précurseur et transformé sans s’en apercevoir d’antiques traditions. Néanmoins,
en ce qui concerne la vénération du Saint Sacrement, il faut bien avouer que cette
évolution moderne possède de nombreux aspects très positifs, ne serait-ce qu’en
ce qui concerne la participation de tous les pèlerins présents, et au niveau du
recueillement indispensable : en effet, l’autel de saint Jean étant sur le côté droit
du sanctuaire, précédemment un grand nombre de pèlerins ne pouvait rien voir
et rien suivre, ce qui n’est plus acceptable de nos jours, surtout lorsqu’il y a de la
place pour tous.
Autrefois au Désert il y avait une chambre spéciale pour les prêtres où les
matelas étaient faits avec des feuilles de maïs. Ils effectuaient une rotation pour
dormir et se relayaient pour assurer les confessions toute la nuit. Il y avait aussi
la salle à manger des prêtres qui restaient seuls, entre eux, comme chez eux. Les
curés venaient de partout aux alentours et même parfois d’assez loin, s’ils étaient
invités par leur confrère d’Entrevaux.
Si vous en trouvez un qui fasse des sottises,
Soldats, attachez-le pour le mettre aux arrêts.
Et nous lui ferons payer pour toute la troupe,
Deux écus de six francs pour tous ces bons enfants.
Les grenadiers ont droit de faire la patrouille,
Chercher dans le quartier s’il n’y a pas d’endormis.
Si vous en trouvez un qui soit de nos confrères,
Nous lui ferons payer tout le vin du Désert.
Monter la garde et rester vigilant toute la nuit étaient indispensables. C’est
pour cela que toute sottise (abus de boisson) et absence (endormissement)
étaient réprimandées par une amende importante. À titre indicatif, au début du
xviiie siècle, « deux écus de 6 francs » cela représentait un montant de 480 dardaines. On comprend que le relevé de quelques infractions puisse payer tout “le
vin du Désert”.
Aucune négligence n’était autorisée en raison de multiples dangers. En 1712
un procès relate l’agression d’« une troupe de 15 à 20 hommes du lieu d’Ubraye,
tenant chacun leur épée nue et levée en l’air qui aborde avec une grande furie »
et blesse divers habitants d’Entrevaux assemblés « au quartier de Saint-Jean
pour le romérage et vot qui se font audit quartier, le 23 juin, avec procession
générale depuis la cathédrale accompagnant les reliques du saint logées dans
un buste » (archives des Alpes de Haute Provence, B 1186). Cet exemple est particulièrement significatif puisqu’il est contemporain de la chanson.
Ainsi préparons-nous à faire bon courage,
Ne nous laissons point gagner au froid dans le quartier,
Vu qu’il faut passer la nuit ici à la belle étoile,
Buvons jusqu’à demain pour bénir nos chagrins.
76
Une chanson de pèlerinage : La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
Quand saint Jean doit partir pour retourner en ville,
L’on voit de tous côtés brûler les cabarets.
Il ne faut plus penser d’aller boire chopine :
L’on dit « mes enfants en voilà pour un an ».
L’utilisation de “bénir” (nos chagrins) à la place de “bannir” est trop usuelle
pour s’y arrêter. Par contre, le mot cabaret mérite un instant d’attention. Il est
composé de deux très anciens mots d’origine celtique : d’une part cab qui veut
dire tête, et aret qui signifie bélier. Aries en latin, aret en provençal et areit en
dialecte des Alpes désignent toujours le mâle non châtré de la brebis.
Le radical cab peut également signaler une hutte de branchages. Ainsi une
cabane comme un cabaret est un abri construit avec des végétaux. Au moyen âge
on appelait cabaret ou cabaust un lieu fermé de barreaux (claie en bois) formant
une cage provisoire pour retenir un animal. Le bélier devant être isolé du reste
du troupeau, notamment durant la nuit, le berger construisait un réduit en forme
d’enclos couvert et partageait très souvent l’abri avec l’animal ou les animaux.
Lorsque le berger recevait des visites, tout le monde s’abritait et se restaurait au
cabaret comme l’indique la chanson. Durant des siècles, un crâne de bélier avec
ses cornes servit d’enseigne aux buvettes temporaires installées dans de simples
cabanes appelées cabarets.
La fête de la Saint-Jean est toute emprunte de traditions folkloriques
antérieures au christianisme : c’était déjà un abri en feuillage qui était dressé
pour constituer le reposoir des Bonnes Dames ou fées dans la nuit du solstice
d’été. Par la suite, c’est dans des “feuillées” identiques que l’on exposera NotreDame dans toutes ses grandes fêtes.
Gardien de l’ermitage, le frère de saint Jean était aussi un berger utilisant des
cabanes de branchages comme le fit le Précurseur. Lors du pèlerinage annuel,
aidé par la jeunesse du pays, cet ermite construisait des cabarets pour abriter
le repos des fidèles ou, tout simplement, pour abriter ceux qui désiraient se
restaurer et “boire chopine”. Au moment du départ ces cabanes étaient brûlées,
puisqu’il était impossible de les conserver d’une année sur l’autre (il est probable
que les utilisateurs de ces cabanes portaient eux-mêmes les branchages, devenus
inutiles, sur le feu principal allumé la veille en l’honneur de saint Jean).
Les deux plus vieux ont droit de sortir de l’église
La relique du saint pour la mettre en chemin ;
Ne pouvant le porter tout le long de sa route,
L’on dit à ses cadets « c’est à vous de porter ! ».
Comme la veille, au départ de la chapelle au pied de l’Eventail, ce sont les
deux Capitaines qui sortent de l’ermitage le buste reliquaire déjà abrité dans
son coffre. La petite statue en bronze de saint Jean doit l’accompagner jusqu’au
premier oratoire, avant de retourner passer l’année au Désert.
77
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Saint Jean à Saint-Jeannet, là on fait une pose.
On y porte du vin que l’on boit tous en train.
Les prêtres et les recteurs participeront à la fête,
Comme tous les ans pour remercier saint Jean.
L’arrivée à Saint-Jeannet correspond à la sortie définitive du territoire placé
sous la protection du sanctuaire. La venue annuelle de la sainte relique vient
juste de “recharger” la puissance de son rayonnement : « en voilà pour un an ».
Les prêtres et les recteurs sont présents et acteurs du rituel populaire. Comme
la veille, lors de la bénédiction de la source, le clergé participait à une ronde
commune avec les Magistrats de la cité et la garde rapprochée du buste reliquaire.
En 1837, le n° 8 du Journal des Basses Alpes, précise « qu’aucun ecclésiastique
ne pourrait enfreindre cette règle de participer à la danse (ronde) sans affliger
ses paroissiens ». Comme cet article de presse a inquiété beaucoup de lecteur,
la publication suivante précise : le clergé y participe parce qu’il n’y a aucune
personne du sexe et surtout parce qu’y participent le Maire, les fabriciens, les
gardes de saint Jean et tous les autres prêtres invités qui, pendant deux ou trois
minutes, font une espèce de ronde, chantant Sancte Johannes Baptista, se mettent
ensuite spontanément à genoux, récitent ensemble le Pater et un Ave Maria, jettent
leur chapeau en l’air et crient a l’an que ven. Au début du troisième millénaire le
rituel est encore identique, même si pour des raisons de santé le prêtre actuel ne
peut pas être présent.
À quatre heures du soir tout le monde s’empresse
À venir tous promptement au devant de saint Jean.
Les hautbois, les fifres et toute la musique
Accompagnent le saint jusqu’à la Saint-Martin.
Après l’avoir posé devant sa Métropole,
Tous nos braves guerriers chargeant les mousquets,
Sont aussi bien rangés qu’une troupe légère
Quand le Major nous dit « faites feu mes amis ».
Lorsque le buste reliquaire revient à Entrevaux tout le monde s’empresse,
même ces bons vieillards, qui n’ayant point bonnes jambes, n’ont pu monter
au Désert. La foule et les bravadaïres se rendaient à l’église paroissiale SaintMartin pour honorer la relique d’une dernière décharge de mousquets.
Actuellement l’arrivée de saint Jean se fait à la tombée de la nuite. Comme la
veille à Saint-Jeannet, en approchant de la chapelle hors les murs, les SaintJeannistes se mettent à courir sur les cent derniers mètres. Très exactement à
l’inverse de ce qui s’est passé la veille dans ce même lieu, le buste reliquaire
est sorti de son coffre et pénètrera dans la cité sous un dais et avec des porteurs
spéciaux. Les Spontons font de nouveau leur salut le long du parcours et
la cérémonie s’achève dans l’ancienne cathédrale avec pour la dernière fois
l’hymne, les litanies, vénération du Saint-Sacrement, cantique et vénération
de la relique.
78
Une chanson de pèlerinage : La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
Messieurs les caporaux et notre porte-enseigne,
S’étant tous assemblés, ils ont délibéré
De faire avertir les tambours et trompettes
Pour faire divertir les filles du pays.
Ce couplet nous rappelle qu’autrefois la jeunesse d’un pays, groupée en
abbaye ou en infanterie, était aussi en charge des divertissements profanes
comme les jeux et les danses. Saint Jean dignement honoré durant deux jours, il
fallait ensuite penser à faire divertir les filles du pays en mobilisant des musiciens
pour animer le bal.
Magistrats élevés nouvellement en charge,
Nos vœux furent comblés quand vous fûtes nommés.
Si vous voulez avoir toujours notre suffrage
Célébrez tous les ans la fête de saint Jean.
Les Consuls d’Entrevaux déclarèrent, au début du xviiie siècle que suivant
une tradition immémoriale, ils inscrivaient chaque année, dans le budget de
leur communauté, un crédit pour financer la fête de la Saint-Jean. La plus grande partie de la dépense se trouvait absorbée par l’achat de “poudre à tirer”.
Cette dernière était répartie entre les jeunes hommes du pays désireux de participer aux tirs de mousqueterie en l’honneur de saint Jean.
Cependant, au printemps 1716, l’intendant de la province décida que, en raison de la liquidation des dettes de la communauté, le crédit à inscrire au budget
pour l’achat de poudre à tirer ne pouvait dépasser le somme de 50 livres par an.
Les entrevalais en voulaient trois fois plus, et en novembre 1720 les Consuls de
la ville adressèrent une supplique en ce sens au roi. Le précédent couplet, et
ceux qui suivent, s’inscrivent parfaitement dans ce contexte. C’est une véritable
mise en garde qui est adressée aux élus qui ne seront renommés que s’ils votent
tous les ans la fête de saint Jean.
Nous sommes assurés que pour charmer la fête,
Nos nouveaux Conseillers se montreront zélés.
Nous les renommerons malgré vents et tempêtes
S’ils votent tous les ans la fête de saint Jean.
À qui ne sera point porter à célébrer la fête,
Qu’il soit mis de côté, qu’il en soit assuré,
Et nous ne garderons pas même sa trompette
S’il n’est pas partisan de notre grand saint Jean.
Jeunes et vieux, je ne crains point vous dire
Que dans aucun pays saint Jean soit mieux servi.
Je vous souhaite à tous une santé parfaite
Et beaucoup d’argent la veille de la Saint-Jean.
79
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
L’intérêt du pays, si l’on ne faisait la fête,
Serait bien compromis. Il faut donc mes amis
Que pour la maintenir chacun de nous s’y prête
Et que dans cent mille ans on fête la Saint-Jean.
Finissant ma chanson, il faut que je vous dise :
Si vous allez au Désert, n’allez point loger
Dans ces cabarets où l’on fait payer les verres
Et les pots renversés sans les avoir cassés.
Ce qui étonne le plus, lorsqu’on prend connaissance du texte de cette chanson,
c’est l’absence de références aux cérémonies religieuses. À deux reprises il est
parlé du corps saint, une fois de la relique du saint, une fois de la bénédiction de la
source et une fois des cantiques chantés par les femmes dans la sainte maison, c’est
à dire l’ermitage du Désert. Enfin nous apprenons que les prêtres et les recteurs
participent à la fête. C’est vraiment très peu d’éléments et le contraste paraît flagrant
lorsqu’on pense à la célébration actuelle. Le visiteur qui assiste aujourd’hui à
la fête de la Saint-Jean à Entrevaux ressent immédiatement qu’il s’agit d’une
manifestation essentiellement religieuse où la dévotion à saint Jean-Baptiste tient
la première place. Je pense pouvoir me permettre d’être aussi affirmatif car j’ai
personnellement accompli le pèlerinage durant plus de trente ans, au côté de mes
amis Saint-Jeannistes. Il en était de même dans les siècles passés, alors comment
peut-on expliquer le silence de notre chanson.
Une rancœur, ou plus exactement l’exaspération de la population durant une
période déterminée, paraît l’explication la plus plausible et, au passage, cette
dernière confirme encore un peu plus que la rédaction du texte de notre chanson
remonte bien au premier quart du xviiie siècle. Monseigneur César de Sabran
occupa le siège épiscopal de Glandève de 1702 à 1720. C’était un personnage hors
du commun, qui ne pensait qu’à la chicane et était toujours prêt à défendre jusqu’au
bout ce qu’il considérait comme « ses droits et prérogatives », même les plus
dérisoires. Dès son arrivée, les rapports du nouvel évêque avec le Commandant
de la place d’Entrevaux, M. de la Contardière, s’aigrirent pour un motif des plus
futiles : une éclaboussure accidentelle de plâtre frais sur la façade de la maison
de Monseigneur. Le différend durera des années et fut connu jusqu’à la cour de
Versailles. Dans une lettre du 15 avril 1705, M. de la Contardière, sollicitant la
protection du grand Vauban (qu’il avait connu à Entrevaux), écrit que l’évêque
pousse la persécution contre lui jusqu’au refus du sacrement de l’eucharistie et
menaces d’excommunication. Le Commandant précise qu’il est obligé de sortir
du diocèse pour satisfaire au devoir pascal. Vauban décide d’intervenir en
faveur du Commandant et c’est pour cela que nous connaissons l’affaire et ses
développements : les deux protagonistes se querellaient constamment, et faisaient
répandre divers factums dans Entrevaux et les alentours. ( cf. Paul Canestrier).
Sur l’ordre direct du roi Louis xiv, le chancelier Jean-Baptiste Colbert marquis
de Torcy enjoignit, par lettre en date du 8 septembre 1705, à l’évêque et au
80
Une chanson de pèlerinage : La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
gouverneur de mettre fin à une querelle dans laquelle le bien public et le service
du roi ne pouvaient que perdre. L’évêque obligé de céder chercha à ne pas
perdre la face en faisant diversion. Il intenta immédiatement diverses actions en
justice contre le Conseil communal qui devint sa nouvelle cible. Il déchaîna une
véritable cascade de procès qui le rendirent très impopulaire parmi ses ouailles.
Avec le Gouverneur, les officiers de la garnison, et les Consuls de la cité contre
lui, on peut s’interroger sur la place effectivement occupée par l’évêque lors de
la solennelle procession du buste reliquaire de saint Jean-Baptiste. Remarquons
simplement qu’aucun couplet n’y fait la moindre allusion ou, plus exactement
que l’existence de Monseigneur l’évêque est totalement passée sous silence. Son
départ fut une heureuse nouvelle, c’est du moins ce que l’on peut déduire d’une
délibération de la communauté en date du 22 février 1722 (reprise le 9 août 1778) :
dorénavant, lors de l’arrivée d’un nouvel évêque, les habitants d’Entrevaux se
rendraient au devant de celui-ci accompagnés d’une compagnie bourgeoise en
armes avec tambours et fifres. Des cadeaux, des réjouissances publiques et un
grand banquet lui seraient offerts.
Curieuse chanson, apparemment anodine mais pourtant remplie de
révélations pour celui qui veut bien prendre la peine de s’y arrêter.
bibliographie complémentaire
Bouche, Honoré, La Chorographie ou Description de Provence, Aix, David, 2 vol in
folio, 1664, t. I : 938 pages + tables, t. II : 1073 + tables.
Canestrier, Paul, Comment Vauban défendit le Gouverneur d’Entrevaux contre
l’Évêque, Marseille, 1954, revue Provence Historique, t. IV, Janvier-Mars,
p. 33-40.
Collier, Raymond, La vie en Haute-Provence de 1600 à 1850, Digne, Société
Scientifique et Littéraire des Alpes-de-Haute-Provence, imprimerie LouisJean à Gap, 1973, 548 pages.
Durbec, J. -A., « Notes historiques sur quelques pèlerinages, processions, fêtes
et jeux de Provence », in Actes du 77ème Congrès des Sociétés Savantes, Grenoble,
1952, p. 247-286.
Fauris de Saint Vincent, « Notice sur un manuscrit de la bibliothèque Saint-Vincens
à Aix, contenant les sermons de Pierre de Marini, Evêque de Glandèves », in
Magasin Encyclopédique, rédigé par A. L. Millin, 1813, t. III, p. 5-30.
Gauche, Marcel, Entrevaux “Glandèves”, cité médièvale de Provence, Paris,
imprimerie Gelbard, 1962, 118 pages.
Gervais de Tilbury, Le Livre des Merveilles, divertissement pour un Empereur
(Troisième partie), traduit et commenté par Annie Duchesne, Paris, les Belles
Lettres, 1992, 198 pages.
81
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Greaves, Roger, « Vaubaniana entrevalais », in « Vauban en Provence », t. LII, N° 296
des Annales de Haute Provence, Digne, imprimerie B. Vial, 1984, p. 25-33 + illust.
Michel, J. -G., Le siège d’Entrevaux par les Savoyards en 1704, Nice, imprimerie Don
Bosco, 1963, 92 pages.
Salnitro, Gérard (abbé), Entrevaux, diocèse de Digne, Aix, Sans date (vers 1975),
plaquette illustrée de 16 pages.
82
Fêtes de la transhumance
dans le Sud de la France :
les enjeux d’une mise en représentation
de l’activité pastorale
Patrick Fabre 1
Cette communication repose sur
deux éléments complémentaires : une
étude sur les fêtes de la transhumance
dans le midi méditerranéen, réalisée il y
a une dizaine d’années 2, ainsi que sur
nos parcours professionnels. Nous sommes en effet depuis quelques années
amenés à organiser ou participer nousmêmes à des fêtes de la transhumance :
au Mas Dieu pour ce qui concerne le
Conseil général de l’Hérault, lors de
quelques fêtes situées essentiellement en
basse Provence pour la Maison de la
Transhumance.
Un phénomène récent mais désormais bien installé
Si les premières fêtes se sont mises en place à partir des années 1970, comme
celles d’Istres (1975), d’Aubrac (1982) ou de Saint-Rémy-de-Provence (1984), le
développement des fêtes de la transhumance date, pour l’essentiel, des années
1990. Il s’agit donc d’un phénomène récent. L’année 1991, qui voit apparaître les
fêtes de Die (Drôme), de l’Espérou (Cévennes gardoises), de Saint-Martin-de-Crau
(intégration d’un défilé du troupeau à la Fête du Printemps, plus ancienne) et
d’Osseja (Cerdagne), constitue indéniablement une date pivot à partir de laquelle
se produit une accélération du processus de création de ces fêtes. On en compte
aujourd’hui près d’une cinquantaine, réparties sur tous les massifs de l’arc méditerranéen : Provence-Alpes, Languedoc-Massif Central, Pyrénées, mais également
dans les Vosges depuis quelques années. Le phénomène ne se limite pas à la
France, mais touche également l’Espagne, l’Italie, ainsi que, de manière plus encore plus significative, l’Autriche. Ces fêtes peuvent concerner les ovins (surtout
dans le Sud), mais également les bovins (Massif Central) ou les équins (notamment dans les Pyrénées), parfois les trois espèces ensemble. Elles connaissent un
fort succès populaire, malgré une communication parfois désuète, et attirent
jusqu’à plusieurs milliers de personnes : 20 000 personnes revendiquées lorsque
les autocaristes s’en emparent, comme à Saint-Rémy-de-Provence ou en Aubrac.
83
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Affiche de la 3e Fête de la Transhumance
du Mas Dieu (Hérault)
Ces manifestations sont désormais
installées dans le paysage des fêtes thématiques agricoles. Il y a chaque année
des créations, plus rarement des disparitions. Trois fêtes autour de la transhumance sont ainsi répertoriées
aujourd’hui dans l’Hérault (Vendres
dans la basse plaine de l’Aude, le Cros
sur le Larzac et le Mas Dieu dans les garrigues proches de Montpellier), alors
qu’il n’y en avait aucune au moment de
l’étude, voici une dizaine d’années.
Même si le concept de fête de la transhumance est une création, il existe également un sentiment d’antériorité dans la
tradition : la transhumance à pied a toujours été un moment “hors du temps”,
avec un caractère de rencontre, voire festif à quelques occasions, notamment lors de
la traversée de certains villages.
À la différence de bien des fêtes agricoles, ces fêtes ne sont pas centrées sur
la promotion d’un produit, comme les fêtes de la cerise, de la châtaigne ou de
certains fromages (à l’exception nouvelle de celle de Munster, dans les Vosges).
Enfin, il s’agit d’une activité ancrée dans l’histoire mais bien vivante, pas
comme certaines fêtes à thématique rurale qui sont basées sur des reconstitutions d’activités disparues : battage à l’ancienne, fabrication du pain, fête du
cochon, etc. Elles sont en effet fondées sur le passage d’un ou de plusieurs troupeaux qui sont bien réels, avec souvent de jeunes éleveurs en activité à leur tête
et au moment effectif de la transhumance.
Des contextes locaux très différents mais des thématiques récurrentes
Ces fêtes sont organisées par différents acteurs et avec des objectifs qui peuvent être assez éloignés les uns des autres, voire contradictoires. On peut distinguer schématiquement trois cas de figure :
- les fêtes organisées par des éleveurs, directement ou au travers de leurs
organisations professionnelles. Les revendications sont alors essentiellement
centrées autour de la filière de l’élevage, notamment par rapport à une agriculture parfois considérée comme devant disparaître sur certains territoires.
La fête de Saint-Rémy-de-Provence est par exemple née dans un contexte où
84
Fêtes de la transhumance dans le Sud de la France : les enjeux d’une mise en représentation…
Affiche de la Fête de la Transhumance
d’Éguilles (Bouches-du-Rhône)
la transhumance, pratiquée depuis
quelques années uniquement en
camions, avait perdu toute visibilité. L’idée est alors venue à un petit
groupe d’éleveurs de la commune
(organisé depuis au travers d’une
association : Li Pastre de San
Roumiè) de la remettre en lumière
au travers d’une fête organisée
autour du passage de plusieurs
troupeaux de la commune dans les
rues d’un village par ailleurs à
forte attraction touristique.
- les fêtes réalisées sous l’égide des
offices de tourisme, des municipalités, voire du Lion’s Club. Elles
sont alors orientées vers la promotion globale d’un territoire ou d’une
commune, d’un développement touristique, à l’échelle d’un public extrêmement vaste. C’est le cas de l’Aubrac où c’est la culture traditionnelle des
hautes terres du Massif Central que l’on célèbre, avec sa musique, ses productions artisanales (sabots, couteaux, charcuterie, etc.). Sur la tête des
animaux montant en estive, les drapeaux occitans à la croix de Toulouse
ou les drapeaux européens se sont substitués aux traditionnels drapeaux
tricolores. Le Nord Aveyron, jadis au centre de la France, pourvoyeur
d’une forte émigration parisienne, se retrouve ainsi progressivement
transformé en emblème d’une nouvelle occitanité européenne ! À SaintMartin-de-Crau, la transhumance est présentée comme un des emblèmes
de la culture provençale. Le défilé de la fête de printemps de Saint-Martin
voit ainsi se succéder gardians, arlésiennes, charrette de foin de Crau, carreto ramado des Alpilles… Il est à noter également que depuis 2008, à l’instigation de deux femmes éleveuses de la commune, ce sont uniquement
des bergères qui accompagnent le troupeau, dans un souci de revendication de la place des femmes dans la profession.
- enfin, les fêtes organisées en partenariat entre des éleveurs et une association culturelle ou le service culturel d’une collectivité locale. L’accent y est
dès lors mis sur la dimension culturelle de l’élevage transhumant, sa
connaissance, sa promotion et sa défense à l’échelle méditerranéenne,
voire au-delà. Des bergers d’autres territoires de sociétés pastorales du
bassin méditerranéen sont parfois présents. C’était le cas des premiers
temps de la fête de Die, et aujourd’hui d’Éguilles, du Mas Dieu, etc.
85
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Ces fêtes participent d’un phénomène ritualisé : il existe un “modèle fête de la
transhumance”, avec pour élément central le passage du troupeau, qui constitue le
moment fusionnel avec le public. Plusieurs cercles d’acteurs sont mobilisés : celui
des professionnels, celui des amis qui donnent un coup de main ce jour-là, celui des
touristes. Lorsqu’il s’agit encore d’une véritable transhumance à pied (à l’Espérou,
en Aubrac, dans les Pyrénées) des groupes plus ou moins organisés accompagnent
souvent les troupeaux dans leur montée. Après la traversée du village, le nombre
des accompagnateurs croît d’ailleurs parfois de façon considérable pendant quelques kilomètres. À Vendres, le public est invité à accompagner le troupeau, sur des
distances variables, lorsque celui-ci circule, pour les besoins de la fête, entre trois
villages voisins. Des bergers au simple participant, il y a donc une gradation dans
la relation de proximité au troupeau, qui a une fonction très inclusive dans la fête.
Tous les médias permettant de valoriser la dimension culturelle de la transhumance peuvent également être sollicités : expositions, projections de films,
veillées, spectacles, colloques, rencontres, etc. Le programme de la fête comprend souvent des démonstrations de chiens de troupeaux ou de tonte, une
foire aux produits locaux, un repas (autour d’une viande) et prend parfois une
connotation religieuse, avec la bénédiction du troupeau.
Une forme de mise en scène de l’activité d’élevage
L’analyse du déroulement de ces manifestations montre que la mise en place
de ces fêtes répond d’évidence au besoin d’un nouveau mode de communication entre un public très majoritairement urbain – mais dont les racines rurales
peuvent être très proches – et des acteurs du monde rural. Néanmoins, suivant
le lieu où elles se trouvent (moins proche des villes), les fêtes peuvent parfois
s’adresser aux deux publics, urbain et rural. De ce point de vue, les fêtes de la
transhumance ont l’avantage d’être organisées autour d’une activité encore
actuelle, dont la persistance est liée à un mode de vie particulier et à la préservation d’espaces “naturels”. Il n’est donc pas étonnant que le contact s’établisse
aisément entre des éleveurs, dont l’activité a longtemps été marginalisée, et un
public exigeant, à la recherche d’une authenticité sans fard, tant sur l’aspect
produit que sur la dimension culturelle. Le passage du troupeau, élément central de la quasi-totalité des fêtes, a de surcroît l’avantage de rendre chacun
acteur de la fête, ne serait ce qu’un instant, dans la proximité avec les animaux.
C’est dans ce contact direct avec les bêtes, offert à tous, que réside certainement
un des succès de ces manifestations.
Mais la pluralité d’acteurs et d’objectifs, parfois contradictoires, peut être
également source de conflits. La façon dont l’élevage transhumant et la culture
pastorale qui lui est liée sont présentés au public est un sujet sensible auquel les
éleveurs sont toujours très attentifs. La mise en scène de soi n’est en effet pas
une opération banale : c’est l’image de son élevage qui est en jeu, sinon l’image
de l’élevage transhumant de la région, dont on est ce jour-là les représentants.
86
Fêtes de la transhumance dans le Sud de la France : les enjeux d’une mise en représentation…
Pour les éleveurs et les organisations professionnelles, il s’agit d’un pari forcément perdu d’avance : il est impossible de faire passer la complexité d’un
métier, d’une histoire, en une seule journée. Les messages sont forcément
réducteurs.
Autrefois, et parfois encore aujourd’hui dans certaines zones, lorsque les
troupeaux traversaient les territoires et les villages, la transhumance était déjà
une forme de mise en scène pour le regard de l’autre : ensonnaillage de prestige, décoration des bêtes, ordre de marche, animaux de prestige (notamment
les boucs du Rove), etc. Les gens avaient alors – ont parfois encore mais de
façon très minoritaire – une connaissance fine de ce type d’élevage et les critères de reconnaissance des bons éleveurs, car ils étaient souvent issus de
famille d’éleveurs. Or, les fêtes s’adressent aujourd’hui à un public urbain, qui
n’a pas les codes nécessaires, ou les interprète autrement. Il y a donc la crainte
d’une vision biaisée de la profession, voire caricaturale : la crainte d’être
transformé en “berger de carte postale”.
Les évolutions des dernières années
Parmi les évolutions constatées depuis les années 90, trois semblent particulièrement significatives :
Démonstration de tonte.
Fête de la Transhumance de La Garde-Freinet (Var)
(photo P. Fabre)
87
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
- la mise en avant affirmée du rôle écologique de l’élevage, notamment du
rôle des troupeaux dans le maintien des paysages ouverts et de la biodiversité qui y est liée, de la défense de la forêt contre les incendies ou de la
prévention des risques d’avalanche en montagne3 ;
- la promotion des produits, avec une présence plus régulière de dégustation sinon de vente de viande, la possibilité de prendre un repas (souvent
à base de côtelettes d’agneau) ; cette évolution est à mettre en parallèle du
développement récent de la vente directe dans les élevages (points de
vente collectifs, via une coopérative ou auprès de particuliers), ainsi qu’à
une volonté de plus en plus affirmée des filières d’élevage et des territoires
de relier les produits agricoles à leurs terroirs ;
- la mise en œuvre d’offres structurées autour de la transhumance, comme
l’opération “Transhumances en Couserans” (Ariège)4, association créée en
2003 qui rassemble tous les acteurs motivés par une démarche de re-dynamisation et d’animation des vallées du Pays Couserans autour des activités pastorales et des transhumances.
D’autres types de transhumances citadines
D’autres types de transhumances organisées dans les rues des grandes villes
ont également eu lieu ces dernières années. Pour l’essentiel, l’objet en était des
Fête des Bergers et des Traditions d’Istres (Bouches-du-Rhône)
88
(photo P. Fabre)
Fêtes de la transhumance dans le Sud de la France : les enjeux d’une mise en représentation…
revendications syndicales. Les éleveurs ont ainsi tenté de manifester leur
mécontentement contre la présence des prédateurs dans les espaces pastoraux
lors de grands rassemblements de protestation dans les rues des grandes villes
du sud-est de la France (Nice, Lyon, Grenoble, Aix-en-Provence, entre 1997 et
2000). Ils y défilèrent avec un imposant troupeau d’ovins, car ces défilés dans
les rues des villes attirent les médias et les foules, comme s’il s’agissait de fêtes
de la transhumance. Cependant, ces rassemblements n’eurent pas l’effet
escompté : retourner l’opinion au profit des éleveurs et se faire entendre des
autorités étatiques.
À l’automne 2008, la Fédération Nationale Ovine donna également comme mot
d’ordre d’organiser des “transhumances” dans les rues des grandes villes, ce qui
fut fait à Clermont-Ferrand, Toulouse, Valence, Marseille et enfin Paris (au pied
de la Tour Eiffel). Les revendications de ces manifestations (centrées autour du
slogan « Nos brebis font les paysages que vous aimez ») rejoignent d’ailleurs en
partie les orientations nouvelles des fêtes de la transhumance autour de la valorisation du rôle environnemental des troupeaux, évoquées précédemment. Ces
manifestations et revendications ont d’ailleurs connu une certaine réussite avec
l’obtention d’un plan de relance significatif pour la filière ovine.
Dans les années 1970, les “paysans du Larzac” usèrent déjà, même s’il ne
s’agissait alors ni de transhumants, ni de déplacement de bêtes aussi importants, de cette présence de brebis dans des lieux inattendus (tribunaux, rues des
villes et, déjà, le Champ de Mars à Paris). L’utilisation répétée qu’ils en firent
La “Brebis à la valise”. Fête de la Transhumance 2002 de Die (Drôme)
(photo P. Fabre)
89
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
(« Des moutons pas des canons » proclamait un slogan) induisit un retournement total d’image, transformant l’antique mouton suiviste en brebis revendicatrice, ce qui n’a pas été sans conséquence pour les manifestations actuelles d’éleveurs, même si leurs objectifs sont tout autres.
Les clés de la réussite ?
L’indéniable succès des fêtes de la transhumance repose avant tout, nous
l’avons dit, sur le contact direct avec les bêtes que permet le passage du troupeau dans les rues du village, élément central de la fête. La rencontre véritable
entre le public et le monde de l’élevage est souvent la plus aboutie lorsque l’organisation de la manifestation repose sur une relation étroite entre opérateurs
culturels et professionnels (éleveurs et bergers), respectueuse de ces derniers.
Elle permet notamment de dépasser les seules dimensions spectaculaires et
émotives du défilé de troupeaux, pour poser les termes d’une réelle prise de
conscience des réalités contemporaines du pastoralisme dans ses différentes
dimensions, culturelle, productive et environnementale, et de créer les conditions nécessaires à un échange véritable entre les participants. L’ouverture vers
d’autres cultures pastorales est également pertinente, car la transhumance s’inscrit dans une histoire et que cette histoire est faite d’échanges, de convergences
et de divergences, qui ne sont souvent perceptibles que sur une échelle géographique plus large.
n o t e s
Texte préparé avec la collaboration de Pierre Laurence.
Garnier J.-C., Labouesse F., Laurence P., Salmon C., 1997. Les fêtes de la transhumance
dans le Midi méditerranéen et leur développement récent : contexte, enjeux et significations,
Rapport final de recherche, Montpellier, INRA. Cette communication reprend, en l’actualisant, une contribution antérieure de Pierre Laurence : « Les fêtes de la transhumance
dans le Midi méditerranéen de la France : quelles valorisations culturelles ? », in :
Transhumance : relique du passé ou pratique d'avenir ? État des lieux d'un savoir faire méditerranéen en devenir, Actes des journées euro-méditerranéennes de la transhumance, SaintRémy-de-Provence, Saint-Martin-de-Crau, 11-14 juin 2000, s. l., Cheminements, 2002,
p. 297-306.
1
2
3
Ces activités respectueuses de l’environnement sont désormais de plus en plus reconnues et se traduisent notamment par une implication de plus en plus forte des élevages
dans les dispositifs de mesures agri-environnementales, mesures mises en place à partir
de 1991.
4
http://transhcouserans.free.fr
90
« Allons faire la fête ! »
Rose-Claire Schüle
Ce n’est qu’en triant mes fiches d’enquêtes concernant la fête et les nombreuses coupures de journaux, accumulées
depuis au moins soixante ans, afin de
préparer la grille du Concours Cerlogne
de cette année que j’ai pris conscience de
l’ampleur et surtout de l’importance de
la fête dans notre société actuelle, sans
omettre les énormes changements culturels intervenus. Même en laissant de
côté, comme le thème de cette conférence
annuelle nous l’a imposé, les fêtes religieuses, calendaires ou non, les fêtes
patriotiques et celles qui sont liées aux
rites de passage dans le cycle de vie ou
dans le cycle annuel, il reste un tel nombre de fêtes que j’ai été contrainte de faire pour cette communication un choix
sévère et guère facile. Il a fallu éliminer les manifestations sportives entraînant
des festivités (Eurofoot, passage du Giro, courses internationales de ski, etc.),
les grands événements musicaux (Open air, Paléo, etc.).
En tout premier lieu il faut essayer de savoir ce qu’on entend par fête. Pour
une fois, le dictionnaire n’apporte pas vraiment un éclaircissement. Le Petit
Robert mentionne d’abord sous le titre de fête les solennités de caractère commémoratif ou religieux, célébrées soit lors d’anniversaires de personnalités ou
de faits, soit à certains jours de l’année, ou des réjouissances publiques et périodiques. Ce n’est qu’en quatrième lieu que se trouvent les fêtes occasionnelles où
sont évoqués : bal, festin, gala, raout, réception et, plus populaire : bamboche,
bamboula, bombe, fiesta, etc. Nous n’y trouvons aucune définition qui puisse
nous être utile. Après avoir consulté nombre de travaux et de publications ethnologiques1 il est possible de proposer les caractéristiques suivantes pour la fête
telle qu’elle sera présentée ici.
La fête est un rassemblement de plusieurs personnes (au minimum deux et
sans limite vers le haut) qui passent ensemble un certain temps à un événement
de caractère festif. Cet événement ne s’insère pas dans le quotidien mais s’en
91
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Affiche du 11e Concours Cerlogne à La Thuile
détache pleinement. Le verre de vin ou
l’apéro en commun après le travail n’est
pas une fête, il reste un moment, agréable certes, mais fait partie des rituels du
loisir quotidien. Le divertissement, généralement commercialisé, est une manière
d’occuper les loisirs, mais il est vécu en
solitaire ou en groupe sans aspect festif.
La fête, spontanée ou non, se distingue
du divertissement par sa nécessité d’une
communauté porteuse, si petite et éphémère soit-elle.
Les changements intervenus au cours
des dernières décennies dans tous les
domaines de la vie humaine sont innombrables. Le changement culturel du vingtième siècle à nos jours, semble se concrétiser notamment dans la fête. La
Deuxième Guerre mondiale n’avait plus permis le déroulement des fêtes usuelles et nombre d’entre elles ont disparu. Si les fêtes religieuses et les fêtes calendaires ont, dans l’ensemble, mieux résisté aux changements, elles ne sortent pas
indemnes des influences commerciales et touristiques, des modes successives et
du stress engendré par le rythme de la vie moderne. Certaines fêtes calendaires,
surtout celles liées de près ou de loin au cycle de la vie agricole ont disparu
(feux de la Saint-Jean, fête de l’abattage du cochon, fin des moissons, fin des
vendanges, etc.). D’autres ont été revitalisées par les offices du tourisme, par
des particuliers nostalgiques ou des associations de sauvegarde (fête du solstice
d’été, veillées, marchés artisanaux, inalpes et désalpes2 etc.). De nouvelles fêtes
sont nées spontanément, d’autres, et c’est la grande majorité, ont été inspirées
par celles de communautés voisines ou lointaines (Fêtes celtiques, fêtes médiévales, etc.), connues, voire propagées par les médias. Revitalisées ou créations
nouvelles, ces fêtes ont toutes été folklorisées, du moins dans un premier
temps, avec force costumes “traditionnels” rarement authentiques et toujours
sortis de leur contexte originel.
Ce qui semble absolument être un trait essentiel et indispensable de la fête
en général, c’est l’apport, majoritairement considérable, de nourriture et / ou
de boisson. De nombreuses fêtes du passé ne nous ont été relatées qu’à cause
des agapes copieuses et extraordinaires qui en étaient le point fort, et il n’est
pas rare que les fêtes actuelles soient médiatisées pour les mêmes raisons.
Même la fête pour la fête, spontanée, ne se conçoit pas sans un minimum de
boisson et de nourriture, à la fortune du pot, ne serait-ce que quelques chips et
des boissons en cannettes. Faute de mieux, la convivialité s’épanouira en gri92
« Allons faire la fête ! »
gnotant. Plus une fête se prépare, plus elle est organisée, plus la nourriture
prend de l’importance. Du lointain temps de ma jeunesse, avec les restrictions
de la guerre ou leur souvenir, l’apport se faisait en commun, chacun apportant
ce qu’il pouvait. Ces fêtes “non obligatoires”, contrairement à celles dictées par
le calendrier (Noël, Assomption dite Fête d’Août, etc.), les convenances (anniversaires, commémorations, inaugurations, etc.) ou la religion (Fête-Dieu,
Pâques, la fin du Ramadan, etc.), se développent entre amis, entre collègues,
entre voisins, mais aussi entre ressortissants d’une vallée, d’un village, d’un
quartier, urbain ou non, et entre représentants d’une classe d’âge ou d’une couche sociale. Ces fêtes n’ont qu’un but avoué: fêter ensemble pour se détacher du
quotidien. Le besoin de créer ou de resserrer des liens sociaux ne se présente
qu’implicitement ou en second lieu et, pourtant, la recherche d’intégration dans
une communauté se révèle être essentielle, bien que souvent inconsciente. La
disparition des contacts que la vie villageoise ou rurale, voire urbaine, entraînait obligatoirement, que cela soit à la fontaine, aux champs, aux travaux communautaires ou à la fabrique, chez les artisans et commerçants locaux, a amené
un vide qui s’est peu à peu révélé être un véritable manque et qu’il a fallu combler. Depuis que nous avons, surtout dans les villes, de nombreux immigrés
venus du monde entier, on organise des fêtes multiculturelles dites de partage
où les migrants présentent spontanément leurs spécialités culinaires, voire des
repas traditionnels de leur pays et surtout des bribes de leurs différentes cultures initiant un dialogue interculturel. D’autre part, les “indigènes” les initient
aux secrets des fondues, raclettes, polentas et autres röstis… sans oublier les
coutumes et les convenances locales. Certaines municipalités organisent des
rencontres ou des fêtes d’accueil pour les nouveaux habitants, pour les jeunes
adultes, pour les immigrés. Nombre de fêtes spontanées, devenues souvent
répétitives et dès lors commercialisées, sont récentes, voire très récentes.
Certaines prennent de l’ampleur, s’étendent au-delà du voisinage, au-delà du
village, d’autres restent éphémères. Les fêtes des voisins initiées, semble-t-il en
1999 à Paris afin d’améliorer les rapports de proximité, ont surgi ci et là en
Suisse romande mais à Sion et Sierre, elles ne se déroulent la première fois
qu’en mai 2009 réunissant dans chaque ville plus de mille participants. Si ces
fêtes sont organisées par des bénévoles, elles sont généralement financées à
l’aide de stands de vente offrant des produits locaux.
Il faut distinguer entre ces fêtes spontanées, qui peuvent avoir un but caritatif – aider une famille, assainir un climat de voisinage, sauver un environnement, des plantes ou des animaux, contribuer à la restauration d’une chapelle,
d’un bâtiment ancien ou mieux se connaître, nouer même des amitiés – et les
nouvelles fêtes à but commercial ou touristique. En effet, la majeure partie des
fêtes dites œno-gastronomiques, traitées par Mme Agostino, sont organisées
par les offices du tourisme (pro loco) ou des associations de commerçants ou
d’hôteliers. En Valais les fêtes de la châtaigne et de l’abricot ont connu un excellent succès et elles continuent à attirer de plus en plus de public, même venant
de loin. Après quelques répétitions, on la dit traditionnelle, voire existant
depuis toujours. La fête de la framboise, par contre, fragile comme le fruit
93
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
1953. La désalpe de Vacheresse (Bionaz)
47e Concours Cerlogne
Écoles élémentaires de Bionaz-Oyace
qu’elle voulait promouvoir, n’a pas
connu de lendemain. Lorsque ces fêtes
correspondent à un besoin de la communauté (qui peut parfaitement être
celle d’une région) ou qu’elle se révèlent financièrement rentables, elles
survivent, les autres disparaissent. En
Vallée d’Aoste, les fêtes de la châtaigne, de la pomme, de la crème fouettée
et toutes les innombrables autres sont
en plein essor et en passe de devenir
calendaires.
La Suisse est un des pays, peut-être
même le pays qui présente un incroyable nombre d’associations (de gymnastique, de chant, de musique, de théâtre, de folklore, de costumes, de chasseurs, de guides, d’éleveurs de reines, de
chiens, chats ou de lapins, de compatriotes, d’immigrés, d’alpinistes, de sportifs, etc., etc.). Localement, elles organisent chacune au moins une fête par
année, ce qui a souvent obligé les municipalités à créer une commission des loisirs et à établir des calendriers de manifestations festives, car le nombre des
fêtes associatives locales est plus grand que celui des semaines…
La fête pour la fête, sans aucun autre but, est peut-être la plus sympathique
et semble correspondre à un besoin de communauté. On peut s’interroger sur
son origine et sur sa raison d’être. La fête serait-elle un besoin humain que déjà
nos ancêtres les plus lointains auraient connu ? Un biologue de l’évolution et
zoologue allemand vient de publier un livre sous le titre (je traduis de l’allemand) « Pourquoi les hommes se sont-ils sédentarisés ? »3.D’après lui, la sédentarisation de nos ancêtres est intervenue il y a environ 12 000 ans, lorsque les
chasseurs-cueilleurs nomades ont commencé à cultiver des céréales. Il se pose
des questions, les petites graines de céréales sauvages qu’il fallait décortiquer
puis écraser ou moudre pour faire des galettes ou du pain étaient-elles vraiment assez importantes pour amener les hommes à les cultiver ? Selon lui et les
archéologues, les nombreux ossements et restes d’animaux trouvés dans les
fouilles de sites préhistoriques démontrent que les hommes n’étaient pas sousalimentés. Le climat s’était réchauffé, les plantes et les animaux sauvages ou
domestiqués prospéraient. Le gibier comblait facilement leurs besoins en protéines. Les plantes sauvages comestibles qui profitaient, elles aussi, du climat
devenu plus agréable, permettaient une cueillette facile. Les hommes pouvaient
donc aisément se nourrir sans avoir recours à des graines cultivées. Toujours
94
« Allons faire la fête ! »
selon l’auteur Reichholf, cette période de relative prospérité accordait aux hommes, qui n’étaient plus uniquement occupés à assurer leur survie, du temps
disponible pour des occupations non purement utilitaires. Nous avons tous
appris que les ornements, les arts, n’avaient pu naître que dans une région fertile, comme le Croissant d’or de l’Égypte, là où une partie des humains suffisait
seule à procurer à tous de quoi combler les besoins vitaux. Les monuments et
les temples de l’Antiquité témoignent que les besoins spirituels et intellectuels
étaient également présents et assumés par ceux qui étaient libérés des corvées
alimentaires. Dans nos régions, à part quelques bijoux et objets ornementaux,
quelques stèles funéraires, rien de tel ne nous est parvenu des lointains temps
de notre préhistoire. Pourtant, l’auteur nous assure avoir des preuves que nos
ancêtres avaient des besoins sociaux et de convivialité qu’ils assouvissaient en
faisant la fête. Faire la fête aurait donc été une nécessité sociale pour nos plus
anciens groupes humains devenus sédentaires. Les graines de céréales, retrouvées dans les fouilles de leurs campements, en témoigneraient car les premières
céréales cultivées servirent d’abord à faire de la bière et non du pain. Pour brasser de la bière, il suffit de disposer de peu de graines et de les laisser fermenter
sans avoir à les préparer (écraser ou moudre) comme c’est le cas pour le pain.
Bien sûr, Reichholf est de Munich, la ville de l’Oktoberfest et de la bière et, pour
lui, la fête, la convivialité ne peut s’imaginer sans la bière et un certain degré
d’ivresse. Pourquoi s’occuper de cette théorie qui sera certainement âprement
discutée par les archéologues et les sociologues de la préhistoire ? Tout simplement parce que jusqu’à la toute récente crise financière mondiale, nous avons
vécus dans une période de bien-être et même d’opulence, du moins dans nos
régions. De nombreux jeunes gens et de moins jeunes ont beaucoup de temps
libre, souvent plus qu’ils n’en désirent. Ils surfent donc de nombreuses heures
sur les réseaux communautaires de l’internet, comme Facebook et YouTube, à
passer le temps mais surtout à chercher des contacts dans les groupes de discussion. Souvent, de petits groupes se retrouvent dans des lieux communs et
parfois ils organisent des démonstrations pour n’importe quel sujet ou pour
faire la fête. Depuis le début de 2008, le botellòn, une fête “à boire” qui a pris
naissance en Espagne, a inspiré la jeunesse suisse. Faire un botellòn, c’est faire la
fête en étant le plus nombreux possible, sans aucun autre but que de faire la fête
et de se saouler en un temps record4. À Zürich, au mois d’août 2008, un jeune
homme de 17 ans, appelle sur l’internet à faire la fête, un botellòn, le vendredi
soir de la prochaine semaine. Le lieu choisi est un grand pré, un vaste lieu communautaire de la ville de Zürich. Une fête avec des centaines de participants ou
une grande manifestation publique est obligatoirement soumise à l’octroi d’une
permission, elle doit être annoncée aux autorités qui contrôlent si les précautions de sécurité, d’hygiène et sanitaires seront respectées, avant d’accorder le
feu vert. Rien de tel n’a été fait. Les services de police convoquent donc le jeune
homme, qui déclare qu’il s’est inspiré des botellònes d’Espagne pour lancer tout
simplement son invitation. Il s’attend à un rassemblement de plusieurs centaines de jeunes gens, mais qu’il n’a rien organisé, n’étant pas au courant des prescriptions et que, d’ailleurs, il ne veut pas prendre de responsabilités, qu’il n’a
fait que lancer une idée et une invitation. Que la seule obligation imposée aux
95
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Affiche de la fête de la Seupa a la Vapelenentse
47e Concours Cerlogne
École élémentaire de Valpelline
participants était d’amener de l’alcool
pour faire une belle beuverie. Ni service
d’ordre, ni service sanitaire ni même des
poubelles et des toilettes n’étaient prévus, et qu’il allait tout simplement se
retirer, n’ayant ni l’expérience ni les
moyens nécessaires. Toutefois, l’idée de
la fête est lancée et largement réceptionnée. Le vendredi soir, plus de 2000 personnes, majoritairement des ados,
dûment munies d’alcool se sont rassemblées. Il fait beau et au début la fête se
déroule pacifiquement, la police qui se
tient en retrait n’a pas besoin d’intervenir. La consommation d’alcool augmentant, la fête déborde, devient violente et rapidement les secouristes que la police
a mobilisé évacuent les premiers jeunes gens ivres morts, quelques-uns sombrent dans un coma éthylique qui les mène à l’hôpital. Le lendemain, le service
de voirie et les véhicules balayeuses de la ville ramassent 6 tonnes de détritus
sur le terrain. Ensuite, la ville doit engager pour plusieurs jours des équipes de
nettoyeurs qui éliminent à la main tous les petits débris de verre, dangereux
pour les hommes et les bêtes. Malgré la fin peu glorieuse de ce botellòn, de telles
fêtes sont immédiatement prévues dans d’autres localités. Certaines villes interdisent ces manifestations, d’autres cherchent à les contenir. À Genève, un grand
rassemblement se prépare, mais une pluie diluvienne et continue réussira à disperser les quelques 300 courageux ; à Martigny, la fête se termine avant d’avoir
commencé lorsque la petite vingtaine de jeunes se voient encadrés par un nombre bien plus grand de forces de sécurité. N’oublions pas que la Suisse germanophone boit surtout de la bière, les Romands préférant le vin, plus coûteux et
moins compatible aux beuveries improvisées en plein air. La fin de l’été et ses
intempéries ont, pour un certain temps, fait disparaître toute velléité de botellones 5. Sur la toile s’annonce, venant cette fois-ci d’Amérique du nord, une nouvelle “fête à boire” – le Beer pong – qui semble être encore plus dangereux pour
la santé des jeunes participants, toutefois je n’ai trouvé aucune attestation de
son arrivée en Suisse.
D’une fête bien hypothétique de la préhistoire aux “fêtes à boire” récentes
nous avons sauté par dessus les millénaires, incluant toutes les fêtes plus ou
moins spontanées, occasionnelles et sans date fixe, pour retrouver la question :
la fête serait-elle un besoin vital des humains et quel besoin ? Et si ce n’était que
le besoin de se sentir dans une communauté, si petite soit-elle ? La mode du
96
« Allons faire la fête ! »
Public Viewing, sans être une véritable fête, semble étayer cette hypothèse. Il y
a quelques décennies, les téléviseurs privés étaient rares et lors de grandes
courses, de matches de football, certains cafetiers offraient aux clients la possibilité de suivre les compétitions ou autres événements sur un bon écran.
Actuellement presque tous les ménages ont au moins une télévision. Lors de
grands événements, les matchs de l’Eurofoot par exemple, d’immenses grands
écrans sont installés dans les rues, sur les places et souvent dans un inconfort
notable se pressent les spectateurs, serrés comme des harengs et heureux de
partager avec d’autres passionnés ces moments qui leurs semblent inoubliables.
Payant ou non, l’essentiel est d’être parmi les autres, surtout avec des autres qui
ont de mêmes intérêts.
Inavoué, souvent inconsciemment, il y a la recherche de communauté, la
quête d’une appartenance sécurisante, plus humaine. Les fêtes mercantiles ne
peuvent donner que très partiellement ce sentiment d’appartenance à une communauté sociale. Certes, le public d’un festival de fanfares, d’un concours de
lutte ou de tir, d’un rassemblement folklorique, n’est pas le même que celui
d’un festival de films ou de concerts classiques ou de jazz. Ces événements réunissent des groupes plus ou moins constitués préexistants et ne créent qu’exceptionnellement de nouvelles relations de sociabilité. Le besoin de relations,
de chaleur humaine dans une communauté si petite soit elle ne se comble (parfois) que dans la fête de proximité, là où l’auteur et l’acteur se fondent. Qu’elle
donne naissance à des amitiés, des relations durables, qu’elle apaise des relations tendues ou qu’elle reste sans lendemain est imprévisible… L’essai doit
être tenté. « Allons faire la fête ! ».
n o t e s
Notamment M. Risi, Quotidien et festivités en Suisse. Une petite histoire du changement
culturel. Pro Helvetia, St-Gall, 2003.
2
Au mois de septembre 2008, 34 désalpes devenues fêtes touristiques commercialisées,
ont eu lieu dans le Valais romand. Afin de canaliser la concurrence, ces fêtes se sont
déroulées par groupes de 3 à 5 désalpes. Des centaines de participants ont pris la relèves
des sociétaires et des pâtres et des bergers.
3
J. Reichhholf, Warum die Menschen sesshaft wurden. Fischer 2008.
4
Se saouler le plus rapidement possible, faire une biture exprès, est malheureusement
devenu un attribut des fins de semaine, plus usuel en Suisse allemande qu’en Suisse
romande, qui se “célèbre” en petits groupes ou dans les boîtes ou autres discos. 3 à 4
mineurs, dont des filles, se retrouvent chaque fin de semaine à l’hôpital dans un coma
éthylique.
5
Est-ce la crise financière ou la saison des botellònes n’étant pas venue, fin juillet 2009, il
n’y en a trace dans les médias.
1
97
40 ans
de fêtes œnogastronomiques valdôtaines
Laura Agostino
C’est depuis 1986 que je ne reviens
plus au sujet des fêtes œnogastronomiques. Cette année-là, en effet, alors que je
travaillais encore au Brel, j’avais eu l’occasion de conduire une petite recherche
sur ces manifestations et d’en sortir un
article publié par Le Folklore suisse, le
Bulletin de la Société suisse des traditions populaires.
Voilà probablement la raison qui a
induit le professeur Alexis Bétemps à me
demander de refourrer le nez dans les
senteurs de la cuisine traditionnelle valdôtaine en fête pour vous en parler,
aujourd’hui. Pour pouvoir ensuite articuler une comparaison avec l’heure actuelle, il me faut vous résumer les contenus
de l’article cité de 1986.
Ces manifestations villageoises (sauf pour ce qui est des fêtes du vin et du
raisin, qui ont une plus longue tradition) ont pris leur essor aux environs des
années Soixante du xxe siècle. Pour être plus précis, la plupart des premières
éditions se place entre 1966 et 1976.
Au centre de l’intérêt il y avait, de toute évidence, un mets ou un plat typique de l’endroit. Les finalités étaient claires : faire de la publicité à ces produits
de la terre et créer un moment d’amusement pour les touristes et les gens du
village.
Il y a 25 ans – et de nos jours encore – la période des fêtes commençait à la
moitié du mois de mai pour se conclure avec la première semaine de novembre.
Au total, on comptait une trentaine de manifestations. La belle saison était la plus
indiquée pour l’organisation de manifestations en plein air souhaitant la présence
des touristes. Dans le cadre de ces initiatives, on pouvait distinguer trois filières
principales : les fêtes consacrées à un mets particulier (la crème fouettée plutôt
que le lard…), celles dédiées au vin et les fêtes automnales de la châtaigne.
99
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Ces manifestations étaient généralement organisées par les Pro Loco ou par
des Comités pour la sauvegarde des traditions de l’endroit. Il s’agissait de groupes, sensibles au problème de la conservation et de la diffusion de tout aspect
du patrimoine ethnologique local, qui cherchaient en outre la collaboration de
toute autre personne disponible. On eut ainsi souvent des exemples de manifestations auxquelles les enfants des écoles collaboraient activement en aménageant des expositions ou en présentant des chants (comme la Chanson des
Pommes de Gressan) ou encore des danses créées exprès. Les associations sportives aussi participaient parfois, en organisant des compétitions pour animer
l’après-midi.
Sous le profil financier, ces fêtes étaient organisées à l’aide de subventions
allouées par les Communes ou par l’Administration régionale. Pour la partie
résiduelle, la manifestation devait être capable de se financer pas ses propres
revenus.
Sous le profil de la promotion, ces fêtes étaient annoncées par des affiches
généralement en italien, ne conservant en français ou en patois que le nom du
produit typique protagoniste. Autre instrument promotionnel : la répétitivité.
La date de l’évènement était fixe et elle se savait avec certitude d’année en
année. Je m’explique mieux : si je sais que le deuxième dimanche de mai se
déroule le Festival du Vien de Nus, alors je sais qu’en 2008 il est tombé le 11, mais
je sais aussi que le rendez-vous 2009 sera pour le 10 mai.
Normalement le programme de toute fête était articulé sur deux journées : le
samedi (pour permettre surtout l’organisation d’une soirée dansante) et le
dimanche (pour la fête proprement dite).
Dans le détail, le dimanche à 9 heures on ouvrait l’exposition-vente du produit typique. Suivaient la célébration de la Messe et la remise de prix aux exposants. Vers midi rendez-vous pour le grand repas communautaire constitué,
dans la plupart des cas, de polente, fricandeau, saucisses, fromages et soupes
typiques. L’après-midi était animé par des jeux pour les enfants et les adultes
(mât de cocagne, course en sac ou en brouette, jeux du terroir) ou par un spectacle théâtral ou musical. La journée se clôturait par un autre bal auquel on
avait l’habitude (depuis la fin des années soixante-dix jusqu’en 1980) de faire
participer un illusionniste ou un prestidigitateur.
Les programmes incluaient également des “à côté” qui pouvaient être des
conférences scientifiques sur les méthodes pour une meilleure production ou
des concours pour la préparation du meilleur plat à base du produit typique
(cela arrivait surtout à l’occasion des fêtes des pommes ou des châtaignes). À
propos des fêtes du raisin, il faut souligner une particularité : elles se déroulaient toutes entre la première quinzaine du mois d’août et le mois de septembre, sauf le Festival du Vin de Nus que nous avons déjà évoqué, qui avait lieu au
mois de mai parce qu’on présente le vin et non pas le raisin.
100
40 ans de fêtes œnogastronomiques valdôtaines
Toutes ces fêtes villageoises attiraient, quand le beau soleil les bénissait, un
grand nombre de participants. Ceux-ci étaient recrutés dans toutes les classes
de la population, à l’exception de la “bonne bourgeoisie”, qui semblait plutôt
les bouder. De nombreux amateurs du produit vanté venaient de l’extérieur de
la localité, voire de la région.
En considération du succès enregistré par ces manifestations, on avait crée le
Ceva (Centre expositions Vallée d’Aoste), qui avait installé (à Saint-Chris­tophe)
un chapiteau de quatre mille mètres carrés dans lequel étaient organisées des
manifestations telles que la Festa della Birra ou le Mercatone dei Salassi. Ces manifestations n’avaient pourtant rien à voir avec la production typique valdôtaine
et elles n’avaient que des finalités commerciales. Toute la valeur sociale de l’organisation communautaire de la fête se perdait, évidemment. La seule initiative
ayant une liaison véritable avec la production œnogastronomique valdôtaine
était la Foire des Vins de la Vallée d’Aoste. Aujourd’hui le Palaceva n’existe plus :
après une longue période d’abandon il a été finalement démonté pour faire
place à la future aérostation régionale.
Voilà, avec ce qui est du passé j’ai terminé. Avant de voir si et comment la
situation a changé au fil des 22 ans qui se sont écoulés, permettez-moi quelques
digressions.
La première digression est linguistique : cela me dérange un peu que cette
exposition soit en français parce que la langue de la ville lumière mal s’y adapte. En effet je suis obligée de parler de fête œnogastronomique ou de fête villageoise, ce qui ne rend pas tout à fait l’idée de ce que sont ces manifestations.
Une fête œnogastronomique peut être faite partout, pas nécessairement dans le
lieu d’origine d’un produit ou d’un plat. Je peux en effet parler de fête œnogastronomique si je présente la cuisine valdôtaine à Paris ; mais ici c’est autre
chose. Parallèlement, une fête villageoise peut s’organiser à l’occasion du
patron, pas nécessairement pour célébrer un mets. Bref : le français ne nous
donne pas un terme spécifique pour ces occasions, au contraire de l’italien. En
utilisant la langue de Dante, nous dénommons ces manifestations : sagra.
Étymologiquement, ce mot vient du latin sacrare et était né pour indiquer un
rite ou une fête religieuse, comme la consécration d’une église. Son évolution
est due aux fêtes populaires qui étaient liées au cycle agricole et qui, se déroulant sur le sagrato des églises, voulaient remercier Dieu pour une riche récolte
ou lui demander une bonne saison. « Je ne voudrais pas que les gens pensent
que nous t’avons obligée à présenter ton exposé en français ! Si c’est ainsi, pour
ce qui me concerne, j’aimerais mieux que tu le présente en italien ». Le pas suivant est la liaison avec l’œnogastronomie, qui peut être bivalente : d’un côté il
est évident que le produit typique vient de la récolte ; de l’autre il est inévitable
qu’il soit sur les tables d’une fête locale.
La seconde digression a un caractère économique. Dans les années cinquante, un fonctionnaire du Ministère italien de l’agriculture inventa le label DOC
101
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
(l’Appellation d’Origine Contrôlée), en donnant essor à toute une politique de
sauvegarde et de promotion de la typicité œnogastronomique italienne. La
prise de conscience des collectivités dont nous avons parlé en début d’exposé,
s’est répandue au point de devenir territoriale et d’être prise en charge par les
administrations. Cela signifie que ce sont de véritables structures bureaucratiques qui, de nos jours, se chargent des aspects liés à la promotion des produits
typiques. Et que ces derniers sont désormais considérés non seulement comme
un aliment, mais comme un moyen de profit et de promotion d’un territoire.
Un tas de valences se sont alors ajoutées mais avec la conséquence que le produit a été quelque peu “exproprié” à ses inventeurs. Pas complètement, je vais
expliquer ensuite, mais en bonne partie.
Venons finalement à la situation actuelle de nos fêtes. Ces manifestations, au
cours de 2008, ont été une cinquantaine (55, pour être précis). La plus ancienne
semble être la Sagra dell’Uva de Donnas, qui en a été à sa 52e édition. Médaille
d’argent encore à Donnas, avec sa 36e édition de la Castagnata et châtaignes
encore protagonistes à la troisième place, occupée par la Sagra della Castagna de
Perloz, vieille de 35 ans. Épuisons le discours relatif aux fêtes du raisin et des
châtaignes en disant qu’elles sont la majorité : on fête le raisin (ou le vin) dans
cinq communes et les châtaignes en 13 localités. Un grand essor sont en train de
prendre les fêtes dédiées au pain noir de seigle, cuit dans les fours communautaires des villages et distribué aux participants : on en compte dix, la plus
ancienne desquelles est, sans nul doute, celle du hameau de Marine, à Perloz
(33e édition en 2008). Proche du pain (seulement pour le fait de l’avoir comme
ingrédient où d’être faits avec de la farine) nous plaçons la Sagra della Seupa à la
Vapelenentse de Valpelline et la Sagra del dolce di Champdepraz. Quatre les fêtes
consacrées aux haricots et trois celles des pommes et de la “polenta”. La viande
et la charcuterie ont leur belle place avec la Sagra del cinghiale de Pontey, la Fête
du Lard d’Arnad, la Festa delle Rane de Donnas, la Fëta de l’Ano d’Ollomont (où
la viande de ces gentils animaux est présentée sous toutes les formes possibles),
la Fëta di Teteun de Gignod (le teteun est la mamelle de vache), la Fiha di Civet de
Valsavarenche, la Fête du Jambon alla brace de Saint-Oyen et celle du jambon cru
de Saint-Rhémy-en-Bosses, la Sagra della selvaggina d’ici, à Saint-Nicolas. À cette
liste s’ajoute la Sagra della carne valdostana, qui se déroule à Verrès et au sujet de
laquelle, comme typologie, je vais revenir d’ici peu. Un autre groupe peut être
individué dans les manifestations consacrées aux produits venant du lait : voilà
alors le Quart formage festival (dont je vais encore parler plus tard) et la Sagra
della Fiocca d’Avise (où la protagoniste est la crème fouettée). Notre passage en
revue des différentes typologies de fêtes œnogastronomiques passe enfin par la
Sagra della Favó d’Aymavilles, la Sagra della Sarieula de Verrayes (où le protagoniste est le thym) et la Fëta di Trifolle d’Allein.
Je n’ai pas encore mentionné la Sagra del Miele e prodotti derivati de Châtillon
(je le fais maintenant), parce que cette manifestation, avec le Quart formage festival est bien dédiée à la typicité gastronomique régionale, mais elle ne propose
pas qu’un seul protagoniste mais plusieurs et qui ne sont pas de l’endroit au
102
40 ans de fêtes œnogastronomiques valdôtaines
vrai sens du mot : il s’agit-là un peu de foires plutôt que des fêtes qui nous intéressent, mais gardons-les toutefois, aussi parce qu’elles impliquent les enfants
de l’école primaire en les invitant à réaliser des grands dessins ou des ouvrages
pluri-matériaux exposés, jugés et primés par du matériel scolaire.
Nous ne pouvons par contre pas compter dans notre liste des manifestations
pourtant renommées, comme la Fëta de l’Oumbra de Brissogne (on y mange, et
bien) mais aucun mets n’est directement protagoniste) ; les fêtes de la bière de
Rhêmes-Notre-Dame et Cogne (il ne s’agit pas d’une production locale) ; la
Festa dell’Asado de Brusson (bien savoureux, mais argentin). Si on les comptait
toutes, les fêtes œnogastronomiques doubleraient !
Et nous n’avons même pas compté toutes les manifestations qui sont organisées pour présenter aux touristes un éventail de la production valdôtaine : elles
sont nombreuses, voire sympathiques mais n’ont rien à voir avec notre discours.
J’avais dit que j’aurais repris la fête de la viande de Verrès : il s’agit-là, à mon
avis, du meilleur exemple de comment la “modernité” a emprunté à la tradition
pour ses propres fins. Je m’explique : l’Association régionale des éleveurs valdôtains a son Centre expérimental pour l’amélioration de la viande et elle soutient un programme de diffusion de la production et de la commercialisation de
la viande valdôtaine. Elle a inventé cette fête sur le modèle des fêtes traditionnelles. Le produit est d’origine locale mais il est évident que cette cloche sonne
faux : la “villageoisité” – si vous me passez le néologisme – manque.
Je l’ai gardée dans la liste parce que, si on regarde avec attention, cette
caractéristique de “villageoisité” – par laquelle je voudrais dire ancrage au
milieu et valeur sociale pour la micro-communauté – peine à se conserver.
Dans la majorité des cas cités, c’est toujours la Pro loco qui soigne l’organisation et c’est encore vrai que ces associations rassemblent des gens du même
endroit normalement ayant de bons rapports les uns avec les autres, mais
c’est aussi vrai que les financements sont de plus en plus octroyés (que ce soit
par les Communes, par les Communautés de Montagne ou par les Syndicats
d’initiative – qu’ici on appelle Aiat) pour des fins qui ne regardent pas à la
valeur sociale mais plutôt à celle économique et touristique. Peuvent se sauver un peu les fêtes du pain : elles sont les plus proches de la “vérité historique” parce qu’il vrai que, aujourd’hui tout comme autrefois, les gens doivent
se retrouver pour bien faire fonctionner le four communautaire. C’est faux
que cela donnait lieu à une fête, mais la gaieté ne manquait pas et la joie de
faire goûter sa production aux autres non plus.
Nos fêtes œnogastronomiques sont désormais devenues des pièces dans le
mosaïque de la planification régionale d’événements ayant la capacité d’attirer
les touristes et de produire des bénéfices économiques (pas nécessairement
dans le bref délai, le moyen aussi va très bien). Et, dans cette optique, le choix
103
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
de la langue utilisée, du programme, des événements collatéraux s’insère dans
une logique qui est désormais loin de la socialité spontanée d’autrefois.
Je termine avec un mot d’esprit, un peu de clocher, pour dire que si un
retour à cet esprit se veut, il faut renoncer aux financements : quand la municipalité de Châtillon a refusé toute aide à la bourgade de Chaméran pour l’organisation des fêtes pour le patron, les gens se sont mis ensemble et ont tout fait.
Dans le mépris des administrateurs, certainement, mais surtout avec la joie de
faire quelque chose pour leur communauté qu’ils avaient envie faire sans y être
pour rien obligés.
104
Identità e festa
fra tradizione e folklorizzazione
Riflessioni psico-sociologiche sul declino di un modo
di sentire empatico
Annibale Salsa
Il bisogno insopprimibile dell’uomo
di ritagliarsi uno spazio identitario,
anche in situazioni di forte de-identificazione e spersonalizzazione livellatrice
come quella odierna, impone ai gruppi
sociali di rafforzare – da un lato – le
identità tradizionali percepite come
pure ed immutabili o – dall’altro – di
ricorrere alle note strategie dell’invenzione di nuovi miti delle origini.
Vi è, infatti, una netta linea di demarcazione che differenzia l’uomo delle
società moderne e tardo-moderne occidentali da quello di altre epoche e civiltà.
Essa consiste nel tipo di esperienza di
partecipazione comunitaria alla festa e nell’integrazione fra i vissuti soggettivi e
quelli collettivi. L’antropologo sul campo, che va alla ricerca di testimonianze
relitte attraverso pratiche rubricate in forma di “etnografie d’urgenza”, scopre
mondi vitali profondamente segnati da una diversa strutturazione del tempo e
dello spazio e punteggiati da scansioni e fratture. L’esperienza della “discontinuità” – vale a dire la pratica codificata di alternare il tempo della festa,
dell’emozione collettiva, della liberazione dalle costrizioni del tempo ordinario
al continuum della quotidianità – faceva della festa, nelle società pre-moderne,
un momento ritualmente prescritto per la reciproca riconoscibilità e legittimazione sociale. Sentimenti e sensazioni erano rigorosamente governati dalla riattivazione rassicurante del rituale. Il tempo della festa è, infatti, un tempo ciclico
e, per questo, non appartiene più alle società “secolarizzate” dell’Occidente le
quali, al contrario, hanno adottato il tempo lineare della modernizzazione
scientifica e tecnologica. Le pratiche culturali condivise, in quanto codici normativi e socio-plastici, agivano in qualità di forze selezionatrici investite del
potere di stabilire l’essere e il dover essere della comunità. Le società industrializzate dell’Occidente hanno defenestrato il senso etnologico della festa sostituendolo con quello della mera evasione alla ricerca del loisir. Se poi il cultural pattern assume il carattere olistico e totalizzante dell’organizzazione sociale delle
società di interesse etnologico, diventa consequenziale attribuire all’orizzonte
105
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
comunitario anche quei sentimenti che noi moderni attribuiamo alla sfera individuale. La festa tradizionale può rappresentare una traccia esplicativa per
capire in che misura essa esprima anche un modo per soddisfare esigenze di
coesione, di controllo e di riconoscimento sociale come lo stare insieme, il condividere regole accettate (gioco, stili di vita, significati e valori di riferimento) e
la trasgressione controllata (inversione rituale, travestimento).
La festa tradizionale è, infatti, una sorta di festa comandata, stabilita da un
calendario rituale che ne fissa la topografia spaziale (i luoghi) e temporale (i
giorni). Si tratta di dispositivi cerimoniali che, mentre rinforzano il sentimento
dell’aspettativa e dell’attesa, alimentano manifestazioni di gioia “avventizia”,
come si poteva riscontrare nelle nostre comunità rurali alpine prima dei grandi
eventi festivi. La festa genera, altresì, sentimenti ambivalenti che alla felicità
– comunitaria e partecipativa – associano vissuti di malinconia e di depressione
(sindrome patogenetica e patoplastica della festa). Talvolta ne derivano esiti
aggressivi sia verso se stessi (suicidio), che verso gli altri (violenza omicida). La
festa nelle comunità tradizionali scandiva importanti momenti di trapasso (riti
di passaggio) tra fasi della vita socialmente rilevanti e periodi cruciali del
tempo del lavoro. Le sensazioni di liberazione che ne scaturivano erano l’effetto
catartico dell’attraversamento di fasi negative, critiche, di soglia (liminarità)
ritualmente oltrepassate, ma necessarie ed irrinunciabili in vista della trasformazione degli individui e della ridefinizione del loro status e ruolo sociali.
Il superamento dei momenti di morte / separazione (simbolica) e di rinascita / riaggregazione (simbolica) nell’esperienza ansiogena della marginalità / transizione descritti da Arnold Van Gennep (Van Gennep: 1909), costituivano ineludibili pratiche liberatorie, di appagamento emotivo e di rassicurazione
psicologica. Atti semplici, donatori di senso d’appartenenza, hanno fornito i
materiali culturali delle strategie di sopravvivenza in mondi segnati dalla fatica
e dal dolore fisico. Vi è da chiedersi, pertanto, se le attuali rappresentazioni
della festa, anche nell’arco alpino occidentale, siano ancora espressione di tali
vissuti comunitari o siano riproduzioni in chiave folkloristica, spesso ad uso e
consumo dei turisti. Scrive, in proposito, l’antropologo Paolo Apolito:
«È un luogo comune scientifico contemporaneo che la festa
sia scomparsa […] È curioso però che, ad una facile osservazione, le feste si continuino a praticare e richiamare e che
anzi lo spirito festivo si diffonda anche fuori dello stretto
ambito rituale vero e proprio». Ma, più che alla scomparsa
della festa, ci si riferisce qui ad una condizione di: «indebolimento della metafora del totem, inteso come modello di una
compiuta integrazione sociale. La festa comunitaria, intesa
come azione che conferma i confini e gli ambiti della comunità, e in parte la festa trasgressiva, considerata come azione
che li trascende per riaffermarli ed enfatizzarli, si inscrivono
entro questa metafora». (Apolito: 1993, 7)
106
Identità e festa fra tradizione e folklorizzazione
Va chiarito, però, che la nozione di totem è da intendersi nell’accezione di
Durkheim come espressione dell’unità simbolica della comunità in senso aggregativi e solidaristico. Lo storico Franco Cardini coglie, in proposito, uno degli
elementi ricorrenti dell’attuale nostalgia della festa:
«Si potrà e si dovrà pur spiegare perché al giorno d’oggi ci si
interessa tanto di feste e di felicità, in un mondo che non è
forse né migliore né peggiore di quelli passati, ma che certo
è più “infelice” nella misura in cui ha impiegato e impiega
da molti decenni tutte le sue risorse per raggiungere una
migliore qualità della vita, ma soltanto da poco ha scoperto
che è proprio essa, la qualità della vita, a sfuggirgli. Il progresso, il benessere, la società dei consumi sono stati per noi
un po’ come le “soprascarpe della felicità” della fiaba di
Andersen».(Cardini: 1995, 57)
Il bisogno di comunità come rappresentazione collettiva e messa in scena
rituale da parte del gruppo spiega anche la crescita di interesse della gente
verso le manifestazioni folkloristiche. Si tratta, talvolta, di un tentativo un po’
corsaro di sottrarre alle culture popolari sopravvissute i segreti dello stare insieme, del condividere momenti di esperienza collettiva, pur in situazioni de-contestualizzate ed anonime. Ma si tratta anche di riprodurre il bisogno di esorcizzare le negatività del quotidiano con pratiche cognitive ascrivibili alla dimensione extra-scientifica in senso moderno e con continui rimandi magico-esoterici. Nelle società di interesse etnologico e folklorico, il negativo della condizione
umana veniva esorcizzato attraverso la festa, in un’orgia partecipativa dal forte
potenziale liberatorio e rassicurante. Esso era rappresentato in maniera caricaturale ed apotropaica, fra la paura ed il sollievo di tutti. Entrava nel circuito
simbolico delle rappresentazioni collettive della comunità, con i suoi sistemi di
regole e di divieti, di certezze e di paure controllate.
Tuttavia, in un’epoca di globalizzazione e di omologazione sociale come la
nostra è molto difficile disegnare mappe etnoculturali stabili o rappresentare
situazioni in qualche modo consolidate. Ma quando mai le culture umane sono
state definitive ed immutabili? Che legittimità epistemologica può essere riconosciuta alle presunte “tipicità”? Non resta, quindi, che riflettere su alcune realtà residuali più o meno resistenti in alcune parti del territorio alpino, così come
si sono presentate all’appuntamento di questa nostra tarda modernità.
Se vogliamo seguire un percorso che inizia con la Liguria occidentale (Alpi
Liguri), non è difficile incontrare interessanti aree di contatto e di prestiti culturali tra le popolazioni della valle longitudinale dell’alto Tanaro e delle valli
liguri, contigue ai territori della ex Contea di Nizza, dove le frontiere amministrative e culturali si intersecano secondo logiche che rimandano alla storia più
che all’orografia. Vi sono, in questa area, territori di cerniera fra le Valli
Argentina, Arroscia, Tanaro e Roya che l’orografia ha posto su opposti versanti
107
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
(rivierasco e continentale), ma che le vicende geopolitiche hanno rimescolato e
frazionato all’interno di realtà statuali diverse. Le residue pratiche di cultura
materiale e linguistica testimoniano i forti legami e gli scambi osmotici costruiti
e consolidatisi nel tempo, oggi in via di estinzione a seguito delle intense emorragie migratorie del secolo scorso. Degni di attenzione, in proposito, sono i territori di Ormea e Briga Alta, nei quali l’interazione sociale tra il mondo ligure e
l’area provenzale ha prodotto una koiné culturale piuttosto originale che viene
solitamente indicata come “area brigasca”. Comunità pastorali dedite alla transumanza ovina hanno interessato vasti territori compresi tra il Ponente ligure, i
crinali dei gruppi montuosi del Marguarèis / Mongioje e la riviera nizzarda,
connotando fortemente i segni del paesaggio costruito. Sul versante monregalese delle Alpi Liguri (Valli di Mondovì), piccoli territori quasi interamente assimilati dalla cultura piemontese, risalita nel cinque-seicento dai centri amministrativi del “pedemonte”, hanno lasciato nicchie o sacche disseminate sul territorio a pelle di leopardo (Fontane di Frabosa Soprana in Val Corsaglia, Miroglio
di Frabosa Sottana in Val Maudagna, Baracco, Prea e Norea di Roccaforte in Val
Ellero), classificate etnograficamente come “aree del Kyé”.
La storia dei secoli ix e x ha legato queste valli, insieme con buona parte
delle Alpi Marittime e Cozie, alle controverse vicende della penetrazione saracena dei “Mori” (Maures) provenienti dalle “basi” stabili della Provenza marittima (Frassineto / Le Gard-Freinet). Tale fenomeno ha alimentato un intenso
immaginario popolare avvolto nei misteri dell’ignoto esotico ed ha generato
psicosi collettive, indomite paure ancestrali e ricorrenti ansie di accerchiamento.
A tali vicende sono legate pratiche rituali popolari – oggi rivisitate e consegnate
ad usi “folkloristici” – come la festa de “J’Aboi” ad Ormea, il Bal do Sabre (ballo
degli spadonari) di Bagnasco in Val Tanaro, la Stacada di Breil in Valle Roya, le
Badìe (Abbayo) di Limone, Festiona, Sambuco, Sampeyre proprie dell’area linguistica occitana o provenzale alpina. Ad esse si mescolano sia la memoria storica e mitologica della liberazione delle popolazioni locali dagli infedeli, che
quella più recente della presenza napoleonica nelle Valli alpine occidentali dalla
Val Varaita alla Coumba Freide dei soldats de la neige. Altre interessanti manifestazioni di danza degli Spadonari sono reperibili in molte valli delle Alpi Cozie,
come a Fenestrelle Chisone, luogo strategico lungo la via che da Pinerolo conduce a Briançon e che fino al 1713 (trattato di Utrecht) segnava il confine tra il
Piemonte e Repubblica degli Escartons (Comunità autonoma del Delfinato). La
valle di Susa (dalla Chiusa di San Michele al Moncenisio, area linguistica francoprovenzale distinta dall’alta Valle della Dora Riparia, di cultura occitana)
costituiva un altro interessante “terreno di coltura” di pratiche rituali, contrassegnate da simbolismi arcaici. Si pensi alla danza degli Spadonari di Giaglione
e Venaus ma, soprattutto, al Ballo dell’Orso di Urbiano di Mompantero, importante documento antropologico per riflettere sulla rilevanza simbolica del rito. I
riti di travestimento rivestono in molte culture, soprattutto rurali, significati
arcaici riconducibili al diuturno conflitto tra Natura e Cultura, tra Selvatichezza
e Domesticità. In particolare, l’Orso veniva spesso associato dalle popolazioni
alpine all’Uomo Selvatico, presenza perturbante nell’immaginario folklorico
108
Identità e festa fra tradizione e folklorizzazione
delle comunità di montagna e dispositivo simbolico efficace nella ridefinizione
dei ruoli sociali all’interno delle comunità pre-moderne. La pratica valdostana
della Badoche, organizzata in onore del Santo Patrono ed originaria di La Salle
in Valdigne, vede protagonisti gruppi maschili, ai quali viene demandata l’organizzazione della festa del villaggio.
Nell’estremo nord-est del Piemonte, in Val Vigezzo, gli spazzacamini hanno
riscoperto la forza emotiva di un sentimento di appartenenza solidale e si ritrovano annualmente nella “piccola Svizzera” vigezzina di Santa Maria Maggiore,
facendo festa con i colleghi norvegesi, tedeschi, austriaci, svizzeri, francesi.
Un esempio di forte attaccamento alla tradizione nell’uso del costume
– soprattutto femminile – o in alcune pratiche di devozione popolare come la
processione dell’“Autani”, riservata ai residenti locali, rappresenta ancora un
valore etnograficamente rilevante per la valle Antrona. La cerimonia
dell’“Autani”, in particolare, costituisce un esempio raro di sopravvivenza di
una pratica rituale ad esclusivo uso dei locali che sono, così, i garanti ed i
custodi di un’identità intensamente autopercepita.
Nella successione delle diverse forme di civiltà in trasformazione, altri modi
di rappresentare la festa – attraverso inclusioni ed esclusioni proprie del
meticciamento culturale – saranno certamente possibili. Esse produrranno
spaesamento e perdite di identificazione con i luoghi e metteranno in moto,
come già è percepibile oggi, meccanismi imprevedibili di elaborazione del
“lutto della perdita”, oltre che situazioni di disagio sociale ed esistenziale, come
una certa letteratura etno-psichiatrica sta già evidenziando.
Ogni tramonto prelude, comunque, ad una nuova aurora. È compito dei
“portatori di cultura” governarlo in un orizzonte di consapevolezza.
r i f e r i m e n t i
b i b l i o g r af i c i
Apolito, P., Il tramonto del totem. Osservazioni per una etnografia delle feste, Milano,
Franco Angeli, 1993.
Bauman, Z., Missing Community, trad. it., Roma-Bari, 2001.
Cardini, F., Il cerchio sacro dell’anno. Il libro delle feste, Rimini, Il Cerchio, 1995.
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Van Gennep, A., Les rites de passage, Paris, Nourry, 1909.
109
I Turchi nelle Dolomiti:
quando il globale diviene stralocale
1
Cesare Poppi
In un saggio dell’ormai lontano 1992
dal titolo: La Costruzione della Differenza:
l’economia politica della tradizione nel
Carnevale Ladino della Valle di Fassa argomentavo che le condizioni che impongono
ad una data formazione culturale risposte
locali a stimoli esterni dominanti non si
impongono secondo linee d’impatto – per
così dire – determinate soltanto da ciò che
dà forma allo stimolo esterno stesso.
Devono fare i conti – anche – con le condizioni specifiche interne alla formazione culturale in questione che quelle linee d’impatto selezionano e spesso contribuiscono
a riformare adattandole alle proprie esigenze (Poppi 1992). Facevo notare in particolare come il “discorso della tradizione” dell’allora rinascente Carnevale Ladino
aveva non solo una forte valenza identitaria nei confronti dell’esterno, ma era
anche fortemente articolato all’interno della compagine ladina della Val di Fassa
dal posizionamento specifico degli attori del processo di identificazione su temi
quali l’autenticità delle performance carnevalesche, la loro vicinanza o meno a
modelli “arcaici” percepiti come più “ladini” di altri e così via.
Quella che chiamavo “l’economia politica della tradizione”, in altre parole,
non si costituisce soltanto in funzione e risposta ai “mercati globali”, per così dire,
ma ne arruola gli stimoli “per lo scontro interno” facendoli così marciare alle proprie cadenze, tanto per restare in metafora.
In quell’occasione il referente teorico – e obiettivo di quella presa di posizione – era quel concetto di “invenzione della tradizione” che, ricorderete, dilagava nella letteratura dopo la pubblicazione nel 1983 della popolarissima raccolta
edita da Eric Hobsbawm e Terence Ranger. Sostenere che la risposta “inventiva” non si conformasse soltanto come risposta a stimoli allogeni (quelli per
esempio, che avrebbero ispirato il nazionalismo scozzese ad inventare il kilt o
quelli che hanno trasformato i cabezones dei carnevali spagnoli nella testa di
Maometto, fatta scoppiare alla fine della fiesta) ma che rispondesse in prima
111
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
istanza (anche) all’assetto endogeno di forze e “discorsi” culturali in competizione può oggi sembrare una banalità.
Vale tuttavia la pena, ritengo, perseguire quella linea d’analisi oggi, in quanto il problema del rapporto fra stimoli “esterni” e risposte “interne” ai processi
culturali in atto prende una nuova forma col problema dell’impatto dei processi
di globalizzazione sulle realtà territorialmente ristrette e/o culturalmente minoritarie. Troppo spesso, infatti, si ritiene che “il globale” sia costruzione esterna,
una sorta di Golem che verrebbe ad occupare “il locale” secondo logiche e contenuti suoi propri e non invece – come succede nella prassi sociale – il risultato
di un rapporto sempre negoziato e dagli esisti incerti nel quale il locale fa sentire anche la sua voce, per così dire, nel definire da un lato i termini del confronto
e nel selezionare gli elementi del processo “a suo uso e consumo”. Riaprire il
problema del rapporto fra “globale” e “locale” vuol dire allora anzitutto mutare
ciò che deve essere mutato nei termini dell’analisi in primo luogo per quanto
concerne la scala dei fenomeni: se il nazionalismo – tanto per restare nell’esempio scelto – proponeva differenziazioni laddove esistevano fino ad allora omogenie, la globalizzazione propone – al contrario – di cancellare le differenze a vantaggio di una nuova omogenia. O almeno così recita la vulgata.
Vulgata che copre oggi un vasto spettro del panorama non solo culturale ma
anche – e ben più pericolosamente – politico della scena tanto nazionale quanto
internazionale. Alla paura dell’assimilazione sfigurante le identità che sta alla
radice di certi discorsi sulla sicurezza e su una rinnovata “difesa dei confini”, fa
da compagno un risorto “discorso del tramonto” delle “identità tradizionali” –
tramonto infinito e accompagnato dai soliti allarmi, dovremmo dire, perché se
per i folcloristi d’antan tramontava allora la cultura popolare sotto la spinta
della modernizzazione oggi il crepuscolo si nutrirebbe alla globalizzazione – col
risultato che non viene mai notte e siamo sempre più stranottati.
Trovo molto più profittevole ed interessante, invece, andare a verificare a
livello analitico, sul campo, come sia lo stesso processo di globalizzazione
– imprevedibile, bizzarro e proteiforme com’è – a stimolare (ma, ci chiederemo,
a quali condizioni?) risposte al microlivello che con quello si articolano secondo
dialettiche – scusate il termine desueto – che non sono solo di “innovazione”
tout-court, ma sono anche “retroattive” in quanto contribuiscono a ridisegnare
la mappa dei rapporti locali a partire proprio dal processo di (supposto) “snaturamento” del locale.
I Turchi – e lasciatemi usare l’espressione politically incorrect che ne fa una
“categoria” per esigenze d’analisi, o, se preferite, per licenza antropologica – i Turchi
nelle Alpi ci sono da quando nell’immaginario esistono i Turchi. Dagli
Spadonari dell’amico Grimaldi (Grimaldi 2001) agli Zuavi delle Abbadie
Piemontesi, tributari di quella moresca che tanto ha colonizzato l’immaginario
cristiano in tempi non sospetti e ben prima dell’Orientalismo di Said e che
ritroviamo non solo nella morris dance inglese, ma anche nelle Marce Turche –
112
I Turchi nelle Dolomiti: quando il globale diviene stralocale
antenate del degüello / deghejo di Santa Ana ad Alamo (1836) e rievocate nelle
Fantasie degli ascari vittoriosi che tanto impressionarono l’Italia in Colonia –
da tutto ciò ovvero che si è depositato negli strati profondi dell’immaginario
mimetico della cultura popolare occidentale (e non) emerge un a familiarità col
“Turco” pari a quella che si ha con l’Orso e l’Uomo Selvatico: alcuni, dunque,
possono anche affermare di averlo visto.
Parlo qui di frequentazioni familiari dell’immaginario mimetico in quanto,
così come vedremo nel caso di Moena nelle Dolomiti, identificarsi “col Turco”
ha spesso assunto valenze endogene, venendo a definire differenza, separatezza e specificità sul “fronte interno” per così dire.
Quando nel 1975 arrivai a Moena, la “Fata delle Dolomiti” come recita una
“tradizione” che data al primo dopoguerra, all’inizio delle mie ricerche sui
Ladini della Val di Fassa, una dei primi dettagli etnografici di cui venni informato che – cito – “a Moena ci sono i Turchi”. Al contrario di tante altre notizie di
fatto che avrei dovuto guadagnarmi con lo sforzo della ricerca sul campo, questa informazione faceva parte del “pacchetto primario” da distribuire gratis a
chi dimostrasse anche solo un pelo d’interesse in più rispetto al normalizzato
turista: era parte, dunque, della “topografia culturale” del luogo, fortemente
radicata nella mappa dei luoghi del paese, del quale “Turchia” era un rione
appena al di là del fiume. Ricordo in particolare quella volta che l’indimenticabile Bepi Latanzio, distributore di bombole di gas a tutto il paese, lasciò
sull’uscio del suo magazzino l’avviso: “Sono in Turchia: torno subito”.
I Turchi di Moena – i Turchi Moenati, dovrei forse dire? – abitano… in Turchia.
“Turchia” è il nome del quartiere, fra i tanti, più “individuato” dell’intero paese.
Sorge innanzitutto verso “le terre basse” dove storicamente si suggeriva di
non costruire poiché esposte alle piene del fiume Avisio, là dove erano un
tempo erano orti ed oggi è sorto il Centro Polivalente di Navalge su uno dei
pochi terreni ancora non sfruttati dall’edilizia turistica “storica” proprio perché
esposto e poco assolato: insomma, “abitare in Turchia” non è – o forse non era –
esattamente segno di distinzione nel gotha residenziale di Moena.
Il simbolo più esplicito e permanente del rione è la Fontana del Turco, un
fontanile decorato da una testa di turco con turbante, che campeggia in
“Piazzetta Turchia”. Questo è il nome ufficialmente adottato dall’amministrazione comunale quando negli Anni ’80 si decise di adottare la doppia denominazione stradale italiano-ladino ed al rione fu ufficialmente assegnato il nome
“Turchia”.
Quando arrivai a Moena negli anni ’70 gli intellettuali del paese, che corrispondevano grossomodo anche all’avanguardia che stava riscoprendo e rivalorizzando l’identità ladina del Paese sembravano concordi nel dire che il toponi113
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
mo “Turchia” fosse un’alterazione di “torchìa” – il “luogo dei torchi”, forse in
relazione al fatto che qui vi sarebbero stati i torchi per torcere la canapa.
L’autorevole Segretario Comunale Giuseppe dell’Antonio, autore del dizionario
ladino moenese-italiano, scriveva che il toponimo “alla Turca” compariva per la
prima volta nei documenti nel 1827. Egli stesso, pur scettico, non era riuscito a
decidere “nonostante le accurate ricerche” se la derivazione fosse da “Turchia” o
da “torchia” (Dell’Antonio 1977:161). Altri liquidavano la derivazione geopolitica argomentando che il toponimo andasse messo in relazione con un’altra,
ormai desueta denominazione per il rione, che qualche anziano ancora chiamava Ischiacia. Questa si voleva fosse una contrazione di “lò i schiacia” – ulteriore
allusione alla lavorazione delle fibre vegetali.
Ricerche e dibattito sulla toponomastica non erano in quegli anni questioni
da poco: al contrario, la riscoperta della toponomastica ladina era parte integrante del pacchetto di rivendicazioni identitarie per imporre le originali denominazioni di contro alla toponomastica in italiano impostasi con l’annessione
dell’area al Regno d’Italia alla fine della Prima Guerra Mondiale. Poi pian piano
le ricerche si affinarono e così pure la vox populi. Si certificò che “ischiacia” non
aveva nulla a che vedere con schiacciamenti, torchi e quant’altro. Era semmai
un derivato dal latino “ischia”, un luogo circondato da acque – proprio come
l’Isola d’Ischia – in quanto un tempo questo sarebbe stato il luogo emergente
dalla “möa”, il sito di paludi ed acquitrini dal quale Moena prende il suo nome.
Il crollo di Ischiacia portava con sè anche quella di Turchia-torchia: il mistero
del nome rimaneva, con grande gioia degli abitanti del rione, orgogliosi del loro
“essere Turchi” che li individuava, per differenza radicale, rispetto agli altri abitanti di Moena. Bisognerà attendere il Millennio per vedere il mistero finalemente risolto dagli sforzi di una studiosa, Maria Piccolin, che è riuscita a soddisfare promotori e detrattori della leggenda locale sull’origine del toponimo
(Piccolin 2000).
Giovanni Francesco Accursio nacque a Moena nel 1698. Si fece frate a
venne inviato missionario in Egitto, dove morì nel 1736 (Stenico 2007). Questi
aveva una sorella che abitava nel quartiere di Ischiacia e che aveva in casa un
ritratto del fratello vestito “alla turca” – abito che i missionari cristiani del
tempo, come quelli odierni, spesso vestivano forse come forma di simpatia
verso i loro clienti – diciamo. Da quel ritratto prese forma l’appellativo “alla
Turca” per la prima volta (1788) attribuito ad un prato di evidente proprietà
di questa Signora – “Turca” perché aveva un fratello “Turco” – e turchini tutti i
suoi bambini – se mi spiego…
Questo etimo in qualche modo (quasi) legittima l’etimo popolare che ancora
si sostiene in Turchia, Moena, Dolomiti, a proposito dell’origine del toponimo.
Secondo la vulgata dei residenti, il toponimo di Turchia aveva fondamento nella
storia reale. Si diceva – e si racconta tuttora – che ai tempi delle guerre contro
gli Ottomani, e nella fattispecie quando l’esercito turco fu sbaragliato sotto le
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I Turchi nelle Dolomiti: quando il globale diviene stralocale
mura di Vienna nel 1683, un turco fuggiasco era capitato chissà come a Moena,
nel quartiere Ischiacia. Qui era stato accolto, rifocillato, benvoluto ed infine
accettato dagli abitanti. Si sarebbe qui sposato con una giovane autoctona
dando vita ad una numerosa discendenza – e voilà il nome del rione. In realtà
non vi è a Moena nessun ciasal – lignaggio o “casato” di discendenza perlopiù
patrilineare e di variabile profondità genealogica – che si riferisca per quanto
lontanamente “ad un turco fondatore”. “Turchia” è un toponimo e basta. Ma
tanto è bastato agli abitanti del rione per costruirsi nel tempo un’identità
“turca” che trova espressione sovrana nel rituale della baschìa.
La bastìa è la versione moenese della baschìa medio- e alto-fassana, a sua
volta espressione locale di quei rituali esogamici conosciuti nella tradizione
popolare di tutta Europa ed un tempo appannaggio di quelle badie o abbadie dei
giovani che avevano compito di difesa del territorio non solo dai turchi razziatori – per così dire – ma anche, ed a volte in maniera non meno incruenta, dai
“forestieri” che cercavano di “predare” le ragazze da marito.
Situata all’estremità inferiore della Valle di Fassa, una delle quattro valli
ladine che si dipartono dal Monte Sella, nel cuore delle Dolomiti, da un punto
di vista storico e culturale Moena funge da cerniera meridionale fra la multietnica, plurilingue Val di Fiemme e la Ladinia Dolomitica, alla quale appartiene
linguisticamente ma solo di recente e dopo lunghe controversie anche amministrativamente, come parte del Comprensorio Ladino di Fassa. Essa presenta,
rispetto alla parte alta della Val di Fassa, caratteristiche sue proprie. Nello specifico, la baschìa della valle superiore avveniva secondo due modalità, la prima
propria della parte estrema – e penso qui ai paesi di Canazei, Alba e Penia, e la
seconda più rappresentata nelle parte intermedia della Valle, con centro a Vigo
e Pozza di Fassa ed importanti appendici nella zona di Soraga, anche se non
mancano attestazioni che fosse praticata anche nell’Alta Valle fino ai primi
decenni del secolo scorso.
Fino ai primi del Novecento era formalmente attiva a Canazei la Società
della Bandiera, probabilmente erede delle antiche milizie locali, alla quale
apparteneva la juventus maschile per tutta la durata del celibato. Momento
d’ingresso nella società era il compimento del 18mo anno d’età, quando i
coscrič – i coscritti dell’anno – vestivano i panni delle maschere-guida del
Carnevale e celebravano così l’iniziazione all’età adulta. La Società della
Bandiera svolgeva un ruolo centrale in occasione dei matrimoni, ai quali partecipavano le Maschere Guida del Carnevale e la Bandiera che veniva fatta volteggiare in onore degli sposi e delle loro famiglie. Ma la Società organizzava
anche la baschìa in occasione di matrimoni esogamici. Questa consisteva in
una messinscena parodica delle occupazioni degli sposi, con accenti più o
meno boccacceschi e ridanciani. Al termine della pantomima, lo sposo veniva
“condannato” a pagare un cospicuo risarcimento in denaro od in beni di consumo per il danno arrecato alla comunità nel sottrarre una sposa potenziale al
regime degli scambi matrimoniali endogamo.
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LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Nella zona inferiore della Valle, la ritualità della baschìa prevedeva l’arresto
en masse dell’intero corteo nuziale avviato a celebrare le nozze al paese dello
sposo. Tutti venivano tradotti davanti al Tribunale dove un giudice regolarmente ubriaco accusava lo sposo di “contrabbandare la più bella perla del reame” in
barba alle leggi del regno. Il grottesco e salace battibecco fra Accusa e Difesa
veniva finalmente interrotto da un Arlecchino intrigante e maneggione che riusciva a far intervenire in qualità di arbitro ultimo della disputa il Re de Sobèna.
Alticcio e incompetente, il Re si presentava su di un trono sovrastato da una
bèna, il cestone col quale il letame veniva trasportato sui campi da concimare.
L’Arlechin induceva il Re a pronunciare la fatidica parola “grazia” e l’intero processo finiva a tarallucci e vino: lo sposo pagava una congrua multa e si portava
la sposa oltre il fatidico confine che donna mai dovrebbe valicare.
Ho insistito in breve sui dettagli delle due modalità – chiamiamole “canoniche” ovvero “tradizionali” della performance della baschìa nella Valle di Fassa
propriamente detta perché intendo mettere in luce le differenze fra queste e la
bastìa dei Turchi di Moena.
La complessa ritualità nuziale in Val di Fassa – che comprende queste come
altre espressioni rituali – è stata ripresa negli Anni ’70 ed ’80 sulla spinta della
riscoperta e recupero della tradizione in senso esplicitamente identitario. Le
stesse performance che vennero riprese in una fortunata serie di documentari
girati da Renato Morelli e dallo scrivente negli anni ’80 contenevano un misto
di “rifacimento ad usum delphinii” – per così dire assieme ad uno statement di
appartenenza e commitment all’identità culturale dall’altro canto.
Da allora la baschìa viene organizzata occasionalmente – o così mi si dice –
da gruppi di amici particolarmente ben organizzati o “vogliosi di far qualcosa” in occasione di qualche matrimonio speciale – o così via. In altre parole:
parrebbe – dico “parrebbe” perché con le tradizioni popolari non si può mai
dire – che il recupero e la riproposizione della ritualità nuziale in occasione di
matrimoni esogamici abbia fatto il suo corso per quanto riguarda sia l’“invenzione della tradizione” sia per quanto riguarda la ritualizzazione della questione identitaria.
Al contrario di questa parabola, la bastìa dei Turchi di Moena non solo non
ha conosciuto declino, ma si è sciolta dai vincoli della “tradizione” unendo alle
motivazioni del rituale endogamico “tradizionale” – che peraltro mantiene –
quelle di un rituale identitario locale – anzi: stralocale – che ha i tratti di un
“rituale di globalizzazione” che bypassa il locale per impegnare direttamente la
dimensione globale. Fattosta che i Turchi di Turchia, a Moena, oggi sfilano in
costume ottomano – o meglio, in abiti che lo evocano nella vulgata dell’immaginario popolare Europeo – non soltanto in occasione di matrimoni esogamici,
ma anche in occasione della grande festa rionale che da una diecina d’anni riafferma annualmente, nella prima settimana d’Agosto, la specificità identitaria
del rione nei confronti tanto dei paesani come dei turisti presenti in massa.
116
I Turchi nelle Dolomiti: quando il globale diviene stralocale
Fra vin brulè, cori di montagna, polenta e luganeghe e siparietti per bambini a
base di caprette, Heidi e vitellini, i Turchi di Turchia, Moena, Dolomiti, orgogliosamente sfilano – anzi: marciano – con tanto di giannizzeri, schiavi ed
eunuchi. Immancabile, naturalmente (è il pezzo forte, il “must etnografico” che
non può mancare – che diamine! – in tutte le rappresentazioni dei Turchi che si
rispettino) il Sultano. Questi presiede alla festa accompagnato dal suo harem,
con tanto di velo e danza del ventre, riceve i visitatori e dispensa doni e benedizioni sovrani. L’intellighentsia locale contribuisce con una piccola mostra dei
documenti che attestano l’origine del toponimo – insomma, ce n’è per tutti.
Non credo che la performance della bastìa da parte dei “Turchi di Moena”
possa datare da prima del periodo fra le due Guerre Mondiali. Anzi: se fossi
certo di non venire bandito ad perpetuum dai confini della Turchia ladina oserei
sostenere che il periodo di consolidamento dell’identità “turca” del rione data
dagli anni ’50.
Erano a Moena gli anni nei quali, in pieno periodo estivo, si inscenavano
mascherate sulla falsariga dei Carnevali urbani che avevano come materia del
rappresentare i lavori “tradizionali” della casa e della campagna “montanara”.
Erano quelli, ovvero, gli anni formativi nei quali si inventava e consolidava
quell’immagine del folclore panalpino che informa ancor oggi l’industria del
tempo libero e del turismo di quasi massa.
Ma erano anche gli anni nei quali i modelli dei “Carnevali Esotici” – quelli
per intenderci di Pellerossa, Baiadere e Maragià (e dunque per estensione
Turchi!) – risalivano le Valli ed echeggiavano su per le gole che portavano a
Moena e in Val di Fassa dalla vicina Predazzo, dove il Carnevale aveva assunto
accenti sempre più in sintonia con un’immaginario culturale modellato sui
paradigmi della crescente industria culturale di massa (Baiocco 1995).
Fu in questo clima di un’accresciuta sensibilità, attenzione e nostalgia verso i
“punti di riferimento” dell’esotico – tanto endogeni (la morente cultura contadina montana) quanto esogeni (i Pellerossa, i Maragià, i Turchi) – rispetto ad una
cultura delle classi medie in via di omologazione alla media globale, che i
Turchi di Moena consolidarono la loro immagine, occupando una solida nicchia
nell’immaginario tanto domestico quanto forestiero.
Ben radicata dunque nei processi di costituzione dell’immaginario di massa
contemporaneo, che ha contribuito a fornirle audience e tradizione – gli ingredienti chiave per la transizione al postmoderno – la Turchia di Moena batte oggi
cassa al mercato globale.
Sto ancora cercando di capire come sia stato che il l’ambasciata turca di
Roma sia venuta a conoscenza dei Turchi di Moena. Ma tant’è: la testa del Turco
della fontana di Moena oggi campeggia appena sotto la foto del Fondaco dei
Turchi a Venezia sul sito web dell’Ambasciata della Repubblica di Turchia a
117
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Roma, laddove si mettono in luce tutti i motivi della secolare amicizia fra l’Italia e la Turchia. Nella Turchia moenese, a sua volta, si aspetta da un paio d’anni
che il governo turco adempia alla promessa di inviare a Moena una delegazione
accompagnata da una banda di giannizzeri per sigillare – questa volta col marchio ufficiale – il gemellaggio fra madrepatria e la ritrovata colonia d’oltremare:
mettiamola così.
L’esistenza di una “Turchia ladina” in terra di infedeli è anche giunta a conoscenza della stampa popolare turca, come la rivista “Star”, che ha dedicato
largo spazio alla festa moenese (figg. 1 e 2), esempio dell’influenza che la civiltà
ottomana avrebbe avuto anche laddove, per secoli, l’atteggiamento generale è
stato ben diverso.
Va da sé che la grande attenzione destata in ambito diplomatico e culturale
dalla scoperta della Turchia Ladina fa parte del “pacchetto rivendicativo” – per
così dire, messo in campo dal governo turco per legittimare l’appartenenza
della Turchia all’Europa (e dunque il suo ingresso nell’Unione Europea) di contro ad un’opinione pubblica europea che ancora nicchia e storce il collo. Ma ciò
che più colpisce dell’intera operazione è che il discorso politico, culturale e
diplomatico così messo in atto sembra bypassare con una disinvoltura davvero
rimarchevole il fatto che “l’immagine immaginata” della cultura turca messa in
opera nell’ambito di un processo di differenziazione identitaria stralocale corrisponde ad uno stereotipo che rappresenta l’esatto opposto di quella Turchia
moderna, laica e anti-ottomana che sta alla base non solo della fondazione della
Turchia moderna di Kemal Ataturk, ma anche – proprio – delle ragioni addotte
per l’appartenenza della Turchia alla “Grande Famiglia Europea” nel contesto
di un discorso culturale e politico ormai globale su cosa siano – se ci sono – le
radici culturali dell’Europa2.
Il paradosso del processo di globalizzazione – e mi avvio ora alle conclusioni del mio contributo – è che ciò che appare formarsi nell’empireo di processi
culturali assolti dalle angustie quotidiane e manovrati dalle stratosfere dell’economia e della politica – per così dire – necessita poi di un radicamento nel locale che avviene – però – secondo termini non di sua scelta, per parafrasare il vecchio Marx. Concretamente – sul campo intendo – sono le condizioni locali che
determinano chi, cosa e perché avrà diritto di cittadinanza nel mondo nuovo.
Come dimostra il caso dei Turchi di Moena le “tradizioni” non muoiono, ma si
ripresentano sotto nuove forme e nuove articolazioni.
Questo non avviene – però e per tornare alla domanda che mi ero riproposto
di riprendere all’inizio del mio contributo – in maniera automatica. Il caso dei
Turchi di Moena dimostra come la “scelta dell’identità turca” – per così chiamarla – è avvenuta in primo luogo nel contesto di un forte movimento di rivendicazione e riscoperta identaria della “tradizione”. In seconda battuta, la
“messa in posizione” dell’“identità turca” ha articolato un’esigenza di differenziazione endogena ed indigena.
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I Turchi nelle Dolomiti: quando il globale diviene stralocale
Questa ha saputo giocarsi le sue chance di successo prima negli Anni ’50,
cruciali come questi furono per la mise en place dei fondamentali di un immaginario colletivo che ancora (devo dire: ahinoi?) ci accompagna, per poi collocarne i dividendi all’interno del discorso ormai globale del “dialogo fra culture”.
Nell’ormai quasi lontano 1997 pubblicavo un saggio sul processo di globalizzazione dal titolo: “Orizzonti più vasti con più grandi dettagli”. Con questo
titolo contradditorio intendevo sottolineare il paradosso insito nel processo che
oggi tutti preoccupa ed impaurisce, paradosso per il quale la globalizzazione
non solo propone scale d’ottica maggiori per la comprensione del locale ma
anche – al contrario – propone scale d’ottica minori per la comprensione del
globale (Poppi 1997).
Secondo questa prospettiva, la chiave per capire le dinamiche del glocale è
ancora una volta – ritengo – la capacità di attiva elaborazione sui materiali e
sulle condizioni date che le singole formazioni socio-culturali possono (e a volte
decidono) di mettere in campo per negoziare “termini e condizioni” per l’ingresso del nuovo secondo i “termini e condizioni” radicati nel profondo e
segreto specifico locale.
Questo, naturalmente, se
e quando la cosidetta
“tradizione” ha la capacità (a volte la volontà) di
farsi Storia.
Per quanto riguarda i
Turchi di Moena questo è
quanto finora accaduto:
non male per una sottotribù che conta sì e no
duecento abitanti…
Pagina dalla rivista Star sui
“Turchi di Moena”
119
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
n o t e Desidero ringraziare Maria Piccolin Sommavilla per il prezioso e generoso aiuto per il
reperimento di materiali iconografici e bibliografici necessari alla stesura del presente
contributo. Un ringraziamento anche a Fabio Chiocchetti e Maria Pia Pedani per le
preziose puntualizzazioni ed i commenti. Va da sé che le tesi espresse sono interamente
responsabilità dello scrivente.
2
Sulla complessa e controversa relazione fra la Turchia contemporanea e l’eredità
ottomana cfr. Pedani 2007.
1
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120
Feste tra tradizione e spettacolo
Il caso del Piemonte sud-occidentale
Frederi Arneodo
Numerosissime sono le feste che si
svolgono nelle valli alpine del Piemonte
sud-occidentale; la loro tipologia, molto
varia e originale, mi ha spinto ad affrontarne lo studio dal punto di vista storico, poiché illustri studiosi ne hanno già in gran
parte analizzato i risvolti antropologici. La
documentazione storica delle comunità
delle valli alpine meridionali comincia a
essere significativa solo a partire dalla fine
del secolo xvi; per il periodo precedente,
purtroppo, molto raramente si possiede
materiale e ciò che si è ritrovato non è tipologia documentaria utile alla materia di cui
sto parlando. Ricordiamo che la maggior
parte degli archivi periferici fu concentrata
dai Savoia a partire da Settecento negli archivi reali di Torino, attualmente Archivio
di Stato. Molto di questo materiale è da inventariare e non consultabile.
Si possono dunque avere i primi riferimenti, i primi dati utili alla nostra
ricerca, solo a partire dall’inizio del secolo xvi. Quali sono le tipologie documentarie utilizzate? In modo particolare gli ordinati comunali (attualmente
delibere del consiglio comunale, dato che all’epoca non esisteva la giunta), le
visite pastorali, i registri delle confraternite e altri documenti religiosi.
Molto lunga è in particolare la consultazione degli ordinati comunali, in
genere rilegati in grande volumi, poiché essi vanno letti nella loro integralità,
ognuno di essi infatti, potrebbe nascondere tra una decisione e l’altra del consiglio, dati che fanno riferimento all’ambito festivo comunitario.
Quali sono questi dati e che cosa suggeriscono? Sono, in linea generale,
accenni che rimandano all’elezione della badia della comunità e dei rappresentanti delle confrarie1 o a spese effettuate per festività.
Dalle visite pastorali si possono invece ottenere importanti informazioni
riguardanti le festività religiose e le limitazioni eventuali imposte dalla diocesi.
121
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
I registri delle confraternite ci forniscono, invece, notizie relative alle spese
sostenute in occasioni di particolari momenti, per processioni e sacre rappresentazioni, raramente da questa documentazione si ricava materiale riguardante le modalità di svolgimento di un evento.
Senza entrare nei particolari, cerchiamo però di evidenziare quali ipotesi ci
ha suggerito un’attenta analisi delle fonti descritte.
Innanzitutto è importante notare che sia i documenti laici che quelli religiosi
parlano di comunità, sottolineo l’importanza del termine: non di comune in
senso amministrativo, ma piuttosto dell’insieme della popolazione. Intorno a
questo termine si svolge il proseguio del mio discorso.
Alle feste di origine antica, legate in gran parte al ciclo stagionale della natura, si vanno affiancando a partire dal medioevo le ricorrenze legate alla celebrazione dei vari santi e al ricordo dei più importanti episodi della vita di Cristo e
della Vergine. Sarà soprattutto dal momento in cui le parrocchie delle valli
prenderanno un’importanza maggiore che si affermerà come episodio annuale
di riferimento la festa patronale, quella legata cioè al santo patrono della cellula
parrocchiale.
Questo processo si può far risalire al periodo in cui la pieve, l’organismo
ecclesiastico sovraparrocchiale, cessa di avere la grande importanza che rivestiva nel medioevo. Per quanto riguarda le valli alpine sud-occidentali sembra che
tale fenomeno avvenga piuttosto tardi, quasi a ridosso della Riforma. Ed è
appunto al secolo xvi che si deve far risalire, grazie anche alla forte spinta della
Controriforma, la grande importanza che viene attribuita alle manifestazioni
celebrative legate alle ricorrenze religiose.
Al periodo susseguente la Controriforma risale pure la maggior parte delle
fondazioni di Compagnie religiose e Confraternite delle comunità alpine.
Queste associazioni laicali, ma strettamente legate alla Chiesa, oltre ad avere
fini assistenziali e religiosi, diedero un forte impulso alla rappresentazione esteriore in occasione delle festività. Non per nulla recenti studi storico-sociali tendono ad evidenziare che le associazioni religiose divennero un veicolo di rappresentazione e simbolo di potere da parte dei benestanti delle varie comunità.
A queste realtà si deve l’origine del grande sfoggio cerimoniale che ancor
oggi caratterizza alcune celebrazioni, soprattutto per quanto riguarda le processioni pubbliche. Anche le sacre rappresentazioni, legate al ricordo della morte
del Cristo, ancora numerose nelle diverse valli provenzali, anche se forse di origine più antica, divennero oggetto di particolare attenzione da parte delle
Confraternite che ne hanno tramandato fino a noi le modalità e il significato.
In ambito religioso non vanno infine dimenticati i pellegrinaggi, riti importantissimi per i fedeli che legano il loro credo e la loro fiducia in Dio all’interces122
Feste tra tradizione e spettacolo. Il caso del Piemonte sud-occidentale
sione di particolari santi che sono venerati in chiese (in genere non parrocchiali)
che si trovano sovente posti in luoghi elevati. I santi qui venerati rivestono delle
funzioni precise: ad esempio San Magno protegge gli animali, Santa Lucia la
vista, Sant’Anna i bambini e le puerpere… Il pellegrinaggio, le cui origini risalgono al mondo pagano, ha un significato di richiesta di grazia tramite un atto
di penitenza. È molto interessante notare come questa pratica religiosa non
abbia perso alcunché della propria forza neppure all’inizio del terzo millennio,
e non è raro incontrare nelle valli provenzali, particolarmente in periodo estivo,
colonne di pellegrini che si dirigono ai principali santuari.
Alla realtà religiosa la comunità affiancava una struttura laica che curava
l’organizzazione del comune dal punto di vista pratico-economico, ma che rivestiva anch’essa una valenza rappresentativa. Una presenza particolare di origini
medievali è quella delle Confrarie, forme associative territoriali, che nella maggior parte dei casi risultano essere intitolate allo Spirito Santo, e che come principale compito esteriore avevano quello della distribuzione di pasti (a base di
ceci o altri legumi) in occasione della Pentecoste o nel periodo pasquale. È interessante notare che questo pasto comune non riguardava soltanto i poveri, ma
coinvolgeva anche le persone abbienti, in una visione sociale che cercava di
esprimere la comunità nel suo complesso. Tale tradizione si è conservata in
alcune manifestazioni, anche se il vero significato non è più ricordato neppure
dagli organizzatori delle stesse.
Altra espressione della comunità laica era la Badia o Abbadia (Baìo o Beò
nella lingua provenzale delle valli), associazione giovanile di origini medievali,
che, al di là delle varie ipotesi riguardo alle origini, rappresentava un ente laico
preposto al controllo delle feste comunitarie (almeno a quanto ci dice la documentazione che nelle comunità alpine di rado è antecedente al secolo xvi).
Secondo gli studiosi le badie rappresentavano una forma di consociativismo
giovanile riconosciuto, che aveva il compito di organizzare e gestire il tempo
festivo, soprattutto quello di inizio anno. Appunto per questo alcune delle baìe
superstiti (che attualmente vedono ridotto il riferimento ad una festa e non più
ad un’organizzazione) tengono ancora i loro riti nel periodo compreso tra il
tempo natalizio e quello pasquale, rischiando così di essere confuse con semplici manifestazioni carnevalesche.
Le badie secondo Zemon Davis, ricoprivano un ruolo che aveva in sostanza
«una funzione di rites de passage, distribuiti in un certo arco di tempo». Questi
rites de passage si riferivano evidentemente al passaggio dall’adolescenza alla
virilità, esemplificato dal seguirsi dell’inverno e della primavera con gli esuberanti eccessi del carnevale. Non per nulla le baìe erano presenti con riti simbolici
anche nel momento del matrimonio con le barriere agli sposi (per superare le
quali bisognava pagare un pegno) e con la ciabra, rituale apparentemente scherzoso secondo cui gli sposi se vogliono essere lasciati tranquilli le prime sere del
matrimonio devono invitare i giovani a bere a casa loro.
123
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Anche la danza della spada che si esegue ancora in particolari occasioni in
alcuni paesi delle Alpi Provenzali va forse fatta rientrare tra i riti delle associazioni giovanili, anche se le figure, le armi, i simboli che essa esprime sembrano
far risalire questo rito propiziatorio addirittura ai tempi precristiani.
Nelle comunità attuali si può intravedere una continuazione dei riti delle
associazioni giovanili nella pratica dei coscritti, susseguente, evidentemente,
all’imposizione della leva da parte dello stato. La chiamata alla leva è vista
come passaggio alla virilità, come primo allontanamento dalla famiglia e come
ingresso in un mondo nuovo, ed è perciò occasione di grandi feste e bevute,
riservate in genere però, ai soli coscritti e a pochi amici e parenti.
Calendario delle principali feste tradizionali ancora vive
Il Natale
i pastour - i pastori - 24 dicembre, 6 gennaio
Nel periodo natalizio a Vinadio (con scadenza variabile), in valle Stura, e a
Pradleves (ogni cinque anni), in valle Grana, si svolge la tradizionale ricorrenza
dei Pastour, i pastori, che mette in scena, all’interno della chiesa parrocchiale la
nascita del Cristo e l’adorazione dei pastori e dei Re Magi. Gelindo (personaggio
natalizio tipico di tutta la tradizione piemontese), nella notte di Natale guida i
pastori verso la chiesa dove i figuranti porgono le loro offerte al Salvatore.
Conclude in ciclo del cerimoniale natalizio la visita dei re Magi il giorno
dell’Epifania.
presepi viventi - periodo natalizio
Nelle vallate del versante piemontese, da una ventina d’anni a questa parte,
molte comunità hanno dato vita ai cosiddetti Presepi Viventi, in cui, intorno
alla scena della natività, in genere ricreata in una vecchia stalla, nel centro
storico dei vari borghi si propone la rappresentazione di mestieri tradizionali Il
fenomeno ha dato vita al ripristino della memoria ed ad un valido recupero
delle tradizioni del territorio alpino.
Le date di questi appuntamenti variano da luogo a luogo, anche se in genere
il 24 dicembre sera l’appuntamento è pressoché fisso per tutte le località,
concludendosi la manifestazione con la messa di mezzanotte. Numerosi paesi
ripetono l’appuntamento il 6 gennaio in occasione dell’Epifania e la visita dei
Re Magi alla capanna di Gesù.
Di particolare richiamo sono i Presepi Viventi di Prea, in valle Ellero, San
Bartolomeo di Chiusa Pesio, Valgrana, nell’omonima valle, Peveragno,
Andonno, in valle Gesso.
124
Feste tra tradizione e spettacolo. Il caso del Piemonte sud-occidentale
Il Carnevale
In questo periodo si svolgono due delle più famose Baìe delle valli provenzali, quelle di Sampeyre e di Blins. Nell’introduzione al capitolo ci siamo già
abbondantemente dilungati nel delucidare il significato di queste manifestazioni. Vediamo ora di analizzare in sintesi come si svolgono i singoli casi.
A Sampeyre la Baìo è articolata in quattro diverse componenti : la Baìo de
Piasso (concentrico) e quelle delle frazioni di Roure, Chouchèis (Calchesio) e Vila’
(Villar). Ognuna delle quattro Baìe ha personaggi particolari come per esempio i
Cavalìe a Piasso, le Sarazine a Roure, i Grec a Piasso, Chouchèis e Roure, mentre
altri come per esempio i Sapeur e i Espous sono presenti nella totalità dei cortei.
Tutti i partecipanti sono maschi e rivestono anche i ruoli femminili. Secondo
l’interpretazione popolare la Baìo di Sampeyre (vista anche la presenza di alcuni
personaggi come i Sarazine, i Grec, i Morou e i Turc) vuole ricordare la cacciata
dei saraceni dalla valle. Attualmente la manifestazione si svolge ogni cinque
anni.
La Beò di Blins (Bellino, in alta valle Varaita) è stata rimessa in piedi di
recente riprendendo una tradizione durata fino a pochi decenni or sono. Ricca
di preziosi costumi ornati da nastri e scialli di seta di Lione, si muove in corteo
tra le borgate di questo vallone, uno dei più affascinanti e conservati scenari
naturali e architettonici delle Alpi Provenzali. Anche qui sono presenti personaggi particolari, come gli sposi e gli abbà, e anche in questo caso solo uomini
erano accettati tra i partecipanti (dalle ultime edizioni alcune donne sono state
ammesse tra i figuranti). La manifestazione si svolge con scadenza annuale e
riguarda la parte alta del comune.
Secondo simili rituali si svolge anche la manifestazione delle Barboueros di
Villar d’Acceglio, in alta valle Maira mantenuta dalla Coumpanhìo dal Carval
(Compagnia del Carnevale del luogo). In questo caso, pur essendoci molti punti
e personaggi in comune con le Baìe della valle Varaita, i partecipanti dichiarano
apertamente di rappresentare la festa di carnevale, e la sequenza del corteo, con
scene scherzose e schemi spontanei, conferma questa affermazione. Purtroppo
il carnevale di Villar si svolge ormai secondo scadenze casuali e, dopo una
ripresa negli anni 1989-1991 (l’ultima domenica di carnevale e la prima di quaresima) si aspetta di rivedere l’interessante manifestazione ormai da tempo.
Tempo pasquale
Le sacre rappresentazioni pasquali che richiamano gli episodi principali
della Passione di Cristo affondano le loro radici fin nel medioevo. La loro
riproposta, non sempre condivisa dalla Chiesa ufficiale, riprese con vigore
anche dopo la Controriforma, pilotata dalle confraternite. Al giorno d’oggi,
essendo ormai scomparse gran parte di queste associazioni di ispirazione
125
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
religiosa, sono alcune comunità nel loro complesso che hanno tramandato
ancora fino a noi queste spettacolari rappresentazioni sacre.
A Entracque, in valle Gesso, si svolgono ogni cinque anni le Parlate (termine
che potrebbe significare “recitazione pubblica” e che è impiegato anche a
Roccavione in occasione della festa di San Magno, cfr. infra) durante la settimana santa. Seguendo un testo che sembra, almeno nella forma attuale, risalire
all’Ottocento, la comunità di Entracque mette in scena la Passione e Morte di
N. S. Gesù Cristo. Le Parlate si svolgono con numerose repliche, parte per le strade del paese alpino dell’alta valle Gesso, parte all’interno della splendida chiesa
della Crousà (chiesa di Santa Croce della Confraternita dei Battuti Bianchi,
anche se fino agli anni Sessanta questa rappresentazione era legata alla
Compagnia della Misericordia, i Battuti Neri, che la tenevano nella propria
chiesa, sita alle spalle della Parrocchiale, purtroppo distrutta da un incendio).
Sentita è la partecipazione popolare che unisce l’intera comunità in uno sforzo
non indifferente.
Il Mortorio di Garessio, che si svolge la domenica delle Palme e durante la
Settimana Santa, ogni 5 anni, rievoca anch’esso la Sacra Rappresentazione della
Passione. Garessio si trasforma in un grande scenario; oltre 400 personaggi
fanno rivivere la tradizione, che si rinnova dalla metà del 1700 nelle pieghe
dell’alta valle Tanaro. Il Mortorio è considerato tra le più alte espressioni di fede
popolare in Italia e rappresenta una proposta di profondo pathos espressivo.
La domenica seguente a quella della Pentecoste, dedicata alla Santissima
Trinità, a Melle, in valle Varaita, si snoda una processione preceduta da due
ragazze che reggono sulla testa dei cesti conici rivestiti di stoffa decorata, le fouasse. In questi contenitori si introduce una qualità di pane particolare (fino a più
di cinque chili per cesto) che alla fine della processione viene benedetto e distribuito alla popolazione.
Anche la festa del Corpus Domini era particolarmente sentita dalle comunità
alpine. La processione con cui si conduce il Santissimo Sacramento lungo le strade dei vari paesi sono ovunque molto sontuose e si riscontrano alcuni casi decisamente originali. A Garessio, in alta valle Tanaro, per rendere più sfarzoso il cerimoniale, gli abitanti si recano sulle pendici dei monti a raccogliere i gialli fiori del
maggiociondolo (anbulnu secondo il linguaggio locale) con cui si confezionano
ghirlande lunghissime che formano un soffitto fiorito alle vie del paese. Sotto
questa galleria floreale si svolge la processione del Corpus Domini, preceduta da
angeli e dai Confratelli vestiti con gli abiti della propria unione religiosa.
L’estate
Con l’arrivo del periodo estivo le occasioni di festa si moltiplicano.
Innumerevoli sono le feste patronali, gran parte delle quali hanno visto la
126
Feste tra tradizione e spettacolo. Il caso del Piemonte sud-occidentale
propria ricorrenza spostata nei mesi più caldi per permettere un migliore
svolgimento delle manifestazioni e per favorire la partecipazione degli emigrati
che tornano al paese d’origine durante le ferie estive.
Molto importante per l’economia montana, la pastorizia celebra il proprio
rito di salita agli alpeggi tra la metà e la fine di giugno, quando i pascoli di
quota cominciano a presentare una copertura erbosa più rigogliosa. Molte località alpine, soprattutto sul versante francese, in occasione de passaggio delle
greggi che arrivano dalle pianure sottostanti, organizzano giornate di festa e di
incontro.
Originale manifestazione è la festa della Madonna dei Ciampetti che si
svolge a Ostana, in alta valle Po, la terza domenica di luglio. La ricorrenza,
dedicata alla Madonna del Carmine, vede la partecipazione di un drappello di
uomini che imbracciano fucili, che, pur non essendo più quelli originali,
vogliono ricordare le armi a baionetta risalenti alla prima guerra di
Indipendenza (1848-49) che i soldati del luogo avevano donato alla titolare
della cappella in segno di ringraziamento.
Agosto è il mese in cui è concentrato il maggior numero di festività e
manifestazioni nelle varie valli delle Alpi Provenzali.
Molto frequentata è anche la festa della Madona d’le Piage di Robilante, in
valle Vermenagna (primo fine settimana di agosto), tradizionale incontro sul
pianoro delle Piagge, a quota 1400 m. In questo luogo si ritrova ogni anno la
popolazione della valle Vermenagna per un festin – grande festa al ritmo della
musica e della danza tradizionale alpina, nel più grande rispetto delle consuetudini – in onore del culto della Madona.
La festa patronale di San Lorenzo a Chianale, in alta valle Varaita (10 agosto), rappresenta invece una delle migliori occasioni per vedere gli autentici e
ricchi costumi della valle, considerati tra i più preziosi delle Alpi. La giornata,
terminata la processione religiosa e svoltosi l’incanto degli oggetti donati dalle
famiglie in onore della parrocchia, continua fino a notte fonda con le danze e le
musiche tradizionali.
Strettamente collegata al rito di Briançon è il Bal de Sabre di Fenestrelle che
si tiene ogni anno il 25 agosto. Anche nel paese della valle Chisone un gruppo
di spadonari ( 18 elementi) esegue evoluzioni e figure geometriche formando
una catena umana. Tra loro si intrufola la figura dell’arlecchino che imprigionata simbolicamente tra le spade in un primo momento, viene poi issata sulle stesse spade verso la fine della danza esprimendo simbologie e significati reconditi.
Fanno da cornice al ballo le donne vestite con i ricchi costumi tradizionali da
sposa; il loro compito è di distribuire alla popolazione il pane che in mattinata è
stato benedetto in chiesa. Manifestazioni simili nella forma e nel significato si
possono vedere a Venaus (il 3 e 5 febbraio) e a Giaglione (22 gennaio).
127
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Il 16 agosto si svolge a Vernante, la Festa dle Leve, tipica di molti paesi piemontesi, ma che nel centro della valle Vermenagna è ancora molto viva e sentita.
Le valli Chisone, Pellice e Germanasca ospitano le manifestazioni organizzate dalla Chiesa valdese, occasioni in cui ricordano particolari avvenimenti della
sua difficile storia. Nella seconda metà di agosto si tiene regolarmente a Torre
Pellice il Sinodo Valdese che, naturalmente, non rappresenta solamente un’occasione di festa, ma soprattutto un periodo di fervente attività religiosa e organizzativa per i pastori (guide religiose valdesi) e i fedeli delle valli.
Una delle manifestazioni più sentite dai valdesi è quella che il 17 febbraio
ricorda le lettere patenti concesse da Carlo Alberto nel 1848. Fin da quel
momento è d’uso accendere dei falò di gioia sulle alture delle valli, mentre la
gente si raduna a frotte in questi luoghi per ricordare con gioia il momento in
cui finalmente alcune libertà furono concesse ai perseguitati fedeli di Valdo. La
manifestazione prosegue durante tutto il giorno seguente con momenti religiosi, sfilate in costume, rappresentazioni teatrali sul tema della storia valdese.
Le Baìe estive
Molte Baìe si svolgono nella stagione estiva, sovente in concomitanza delle
feste patronali, a dimostrazione del fatto che in molti casi la valenza delle associazioni giovanili di un tempo è venuta a scemare. Il fascino di queste manifestazioni di antica tradizione rimane in ogni caso molto profondo, anche se inserito nell’ambito di festività di più recente origine.
Nella Baìo dal Chastlar di Celle Macra (ultima domenica di luglio) e in
quella del Preit di Canosio (domenica più prossima al 10 agosto, festa di San
Lorenzo) in Valle Maira, i personaggi rappresentati, molto ridotti di numero,
non vestono gli sgargianti e ricchi costumi che si possono vedere nelle analoghe
manifestazioni di Sampeyre e di Blins. Pochi simboli, come i cappelli, le feluche,
le alabarde e alcuni ornamenti e fiocchi rimangono come testimonianza di antichi costumi ormai non più rintracciabili. Entrambe gli esempi ruotano intorno
all’investitura dei nuovi abbà, i personaggi più importanti.
Anche nelle Baìe della valle Stura, della valle Grana e della valle
Vermenagna, la Baìa dal Sambuc (Sambuco, seconda domenica di agosto), la
Baìa di Festiona (frazione di Demonte, seconda domenica d’agosto), la Baìo de
San Manh (Castelmagno, 19 agosto) e la Baìa di Limone (ultima domenica di
agosto), l’elemento laico si è trasformato in contorno e completamento della
festa religiosa. A Sambuco la manifestazione, dopo un lungo periodo di pausa,
è stata ripresa nell’anno 2001, con costumi rinnovati, ma rispettosi di quelli
antichi, ben visibili durante la processione del patrono, San Giuliano. Meno
vistosi gli ornamenti ed i simboli a Festiona e a Castelmagno. Interessante risulta l’abbadia di Festiona per la presenza nel corteo di tre ragazze che reggono sul
128
Feste tra tradizione e spettacolo. Il caso del Piemonte sud-occidentale
capo un cesto riccamente adornato (la charità), in cui è contenuto il pane benedetto che verrà distribuito alla popolazione, elementi che paiono strettamente
collegati alla fouassa di Melle anche nel significato. A Castelmagno la processione è resa particolarmente affascinante dallo sfondo architettonico del santuario
di San Magno e per lo splendido paesaggio alpino che racchiude la scena.
Una Baìa, o Compagnia, di San Magno era presente anche a Roccavione e
si occupava dei festeggiamenti in onore del santo. Attualmente questa festa si
svolge ancora anche se non esiste più l’apposita Baìa; la manifestazione non è
priva di originalità soprattutto nel momento della “Parlata”, quando un
personaggio, designato a tale compito, dal carro di san Magno, riccamente
scolpito (1857) e trainato da vacche infiocchettate, pronuncia un discorso
ironico in lingua locale in cui scherza sui fatti e sulle persone del paese.
Le manifestazioni delle valli provenzali cisalpine si chiudono a inizio settembre con il Roumiage de Setembre a Coumboscuro, in valle Grana, annuale
Incontro Provenzale Internazionale. Per un’intera settimana il piccolo villaggio
di Sancto Lucio si trasforma nella capitale della Provenza, diventando il palcoscenico ideale di attività culturali e di spettacolo provenenti da tutti i paesi di
lingua d’Oc. Dopo giorni di cammino a piedi, il venerdì giungono d’oltralpe le
“Traversados”, colonne di centinaia di marciatori, che simbolicamente vogliono
rappresentare l’unione dei due versanti alpini con una camminata che dura
anche più di una settimana lungo la dorsale alpina occidentale. Poi, sino alla
domenica sera, concerti, convegni, danze tradizionali, Salone della Liuteria,
gastronomia tipica… nel nome dell’antica lingua provenzale delle Alpi
Occidentali, eredità della millenaria civiltà dei trovatori. Avvenimento unico in
Europa.
A Coumboscuro si svolge anche il Roumiage de la Vierge Adoulourado la
seconda domenica di luglio, tradizionale pellegrinaggio in costume tra le montagne della piccola valle, con messa, canti e preghiere nell’antica lingua provenzale che ancora è viva e parlata correntemente nelle valli del Piemonte. La giornata continua con una spontanea festa sull’aia con merenda, musiche e danze
tradizionali.
Ultime occasioni di festa e d’incontro sono in autunno, nel mese di ottobre,
le innumerevoli feste e fiere della castagna, momento adatto per esporre i frutti
autunnali delle valli e per sfruttare gli ultimi momenti caldi dell’anno.
Ricordiamo tra le altre occasioni di questo tipo, almeno quelle di Roccavione e
Rossana.
Pellegrinaggi
Espressione della fede popolare e momenti particolari di festa ed incontro
sono i pellegrinaggi che si svolgono ai numerosi santuari delle valli provenzali.
129
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Anche le valli cisalpine brulicano di santuari la cui devozione è ancora
molto viva. Tra i numerosi esempi citiamo almeno il caso del santuario di
Sant’Anna di Vinadio, in valle Stura, che accoglie migliaia di pellegrini non
solo in occasione della ricorrenza della santa il 26 luglio, ma durante tutto il
periodo estivo. Lunghe colonne di pellegrini che risalgono la strada della valle
Stura si possono incontrare quotidianamente durante i mesi estivi, mentre centinaia di quiapeiret (mucchietti di pietre) sono ancora eretti dai passanti nel
luogo da cui per la prima volta si intravede la sagoma porticata del santuario.
Di grande popolarità nel Cuneese è anche il santuario di San Magno a
Castelmagno, in valle Grana. Il santo venerato specialmente dal mondo agricolo in quanto protettore del bestiame, ha da sempre attirato frotte di pellegrini
da tutte le valli e dalla pianura sottostante. Anche in questo caso, oltre che in
occasione della festa del 19 agosto (in cui si può anche vedere sfilare la Baìa), la
presenza di fedeli è costante durante tutta l’estate.
Di grande popolarità è pure il pellegrinaggio al santuario di Valmala, in
valle Varaita, meta di migliaia di fedeli provenienti soprattutto dalle valli del
Saluzzese. Ma il pellegrinaggio per eccellenza della diocesi di Saluzzo è quello
a San Chiaffredo di Crissolo, in valle Po. Questo santo, rappresentato in veste
militare, fa parte della legione tebea, l’immaginaria formazione militare romana
che sarebbe stata sterminata da Diocleziano perché si rifiutò di martirizzare i
cristiani perseguitati. La festa del luogo si svolge il 7 settembre e, oltre che dalle
pompose funzioni religiose, è caratterizzata da una fiera di prodotti locali e da
un originale incanto di animali da parte dei pastori locali che devolvono poi i
guadagni in favore del santuario.
n o t a
Confraria: con questo termine si intende una solidarietà strutturata in cui si riconoscono le famiglie di una comunità al di fuori dell’ambito del comune e della parrocchia.
Periodicamente questi nuclei famigliari si riuniscono a sottolineare la loro coesione
sociale attraverso il rito del pasto comune (consistente in genere nella distribuzione
“indistincte”, senza distinzione tra ricchi e poveri, di cibi a base di legumi il giorno della
Pentecoste, dato che gran parte di queste associazioni erano dedicate allo Spirito Santo).
L’incontro diventa simbolo di unione sociale e, a livello socio-economico, rappresenta
l’occasione per accordi di sfruttamento delle risorse comunitarie (pascoli, campi, boschi).
1
130
La dimension ludique dans les fêtes du
calendrier humain-bovin :
les batailles de reines spontanées et organisées
Christiane Dunoyer
La région nord-occidentale des Alpes
se caractérise par un type d’élevage bovin
traditionnel ayant abouti à une relation
très étroite entre l’homme et la vache, se
caractérisant par un certain nombre de
spécificités. Au-delà de toutes les notations
relevant strictement de la zootechnie, on a
pu remarquer que cette proximité due à
l’élevage est à la base de la mise en place
d’un calendrier commun humain-bovin,
jalonné d’épisodes festifs au cours desquels les hommes et les vaches sont encore
réunis. En effet, toutes les grandes étapes
de l’exploitation verticale des pâturages, la
decorda (la sortie du printemps), la montée
au ma­yen, l’inalpe (la montée à l’alpage),
et j’en passe, sont marquées par de nouveaux mélanges de bétail, car plusieurs
troupeaux seront réunis sur le même alpage. À chaque fois, une nouvelle hiérarchie doit être mise en place à l’intérieur du troupeau et les vaches, spontanément, se livrent des combats plus ou moins violents, mais jamais sanglants, pour
établir la reine du troupeau. Ces combats, batailles au Val d’Aoste, attirent l’attention des hommes qui regardent amusés, pleins d’admiration face à un jeu qu’ils
considèrent comme loyal et noble, pleins de fierté, quand leur vache s’impose sur
les adversaires, prêts toujours à l’excuser lorsqu’elle perd, car ils aiment profondément leur bétail et ils manifestent constamment une profonde gratitude pour tout
ce que les vaches leur donnent, au niveau matériel et spirituel.
En plus de ces combats spontanés qui se greffent sur la fête et la caractérisent
fortement, d’autres combats organisés se sont ajoutés, depuis la fondation de
l’Association Régionale Amis des Batailles de Reines, il y a cinquante ans : dans
ce cas, c’est la dimension festive qui bourgeonne autour de la bataille. Dans les
deux cas, la fête et le jeu s’entrelacent.
Je passe sur l’ethnographie des batailles de reines, pour des exigences de
temps et dans l’espoir que notre auditoire aura déjà pu assister à une de ces
manifestations.
131
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
1. Le jeu dans la fête
1.1. La dimension ludique dans les batailles de reines
Si pour les vaches il s’agit d’un combat visant l’établissement d’une hiérarchie dans le troupeau, pour les hommes il s’agit bel et bien d’un jeu. Activité
libre et volontaire, les batailles ne concernent que les éleveurs qui désirent participer et que les vaches qui manifestent l’envie de combattre. À tout moment,
le propriétaire de la lutteuse peut décider de tout arrêter s’il juge que continuer
pourrait porter préjudice à sa vache. Pour beaucoup d’éleveurs, l’amour de la
vache prime sur l’amour du jeu : ils n’acceptent pas de gagner à tout prix.
Occupation séparée, à savoir isolée du reste de l’existence et accomplie dans
des limites de temps et de lieu qui constituent la dimension spatio-temporelle
du jeu, les batailles de reines sont une parenthèse dans la vie de l’homme : les
vaches combattent dans des espaces désignés à tel effet, des arènes naturelles
ou artificielles, selon le genre d’organisation, à l’intérieur d’un calendrier des
combats et dans le cadre de circonstances festives désignées par la coutume.
Comme toute activité ludique, il s’agit de quelque chose de superflu : c’est le
besoin de jouer, imposé par le désir, qui le rend urgent et très sérieux.
1.2. L’aspect très sérieux du jeu et de la fête
Fête sérieuse et jeu ne sont guère antinomiques, car le jeu en soi-même
peut être une activité très sérieuse, qui peut s’emparer entièrement du joueur.
Pour les passionnés des reines, les batailles occupent tout leur temps libre,
influencent leur organisation du travail et constituent un énorme investissement émotif.
Néanmoins, si le joueur vit son jeu d’une manière très sérieuse, un certain
regard négatif pèse sur lui, lié aux idées de futile et de néfaste, très répandues,
et communes au milieu populaire et au milieu savant (je rappelle le dicton
connu au Val d’Aoste « homme de jeu devient gueux »). D’après nos enquêtes,
il résulte assez clairement qu’il existe un sentiment de culpabilité, plus ou
moins refoulé, chez les propriétaires de reines, à cause de leur investissement
dans une activité non productive : une menace plane sur la passion du jeu et
constitue un véritable frein à la pratique dans son ensemble.
Nous reviendrons par la suite sur cette question et nous verrons comment
cela caractérise l’activité festive.
1.3. Activité ludique et activité productive
Nous sommes dans une société se caractérisant par un surdimensionnement
de l’importance du travail, typique des sociétés paysannes traditionnelles (basées
132
La dimension ludique dans les fêtes du calendrier humain-bovin : les batailles de reines
sur la contrainte et sur l’exaltation des vertus de sacrifice et de constance).
Contrairement à la “classe de loisir” occidentale qui fait selon Veblen ostentation de son oisiveté improductive, nous constatons une tendance ostentatoire
autour du travail et de la productivité, notamment en ce qui concerne les
batailles de reines, une détermination à gérer l’activité ludique à l’intérieur de
l’activité productive ( ce qui est une tendance que l’on rencontre dans le cadre
de nombreux jeux populaires promus donc par des sociétés traditionnelles).
Quand on prend la vache et que l’on part au combat, on ne fait qu’abandonner le lieu de l’activité productive pour un lieu spécialisé, créé pour le jeu, se
déroulant dans une temporalité rendue libre par le travail. Il nous semble pertinent d’attribuer cette continuité entre jeu et travail à la séparation morale très
forte qui existe entre l’activité ludique et l’activité productive : à notre avis, c’est
cette opposition qui a permis le développement de cette pratique justement
parce qu’elle n’entraîne pas les joueurs en dehors du monde sérieux de l’activité principale.
Il s’agit de camoufler le jeu dans le travail, afin que l’on soit le moins possible répréhensibles, vis-à-vis de tout gaspillage de temps et d’argent.
1.4. Aggrégation et désagrégation sociale autour de l’arène
Dans le cadre d’un jeu agonistique de ce type, on ne peut faire l’impasse sur
la dimension conflictuelle sous-jaçante, qui existe et qui est en quelque sorte le
moteur de la pratique ludique. Le rôle des différends hérités de l’histoire est
certain : dans un milieu où tout le monde est classé par branches de familles,
par grandes familles et par groupes de familles, les anciennes inimitiés ressortent dans ces circonstances et alimentent l’antagonisme constituant le piment
de ces compétitions.
Néanmoins, avec les nouvelles générations, ces conflits historiques déchaînés par des questions d’héritage, d’exploitation des eaux d’irrigation, par les
droits de passage, par les limites des propriétés, enveniment de moins en moins
l’esprit festif. Autrefois, la pression démographique était très forte, le spectre de
la faim et de la misère exacerbait les âmes, le jeu devenait un exutoire. De nos
jours, les jeunes éleveurs sont de moins en moins nombreux, la solidarité est
plus désintéressée, (car les ennemis déclarés ne sont plus les voisins éleveurs,
mais bien plus loin, et d’une bien autre taille, ce sont les détracteurs des vaches
et du monde agricole traditionnel) l’individualisme de la société moderne a
permis de juger les anciens ennemis d’une manière plus objective.
Les passionnés de chaque commune tiennent le compte des reines qu’ils ont
eues et de celles qui ont passé l’éliminatoire, dans l’espoir d’avoir plus de reines
que les communes limitrophes, cela pour une question de prestige, mais aussi
pour les retombées économiques que la détention de reines peut avoir au
133
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
L’éleveur et sa vache ensemble dans l’arène, entourés d’un public silencieux et attentif
(photo C. Dunoyer)
niveau de la commune, en termes de commerce de bétail notamment et de politique agricole. C’est le cas notamment des grandes communes agricoles de la
plaine autour d’Aoste, telles que Quart, Pollein, Charvensod ou Gressan qui se
disputent sympathiquement le titre de commune ayant le plus grand nombre
de vaches présentes à la Finale Régionale, le plus grand nombre de sonnailles
gagnées, le plus grand nombre de reines.
Il nous semble de pouvoir donc affirmer qu’aujourd’hui c’est la fierté d’appartenir à la micro-société ludique qui prime sur les rivalités d’autrefois, conséquence des transformations sociales, notamment de la diversification socio-professionnelle et de l’urbanisation des campagnes qui ont fait éclater le sentiment
d’appartenance à une communauté : participer aux batailles de reines devient
de plus en plus un processus d’affirmation identitaire. Le jeu donc, en tant
qu’expression valorisante de l’activité d’éleveur de vaches, se charge de véhiculer un certain sentiment identitaire et de répondre d’une manière positive au
regard assez méprisant que la société globale porte sur ce type d’élevage.
En outre, la médiatisation a contribué à amplifier la gloire d’être là le jour
des batailles : en particulier, la présence de la télévision a sensiblement modifié
les comportements des propriétaires de reines, leurs gestes, leurs faits de paroles, car l’image atteint un public qui n’est pas dans l’arène et surtout elle change
les perspectives : le spectateur qui est à la maison voit des détails qui échappent
au spectateur qui est sur les gradins de l’arène et qui, finalement tout en étant
proche, voit le spectacle de loin.
134
La dimension ludique dans les fêtes du calendrier humain-bovin : les batailles de reines
1.5. La dimension rituelle liée aux cycles de la nature
À la base de cet élevage, les hommes et les vaches se trouvent liés dans une
symbiose assez poussée, subvenant à la vie par des services mutuels. Les
vaches fournissent quotidiennement du lait, périodiquement de la viande, mais
aussi tout un ensemble de gratifications pour l’esprit. Objet de fierté et de prestige social, objet même d’amour, parfois, la vache est soignée, nettoyée, chouchoutée par l’homme, abritée dans de solides étables en pierre, dans lesquelles
pendant des siècles hommes et vaches ont vécu côte à côte, comme au sein
d’une seule et étroite famille.
Ce lien a fini par forger un calendrier commun, cyclique et répétitif. Toutes,
ou presque, les activités humaines sont réglées sur les besoins du bétail et sur
les possibilités du ravitaillement, si bien que le temps écologique et le temps
structural coïncident : les hommes et les vaches reparcourent chaque année les
mêmes chemins à la même saison, voire à la même date, pratiquant à chaque
fois les mêmes activités, dans le même but. Le rythme écologique devient rythme social et les batailles de reines participent de ce mouvement, où certains
aspects rituels constituent un ensemble d’actes codifiés, formant des unités
socio-temporelles plus ou moins closes sur elles-mêmes, dont la portée symbolique agit sur la réalité sociale. Le cycle des activités et le cycle conceptuel sont
ici inséparables et s’alimentent réciproquement.
1.6. La fête dans le jeu
D’autre part, en plus de la dimension rituelle, c’est la dimension festive ellemême qui entre dans le jeu, qui se caractérise par une très forte poussée socialisante. Le prestige social demeure le trophée le plus ambitionné des batailles de
reines : un dicton rappelle qu’« eun bon renon vat pi que gran forteuna » (une
bonne renommée vaut plus que la richesse). Pour se rendre compte de combien
ces éleveurs ressentent l’honneur d’avoir une reine, ne serait-ce qu’à un éliminatoire, il suffit de penser à la participation massive à la fête organisée par l’association Amis des Batailles de reines, environ un mois après la finale régionale.
En novembre 2006, pour ne mentionner qu’un exemple, les prix attribués
étaient 180 : 180 personnes se sont présentées pour le recevoir, pas un seul éleveur a renoncé au prestige d’être présent à la manifestation, de célébrer ces
retrouvailles du monde agricole valdôtain, avec tout le sérieux et l’application
que ce genre de fêtes exige dans le cadre de cette civilisation.
Qui a eu une reine, c’est quelqu’un qui travaille dur, quelqu’un qui a son
mot à dire sur la sélection, quelqu’un qui sait imposer sa main de domesticateur sur l’animal. Voilà les caractéristiques (en quelque sorte auto-référencielles)
des membres de cette micro-société ludique qui, par le biais d’un jeu, dessinent
des frontières éthiques qui organisent et donnent du sens à l’activité professionnelle qui l’encadre et à la pratique festive qui l’accompagne.
135
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
En observant de près les systèmes relationnels autour de l’arène, il est facile
de remarquer comment les éleveurs ayant la réputation de ne pas être de
grands travailleurs sont moins soutenus par le public et par les autres éleveurs,
ainsi que ceux qui manifestent une trop grande envie de gagner, faisant donc
preuve de n’avoir pas toujours à coeur le bien-être de la vache.
Le cadre festif dans lequel cette activité ludique se développe et prend
forme n’est pas un simple corollaire du jeu, mais une structure contenant le
jeu, imposant ses propres clés interprétatives à la logique du jeu et dictant ses
propres limites au jeu, aussi bien sur le plan spatio-temporel que sur le plan
éthique.
C’est parce qu’il est inscrit dans une pratique festive que ce jeu est voué à
des formes de conservatisme, contraires à la pure logique du jeu et à l’esprit
ludique, qui caractérise tous les joueurs du monde, préconisant un perfectionnement du degré d’amusement et une addiction continuelle d’adrénaline.
Conlusion
Relance, innovation dans la tradition, patrimonialisation, avec les batailles de
reines auxquelles nous pouvons assister de nos jours, nous plongeons au coeur
de la question du devenir des pratiques ancestrales constitutives du folklore
local, un traditum qui d’ailleurs est loin d’être consensuel, ce qui pourrait ouvrir
un débat sur la pertinence d’une patrimonialisation non consensuelle.
De passe-temps de berger, les batailles de reines ont évolué vers un statut
d’activité structurée, organisée, réglementée, sur laquelle on réfléchit, une activité de plus en plus sportisée, s’apparentant à de nombreuses autres pratiques
modernes, médiatisées et commercialisables, avec une finalité de réappropriation d’un patrimoine culturel et de valorisation d’un territoire.
C’est un réel processus de construction identitaire qui se met en place, à travers la cristallisation d’une pratique à l’intérieur d’une structure qui devrait la
valoriser par le biais de l’officialisation et la soustraire à l’oubli qui menace une
société en pleine transformation.
Malgré la structure qui devrait figer la pratique, l’évolution de la société est
telle, que la pratique elle-même sera entraînée dans le tourbillon d’ultérieures
transformations. Les représentations de la violence vont-elles transformer le
jeu ? La passion du jeu pourra-t-elle transformer l’amour porté à la vache, ou
changer le statut de cet animal domestique, aujourd’hui suspendu entre la rentabilité et le ludus ? Et la représentation de la vache, ainsi que la représentation
de l’activité ludique et de la fête, vont-elles interférer avec l’évolution de cet
élevage traditionnel confronté tous les jours à une organisation techno-économique de type moderne ?
136
La dimension ludique dans les fêtes du calendrier humain-bovin : les batailles de reines
Il est certain que ces éleveurs de vaches sont en train de vivre un moment
crucial et tout en s’adonnant à des activités festives et ludiques, inconsciemment, ils posent les jalons pour une nouvelle civilisation montagnarde.
Alors rendez-vous dans cent ans pour dresser un bilan…
La main de l’homme dans le combat de vaches (photo C. Dunoyer)
137
L’arbre, signe de fête
Alexis Bétemps
L’arbre, dans son tout ou dans une de
ses parties, est une présence constante
dans les fêtes populaires valdôtaines traditionnelles, tout comme la musique,
l’abondance alimentaire, la rencontre des
sexes, le feu. De nos jours, cependant, la
présence de l’arbre n’est plus de rigueur
mais elle subsiste dans certaines occasions : les Rameaux, les combats des reines, la désalpe, l’arbre du syndic1.
Serait-ce une survivance d’anciens
rites préhistoriques ? Ou serait-ce l’extension à toutes les fêtes des pratiques
liées au cycle pascal, en souvenir de l’entrée du Christ à Jérusalem, le dimanche
des Rameaux ? Ou encore, serait-ce le souvenir des victoires de Charlemagne
qui plantait des arbres en souvenir de ses gestes ? L’épopée carolingienne, dont
je n’ai plus trouvé de traces dans la mémoire collective valdôtaine de nos jours,
a connu une bonne fortune et elle était encore vivante au début du xxe siècle2.
Tout est possible, bien qu’un lien direct entre les manifestations anciennes et les
fêtes attestées, soit difficile à établir.
Le sujet est donc très vaste, ainsi je me bornerai à parler ici de l’usage symbolique des arbres dans les occasions festives en Vallée d’Aoste, hier et
aujourd’hui. Je m’arrêterai ensuite un peu plus longtemps sur la plante syndicale, comme on appelle chez nous le mai qu’on élève à chaque élection en
l’honneur du maire, ou mieux du syndic, comme nous l’appelons.
Arnold Van Gennep, dans son œuvre monumentale3, parle du mai qui, dit-il,
peut être un tronc d’arbre, des branches ou un bouquet, selon les endroits où on
veut le placer : un arbre sur un espace ouvert, une branche au cou de la reine au
moment de la désalpe, par exemple.
Les occasions de fête peuvent être bien différentes et il en énumère une
longue liste où j’ai puisé seulement les occasions qui, en Vallée d’Aoste aussi,
139
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
sont ou ont été à l’origine de festivités marquées par la présence d’un ou plusieurs mais :
- la branche bénite des Rameaux ;
- les combats des reines et la désalpe ;
- l’achèvement des travaux de construction quand on fixe au toit ou à la
poutre maîtresse un bouquet ;
- la première messe d’un prêtre dans la paroisse natale ;
- les branches de sapin pour les masques de certains carnavals ;
- la fête patronale pour embellir la place ou le lieu où l’on danse ;
- le mât des conscrits, planté chaque année dans certaines régions ;
- les cortèges des noces quand les arbres, branches, ronces servent de barrière ;
- les branches d’arbres dont on jonche les rues pour la procession de la
Fête-Dieu ;
- les cérémonies politiques quand on dresse l’arbre commémoratif d’une
élection (mai du syndic).
Une tradition encore vivante en Vallée d’Aoste, bien qu’en rapide évolution, est celle de la Ramoliva, le dimanche des Rameaux en patois valdôtain. Cette fête religieuse, tardivement introduite dans la liturgie entre le
ve et le viii e siècle, rappelle l’entrée triomphale de Jésus à Jérusalem durant
une fête hébraïque pendant laquelle les fidèles défilaient, des palmes à la
main. Il existait probablement d’autres fêtes païennes, liées à l’idée de la
fécondité et à l’exhibition de symboles floraux, se déroulant dans l’aire
alpine et ailleurs durant la même période de l’année. En les insérant dans
son calendrier, l’Église les recouvrit d’une couche de christianisme et en
assura la pérennité. Pra­tiquée dans toutes les Alpes et bien évidemment
ailleurs, cette fête respecte un rituel constant bien qu’avec de nombreuses
différences de détails. Il s’agit en fait de la bénédiction d’un rameau semper
virens qui sera ensuite conservé toute l’année et éventuellement employé
comme élément thaumaturge. En Vallée d’Aoste, c’est le laurier que l’on
bénit, bien que de nombreux témoignages parlent de l’olivier ou du buis.
La branche était enrichie de pommes qu’on y liait et aussi, plus tard,
d’oranges, de bonbons, de chocolats, etc…. Les pommes étaient généralement mangées le jour de Pâques par les enfants qui étaient ainsi préservés
du mal de gorge et des rencontres avec les serpents. La Ramoliva est la
seule occasion en Vallée d’Aoste où le mai utilisé n’est pas d’essence résineuse, avec l’exception du genévrier attesté dans de rares paroisses.
Actuellement, les usages tendent à se standardiser et les gens achètent de
fausses branches d’olivier, parfaitement dorées.
Le mai pouvait être d’essences différentes selon l’endroit. On choisissait normalement des variétés d’arbre bien présentes sur le territoire : hêtre, tilleul, érable, chêne, peuplier, acacia, marronnier, ormeau4 etc.. L’espèce végétale suffisamment répandue et ayant la plus haute valeur symbolique en Vallée d’Aoste,
comme en Savoie, est le conifère. Donc, il n’est pas étonnant que nos mais
soient de conifères, d’épicéas de préférence.
140
L’arbre, signe de fête
En certaines occasions solennelles, telles que la première messe célébrée par
un prêtre dans son église natale, les fêtes patronales ou autres, les jeunes
avaient l’habitude dé couper des épicéas ou, plus rarement des mélèzes de
moyennes dimensions qu’ils plaçaient ensuite sur la place de l’église. Cette coutume, par exemple, est encore en pratique dans la Valdigne, à l’occasion de la
Badoche, lors de la fête patronale, organisée encore aujourd’hui suivant un
rituel précis et antique. La Fête-Dieu, porte de l’été, était, probablement, la fête
dont le rituel encourageait l’exhibition la plus marquée de décorations florales :
« … ces maisons pavoisées, étincelantes de lumière, et ces
rues transformées en bosquets verdoyants, et ces fleurs
effeuillées par des mains enfantines »5.
Cette ostentation de verdure n’était cependant pas appréciée par tout le
monde. L’Écho du Val d’Aoste, d’orientation libérale, écrit sous le titre éloquent
de “vandalisme” :
« Le jour de la Fête-Dieu nous avons remarqué dans les rues
de notre ville plus de trois cents jeunes sapins et mélèzes de la
plus belle venue, coupés pour faire une parade d’un instant,
sur le passage de la procession. Nous croyons que si l’on surveillait plus scrupuleusement les vendeurs de ces plants qui
pour 99 centièmes sont volés dans les forêts avoisinantes, le
bon Dieu ne prendrait point cela en mauvaise part »6.
1913. Aoste, rue Saint-Anselme. Procession de la Fête-Dieu
(photo Région Autonome Vallée d’Aoste - Archives Assessorat à l’Éducation et à la Culture - Fonds
Brocherel-Broggi)
141
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Un précieux témoignage de Marie Blanc de Fénis, décédée depuis une vingtaine d’années, nous décrit le déroulement de l’antique carnaval de Fénis désormais abandonné et oublié. Les masques, appelés beurt, les laids, qui avaient le
droit de faire des farces, défilaient en protégeant à l’aide de mappe, c’est-à-dire
des branches de pins ou d’épicéa, les dzèn les beaux, masques tranquilles qui ne
participaient pas aux folies du carnaval, du moins pendant le défilé….
Lorsque le coulp, la poutre faîtière, était posée sur le toit d’une maison en
construction, on avait autrefois l’habitude d’attacher de façon bien visible à la
poutre, une petite plante d’épicéa, symbole de solidité de la construction et
annonce de la fin prochaine des travaux. Émile Chanoux nous offre une belle
description de la tradition :
« Et puis, quand la poutre maîtresse fut placée, ah oui, ce
jour-là Père […] hissa sur le faîte du toit un petit sapin qu’il
avait coupé dans le bois et descendit à Aoste pour acheter
un baril de vin. Ce jour-là, Mère […] eut grand travail car il
fallait préparer un grand dîner. Et toute la famille, les
maçons, les voisins intervinrent. On but, on mangea, on
chanta jusqu’au soir, jusqu’à tard dans la nuit »7.
La dite coutume est encore en pratique dans de nombreuses communes.
Cependant, de nos jours, il est de plus en plus rare de voir des mais sur les toits
des maisons en construction. Il sont généralement remplacés par des drapeaux
valdôtains ou italiens, selon les sentiments des propriétaires.
La plante de sapin est également présente dans l’un des moments les plus
importants de la vie des éleveurs de montagne. En effet, lorsqu’à la SaintMichel les vaches descendent des alpages pour regagner les pâturages
d’automne, les deux reines, celle du lait, c’est-à-dire la meilleure productrice
du troupeau, et celle de la corne, c’est-à-dire celle qui a su faire valoir sa supériorité lors des combats avec les autres vaches du troupeau, arborent avec
fierté de splendides bosquet. Le bosquet est une branche ou une petite plante
d’épicéa ornée de fleurs, de rubans et de miroirs. Pour la reine du lait, la couleur dominante des décorations est le blanc et pour celle de la corne, le rouge.
La cérémonie de la plantation rituelle des arbres sans racines est très ancienne et elle est répandue dans toute l’Europe occidentale et même ailleurs8. Les
attestations sont particulièrement nombreuses en Allemagne, France et Italie.
« L’usage de mettre en terre des arbres qui ne sont pas
destinés à prendre racine, à des époques déterminées ou
lors de certaines circonstances, est ancien en France »9.
« Pour la France, elle (la tradition) est signalée déjà dès le
xiiie siècle et elle apparaît, à la même époque, dans toute
142
L’arbre, signe de fête
la vallée du Rhin. Mais elle est plus ancienne encore en
Italie, sous le nom de Majella »10.
Il est possible que ces rituels, ceux d’Italie au moins, descendent des anciennes fêtes nuptiales romaines pour la fertilité de la nouvelle union. La plantation
du “mai”, comme on appelait autrefois l’arbre arraché, émondé et replanté était
donc une fête pour la fertilité et elle était étroitement liée aux festivités du mois
de mai, d’où son nom.
« Le symbole de la coutume est d’ailleurs simple : il s’agit
d’un rite du printemps qui est un reste des cérémonies de
mariage romain avec application à la nature des intentions
fécondatrices du rite »11.
Un rituel, conçu d’abord pour l’homme, élargit progressivement son champ
d’action pour concerner la nature au moment crucial de son réveil, au printemps.
En général, c’était le jeune amoureux qui plantait, devant la maison de sa
bien- aimée, un arbre sans racines, témoignage d’amour et, parfois, gage de
fiançailles. Cette tradition était bien vivante en Italie, en France et en Suisse
mais elle ne semble pas avoir trop concerné ni la Vallée d’Aoste ni la Savoie.
Au cours du xxe siècle, les traditions anciennes du mois de mai ont presque disparu de l’Europe entière. Les seules qui ont tenu sont les cultes chrétiens de Marie, relativement récents, et les rogations, processions agraires
propitiatoires. La Vallée d’Aoste suit la règle et la seule attestation d’un résidu de rituel ancien lié au mois de mai que je connaisse, nous vient de la
Moyenne-Vallée (Verrayes) où, jusque vers la moitié du xxe siècle, les enfants
faisaient encore “tchallàn dè mai” 12, petit repas champêtre à base de “rotche
doée”, croûte dorée, sorte de beignet fait avec une tranche de pain13. Nous ne
connaissons aucun témoignage de mai planté par des amoureux, plutôt
rares, d’ailleurs, en Savoie aussi. Quant aux rogations, elles ont pratiquement disparu et ne résistent que dans quelques paroisses comme
Valgrisenche où la foi de la population est encore vivace. Le “tsapelet”,
expression du culte marial par excellence, récité autrefois au mois de mai
dans presque toutes les chapelles du diocèse, ne regroupe plus la totalité ou
presque de la population, mais rien qu’un petit groupe de fidèles : il a gardé
son sens religieux mais il a certainement perdu le rôle social d’autrefois
quand il était aussi un moment de rencontre important, pour la jeunesse
surtout. C’était l’une des principales occasions pour les jeunes des deux
sexes de se rencontrer et de mieux se connaître.
Ainsi, en Vallée d’Aoste et ailleurs, le rituel de l’arbre sans racines, planté
dans un espace humanisé, abandonne le mois de mai et, de symbole de fertilité,
il devient symbole de fête, nullement lié à des périodes particulières de l’année.
143
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Si l’origine du mai était le culte de la fertilité, qu’elle soit de l’homme ou de la
terre, très tôt le mai fut utilisé pour marquer d’autres moments de la vie de la
communauté et la fertilité exorcisée devient plutôt allusive et entendue au figuré.
En plus des occasions que j’ai évoquées au début de cet article, le mai marquera aussi dans l’aire gallo-romane, la fête pour la fin des moissons et la fin du
Carnaval en tant que perche centrale du bûcher quand l’on brûle Carnaval. À
Praz-de-Fort, dans le Valais (Suisse), le premier dimanche de mai, les jeunes
dressent un grand arbre sur la place du village. C’est un symbole de paix et une
manière d’accueillir joyeusement le printemps. Cependant la tradition le relie à
“l’arbre de mai”, avec ses revendications politiques, élevé pour la première fois
en 183314. Ce qui arrive aussi, ailleurs, pour les commémorations importantes
comme celle de la naissance d’un roi ou de l’anniversaire d’une révolution
(arbre de la liberté) ou les fêtes politiques, comme celle de l’élection d’un député ou d’un maire (mai du maire)15. Pour cette dernière occasion, on plante souvent des mais avec les racines pour souhaiter, peut-être, un longue durée du
mandat de l’élu. Cette tradition est connue un peu partout en Europe : en
Espagne, en Autriche, en Allemagne16, en Belgique et en France. On relie cette
pratique à l’arbre de la liberté. Ce qui n’est pas improbable mais qui n’est
cependant pas certain.
L’arbre de la liberté fut planté dans les différentes communes de France et
d’Europe pour rappeler l’avènement des libertés nouvelles. À ce qu’il paraît, le
premier a été planté à Saint-Gaudent, dans le département de la Vienne, en mai
1790. À Paris, en 1791 on dénombrait déjà deux cents arbres de la liberté. Louis
xvi aussi en planta un dans les Tuileries, mais cela ne lui sauva pas la tête…. En
1794, dans toute la France, il y en avait plus de 6 000. On expliquait cette pratique en la reliant aux cultes anciens présents en Gaule, sans penser aux traditions du mai, pourtant encore bien vivantes dans les campagnes. Probablement
elles n’étaient pas considérées suffisamment prestigieuses pour être les ancêtres
de ce qu’on appelait pompeusement l’arbre de la liberté….
L’arbre de la liberté devait être respecté, voire choyé : à Château-Larcher le
14 juillet de chaque année, l’arbre était arrosé de seaux de vin rouge. À
Dognon au pied de l’arbre, on a enterré une bouteille de vin rouge et une de
limonade (vide) avec, à l’intérieur, la liste des anciens combattants. Mais il
arrivait aussi qu’on fasse mourir les arbres exprès en leur versant des produits toxiques ou prétendus tels (pot de chambre, eau bouillante, la “râpe” ou
résidu de la distillation du marc17.Les coupables pouvaient même être châtiés
bien sévèrement : à Rouen, furent punis de mort des gens surpris à scier un
arbre de la liberté18.
« On prit l’habitude de planter un mât devant le siège des
juridictions ou la maison des notables que l’on souhaitait
honorer. Dans cette coutume, les arbres de gloire des nouveaux élus de la République puisent leur filiation »19.
144
L’arbre, signe de fête
1952. Gignod. Dressage de la planta di senteucco Victor Vallet
(photo Région Autonome Vallée d’Aoste - Archives Assessorat à l’Éducation et à la Culture
Fonds O. Bérard)
La Salle. Dressage de la planta di senteucco avec les moyens modernes (photo Alexis Bétemps)
145
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
1952. Nus
La planta di senteucco J. Filliétroz
(photo Région Autonome Vallée d’Aoste
Archives Assessorat à l’Éducation
et à la Culture Fonds O. Bérard)
Sarre
La planta di senteucco Diego Empéreur
(photo Alexis Bétemps)
146
L’arbre, signe de fête
La nouvelle tradition, pour s’affirmer, empiéta même sur l’ancienne : pendant
la Révolution, les sociétés populaires, sans se douter qu’elles reprenaient la tradition du mai de l’Ancien Régime, voulurent éliminer ce qui rappelait cette époque
exécrée : l’arbre du folklore disparut officiellement au profit de l’arbre de la
Liberté20. La fonction du mai évolue mais elle est toujours de bon augure et, dans
le cas de l’arbre du maire ou du député, l’idée originaire, celle de fertilité, est tout
à fait pertinente. Il s’agit, bien entendu d’un autre type de fertilité : celle des projets et des réalisations conséquentes, à l’avantage de la communauté entière, dont
devrait bénéficier l’élu par l’intermédiaire de la cérémonie de la plantation. En
outre, ce rituel a souvent le pouvoir d’apaiser les esprits :
« Associant les gagnants et les perdants, effaçant les rancœur
personnelles, ignorant les clivages politiques, cette fête accorde aux “bleus” l’onction suprême : celle de la commune toute
entière retrouvée et ressoudée au cours d’une journée ou
d’une soirée de liesse »21.
En Vallée d’Aoste, la tradition de planter un arbre sans racines, un conifère
dans notre cas, devant la maison du syndic fraîchement élu est une tradition
encore bien vivante aujourd’hui dans presque toutes les communes. Si vous
deviez avoir l’occasion de chercher le syndic d’une de nos commune, et de
demander des renseignements à quelqu’un, attendez-vous à ce que votre informateur ajoute, après vous avoir renseigné : « Vous ne pouvez pas vous tromper,
devant chez lui vous verrez l’arbre du syndic ».
La fête était probablement répandue, même dans le passé, dans la Vallée
toute entière, de Gressoney à La Thuile et d’Étroubles à Saint-Marcel, où nous
avons des attestations certaines, et où elle est désormais plus que bi-séculaire.
Souvent, en Vallée d’Aoste aussi, l’imagination populaire relie cette pratique à l’arbre de la liberté, emblème de la Révolution Française, et l’on pense
que l’origine de la tradition valdôtaine remonte à l’occupation napoléonienne
du début du xixe siècle. À cette époque-là, il y a certainement eu, en Vallée
d’Aoste des manifestations collectives autour de l’arbre de la liberté22. JosephCésar Perrin nous raconte une anecdote bien curieuse survenue à Aymavilles
en 1794. Les troupes révolutionnaires françaises avaient passé le Petit-SaintBernard et avaient occupé la haute Vallée d’Aoste jusqu’à la Pierre Taillée
d’Avise ou les troupes sardes et la milice valdôtaine s’opposaient aux français.
À un moment donné, l’armée sarde s’étant retirée, cinq jacobins d’Aymavilles,
voulurent élever sur la place du village un arbre de la liberté en l’honneur des
troupes révolutionnaires qui auraient dû avancer facilement. Incroyable mais
vrai, la milice valdôtaine repoussa les troupes françaises ! Deux des cinq
“jacobins” furent emprisonnés et les autres arrivèrent à s’enfuir23. Le dénouement malheureux de la manifestation est le signe évident que certaines idées
d’avant-garde ne devaient pas être trop populaires en ce moment dans la
Vallée d’Aoste. Et ne le seront pas non plus pendant encore plus d’un siècle.
147
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Cependant, à la deuxième tentative, la Vallée d’Aoste sera occupée par les
troupes révolutionnaires et le préfet Jean-Baptiste Foassa peut procéder à la
nomination des Municipalités des communautés valdôtaines « sur la place de
l’Hôtel National24, dite de Saint-François, au pied de l’arbre de la Liberté »25.
Quelque chose d’analogue dut se passer dans les autres communes aussi. En
1798, l’ancien syndic de Saint-Christophe, Jean Georges Bionaz, fut chargé par
une délibération du nouveau conseil,
« d’ériger dans la place publique l’arbre de la régénération,
ce monument de gloire, le triomphe de la liberté et pour
animer et pour manifester autour d’icellui la réjouissance
d’un peuple si longtemps enchaîné par la tyrannie et rendu
à sa liberté »26.
Rien n’exclut que l’arbre du syndic dérive de l’arbre de la liberté.
Mais, à mon avis, il est plus probable que notre plante syndicale valdôtaine
soit beaucoup plus ancienne et qu’elle doive être plutôt reliée directement aux
rituels du printemps, qui, par ailleurs, sont aussi à l’origine de l’arbre de la
liberté des révolutionnaires.
Au hasard de mes recherches, j’ai glané une cinquantaine d’attestations,
dans les journaux locaux entre la fin du xixe siècle et le début du xxe, où l’on
1953. Aymavilles. À la santé du syndic Alfred Joly
(photo Région Autonome Vallée d’Aoste - Archives Assessorat à l’Éducation et à la Culture
Fonds O. Bérard)
148
L’arbre, signe de fête
signale la plantation de l’arbre du syndic. Généralement, ces fêtes sont présentées avec beaucoup de sympathie par les rédacteurs car :
« … elles inspirent à l’élu et au peuple toute l’importance de
la haute dignité, dissipent bien des ressentiments, font naître
la confiance et resserrent les liens qui doivent unir les administrés à l’autorité »27.
Les pouvoirs apaisants de l’arbre du syndic sont bien soulignés aussi dans un discours, lors de son élévation, à Pollein :
« L’arbre traditionnel est un souvenir des libertés conquises
par nos pères et, lorsque quelque difficulté surgit entre vous,
ne franchissez pas la limite de cet arbre, car là tout près
habite le Chef de la commune qui est en même temps le
représentant du roi et votre ami, capable de vous réconcilier
dans vos questions les plus difficiles »28.
Le rituel de la fête n’a pas beaucoup changé au cours des années, et, dans
ses grandes lignes, encore de nos jours, il suit les schémas anciens. Il s’agissait
d’une fête, alors comme aujourd’hui, avec le syndic comme protagoniste qui,
selon ses possibilités, invitait chez lui, pour un “banquet”, ses collègues
conseillers élus, les élus sortants, les notables de la commune et d’ailleurs, les
autorités religieuses et, dans des cas particuliers, la population toute entière.
Même les plus négligés par la fortune. En 1905, à Morgex, le lieutenant colonel
Favre, élu syndic,
« … pour rendre plus agréable la fête, a voulu user de sa
largesse bien connue en faisant une distribution de vivres
aux pauvres de la commune »29.
Mais notre lieutenant colonel était une exception…
Le banquet pouvait être un simple casse-croûte, un déjeuner ou un véritable
dîner pour une centaine de personnes et même plus. En 1905, à Brissogne, il y
eut même le requit30, une semaine plus tard31.
Dans ce cadre, les jeunes se chargeaient de l’arbre : ils prenaient les accords, si
nécessaire, avec les autorités forestières, se rendaient dans le bois, choisissaient
un conifère, un mélèze en général, le transportaient au village, l’ébranchaient en
laissant un bouquet sur la pointe32 et le dressaient près de la maison du syndic. Le
transport se faisait généralement à bras d’homme mais il pouvait se faire que :
« La plante est arrivée à Champdepraz après avoir dû traverser la Doire par le flottage, le mauvais état de notre
pont ne permettant pas d’en supporter le poids, traînée par
149
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
plus de deux cents personnes, hommes, femmes et enfants,
tous avaient voulu s’y atteler… »33.
Et l’arbre pour Champdepraz venait de Brusson, à plus de 20 kilomètres ! Ce
n’était pas rare que la jeunesse se rende loin pour trouver un bel arbre, digne
du syndic qu’on veut honorer. Ceux d’Arnad, par exemple, pour fêter le syndic
Pierre Lesca, sont allés jusqu’à Challand34.
La hauteur du mai suscitait l’admiration des participants à la fête : à
Aymavilles, en 1887, le mai mesurait 23 mètres « sans le bouquet », à La Thuile,
en 1899, la “planta” mesurait 26 mètres, à Saint-Denis 28 mètres, en 1885, dressée en l’honneur du nouveau syndic Tancrède Tibaldi, et à La Salle, en 1901, 38
mètres ! Nous ignorons les mesures du mai de Gressoney-Saint-Jean de 1899
mais nous savons que la plante était « presque aussi haute que la Tour Eiffel »35.
Parfois, pour que le mai soit plus haut encore, on faisait comme à
Courmayeur et on lui ajoutait un prolongement :
« Pendant la nuit, et comme elles sont belles les nuits dans
ce Pays, de jeunes, intelligents et vigoureux montagnards,
avaient transporté un énorme mât surmonté d’une plante et
l’avaient placé en face de la maison de leur syndic… »36.
1935. La Salle. La Badoche « les danses sont ouvertes »
(photo Région Autonome Vallée d’Aoste - Archives Assessorat à l’Éducation et à la Culture
Fonds A. Avignone)
150
L’arbre, signe de fête
Les jeunes d’Introd ont démontré une audace et un courage hors du commun : le syndic sortant ayant été confirmé, ils ont eu la brillante idée, au lieu de
planter un nouveau mât, de grimper sur le mai déjà placé et de lui ajouter une
pointe de 8 mètres ! Après trois heures d’efforts, l’opération est conclue37.
L’organisation des fêtes était, par règle, confiée aux regroupements juvéniles
comme les badoches ; maintenant ce sont plutôt les conscrits ou les pompiers
volontaires qui s’en chargent.
Au sommet du mai on hissait de un à trois drapeaux italiens, ceci après
l’unité d’Italie, bien entendu. Cette habitude, était bien vivante en France aussi
où, cependant on n’arborait pas le même tricolore :
« Aux arbres de la Liberté, le mai emprunta la décoration
tricolore lorsque les temps devinrent cocardiers à l’approche du xxe siècle »38.
À Nus, en 1903, comble de modernité, avec les drapeaux, « brille, pendant la
nuit, comme un phare, une puissante lampe électrique »39.
Lors du repas, il y avait toujours des discours, des “éloges” et, en conclusion
c’était le syndic qui prenait la parole pour remercier les présents et la population
en général. En 1899, à La Thuile, c’est la fille même du syndic qui le félicite en
récitant ce qu’on appelait “un compliment”, une petite pièce d’occasion, rédigée
par l’instituteur ou par le curé, qu’on confiait à un enfant pour qu’il la déclame
lors de fêtes importantes (mariage, première messe d’un jeune de l’endroit, etc.)40.
Grand repas ou casse-croûte, la fête était l’occasion de s’amuser et d’oublier les
tracas du quotidien, comme à Valgrisenche :
«Tutti gli adunati participarono in seguito ad una appetitosa
merenda in cui, a dispetto della filossera e della peronospera,
il bacchico nettare venne distribuito in abbondanza»41.
Ou comme à Saint-Marcel:
«Issato l’albero tradizionale agli evviva della popolazione,
raccoglievansi a genial festino ben 122 convitati, numero
certamente enorme, non mai visto, neppure a Saint-Marcel
dove i pranzi epici sogliono livellare tutte le opinioni e mandare la questione sociale… in quel paese»42.
Parfois la fête se concluait par un bal, des bengales (feux d’artifice), et des mortarets (pétards), comme à Sarre : « Banquets, coups de boîtes, illuminations, feux d’artifice, rien ne manqua »43. À Aymavilles, en 1902, après une fête avec discours, photographie officielle et libations abondantes, la nuit, « …des feux de joie s’allumaient
dans tous les villages et des chants d’allégresse retentissaient de tous les côtés »44.
151
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
1952. Saint-Marcel. Le cortège du mariage
(photo Région Autonome Vallée d’Aoste - Archives Assessorat à l’Éducation et à la Culture
Fonds O. Bérard)
Tout comme à Fontainemore, en 1903, ce qui paraît être plus conforme aux
anciennes traditions.45 Les accidents étaient relativement fréquents comme celui
survenu dans une commune dont on tait le nom, en 1887 :
« … en élevant la plante un homme s’est gravement contusionné et a dû garder le lit pendant plusieurs jours. Durant
le bal, qui était le point culminant de la fête, une galerie s’est
effondrée sous le poids des personnes qui allaient y prendre
haleine et un homme est tombé du second étage. Sans une
treille inférieure qui en a amorti la chute, il serait peut-être
resté mort sur le coup… »46.
Souvent, la fête bénéficiait de la présence de musiciens comme à SaintChristophe où le syndic élu avait même renoncé aux indemnités en faveur des
caisses communales47. Ou comme à Nus, à Villeneuve, à La Salle, à Doues et
dans tant d’autres communes où est présente la fanfare aussi48. À Fontainemore
c’est la fanfare de Carema qui participe aux réjouissances, bien arrosées de bouteilles de vin, de Carema aussi49…. Il arrive même que la fête ne soit pas circonscrite, qu’elle devienne chorale et qu’elle se propage dans tout le village, ou
bourg, comme à Villeneuve : « Toute la bourgade est pavoisée, les bandières
flottent aux fenêtres »50.
152
L’arbre, signe de fête
Parfois, un jour de fête ne suffisait pas et la joyeuse compagnie se réunissait
de nouveau le lendemain pour le “requit”, tradition bien valdôtaine…. Ce qui
arriva à Brissogne en 190551.
Fête essentiellement profane, généralement son organisation ne prévoyait
pas de messe. Cependant, la Sainte Messe ou une autre fonction religieuse sont
évoquées relativement souvent : en 1885, à Arnad, après les vêpres « les prêtres
de la paroisse, gracieusement invités, se firent un devoir d’aller présenter leurs
félicitations au premier magistrat du pays »52, à Fénis « le prieur de cette paroisse se rappelant que ubi oves, ibi est pastor, tint à participer au dîner qui suivit
l’élévation de l’arbre syndical »53. Et en 1896, à Valtournenche on célèbre la sainte messe, pour rappeler les morts en guerre. En 1902, à Étroubles, la plantation
de l’arbre fut précédée d’une messe chantée et d’un Te Deum solennel en honneur du syndic « homme intègre, intelligent, instruit et vertueux ».54 Mais par
là, quelques années avant, était passé Napoléon…
Curé et syndic peuvent faire la fête ensemble mais les rôles respectifs doivent rester bien séparés :
« Le syndic et le curé se trouvaient tête à tête, n’ayant
d’autre rivalité que l’émulation pour le plus grand avantage
de tous et le soussigné espère que l’on ne voit pas de mauvais œil la mutuelle sympathie, la bonne harmonie qui règne
entre eux, sans prétendre que le curé veuille absorber
l’écharpe, ni le syndic emprunter l’étole »55.
Tout le monde pouvait participer à la fête, sans formalités. La fête était particulièrement vigoureuse quand le syndic était apprécié, comme à Sarre, où, en
1887, la désignation de
« …Napoléon Jacquemod fut accueillie par une explosion
d’enthousiasme qui n’attendit pas le jour de l’érection de la
plante pour se manifester. Déjà le dimanche précédent, malgré l’absence du néo-syndic, les coups de boites, les cris de
joie et les fêtes allèrent leur train »56.
Mais si le syndic n’était pas trop agrée, il arrivait aussi qu’il doive se
débrouiller, comme dans le cas d’un syndic, pourtant confirmé, d’une commune valdôtaine non précisée :
« …une huitaine de ses parents ou amis se sont empressés
d’aller raffermir l’arbre syndical qui chancelait, tandis que le
syndic lui-même en personne courait, en toute hâte emprunter les boîtes appartenant à la fabrique et cherchait la poudre
nécessaire pour les détonations qui devaient annoncer aux
habitants de la commune que le syndic était confirmé »57.
153
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
Mais la chose la plus extraordinaire s’est passée en 1885 à Valgrisenche où
l’on a failli dresser deux mâts :
« Un grand Roi de l’endroit, Prêtre et Prophète, avait crû
voir dans un beau rêve une maison devant laquelle, dans un
temps prochain, se dresser l’arbre syndical. De cette maison,
selon lui, devait s’éclore, comme de l’œuf un poussin, le
nouveau syndic, et quel syndic ! si l’on pense que les travaux de l’incubation étaient surveillés par Jupiter tonnant
lui-même. Mais, rebelle à tous les efforts, l’œuf est resté
clair ; et, contre l’attente générale, un autre de contrebande,
introduit furtivement dans le nid, brisait la coquille et se
présentait au public anxieux, syndic de pied en cap, sous le
modeste nom de Clément Frassy. Comment serait-il accueilli
par la bonne population de Valgrisenche ? En dépit des foudres de l’Olympe prêtes à éclater, une caravane de gaillards
se dirige à la forêt, coupe une belle plante et, au milieu des
evviva d’une foule nombreuse, la dresse, sans plus de façons
que ça, devant l’autre maison »58.
On trouve toujours quelqu’un prêt à dresser un mai pour le vainqueur…
Avec les campagnes pour la protection des forêts et l’introduction dans les
écoles de La fête des arbres59 avec la réitération du rituel de la plantation collective de petits plants, la tradition de l’arbre du syndic connaît les premières
contestations : on ne peut pas prêcher l’intégrité des forêts et, en même temps
couper les arbres pour faire la fête… À ce propos, le discours de César Chabloz,
syndic d’Aoste, à l’intention des futures institutrices de l’École Normale est
significatif, discours prononcé lors d’une de ces fêtes des arbres, où l’orateur se
présente comme “syndic sans arbre” 60.
n o t e s
Le feu rituel qui se maintient à la Saint-Jean, à la Saint-Pierre, lors de fêtes patronales et
dans les cortèges de noces, surtout dans la Basse-Vallée semble suivre le même destin.
2
Marini Riccardo Adalgiso, « Reliquie carolingie in Valle d’Aosta », in L’Alpino, giornale
della Valle d’Aosta, N. 13-14-15-18, 1902.
3
Van Gennep, Arnold, Le folklore français, éd. Picard, 1949.
4
Valière, Michel, « Les arbres de la liberté », in Société d’Etudes Folkloriques du CentreOuest, Mars-Avril, 1975.
5
L’Indépendant du 28 juin 1859.
6
L’Écho du Val d’Aoste du 24 juin 1878.
7
Chanoux, Émile, « Les pays qui vivent », in Écrits, Aoste, 1994, p. 819.
8
Frazer, G. James, Il ramo d’oro, Boringhieri, 1965.
9
Sébillot, Paul, Le folklore de France, Tome III, Paris, 1905.
1
154
L’arbre, signe de fête
Van Gennep, Arnold, La Savoie, éd. Curandera, Voreppe, 1991.
Van Gennep, Arnold, La Savoie, éd. Curandera, Voreppe, 1991.
12
Calendimaggio en italien, calendes de mai en français. La même tradition, avec le même
nom, existait aussi à Quart à Arnad et à Saint-Christophe, d’après le témoignage de
Cyrille Champvillair mais elle avait déjà disparu avant la moitié du xxe siècle.
13
« Les petits bergers […], avaient le droit, le premier dimanche de mai, de faire les rotche
doée pendant qu’ils gardaient leurs bêtes réunies en troupeau ». Philippot, Lidia, in
Conserver le souvenir, se souvenir pour conserver, Imp. Duc, Aoste, 2005.
Van Gennep, Arnold, dans Le folklore français, signale, en Suisse Romande, au mois de
mai, des quêtes enfantines qui se concluaient avec de petits festins à base de beignets.
14
Morand, Marie-Claude (Sous la direction de), Guide du Valais, Musées Cantonaux du
Valais, Sion-Viège, 2009.
15
Van Gennep, Arnold, Le folklore français, éd. Picard, 1949.
16
La tradition, le Maibaum, est attestée en Allemagne depuis le Moyen-âge. Mais la
mémoire populaire la fait remonter à l’époque germanique quand le mai aurait symbolisé la fertilité et la bénédiction des Dieux. Centre d’Information et de Documentation de
l’Ambassade d’Allemagne (CIDAL).
17
Valière, Michel, « Les arbres de la liberté », in Société d’Études Folkloriques du CentreOuest, Mars-Avril, 1975.
18
Valière, Michel, « Les arbres de la liberté », in Société d’Études Folkloriques du CentreOuest, Mars-Avril, 1975.
19
Crozes, Daniel, Métiers de tradition, coutumes en fête, éditions du Rouergue, Rodez, 1995.
20
Crozes, Daniel, Métiers de tradition, coutumes en fête, éditions du Rouergue, Rodez, 1995.
21
Crozes, Daniel, Métiers de tradition, coutumes en fête, éditions du Rouergue, Rodez, 1995.
22
Rivolin, Joseph en cite une le 5 Janvier 1799, sur la place Saint-François d’Aoste.
« Jovençan : la plante du syndic » in Le Flambeau n° 117, Aoste, Printemps 1986.
23
Perrin, Joseph-César, Aymavilles, Tome premier, édition Le Château, Aoste, 1997.
24
L’Hôtel des États
25
Rivolin, Joseph, « Jovençan : la plante du syndic » in Le Flambeau n° 117, Aoste,
Printemps 1986.
26
Giommi, Federica, in Saint-Christophe, Imprimerie Duc, Saint-Christophe, 2010.
27
La Feuille d’Aoste du 15 juin 1884.
28
Le Mont-Blanc du 28 octobre 1910
29
Le Mont Blanc du 11 Août 1905.
30
Repas organisé quelque temps après la fête pour terminer les restes.
31
Le Mont Blanc du 17 Octobre 1905.
32
Le bouquet en pointe du mai est un détail rituel très ancien. Le texte allemand le plus
ancien paraît être celui de Aix-la-Chapelle de 1225 où il est dit qu’un curé, ayant voulu
abolir la coutume d’ériger un mai avec la « couronne terminale, fut condamné par le bailli à
en ériger un encore plus élevé » Van Gennep, Arnold, in Le folklore français, éd. Picard, 1949.
33
Le Mont-Blanc du 22 novembre 1885.
34
Noro, Elida, Champurney, Augusta, Arnad in Valle d’Aosta, più di un secolo di memoria,
Priuli e Verlucca, Ivrea (Torino), 2006.
35
Le Mont-Blanc du 15 décembre 1899.
36
Le Mont-Blanc du 1er octobre 1885.
37
Le Valdôtain du 15 janvier 1892. L’un des deux jeunes gaillards protagonistes de l’entre10
11
155
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
prise était Grat Ronc, qui sera par la suite l’un des pionniers de la photographie valdôtaine.
38
Crozes, Daniel, Métiers de tradition, coutumes en fête, éditions du Rouergue, Rodez, 1995.
39
Le Mont Blanc du 27 Février 1907.
40
Cette habitude a duré, au moins jusque dans les années 1950-1960.
41
L’Alpino du 18 mars 1892.
42
L’Alpino du 13 mai 1892.
43
Le Mont-Blanc, 1er octobre 1885.
44
Jacques Bonhomme du 5 décembre 1902.
45
Le Duché d’Aoste du 29 avril 1903.
46
Le Mont-Blanc du 3 mars 1887.
47
Le Mont-Blanc, 1er octobre 1885.
48
Le Mont-Blanc, 1er octobre 1885.
49
Jacques Bonhomme du 9 mars 1906.
50
Le Mont-Blanc, 1er octobre 1885.
51
Le Mont-Blanc du 27 octobre 1905.
52
Le Mont-Blanc du 8 novembre 1885.
53
Le Mont-Blanc du 8 novembre 1885.
54
Le Mont Blanc du 7 Novembre 1902.
55
Le Mont-Blanc du 21 février 1896.
56
L’écho du Val d’Aoste du 18 mars 1887.
57
L’Indépendant du 1er avril 1859.
58
Le Mont-Blanc du 8 novembre 1885.
59
Sur le modèle de l’Arbor Day des américains.
60
Jacques Bonhomme du 5 décembre 1899.
b i b l i o g ra p h i e
Alexandre-Bidon, Danièle, « Arbres de vie et Pâques fleuries » in Cahiers du léopard d’or 2, L’arbre, Paris, 1993.
Bétemps, Alexis, «Il bosco e l’albero in Valle d’Aosta fra realtà e magia ovvero
Pollicino non si è perso qui», in Il bosco e l’uomo nelle Alpi Occidentali, Atti del
convegno organizzato dal CAI a Saint-Nicolas, Vercelli, 1994.
Brosse, Jacques, Mythologie des arbres, Plon, Paris, 1989.
Chanoux, Émile, Écrits, Aoste, 1994.
Crozes, Daniel, Métiers de tradition, coutumes en fête, éditions du Rouergue,
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Frazer, G. James, Il ramo d’oro, Boringhieri, 1965.
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Mathieu, Guy, « Les fêtes en Baronie », in CNRS Rhône-Alpes, Mémoire vivante,
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Morand, Marie-Claude (Sous la direction de), Guide du Valais, Musées
Cantonaux du Valais, Sion-Viège, 2009.
156
L’arbre, signe de fête
Noro, Elida, Champurney, Augusta, Arnad in Valle d’Aosta, più di un secolo di
memoria, Priuli e Verlucca, Ivrea (Torino), 2006.
Pastoureau, Michel, « Introduction à la symbolique médiévale du bois », in
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Rivolin, Joseph, « Jovençan : la plante du syndic » in Le Flambeau, n° 117.
Sébillot, Paul, Le folklore de France, Tome III, Paris, 1905.
Valière, Michel, « Les arbres de la liberté », in Société d’Etudes Folkloriques du
Centre-Ouest, Mars-Avril, 1975.
Van Gennep, Arnold, Le folklore français, éd. Picard, 1949.
Van Gennep, Arnold, La Savoie, éd. Curandera, Voreppe, 1991.
1955. Torgnon.
25e anniversaire de l’ordination sacerdotale de Mgr Pierre Frutaz et Sylvius Pession
(photo Région Autonome Vallée d’Aoste - Archives Assessorat à l’Éducation et à la Culture
Fonds O. Bérard)
157
Venez… dansez…
Le bal dans le passé :
amusement et prohibition
Joseph-César Perrin
C’est aujourd’hui la fête du village,
Préparez-vous, fillettes au blanc corsage,
Venez, dansez, car sous ce vert feuillage,
Chaque garçon s’est donné rendez-vous.
Amusez-vous, faites les fous,
Amusez-vous, faites les fous,
Car ce sont là les plaisirs du jeune âge.
Dans le passé, le nombre des fêtes
religieuses était surprenant car à la sanctification du dimanche s’ajoutaient plusieurs autres fêtes solennelles ou particulières, la fête patronale de la commune voire celles de chaque village, auxquelles il faut additionner les processions, les pèlerinages et d’autres obligations telles que les rogations et la bénédiction des eaux et des animaux ainsi
que quelques, au vrai un peu plus rares, fêtes civiles. Mais il ne faut pas
oublier que, aussi pour ces dernières, les occasions ne manquaient pas : les
victoires remportées sur les armées ennemies1, la naissance des princes, le
couronnement des rois et des empereurs, voire la Saint-Napoléon, fête instituée sous l’Empire2. À tout cela s’ajoutaient les fêtes plus proprement familiales qui se tenaient lors des mariages et des baptêmes, voire lorsqu’on avait
dressé la poutre maîtresse de la maison en construction. L’Église même trouvait excessif le nombre des fêtes : le 1er avril 1766, l’évêque Pierre-François de
Sales supprima certaines d’entre elles et transféra d’autres au dimanche3 ;
vingt ans plus tard, ce fut le pape Pie vi qui en fit autant par son bref du 27
mai 1786 4 en abolissant entre autres celle du 24 juin, la Saint-Jean, au soir de
laquelle on allumait les feux de joie qui, à cause de cette suppression, furent
transférés à la Saint-Pierre mais qui, malgré ce déplacement, n’ont pas perdu
leur dénomination d’origine : fouà de Sèn-Djouan.
Malgré ces abolitions, le nombre des fêtes et des occasions de repos était
encore élevé et contre cette pléthore de jours fériés, en 1840, élevait sa voix le
docteur César-Emmanuel Grappein qui attribuait à cela la cause principale du
paupérisme et tonnait contre :
159
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
« La trop grande et désastreuse multiplication des jours de
fêtes qui a toujours fait et fera toujours la dépravation des
mœurs et l’appauvrissement des communes en tant qu’elle
détourne du travail et porte à la dissipation. C’est le jour de
fête que les pères de famille et les ouvriers de toutes espèces
mangent leur bien au cabaret et se précipitent dans la
débauche »5.
Cependant, la voix de cet homme imbu de l’esprit des Lumières était une
opinion encore assez isolée, car dans une région fortement imprégnée de catholicisme, les autorités ducales puis royales et celles locales avaient pourvu à
réglementer de façon rigoureuse l’observance des fêtes religieuses. En 1581, la
ville d’Aoste avait demandé des peines sévères contre les trasgresseurs, ce qui
lui fut accordé par le duc Charles-Emmanuel ier le 23 septembre de la dite année.
Entre autres, on avait défendu pendant les offices divins de
« jouer aux dez, cartes ny aultres jeux, quelz qu’ilz soyent,
moins dancer ny faire aultres insolences »
et cela sous la peine de vingt sous pour la première fois, de quarante pour
la deuxième et de soixante pour la troisième6. Cette prohibition n’était pas
propre à la seule capitale du duché, mais une coutume générale car le
Coutumier 7 de 1588 interdisait la même chose ainsi que de faire du commerce
durant les offices religieux en infligeant des peines pécuniaires sévères, voire
celle corporelle, la prison ou le pilori, peines encore plus durement sanctionnées par les Royales Constitutions de 1770. D’autres mesures furent aussi établies par le Règlement particulier pour le duché d’Aoste de 1773 qui y dédie les
six articles du Titre Premier, De l’Observance des Fêtes 8, et par le Règlement de
police pour la ville d’Aoste 9 de 1778.
Toutefois, la crainte des sanctions ne devait pas compter beaucoup car dans
les États des Paroisses de 1819-1821 la plupart des curés se plaignent du fait que
les fonctions religieuses ne sont pas beaucoup suivies, voire pas observées du
tout, et cela soit à cause des travaux agricoles et du commerce, soit à cause de
l’ignorance du peuple à l’égard des préceptes religieux voire, c’est le cas entre
autres de Challand-Saint-Victor, par l’influence du
« scandale de plusieurs étrangers qui y travaillent au bois
pour des charbons et aux fabriques »
et qui par leur exemple détournent la jeunesse.
« La culture des biens ruraux absorbe toutes les occupations
des habitants de cette paroisse, qui sont en général intelligents dans les affaires temporelles, très borné dans la science
du salut […] ils travaillent jour et nuit pour le corps et rien
pour l’âme, pour la terre et point pour le ciel, toujours pour
le temps et presque jamais pour l’éternité » :
160
Venez… dansez… Le bal dans le passé : amusement et prohibition
tel était le jugement que le curé de Saint-Léger d’Aymavilles donnait de ses
ouailles, réticentes à sanctifier le dimanche, mais bien d’autres exemples pourraient être cités. D’après le dire des curés respectifs, c’est les jours de fête que
les habitants de La Magdeleine « courent d’une paroisse à l’autre » pour vendre
les tissus préparés au cours de l’hiver tandis que ceux d’Ayas partent avec leurs
ânes chargés de sabots pour débiter cette marchandise dans les paroisses voisines ou aux marchés de la plaine et ceux de Challand-Saint-Anselme s’en vont à
Verrès pour y porter leurs denrées et acheter du sel.
Toutefois, le dimanche et les autres fêtes n’étaient pas seulement des jours à
sanctifier ou pour certaines personnes des jours de travail et d’occasion de commerce. Elles étaient aussi un moment de détente physique et, surtout, d’amusement. La fête ! Beau sujet à étudier qui nous dévoilerait bien des choses tant au
point de vue historique que ethnographique ; sujet que j’ai eu crainte d’approcher
et dont je me suis limité à aborder, et encore de façon très succincte, un seul aspect,
le bal, qui était souvent vu comme le noyau central, l’âme de la fête même.
En effet, le plaisir de la danse remonte dans la nuit des temps. Le moyen âge
en est bon témoin et les documents ne sont pas muets à cet égard : il suffit de
rappeler le bal de Catherine de Challant et Pierre d’Introd qui, le 31 mai 1450,
descendirent sur la place de Verrès et se mirent à danser au milieu du peuple10,
attitude qui en dit loin à propos des plaisirs populaires. Plaisir, celui du bal, que
le peuple recherchait et que le clergé condamnait en le voyant comme l’un des
principaux moyens de déviation de la foi et de la morale et le plaçait ainsi, le
plus souvent, au sommet de ses préoccupations. Si en 1819 Jean-André
Aymonod, curé de Morgex, dénonçait que
« la fréquentation des cabarets, surtout les saints jours de
dimanche et de fêtes »
était l’un des principaux abus, il n’oubliait pas d’en citer un autre
« qui m’afflige beaucoup »
disait-il : celui de la danse, divertissement privilégié par la jeunesse, mais
non pas uniquement par elle.
Les bals publics étaient assez fréquents et ils ne manquaient surtout pas au
moment de la conscription, au carnaval ou lors des fêtes patronales pour l’amusement populaire mais parfois aussi organisés par les “badochers” ou par
d’autres personnes dans le but de recueillir des fonds qui servaient aux œuvres
de bienfaisance. Dans les communes rurales, ils se tenaient dans des locaux
improvisés (une étable, le fenil, une pièce des nombreuses cantines, la place du
village, etc.) et ils étaient organisés par les conscrits, par un groupe d’habitants
voire par les aubergistes eux-mêmes. Il en fut certainement de même à Aoste
pendant longtemps, mais là les palais de la noblesse et de la bourgeoisie
offraient des salles et salons plus adéquats où l’élite aostoise organisait assez
fréquemment des soirées dansantes entre amis, telle celle tenue au début de
161
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
1799 par Pierre-Joseph Ansermin en l’honneur de Guillaume Cerise, fraîchement élu parmi les membres du gouvernement piémontais11. Il s’agissait de l’un
des nombreux “bals patriotiques” que les jacobins de la ville avaient l’habitude
de programmer pour démontrer leur foi révolutionnaire. Le palais épiscopal
même accueillit des bals publics, avec ou contre la volonté de l’évêque. En 1801,
par exemple, malgré les plaintes de Mgr Solaro, la municipalité organisa un bal
dans le grand salon de l‘évêché, ce qui lui valut une dure réprimande de la part
de Jean-Baptiste Jourdan, administrateur général du Piémont, qui la somma de
ne plus molester l’évêque12.
À Aoste on sentit bientôt la nécessité d’avoir un local ad hoc et depuis 1808
c’est la chapelle du couvent des Visitandines, cédé à la Ville deux années auparavant par décret impérial, qui servit de théâtre et de salon de bal13. Là, suite à
l’autorisation accordée par l’autorité communale, se tenaient les bals publics
ainsi que des bals masqués au temps de carnaval. D’après l’article 4 du
Règlement de police pour le théâtre de la ville d’Aoste du 28 décembre 1811, la commune devait assurer la présence de deux huissiers afin de contrôler la soirée et
de prévenir des éventuels désordres qui, malgré cela, ne manquaient pas. Nous
en avons un exemple en 1812, car dans une lettre du 5 février le sous-préfet
affirmait avoir eu connaissance que
« des voies de fait ont eu lieu dimanche le 26 de 1812 pour
faire cesser un bal que vous aviez autorisé jusques à dix
heures et qui continuait malgré vos ordres »14.
Le plaisir du bal était tel que l’on désirait prolonger le plus possible les soirées dansantes jusqu’au chant du coq et la discussion faite au conseil communal
le 11 janvier 1889 à l’égard du choix de l’emplacement où construire le nouveau
théâtre de la ville nous en fournit la preuve : le conseiller Favre contestait l’endroit choisi (c’est l’actuel Giacosa) parce que, disait-il,
« de ces bals du théâtre on sort ordinairement vers les quatre à
cinq heures du matin, un peu illuminés, et les mères de famille
ou les demoiselles qui vont à la messe à ces heures matinales
pourraient être exposées à entendre de mauvais propos »15.
Si à Aoste les bals étaient organisés par de petits entrepreneurs de spectacles, dans les autres communes ce sont surtout les propriétaires des auberges,
des cabarets et des débits de vins qui en sont souvent les promoteurs. Mais que
serait-il le bal sans la présence de l’élément féminin ? Aussi, si celui-ci fait
défaut il faut y pourvoir et voilà donc qu’à Saint-Léger d’Aymavilles, nous dit
le curé Cyprien Gérard, le cantinier d’un village éloigné du centre (il s’agit probablement du Pont-d’Ael ou de Vieyes) « va même accaparer des jeunes fillettes
pour les faire danser »16.
Au niveau local, l’autorité communale contrôlait donc le bal en l’autorisant
ou défendant selon les circonstances, tâche qui quant à tout le duché revenait
au Conseil des Commis dont les Registres du Pays attestent plusieurs interven162
Venez… dansez… Le bal dans le passé : amusement et prohibition
tions, d’après sa propre initiative ou selon les ordres du Sénat de Savoie et des
ducs, pour prohiber la danse dans des circonstances particulières et cela
« pour la conservation du pays et pour la santé des personnes habitantes en icelluy »17.
En effet, les interventions du Conseil des Commis contre la danse, mais
aussi contre les mascarades, sont généralement dictées lorsqu’il y a senteur de
maladies contagieuses dans les pays voisins (c’est, par exemple, le cas des délibérations du 25 janvier 1577 ou du 18 août 1585) et donc par la volonté de préserver la santé des habitants ; dans les intentions de cet organe de gouvernement il n’y a donc rien qui concerne le problème moral. En effet, même lorsque
cette défense est prise à l’approche de la Saint-Grat, la préoccupation n’est pas
d’ordre religieux : on veut tout simplement éviter que puissent
« s’ensuivre des désordres au préjudice du repos et de la
tranquillité publique qui doivent régner dans toutes les villes et les communautés »,
car aussi pendant ces fêtes le bal est permis, pourvu qu’on en demande
l’autorisation et que quelqu’un assume le contrôle de son bon déroulement18.
Après la Restauration, le contrôle devint sévère et centralisé. Le 1er janvier
1815, le comte De Loche, commandant de la province d’Aoste, envoya une lettre circulaire à tous les syndics par laquelle il imposait que
« 1°. Personne ne pourra dans l’étendue de cette province,
ouvrir des bals, ni chez soi, ni chez autrui, sans être muni de
permission partant de notre part, laquelle devra être exhibée
au scindic local avant l’ouverture du bal ».
Les contrevenants à cette disposition encouraient une amende de dix livres
et trois jours de prison19. Toutefois, on ne devait pas poser trop d’obstacles à ces
autorisations, car au mois d’août suivant, ayant été interpellé par des habitants
d’Aymavilles, le commandant autorisa qu’ils y tiennent un bal
« à charge de se conformer aux règlements et dispositions
de police à cet égard »20.
Les Istruzioni per l’uffizio di sindaco, décrétées à Turin le 23 avril 1816, réglementèrent nouvellement la matière. L’article 7 de la partie concernant la police
civile établissait que les syndics ne permettent pas que l’on tienne des spectacles et des bals sans leur autorisation, mais celle-ci ne pouvait être niée « senza
legittima causa ». Cependant, si d’une part on se passait souvent du consentement des autorités communales, d’autre part les curés se plaignaient de la facilité avec laquelle celui-ci était octroyé :
« L’autorité civile est trop facile à accorder ces sortes de permission et trop indulgente à pardonner à ceux qui tiennent
des bals sans permission »,
163
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
pestait le curé de Morgex. Mais ce n’était pas toujours si facile convaincre les
syndics car, par exemple, lorsqu’au début du siècle dernier deux cabaretiers
d’Aymavilles demandèrent le “nulla osta” pour faire danser les jours de fête
dans leur cantine respective, la junte municipale leur donna un avis négatif en
avançant cette justification :
« Dans un pays rural sans ressource et sans la moindre
industrie, le bal est la source d’infinités de larcins domestiques que commettent les jeunes gens pour satisfaire leurs
plaisirs ; et ce sans compter les désordres auxquels le bal
donne lieu de jour et de nuit »21,
mais le sous-préfet n’accepta pas ce prétexte.
Admis en temps normal par l’autorité civile, le bal était par contre fortement
combattu par l’Église qui, à certaines époques, lança de véritables croisades
contre cet amusement parce qu’elle y voyait un instrument et un lieu de perdition. Sans parcourir tous les siècles, ce qui serait trop long, il suffit de s’arrêter
brièvement aux années 1819-1821 en feuilletant les États des Paroisses, c’est-àdire les réponses fournies par les curés au questionnaire envoyé par l’évêque
Aubriot de La Palme, désireux de connaître la situation religieuse du diocèse
dont il venait de prendre possession22.
La lecture de ces États nous apprend que parmi les “scandales” et “abus
considérables” signalés, la majorité concerne les péchés de nature sexuelle que
les ecclésiastiques attribuent essentiellement à trois causes : les albergements
(c’est-à-dire les veillées), les courses nocturnes et la danse. Or, c’est tout particulièrement cette dernière qui trouble le sommeil des curés et qui les préoccupe
fortement.
Jean-Étienne Artalle, curé de Courmayeur, est très explicite à cet égard ;
écoutons-le : dans les bals, dit-il,
« Il y a d’abord […] grande familiarité des deux sexes, et ce
qui est encore plus abominable, c’est que lorsqu’on a fait
une danse ou deux, le garçon mène boire la fille qu’il a
dansé ».
Puis, l’abbé se pose deux questions : « Où va-t-on ? Que fait-on ? » ; mais
elles ne sont que des demandes rhétoriques car lui-même leur fournit la réponse en disant que
« Il n’est que le Ciel pour témoin de leurs horreurs que couvrent les ténèbres de la nuit. […] De ce maudit amusement
doit résulter l’écueil de l’innocence, la chute de la vertu,
habitudes criminelles, scandales ».
164
Venez… dansez… Le bal dans le passé : amusement et prohibition
Comme le curé Artalle, la plupart des confrères se plaignaient du fait que
cette pratique de la danse n’était que trop répandue. On organisait les bals un
peu partout et avec trop de fréquence, avec ou sans la permission des autorités
civiles locales souvent, d’ailleurs, trop complaisantes voire complices. Et, qui
pis est, pour ces bals on profitait de la fête patronale de la paroisse ou de celles
de tous les villages à un point tel que le curé d’Arvier, Jean-Pantaléon Bovet,
désirerait qu’on supprime les patrons, mais puisqu’il sait que son vœu n’est pas
praticable, il souhaite que l’évêque interdise momentanément la fête, dit-il,
« dans ces endroits où l’on continueroit d’en faire ainsi une
pierre d’échoppement »23.
À ces bals publics s’ajoutent aussi d’autres privés, organisés dans les maisons ou les étables.
On danse au son des instruments : à Verrayes on passe la plupart des dimanches et des autres fêtes à danser au son « d’un mauvais joueur incorrigible »,
tandis qu’à Ville-sur Nus, d’après le curé, on s’amuse « sous quel instrument
que ce soit ». Mais on danse aussi en leur absence : à Courmayeur, par exemple,
on ne permet l’emploi des instruments de musique que lors des fêtes patronales ; toutefois, si les autres bals sont interdits, la jeunesse ne manque pas d’en
organiser, surtout pendant l’hiver, en jouant d’astuce car, ne pouvant utiliser les
instruments, elle détourne l’obstacle :
« les uns chantent des airs et les autres dansent au son de la
voix » et de cette façon ingénieuse on danse « à la longue »
et avec « grand concours comme à un autre bal ».
Or, l’habitude de danser sans instruments mais au simple son de la voix
devait être assez répandue car on la retrouve, par exemple, aussi à
Aymavilles où le curé mentionne que dans sa paroisse on danse « au son de
la voix humaine »24. À quoi faut-il attribuer cette façon de danser sans instruments ? Probablement, au fait qu’il n’était pas toujours facile de trouver
des joueurs – que l’on devait payer, et l’argent, surtout dans le poches des
jeunes gens, n’était pas abondant –, mais encore plus vraisemblablement au
fait que le son d’un violon ou d’un autre instrument aurait immédiatement
signalé le bal. Or dans le cas d’un bal non autorisé – et il faut croire que la
majorité de ceux organisés ou improvisés par la jeunesse ne l’était pas – il y
avait le risque d’être dénoncés : voilà donc la nécessité de recourir à des
subterfuges.
La durée de ces divertissements est un tracas que le curé de Morgex ne
cache pas car, dans sa paroisse, on danse le jour du patron « presque toute la
nuit et le dimanche suivant ». Par contre, certaines paroisses semblent échapper
à cet amusement que les curés considèrent scandaleux. C’est le cas d’Ayas, la
paroisse qui au cours du xixe siècle a fourni le plus grand nombre de prêtres et
dans laquelle le curé François-Victor-Aimé Dandrès n’a pas beaucoup à se
plaindre de la jeunesse car depuis trois ans on n’y a plus organisé des bals, dit165
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
il, en ajoutant toutefois que
« le feu est toujours sous la cendre, et je crains toujours
qu’il ne se rallume ».
Les curés qui tolèrent la danse sont assez rares, bien que quelques voix timides se lèvent par ci par là, telle que celle de Bard où le curé Jean-Pantaléon
Porliod est beaucoup moins sévère à l’égard du bal et affirme qu’on « pourrait
retrancher de rigueur sur ce point ». Mais il s’agit de cas isolés25, car l’Église valdôtaine continuera pendant longtemps à affirmer sa nette aversion au bal. En
effet, on rencontre les traces d’une vaste campagne contre la danse lancée dans
le but d’éloigner les jeunes gens du plaisir du bal dans presque tous les cahiers
des sermons des curés qui, du haut de la chaire, se lançaient contre « le mal de
la danse » qui, prêchait par exemple le curé d’Aymavilles,
« vient de la réunion, de l’attroupement de personnes de
sexe différent, des libertés qu’on y prend, des rencontres qui
l’accompagnent, en sorte qu’il est très rare qu’on fasse une
partie de danse sans que quelques-uns, si ce n’est pas tous,
commettent des péchés mortels ou par pensée, ou par paroles, ou par d’autres familiarités criminelles. […] Dans ces
danses vous jetez des regards illicites ; vous proférez des
paroles lascives ; vos gestes y sentent l’impureté. Ce que
vous faites donc dans les danses n’est pas une œuvre sainte,
mais damnable et criminelle ; et vous n’y servez pas Dieu,
mais bien le diable. Vous êtes donc plus coupables devant
Dieu que ceux qui labourent la terre durant tout le jour de
fête. […] C’est là qu’elle [la jeunesse] se livre au divertissement avec toute la passion qu’elle sent pour la volupté ; elle
en absorbe un souffle pestilentiel et d’impureté qui lui
deviendra peut-être un mortel poison… »26.
Âprement combattu par le clergé, le bal trouvait son défenseur dans un illuministe : César Emmanuel Grappein qui, ne pensant pas de la même façon,
éleva un hymne en faveur de la danse soit dans son Mémoire sur les effets merveilleux, admirables de la danse qui contribue puissamment à la civilisation, à la santé,
aux bonnes mœurs & &…, rédigé en 1855, à la veille de sa mort, soit dans une lettre au commandant du duché d’Aoste27. D’après le médecin de Cogne le bal
produisait un double bénéfice : d’abord à la santé, mais également aux bons
rapports entre les hommes dans la société.
« La danse – dit-il – est éminemment salutaire, contribue
puissamment à la santé. Le mouvement de la danse est très
utile pour le développement des organes et la sécrétion des
mauvaises humeurs par la transpiration que la danse rétablit d’une manière surprenante quand elle est supprimée ».
Elle a des conséquences encore plus bénéfiques pour les
femmes : « La danse produit des effets merveilleux sur la
166
Venez… dansez… Le bal dans le passé : amusement et prohibition
santé du sexe quand elle est ruinée, sur la santé de cette
belle partie de la création, qui console des peines de la vie.
La danse est un puissant remède contre les maladies des
femmes, rétablit leur santé et les délivre de cet affaissement,
de cette lassitude profonde, de cette austère, monotone et
triste existence, qui les rendent incapables de travail ; la
danse leur rend le contentement, la vie et la vigueur ».
Mais, si le médecin pensait à la santé, le philosophe illuministe y ajoutait
aussi l’aspect social, car il considérait que cet amusement est
« un gage de paix et d’union, une garantie d’ordre et surtout
[…] un moyen de détourner la jeunesse des cabarets. C’est
l’arche de conciliation » et il ajoutait que la danse « lie entre
elles les diverses classes de la société ; elle les rapproche et
leur fait une nécessité de ces égards mutuels toujours si
favorable au maintien de l’ordre et de la paix, base de toute
organisation sociale ayant pour effet le plus grand bien-être
possible des sociétés, base qui fait le bonheur de l’humanité »28 et celui moral car la danse « détourne des cabarets, de
la dissipation, des jeux de hasard, des conspirations contre
l’état »29.
Le bal ! Amusement ou moyen de perdition ? Lieu de convivialité ou
moment de tentation ? Exercice physique ou cause de perte des vertus morales ? Questions auxquelles les laïques et le clergé ont donné des réponses le plus
souvent opposées. Le bal, donc : sujet très intéressant dont ce que je viens de
dire n’est qu’une faible piste qui mériterait, par contre, d’être approfondie non
seulement au point de vue historique, mais aussi pour ses implications sociales,
anthropologiques, ethnographiques, pour sa portée dans l’imaginaire collectif
(que l’on pense, par exemple, à la présence du diable aux bals) ou pour ses
effets sur la culture populaire…
À d’autres, cependant, la tâche de cet approfondissement.
n o t e s
Pour ne citer qu’un seul exemple, le 30 janvier 1809 dans son rapport sur la situation
du département de la Doire le préfet Jubé déclarait : « La fête du couronnement et de la
victoire d’Austerlitz a été célébrée dans ce département avec toute la pompe que les
localités peuvent permettre. Les ministres des autels on secondé l’impulsion des
autorités. Tout y a été marqué au coin de l’allégresse publique et des plus vifs sentiments
d’amour et de reconnaissance pour notre auguste souverain » (Roberto Nicco, Documents
sur la Vallée d’Aoste pendant la Révolution et l’Empire, in Sources et documents d’histoire
valdôtaine, Tome Sixième, “Bibliothèque de l’Archivum Augustanum”, XXIV, Aoste, 1989,
p. 381).
1
167
LA FÊTE EN MOUVEMENT DANS L’ARC ALPIN OCCIDENTAL
2
À son propos, Plancy, préfet du département de la Doire, le 15 octobre 1807 affirmait
que « La fête de Saint-Napoléon a été célébrée sur tous les points du département avec
la pompe qui lui est due » (Roberto Nicco, Documents sur la Vallée d’Aoste…, cit., p. 367).
3
Joseph-Auguste Duc, Histoire de l’Église d’Aoste, tome huitième, 2e édition, Aoste 1996,
p. 426-428.
4
Joseph-Auguste Duc, Histoire de l’Église d’Aoste, tome neuvième, 2e édition, Aoste 1997,
p. 20.
5
César Emmanuel Grappein, Mémoires et écrits inédits, par les soins de Joseph-César
Perrin, Conseil de la Vallée d’Aoste, Musumeci Éditeur, 2005, p. 144-150.
6
Le Livre rouge de la Cité d’Aoste, pubblicato a cura di M. A. Létey Ventilatici, Deputazione
Subalpina di Storia Patria, Torino 1956, p. 132.
7
Coustumes du duché d’Aouste avec les uz et stils du pais, Tiltre Sixiesme, De la politique,
articles I-V, Chambéry, Loys Pomar, MDLXXXVIII : « Est aussi inhibé à toute personne,
le dimenche ou autres iours de feste, durant le divin office & sermon publiquement ny
autre part, dans les Cité, Bourg, bourgades, & Lieux proches de l’Eglise où ledit office
divin est faict, iouer à quelque ieu que ce soit, ny dancer à peine de vint gros pour
chaque fois » (art. V).
8
Règlement particulier pour le duché d’Aoste, réimpression anastatique par les soins des
Archives Historiques Régionales, Aoste, Imprimerie La Vallée, 1988, p. 5-6.
9
Règlement de police de la part des nobles sindics et conseil de la cité et du bourg d’Aoste,
articles 1 et 2, Du culte divin, in Lin Colliard, La Vieille Aoste, Aoste, Typo-Offset
Musumeci, 1972, p. 217.
10
« Ultina die maj que fuit dominica Trtinitatis domina Caterina de Challant Petrus de
Introdo et cum eis circa quinquaginta homines seu sexaginta armati magnis lanceis
balestris maciis ferri archiis partizanis venalibus ensis boleriis et aliis armorum diversis
generibus venerunt in villam Verreti cum calamella seu cornamusa et tamborino et
pransi fuerunt in domo domini prepositi sancti egidij, deinde sumpto prandio ipsi
domina Caterina et Petrus de jntrodo cum dictis hominibus, cum magnis gaudiis,
corizantes in platea publica subtus sanctum egidium tripudiaverunt » (Luigi Vaccarone,
Scritti sui Challant, a cura di Lino Colliard e Andrea Zanotto, Aosta, Itla, 1967, p. 49).
11
Archives Historiques Régionales, Fonds Ville d’Aoste, Délibérations communales,
volume 17/a, 11 pluviôse an vii [30 janvier 1799].
12
Archives Historiques Régionales, Fonds Ville d’Aoste, État des biens nationaux de
l’Arrondissement d’Aoste, lettre du 28 avril 1801 à Jean-Laurent Martinet. D’après César
Emmanuel Grappein, l’évêque Agodino n’était pas contraire à l’utilisation du salon de son
palais pour y tenir des bals car peu de jours après son entrée à Aoste il aurait voulu
« ouvrir un bal dans un salon de l’évêché et y appeler toutes les personnes de la haute
société pour établir l’union, la paix, l’amitié, la concorde parmi les habitants de la ville ; il
disait aux prêtres : « Nous autres, gens de l’Église, nous ne danserons point, mais la danse
fera un grand bien » (César Emmanuel Grappein, Mémoires et écrits inédits, cit., p. 145).
13
Sur le théâtre de la ville d’Aoste cf. Maria Costa, Histoire d’un petit théâtre de province au
xixe siècle, in Sources et documents d’histoire valdôtaine, Tome Troisième, “ Bibliothèque de
l’Archivum Augustanum”, XV, Aoste 1983, p. 13-52.
14
Archives Historiques Régionales, Fonds Ville d’Aoste, Lettres, volume 13, cité in Maria
Costa, Histoire d’un petit théâtre de province…, cit., p. 25.
15
Archives Historiques Régionales, Fonds Ville d’Aoste, Délibérations communales,
168
Venez… dansez… Le bal dans le passé : amusement et prohibition
volume 44, p. 43, cité in Maria Costa, Histoire d’un petit théâtre de province…, cit., p. 20.
16
Archives de la Curie Épiscopale d’Aoste, États des Paroisses, 1880, Saint-Léger
d’Aymavilles, cité in Aymavilles. Recherches pour l’histoire des paroisses de Saint-Léger et de
Saint-Martin d’Aymavilles, Tome Troisième, Aoste, Le Château, 1997, p. 237.
17
Archives Historiques Régionales, Fonds Ville d’Aoste, Conseil des Commis, Registres
du Pays, volume III, 2-3 septembre 1564.
18
Archives Historiques Régionales, Fonds Ville d’Aoste, Registres du Pays, volume
XXVIII, 4 février 1738.
19
Archives paroissiales d’Aymavilles, catégorie XXI, carton 2/B, document 10.
20
Ibidem, document 11.
21
Archives communales d’Aymavilles, Délibérations communales (1906-1911), volume 166,
29 mars 1908, cité in Joseph-César Perrin, Aymavilles. Recherches pour l’histoire des
paroisses…, cit., p. 237.
22
Le diocèse d’Aoste fut supprimé le 1er juin 1803 par bulle de Pie vii et unie en 1805 à
celui d’Ivrée régi par l’évêque Giuseppe Maria Grimaldi. Il sera reconstitué par le même
pape par bulle du 17 juillet 1817. Le 16 mars 1818, Pie vii y nomma André-Marie de
Maistre, frère de Xavier, qui mourut au mois de juillet avant d’avoir été sacré. Le 29 mars
1819, le pape promut à l’évêché d’Aoste Jean-Baptiste-Marie Aubriot de La Palme qui
prit possession du siège le 18 juillet suivant et il y demeura jusqu’au 30 juillet 1823. Le
questionnaire envoyé aux curés porte la date du 20 août suivant ; il contenait douze
points dont le dixième et le onzième touchaient les conditions religieuses des fidèles. Les
réponses des curés, fournies entre 1819 et 1821 selon la date de la visite pastorale, ont été
reliées en volumes conservés aux Archives de la Curie Épiscopale d’Aoste. Toutes les
citations concernant cette période ont été extraites de ces États ; je n’en donne donc pas
de référence en note car on les trouve facilement à la paroisse citée.
23
Si les évêques ne supprimaient pas les fêtes patronales, ils interdisaient par contre que
l’on tienne des bals en ces occasions. Par exemple, lorsque le conseil de fabrique de
Saint-Léger d’Aymavilles recourut à l’évêque pour retarder de quinze jours la célébration de la seconde fête patronale de la paroisse, Saint-Léonard, Mgr André Jourdain autorisa ce déplacement à condition « qu’il n’y aura pas de bal, le jour du patron » (Archives
paroissiales d’Aymavilles, catégorie IV, carton 1/B, document 51).
24
Archives paroissiales d’Aymavilles, catégorie XXIV, carton 2, Sermons et instructions,
document 18.
25
D’après le médecin Grappein, aussi l’évêque Évase-Second-Victor Agodino (1824-1831)
n’aurait pas été contraire à la danse. « Peu de jours après son arrivée dans la ville
d’Aoste [24 octobre 1824], l’évêque Agodino voulait ouvrir un bal dans un salon de
l’évêché et y appeler toutes les personnes de la haute société pour établir l’union, la paix,
la concorde parmi les habitants de la ville : “Nous autres, gens de l’Église, nous ne
danserons point, mais la danse fera un grand bien : concordia res parvæ crescunt” », ditil, mais il en aurait été empêché par « les prêtres du bas Val d’Aoste, qui se donnaient
alors pour des dévots et pour des saints » (César Emmanuel Grappein, Mémoires et écrits
inédits, cit., p. 145).
26
Archives paroissiales d’Aymavilles, catégorie XXIV, carton 2, document 18.
27
César Emmanuel Grappein, Mémoires et écrits inédits, cit., p. 144-150.
28
Ibidem, p. 148-149.
29
Ibidem, p. 146.
169
Table des matières
Préface ....................................................................................................................................................5
Laurent Viérin
Assesseur à l’éducation et à la culture de la Région autonome Vallée d’Aoste
La missione del nuovo Istituto Centrale .............................................................................
per la Demoetnoantropologia
Stefania Massari
7
Cartografie dell’immateriale .......................................................................................................... 13
Emilia De Simoni
Riti e cicli festivi in una comunità francoprovenzale del Piemonte ...................... 23
Valentina Porcellana
Modelli di ritualità e celebrazioni festive nelle Alpi Occidentali ..........................31
Riflessioni sulla badoche della Valdigne
Paolo Sibilla
L’Atlante delle Feste Popolari Piemontesi .........................................................................37
una nuova base di conoscenza
Piercarlo Grimaldi e Davide Porporato
Le feste della tradizione walser ................................................................................................51
Vittorio De La Pierre
Une chanson de pèlerinage ........................................................................................................63
La Saint Jean-Baptiste à Entrevaux
André Carénini
Fêtes de la transhumance dans le Sud de la France .....................................................83
les enjeux d’une mise en représentation de l’activité pastorale
Patrick Fabre
« Allons faire la fête ! » ......................................................................................................... 91
Rose-Claire Schüle
40 ans de fêtes œnogastronomiques valdôtaines ...........................................................99
Laura Agostino
Identità e festa fra tradizione e folklorizzazione ............................................................105
Riflessioni psico-sociologiche sul declino di un modo di sentire empatico
Annibale Salsa
I Turchi nelle Dolomiti: quando il globale diviene stralocale
Cesare Poppi
.................................
111
Table des matières
Feste tra tradizione e spettacolo ............................................................................. 121
Il caso del Piemonte sud-occidentale
Frederi Arneodo
La dimension ludique dans les fêtes du calendrier humain-bovin .....................131
les batailles de reines spontanées et organisées
Christiane Dunoyer
L’arbre, signe de fête ........................................................................................................... 139
Alexis Bétemps
Venez… dansez… Le bal dans le passé ...............................................................................159
amusement et prohibition
Joseph-César Perrin
Achevé d’imprimer
au mois de novembre 2009
sur les presses de
l’Imprimerie Valdôtaine
Aoste