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L’Italia dei cognomi
L’antroponimia italiana nel quadro mediterraneo
a cura di A. Addobbati,
R. Bizzocchi, G. Salinero
L’Italia dei cognomi : l’antroponimia italiana nel quadro mediterraneo / a cura
di A. Addobbati, R. Bizzocchi, G. Salinero. - Pisa : Pisa university press, 2012
929.42 (22.)
I. Addobbati, Andrea
Cognomi italiani
II. Bizzocchi, Roberto
III. Salinero, Gregorio
1.
CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa
In copertina
Vittore Carpaccio, Commiato degli ambasciatori, Venezia, Gallerie dell’Accademia (particolare)
La pubblicazione è stata realizzata con il finanziamento dell’Università di Pisa al progetto di
ricerca d’Ateneo 2007 “Orgine e storia dei cognomi italiani”.
Le ricerche contenute nel presente volume sono state possibili grazie al sostegno finanziario
dell’Università di Pisa, dell’Université Paris I Panthéon-Sorbonne, e della Universidad de
Extremadura-Cáceres. Ciascun saggio è stato sottoposto a doppio referee anonimo.
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ISBN 978-88-6741-001-9
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Indice
Introduzione
A. Addobbati
7
I. Approcci e strumenti
I cognomi italiani fra società e istituzioni
R. Bizzocchi
15
Recherche de la stabilité et recherches
sur l’instabilité anthroponymique moderne
G. Salinero 39
I cognomi italiani nel Medioevo: un bilancio storiografico
S. Collavini 59
Situación y perspectiva de los estudios de antroponimia
en la España Moderna
R. Sánchez Rubio, I. Testón Núñez 75
I cognomi italiani: un profilo linguistico
C. Marcato 123
I cognomi italiani: un profilo giuridico
E. Spagnesi 137
Les noms de famille lusophones: une lecture anthropologique
J. de Pina-Cabral 155
Anthroponymie et statistique: quelques outils d’analyse
P. Chareille 169
La distribuzione dei cognomi come strumento
per l’analisi sociale: l’esempio della docenza universitaria
P. Rossi 203
Un progetto di analisi statistica dei dati genealogici
relativi a Montecarlo di Lucca in età moderna
S. Nelli, P. Rossi, R. Bizzocchi 209
II. Verifiche
Precocità dell’affermazione del cognome
nel Piemonte medievale
S. Barbero 215
Ego Synibaldus. Per una storia della denominazione
in Sicilia tra medioevo e età moderna. Corleone (1264-1593)
R.L. Foti 231
Denominarsi e distinguersi nella montagna bergamasca.
I cognomi di Castione della Presolana dal XIII al XVI secolo
A. Poloni 305
Il cognome nei registri parrocchiali pre-tridentini
dell’Italia settentrionale e gli effetti del Concilio di Trento
G. Alfani 325
Come mai certi individui non hanno cognome?
Pratiche di registrazione a Venezia attorno al Concilio di Trento
J-F. Chauvard 345
Dal nome al cognome: la metamorfosi dei gruppi di discendenza.
L’esempio dell’Italia meridionale
G. Delille 365
Il cognome in Sardegna: riflessioni storico-linguistiche
S. Pisano 379
“Il costume di esservi famiglie senza cognome”.
Il caso dell’Abruzzo teramano nella prima metà dell’800
F.F. Gallo 399
III. Il caso toscano
Un case-study: Montecarlo in Valdinievole
dal Medioevo all’Ottocento
S. Nelli 425
I cognomi nei registri dei battesimi di Pisa (1457-1557)
I. Puccinelli 441
I cognomi della montagna pistoiese in età moderna
L. Peruzzi
455
Fissazione e trasmissione dei cognomi
in una città nuova (Livorno, XVI-XVII secc.)
C. La Rocca 465
La memoria dei sacramenti. Un nuovo strumento
per l’utilizzo delle registrazioni anagrafico-sacramentali
nel campo dell’onomastica familiare
G. Camerini 487
IV. Minoranze
Per la storia dei cognomi ebraici di formazione italiana
M. Luzzati 497
I nomi di famiglia nelle Valli valdesi
S. Rivoira 511
I cognomi del popolo rom
E. Novi Chavarria 531
L’anthroponymie et les minorités: le cas morisque
B. Vincent 547
Les prénoms de famille:
identifier en milieu xueta (Majorque) au XVIIe siècle
E. Porqueres i Gené
561
Rinominarsi nell’Ottocento e nel Novecento
M. Lenci 574
Abstracts
593
Indice dei nomi
617
Introduzione
Andrea Addobbati
Università di Pisa
La presente raccolta di saggi curata da Roberto Bizzocchi, da Gregorio
Salinero e da chi scrive è uno dei primi risultati di un percorso d’indagine
in linea con le più aggiornate ricerche internazionali in materia
d’antroponimia e storia dell’onomastica, sia per l’impianto metodologico
interdisciplinare, sia per le questioni sollevate intorno all’oggetto
d’indagine, sia per la valutazione dei risultati in un quadro articolato
di comparazioni con le altre realtà dell’Europa latina. Al centro delle
riflessioni del gruppo di ricerca è il problema specifico del cognome, o
nome di famiglia: quando si è formato? E in relazione a quali esigenze?
La sua adozione è stata un’acquisizione definitiva, o ci sono state forme
di denominazione concorrenti che ne hanno limitato e contrastato
l’affermazione? Una serie d’interrogativi su cui si sono cimentati
specialisti di diverse discipline, dai linguisti, cui tradizionalmente
compete il campo dell’onomastica, agli storici e agli antropologi, più
portati ad indagare i contesti economico sociali del fenomeno e tutte le
loro implicazioni culturali, ai giuristi e storici del diritto, ai demografi,
agli esperti di statistica e di genetica. Tenendo presente gli studi condotti
in ambiti linguistici e culturali diversi dal nostro – specie in quello
anglosassone, che vanta in proposito una certa tradizione legata per
lo più agli interessi genealogici della sua storiografia –, gli autori dei
saggi contenuti nel volume hanno innanzi tutto delimitato il campo
d’indagine all’area culturale latina, prestando poi speciale attenzione
all’antroponimia storica dell’Italia, cui sono state dedicate approfondite
indagini documentarie e case studies che rendono quanto mai urgente
una profonda revisione di molti assunti teorici fin qui invalsi. Per
quanto nuove e interessanti, almeno a giudizio di chi scrive, le ricerche
che andiamo presentando non sorgono tuttavia dal nulla, si pongono,
infatti, in prosecuzione ideale di un ben consolidato indirizzo di ricerca,
il quale, senza poter disporre di una massa di dati e di una letteratura
tanto vasta come quella che contraddistingue la tradizione anglosassone,
ha tuttavia al suo attivo due puntualizzazioni teoriche significative nella
8
Andrea Addobbati
cospicua raccolta di studi coordinata da Monique Bourin alla fine degli
anni Ottanta (Genèse médiévale de l’anthroponymie moderne), e nelle
più recenti ricerche del gruppo franco-iberico coordinato da Gregorio
Salinero (Un juego de engaños, 2010). Entrambi questi contributi, e in
particolare il secondo, ripensando i processi di cognominazione alla
luce dei fenomeni migratori, hanno messo fortemente in discussione
l’idea di una sostanziale stabilità antroponimica nel corso del tempo,
che, solitamente tenuta per presupposto, aveva indotto ad esempio i
genetisti a identificare nel cognome un marcatore tutto sommato non
problematico dell’eredità genetica.
La proposta di Roberto Bizzocchi d’indagare in maniera sistematica e
interdisciplinare la questione del nome di famiglia data da diversi anni,
ma è solo nel 2008 che un primo gruppo di studiosi, in gran parte giovani,
ha potuto raccogliere la sfida. Ottenuto un finanziamento dall’Università
di Pisa, il gruppo ha potuto iniziare le sue ricerche aggregando diversi
altri colleghi italiani. In un secondo tempo, avvertendo la necessità di
un confronto con gli studi condotti in altri ambiti nazionali, il gruppo
italiano ha avviato un proficuo rapporto di collaborazione con «Mobilité
et Anthroponymie», il sopra ricordato gruppo di specialisti coordinato da
Salinero e formato da studiosi e ricercatori dell’Università di Extremadura,
dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dell’École
Française di Roma e infine dell’Università Parigi I - Sorbonne, che ha
ritenuto di partecipare al progetto pisano, sia sul piano scientifico, sia
condividendone gli oneri.
La collaborazione internazionale ha permesso di fare il punto sullo
stato della ricerca italiana, e di raffrontarla con i problemi incontrati
dai ricercatori che operano in Francia e in Spagna. L’acquisizione più
rilevante dal punto di vista della costruzione di un quadro teorico relativo
al caso italiano è stata la presa d’atto di una spiccata indeterminatezza
del processo di diffusione e fissazione del cognome, se paragonato a
quel che avviene nel resto dell’Europa latina, e anche di una profonda
frattura, almeno dal punto di vista delle evidenze documentarie, tra
l’Italia Settentrionale e quella Centrale. Nel Mezzogiorno, nonostante la
ricerca in questo caso non disponga ancora di dati sufficienti, l’avvento
del cognome sembra che abbia seguito una periodizzazione più in linea
con quella riscontrata al Nord. Le diversità regionali appaiono quindi
piuttosto marcate, con una precocità della fissazione ereditaria a Venezia,
nelle aree urbane della Lombardia padana e anche in Piemonte dove la
generalizzazione dell’uso del cognome pare aver preso le mosse già nel
Introduzione
9
XIII secolo, per affermarsi completamente agli inizi del XVII, in un’epoca
in cui le popolazioni dell’Italia Centrale (Toscana, Marche, Romagna,
Abruzzi) sono invece ben lontane da questo cambiamento antroponimico.
Al centro della Penisola, infatti, specie nelle aree rurali, permangono
per buona parte dell’Età Moderna, e spesso sono prevalenti, forme
d’identificazione alternative, ottenute affiancando al nome di battesimo
specificazioni patronimiche, toponomastiche, soprannomi, indicazioni
di mestieri e appellativi diversi, che se in alcuni casi possono assolvere
la stessa funzione del cognome, e designare il lignaggio d’appartenenza,
non sono però ancora divenute delle designazioni stabili e ereditarie. La
spiegazione di questo “ritardo” pare che debba essere ricondotta ad un
concorso di cause, da una parte alla prassi amministrativa, più omogenea
e uniforme al Nord, ma dall’altra alla dialettica infracomunitaria, che
assume diversa strutturazione a seconda delle modalità di insediamento sul
territorio, del particolare regime della proprietà, delle varie articolazioni
economico-sociali, favorendo quelle forme di auto-rappresentazione
dell’individuo più appropriate al contesto in cui devono essere spese.
D’altra parte, le designazioni alternative non sono di per sé motivo
sufficiente per supporre che le regioni che ne sono interessate vadano
del tutto esenti da forme cognominali. Si deve invece pensare, nella
maggioranza dei casi, al fenomeno della «evanescenza documentaria» del
cognome, il quale, lungi dall’essere l’elemento cardine, di uso universale
in ogni procedimento d’identificazione – come dimostra eloquentemente
la persistente prassi burocratica di indicizzare i repertori di cancelleria al
nome di battesimo – è solo uno dei molti elementi connotativi del nome,
più utile per alcune funzioni civili, e molto meno per altre.
La riconsiderazione del cognome, inteso d’ora in poi come una
designazione familiare suscettibile di modificazioni, di connotazioni che
lo specificano – e spesso lo soppiantano –, e la cui ereditarietà resta esposta
alle vicissitudini storiche della famiglia – come il genotipo alla mutazione
di un gene –, ha introdotto, con gli studi di cui si discorre, una nuova
visione dei processi di cognominazione. Le stesse apparizioni storicodocumentarie di sistemi cognominali alternativi non possono più essere
interpretate come le spie di stadi evolutivi qualitativamente differenti
all’interno di un processo tutto sommato unitario e coerente, i cui esiti
siano già compiuti, e in maniera irreversibile, verso la fine del Medioevo.
Né possono essere spiegate in maniera semplicistica addebitandole alla
negligenza e trascuratezza degli ufficiali, ecclesiastici o secolari, preposti
all’identificazione; aspetto che pure occorre rilevare e tenere presente,
10
Andrea Addobbati
ma che rimanda piuttosto ad un’incertezza di ordine relazionale che
chiede di essere spiegata, e non ad una circostanza accidentale e in fondo
ininfluente rispetto alla “fatale” omologazione delle procedure.
Dalle molte ricerche contenute nel volume, e specie dalle indagini
microstoriche che focalizzano l’attenzione su alcune piccole comunità
(Montecarlo di Lucca, Castione della Presolana, Corleone, la Montagna
Pistoiese ecc.) il nome di famiglia acquista, in una prospettiva diacronica
di lungo periodo, le sembianze di un proteo, le cui metamorfosi presentano
una casistica tanto varia quanto gli eventi che le suscitano, legati alla
vita economica e sociale, alle ripartizioni delle proprietà, alla loro
trasmissione ereditaria, alle tipologie d’insediamento, alle migrazioni ecc.
Il cognome rimane esposto, in alcune aree più a lungo (Italia Centrale),
in altre meno (Italia Settentrionale), a ricorrenti manipolazioni per opera
degli attori che se ne avvalgono, ma che più spesso di quanto non si creda,
possono anche decidere, pur possedendone uno, di farne a meno, e di
non usarlo, preferendogli magari designazioni alternative ritenute più
cogenti e pertinenti all’interno di un dato contesto comunitario, come
i patronimici, le appartenenze di mestiere, gli appellativi, i soprannomi
ecc. La fissazione dell’odierno sistema cognominale non è, allora, il
rispecchiamento “fenotipico” del retaggio genetico di famiglie e parentele,
né l’esito naturale e spontaneo dell’ovvia esigenza di disambiguazione delle
identità sociali, impostosi per di più in un arco di tempo relativamente
breve, ma è il frutto invece di un faticoso processo iniziato nel Medioevo
e protrattosi per buona parte dell’Età Moderna, nel corso della quale,
poi, furono soprattutto le istanze disciplinatrici delle istituzioni, dal
censimento delle anime della Controriforma, al governo dei corpi dello
stato moderno, ad imprimere finalmente una fissità burocratica all’uso,
troppo spesso instabile ed evanescente, delle designazioni familiari.
È qui, nella dialettica società-istituzioni, l’altro polo problematico
su cui si appuntano le analisi di diversi contributi contenuti nel
volume. Le anagrafi sacramentali – gli stati delle anime e i libri di
battesimo, matrimonio e sepolture – permettono di riconnettere le
oscillazioni semantiche del cognome alle ramificazioni genealogiche
e alle modificazioni del contesto economico sociale in cui il lignaggio
è storicamente radicato, ma non sono registrazioni che fotografano
fedelmente una realtà, e per quanto siano istituzionalmente controllate,
risentono in qualche misura della personalità del registrante, il quale può
interpretare il suo ruolo in maniera più o meno aderente a quelle che sono
le intenzioni dell’istituzione che rappresenta. Questo “soggettivismo”
Introduzione
11
amministrativo, di cui nel volume si forniscono numerose riprove, è
particolarmente marcato tra i ministri del culto almeno fino al Settecento
inoltrato, e se da una parte può far da velo alle consuetudini onomastiche
che in qualche modo la Chiesa intende di rappresentare, dall’altra è
una buona cartina tornasole della dialettica centro-periferia in ordine
al problema delle identificazioni. Il fatto è che il parroco non è un vero
funzionario, capace cioè di prendere le distanze dalla società, e di farsi
anonimo interprete delle istituzioni; è invece una figura mediatrice situata
su un confine: un amministratore periferico della struttura ecclesiale
post-tridentina, e nello stesso tempo è l’espressione di una data comunità
all’interno dell’istituzione. E questo significa che delle due funzioni riunite
in una medesima persona può prevalere al momento delle registrazioni, e
a seconda dei casi, ora l’una ora l’altra, mescolando, nello stesso genere di
fonti, linguaggi e logiche onomastiche differenti, ora più comunitarie, ora
più istituzionali. Questa circostanza, se da una parte deve rendere cauto
il ricercatore sul significato da attribuire alle discontinuità onomastiche,
che devono perciò essere comprovate da uno spettro ampio di fonti
documentarie di diversa natura – ed ecco ancora riemergere l’importanza
strategica della microanalisi –, dall’altra è la migliore testimonianza della
persistente compresenza di sistemi onomastici concorrenti, e del debole
apporto performativo della Chiesa cattolica riguardo alla fissazione dei
nomi di famiglia.
I provvedimenti anagrafici approvati dal Concilio allo scopo di
garantire una più attenta cura delle anime e l’accertamento delle cause
impedenti le unioni matrimoniali sono stati fin qui identificati come il
principale point tournant antroponimico dell’Età Moderna, per il semplice
fatto di aver presupposto come paradigma dell’identità civile e religiosa il
sistema “nome di battesimo + nome del casato, o della famiglia”. E non c’è
alcun dubbio che nelle istruzioni diramate ai ministri del culto incaricati
delle anagrafi sacramentali s’insistesse su questo punto. D’altra parte,
una simile periodizzazione non regge del tutto al vaglio della critica.
Se le grandezze statistiche ricavabili dagli atti anagrafici sacramentali
sembrerebbero confermare l’idea di una generalizzazione del cognome
in Italia entro la prima metà del ’600, le ricostruzioni genealogiche,
come quella di Nelli per Montecarlo, e le molte attestazioni onomastiche
contenute nelle più diverse fonti documentarie, compresi gli atti aventi
valore legale, ci mostrano invece un mondo molto meno omogeneo,
caratterizzato da una persistente instabilità del cognome e da un’inattesa
vitalità delle designazioni alternative. La ricognizione anagrafica
12
Andrea Addobbati
promossa dal Concilio, pur importantissima per la canonizzazione del
paradigma, parrebbe troppo invischiata nelle logiche comunitarie per
svolgere quell’azione così incisiva che normalmente gli è attribuita. Per
vincere l’inerzia delle designazioni alternative sarebbe stato necessario un
personale burocratico più disciplinato, e anche diversamente motivato,
perché d’altra parte è chiaro che gli intendimenti della Chiesa posttridentina, relativamente al controllo anagrafico sulla popolazione,
furono molto diversi e molto distanti dalla forte volontà razionalizzatrice
delle burocrazie statali dell’800. La politica anagrafica dello stato
post-rivoluzionario, a differenza di quella tradizionale ecclesiastica,
non concederà, infatti, alcun margine di negoziazione in materia
d’identificazione degli individui. Tutto il suo rigore poliziesco sarà ben
esemplificato dal formulario a stampa, un ritrovato tanto semplice
quanto drastico, capace di ridurre l’arbitrio interpretativo, imprimendo
così regolarità a tutta l’azione amministrativa. Alle molte ambiguità
onomastiche dell’Antico Regime i nuovi formulari della burocrazia
napoleonica non riservarono alcuna casella.
I
Approcci e strumenti
I cognomi italiani fra società e istituzioni
Roberto Bizzocchi
Università di Pisa
Introducendo nel 1978 il suo Dizionario dei cognomi italiani, Emidio
De Felice sottolineava in modo categorico la natura principalmente
linguistica di ogni indagine onomastica1. L’affermazione, in sé difficilmente
contestabile, trova riscontro nel fatto che, per esempio, anche nel paese
straniero tradizionalmente a noi più vicino sul piano culturale, la Francia,
sia stato un eminente linguista a produrre il libro di sintesi cui si fa tuttora
riferimento per i cognomi2. E riceve comunque conferma dall’ammirevole
qualità e abbondanza del lavoro che i linguisti italiani hanno continuato
a fare durante gli ultimi decenni nel campo dell’onomastica, e più
particolarmente dell’antroponomastica. Mi limiterò qui a ricordare la
realizzazione di due opere monumentali: i due recenti dizionari dei nomi
e dei cognomi; la pubblicazione di due agili e preziose sintesi introduttive
alla materia, utili anche per le indicazioni bibliografiche che contengono;
infine l’esistenza, dal 1995, di una rivista che svolge bene il compito di
promuovere nuove ricerche e informare a tappeto su quelle concluse o in
corso sia in Italia che all’estero3.
1
E. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, Milano, Mondadori, 1978, p. 9. Lo
stesso De Felice pubblicò due anni più tardi un’importante ricerca, contenente molte
notevoli, anche se non sempre condivisibili, valutazioni di carattere storico: I cognomi
italiani. Rilevamenti quantitativi dagli elenchi telefonici: informazioni socio-economiche
e culturali, onomastiche e linguistiche, Bologna, il Mulino e Torino, Seat, 1980.
2
Mi riferisco al libro di A. Dauzat, Traité d’anthroponymie française. Les noms de
famille en France, Paris, Payot, 19492, che mostra comunque una buona attenzione ai
contesti storici e alla natura storica delle fonti usate dai linguisti.
3
I dizionari: A. Rossebastiano, E. Papa, I nomi di persona in Italia: dizionario storico
ed etimologico, 2 voll., Torino, Utet, 2005; E. Caffarelli, C. Marcato, I cognomi d’Italia:
dizionario storico ed etimologico, 2 voll., Torino, Utet, 2008. Le sintesi: G. Raimondi, L.
Revelli, E. Papa, L’antroponomastica: elementi di metodo, Torino, Libreria Stampatori,
2005; C. Marcato, Nomi di persona, nomi di luogo. Introduzione all’onomastica italiana,
Bologna, il Mulino, 2009. La rivista, che ovviamente è aperta ai contributi dei non
linguisti, è “Rivista Italiana di Onomastica” (RIOn).
16
Roberto Bizzocchi
Con tutto questo, è chiaro – e i colleghi linguisti sono i primi a saperlo
– che l’antroponimia presenta anche un aspetto storico di fondamentale
rilievo; e ciò non solo per il carattere storico della maggior parte delle
fonti che permettono di studiarla, ma anche perché la storia della
denominazione è una componente significativa della storia in generale.
Qui non posso entrare nel merito della decisiva svolta impressa già verso
metà Settecento agli studi antroponomastici italiani da due memorabili
dissertazioni di Ludovico Antonio Muratori, rispettivamente sui nomi e
soprannomi la prima, sui cognomi la seconda, le quali richiederebbero,
anche per alcune loro feconde incongruenze, un approfondito discorso
a sé4. Per partire da tempi a noi più vicini, occorre tener presente
che il rapporto fra identità e nome è stato ed è uno dei grandi temi
dell’antropologia e dell’antropologia storica, fin dalle pagine famose di
Lévi-Strauss nel Pensiero selvaggio sul processo di denominazione come
parte di un sistema di categorizzazione sociale5. La bibliografia storica
sui nomi (termine che, per chiarezza, d’ora in avanti userò solo in senso
generico, distinguendo al caso fra prenomi, cognomi, soprannomi)
è ormai imponente. Senza presumere nemmeno di toccarne tutte le
tendenze principali, accennerò ora rapidamente ad alcuni orientamenti di
fondo, che costituiscono il quadro col quale abbiamo confrontato i lavori
del gruppo di ricerca di cui presentiamo qui i primi risultati.
Gli sviluppi dell’impostazione socio-antropologica e antropologicoculturale del tema sono numerosi e di grande interesse. Oltre che la
questione basilare del rapporto fra nome e identità, essi riguardano
fra l’altro il nesso con le strutture sociali comunitarie, coi cicli di
sviluppo familiare e coi diversi sistemi di trasmissione dei patrimoni6;
le implicazioni affettive, religiose, politiche e mediatiche della scelta del
prenome7; le vicende delicate, spesso dolorose, dei cambiamenti di nome
4
L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, tomo III, Milano, Tipografia della
Società Palatina, 1740, dissertazioni 41 e 42.
5
Per un aggiornamento, vedi T. Russo, Sistemi antroponimici e identità personale:
appunti sulla semantica dei nomi propri di persona, “Rivista Italiana di Onomastica”,
VIII (2002-1), pp. 29-57.
6
I sistemi di denominazione nelle società europee e i cicli di sviluppo familiare =
“L’Uomo”, VII (1983), 1-2; Name and social structure. Examples from Southeast Europe,
ed. by P.H. Stahl, Columbia University Press, 1998; Name und Gesellschaft. Soziale und
historische Aspekte der Namengebung und Namenentwicklung, hrsg. von J. Eichhoff, W.
Seibicke und M. Wolffsohn, Mannheim, Leipzig, Wien, Zürich, Dudenverlag, 2001.
7
Le prénom. Mode et histoire, Recueil de contributions préparé par J. Dupâquier, A.
I cognomi italiani fra società e istituzioni
17
imposti e variamente subiti e accettati da gruppi e persone appartenenti
alle minoranze, e per contro le novità introdotte nella disciplina dei
cognomi in seguito alla promulgazione recente di leggi liberali nei paesi
occidentali8; la duttile disponibilità del soprannome nel sopperire alle
funzioni di definizione e indicazione perse col processo di inevitabile
desemantizzazione di nomi e cognomi9. Non mancano neppure ambiziosi
tentativi di sintesi10.
Un asse portante della ricerca onomastica è stato ovviamente quello del
legame con la storia della famiglia. Il legame concerne anche la casistica
della scelta dei prenomi: segnalo, fra tante altre che lo dimostrano, una
ricerca dedicata all’isola di Procida, notevole per la sensibilità con cui
mette in rilievo l’elemento femminile in un gioco di denominazioni in
cui la stessa devozione per i santi più venerati si combina e si accorda
con la fedeltà ai tradizionali prenomi familiari11. Quanto agli studi sui
cognomi, il comprensibile dominio esercitatovi dall’orizzonte della storia
della famiglia è stato così forte ed esclusivo da arrivare a produrre una
quasi totale sovrapposizione delle due aree. Come esempio limite, ma
rappresentativo, si può indicare quello della storiografia britannica sul
tema, la quale, nell’ottica di una solida e attendibile pratica di storia
locale, può arrivare a proporre la storia dei cognomi come via maestra per
la ricostruzione genealogica e araldica delle origini12.
Rispetto a una tale linea di ricerca, e più in generale alla tendenza
all’identificazione fra nome e famiglia, che è anche spesso presupposizione
Bideau, M-E. Ducreux, Paris, Editions de l’EHESS, 1984; E. De Felice, Nomi e cultura.
Riflessi della cultura italiana dell’Ottocento e del Novecento, Venezia, Marsilio, 1987; S.
Pivato, Il nome e la storia. Onomastica e religioni politiche nell’Italia contemporanea,
Bologna, il Mulino, 1999.
8
N. Lapierre, Changer de nom (1995), Paris, Gallimard, 2006; Le Nom dans les sociétés
occidentales contemporaines, dirigé par A. Fine et F-R. Ouellette, Toulouse, Presses
Universitaires du Mirail, 2005; V. Feschet, La transmission du nom de famille en Europe
occidentale (fin XXe-début XXIe siècles), in “L’Homme”, CLXIX (2004), pp. 61-88.
9
I. Putzu, Il soprannome. Per uno studio multidisciplinare della denominazione,
Cagliari, CUEC, 2000.
10
M. Mitterauer, Antenati e santi. L’imposizione del nome nella storia europea (1993),
trad. it. Torino, Einaudi, 2001; S. Wilson, The means of naming. A social and cultural
history of personal naming in western Europe, London and New York, Routledge, 1998.
11
G. Palumbo, L’esile traccia del nome. Storie di donne, storie di famiglie in un’isola del
Napoletano fra età moderna e contemporanea, Napoli, Liguori, 2001.
12
D. Hey, Family names and family history (2000), London, Hambledon Continuum,
2007.
18
Roberto Bizzocchi
della stabilità del nome (specialmente del cognome), va accolta senza
dubbio con favore l’innovazione, vivacemente consapevole di esserlo,
rappresentata dal lavoro di un agguerrito gruppo di studiosi, soprattutto
franco-spagnoli, ora concretizzata in una cospicua e ricca raccolta di saggi
riuniti e commentati da Gregorio Salinero, Isabel Testón Núñez e Bernard
Vincent13. L’esperienza di ricerca sull’emigrazione dall’Europa al Nuovo
Mondo, sulla deportazione dei moriscos, sulle schiavitù mediterranee, e su
altre forme ancora di mobilità di popolazioni nel corso dell’età moderna,
che è quella cruciale per la formazione dei cognomi, hanno indotto
questi studiosi a mettere in discussione la validità di un modello lineare
di origine e fissazione del nome di famiglia e a rivendicare con forza
l’irriducibilità di un’identità personale a una coppia onomastica stabile
composta di prenome e cognome. L’orizzonte prevalentemente atlantico
o almeno mediterraneo del gruppo in questione è stato evidentemente
decisivo nell’ispirare ai colleghi franco-spagnoli un’attenzione particolare
al tema dell’instabilità e del cambiamento; ma è pur vero che l’elemento
della mobilità e delle migrazioni è importante anche nelle storie della
maggior parte delle comunità urbane e anche rurali d’Italia e d’Europa.
A noi, come gruppo coalizzatosi in prima battuta nel corso del 2008
fra vari Dipartimenti dell’Università di Pisa, è parso subito chiaro che
sarebbe stato utile confrontare il nostro lavoro con quello dei colleghi di
cui ho appena scritto. Per questa ragione, e per la prontezza con cui essi
hanno raccolto il nostro invito (così come noi abbiamo fatto discutendo
con loro in occasione del seminario, tenuto nello stesso 2008 a Madrid,
che fu all’origine del loro volume), la presente silloge di studi accoglie
anche i loro preziosi contributi, che non si limitano ad offrire uno sfondo
più ampio alle nostre ricerche italiane, ma suggeriscono con queste
ultime un dialogo serrato, che andrà di certo approfondito ma appare già
ben impostato. Gregorio Salinero ha sintetizzato per noi con chiarezza ed
efficacia le linee direttive del loro progetto. João de Pina-Cabral e Enric
Porqueres ci hanno aiutato a mantenerci in contatto con la complessità
delle implicazioni antropologiche della nostra problematica storiografica.
Bernard Vincent ha mostrato un istruttivo caso concreto di resistenze,
modificazioni e recuperi di prenomi e cognomi arabi di moriscos incalzati
dalla pressione onomastica cristiana spagnola. Rocío Sánchez Rubio e
Un juego de engaños. Movilidad, nombres y apellidos en los siglos XV a XVIII,
Estudios reunidos y presentados por G. Salinero e I. Testón Núñez, Madrid, Casa de
Velázquez, 2010 (introduzione e conclusioni a pp. 9-26, 313-319).
13
I cognomi italiani fra società e istituzioni
19
Isabel Testón Núñez si sono impegnate in un’ampia ed esaustiva sintesi
di studi sull’antroponimia spagnola d’età moderna che costituisce e
costituirà un utilissimo termine di paragone per la ricerca italiana.
Rispetto alla varietà e pluralità di tali stimoli, il nostro progetto
italiano presenta un suo ben definito centro d’interesse, che credo valga
la pena mantenere attraverso le maturazioni e i raffinamenti che – spero
di poter affermare – lo hanno migliorato in corso d’opera. Provo a definire
tale centro col seguente interrogativo: come e quando si afferma e che
cosa significa il cognome per una persona e per una famiglia, all’interno
di una (o appunto, in caso di mobilità, di più di una) comunità, e
inoltre in rapporto alle interazioni con le ramificazioni delle burocrazie
ecclesiastiche e civili. Anche nella sola prospettiva della storia dello Stato
moderno – una prospettiva tutt’altro che trascurabile, e del resto tutt’altro
che trascurata nella pratica storiografica italiana – il tema appare
così importante da domandarsi perché finora sia stato relativamente
poco studiato. Oggi gli Stati dispongono di mezzi tecnici raffinati per
riconoscere e controllare gli individui: una disponibilità di cui si può anche
cercare di rintracciare i più rudimentali precedenti indietro nel tempo
fino addirittura agli ultimi secoli del Medioevo14. Ma per molto tempo
anche un mezzo aleatorio quale quello onomastico è stato chiamato a
svolgere un ruolo identificativo, e precisamente poliziesco, centrale. Basti
sapere che ancora Jeremy Bentham pensava di impostare la ricognizione
individuale necessaria alla prevenzione dei crimini sulla base di una sorta
di minuziosamente personalizzato panopticon onomastico, così che –
come scriveva – “in a whole nation, every individual should have a proper
name, which should belong to him alone”15.
Naturalmente non c’è solo questo. La storia dei cognomi è interessante
prima di tutto a livello locale come una traccia e un aspetto delle
configurazioni dei rapporti fra le persone e le famiglie. Al di là del
V. Groebner, Storia dell’identità personale e della sua certificazione. Scheda segnaletica,
documento di identità e controllo nell’Europa moderna (2004), Bellinzona, Casagrande,
2008. Due esempi notevoli di trattazione delle importanti implicazioni politicheideologiche del tema in epoche più recenti: V. Denis, Une histoire de l’identité. France,
1715-1815, Seyssel, Champ Vallon, 2008; P. Piazza, Histoire de la carte nationale
d’identité, Paris, Odile Jacob, 2004.
15
J. Bentham, Works, published under the superintendence of his executor John
Bowring, vol. I, Edinburgh, William Tait, 1938, p. 557. Un’approfondita analisi della
vicenda francese in A. Lefebvre-Teillard, Le nom. Droit et histoire, Presses Universitaires
de France, 1990.
14
20
Roberto Bizzocchi
dato più ovvio – e per altro forse da non enfatizzare – della difficoltà di
disambiguazione dopo il fenomeno medievale di riduzione dello stock
dei prenomi, l’uso di un cognome, o soprannome, o secondo nome
poteva anche assumere la funzione di segmentare e distinguere linee di
discendenza delimitate all’interno di una parentela più estesa. Non occorre
poi insistere sul valore culturale e simbolico dell’autoriconoscimento
sotto uno stesso nome da parte dei membri di un casato nobiliare e
dei contitolari di una giurisdizione territoriale o di un titolo feudale. In
Italia, o almeno in gran parte d’Italia, l’azione politica e amministrativa
dei Comuni ha certo avuto un’influenza importante nella dinamica di
formazione dei cognomi; ma, come già avvertiva il primo grande studio
in materia, dedicato alla Bologna del Duecento, quella dinamica non
era alimentata solo dall’intraprendenza amministrativa della burocrazia
pubblica e dalla funzione documentaria dei notai16.
Per quanto riguarda la storia italiana del basso Medio Evo, fino,
appunto, grosso modo all’età comunale e alla vigilia della costituzione
dei premoderni Stati territoriali, o regionali che dir si voglia, le nostre
conoscenze onomastiche sono in realtà maggiori – benché tutt’altro che
esaurienti – di quel che non siano per i secoli fra Quattro e Settecento.
Lo dobbiamo essenzialmente al fatto che l’Italia è rientrata ampiamente
come oggetto d’indagine di una monumentale e più che meritoria
iniziativa condotta a livello europeo a partire dalla fine degli anni
Ottanta sotto la guida della storica francese Monique Bourin: la Genèse
médiévale de l’anthroponymie moderne. Non mi diffondo a descriverla,
per due motivi. Il primo è che un altro dei nostri colleghi stranieri non
specialisti di storia italiana aggiuntisi al nostro gruppo, Pascal Chareille,
il quale è anche uno dei protagonisti di quell’iniziativa, ne parla in
apertura del saggio che ci ha offerto per questo volume, dove mostra poi
un’esemplificazione interessante delle potenzialità della statistica nello
studio dell’antroponimia: fra l’altro – vi ho accennato appena qui sopra
– proponendo la revisione dell’idea tradizionale sulla diminuzione del
numero dei prenomi come principale causa scatenante della diffusione
dei cognomi nell’Europa medievale (il suo riferimento documentario è qui
al cartulario dell’abbazia di Cluny fra 802 e 1026). Il secondo è che sempre
in questo volume possiamo pubblicare un saggio di Simone Collavini che
comprende una sintesi limpida e un acuto ripensamento complessivo dei
A. Gaudenzi, Sulla storia del cognome a Bologna nel secolo XIII, in “Bullettino
dell’Istituto Storico Italiano”, XIX (1898), pp. 1-163.
16
I cognomi italiani fra società e istituzioni
21
notevolissimi risultati raggiunti nei quattro volumi italiani prodotti dal
gruppo coordinato da Monique Bourin. Ci ritornerò fra poco.
Molto meno esplorata è rimasta finora l’epoca moderna, la quale
tuttavia, pur sulla base della gestazione e dell’elaborazione medievali
del patrimonio e degli usi onomastici, presenta non minori motivi
d’interesse, a cominciare dalla decisiva questione del coinvolgimento
delle masse popolari nel processo di formazione e soprattutto fissazione
– che non è la stessa cosa – del cognome. Prima di entrare, al proposito,
nel merito delle problematiche definite, degli aspetti del tema affrontati,
e dei risultati ottenuti e da ottenere, è opportuno spiegare le coordinate
pratico-economiche e procedurali entro le quali è stato possibile pensare
e realizzare il nostro lavoro: coordinate che ne hanno fortemente
influenzato – occorre davvero insistervi nel presentarlo? – le linee di
percorso e gli esiti.
L’occasione per concretizzare un progetto che avevamo già in mente
e già in parte discusso, fra storici e cultori di altre discipline, ci si è
presentata grazie a un finanziamento biennale per la ricerca erogato
nel 2008 dall’Università di Pisa nell’ambito di un’iniziativa promossa
dall’allora rettore Marco Pasquali con l’obiettivo particolare di sostenere
la ricerca dei giovani impegnati in rapporti di lavoro non strutturati con
l’Università, e di incoraggiare la collaborazione fra Dipartimenti diversi e
anche aree scientifiche non contigue.
L’occasione non era affatto pretestuosa, perché il progetto che stavamo
maturando corrispondeva già naturalmente alle due caratteristiche
salienti previste dal bando. In primo luogo, esso non era neppure
concepibile senza il contributo d’intelligenza, entusiasmo e disponibilità
di colleghi giovani, sia quelli componenti l’originario manipolo pisano, sia
gli altri che lo hanno poi arricchito, ai quali tutti va riconosciuto il merito
principale del successo nel completamento dell’impresa. Secondariamente,
il progetto coinvolgeva già, oltre ai colleghi storici Andrea Addobbati, che
vi ha svolto un ruolo intellettuale, prima ancora che organizzativo, a dir
poco trainante, e Michele Luzzati, che ha messo a disposizione la sua
consolidata esperienza poi riversata qui nel volume in un saggio di sintesi
sui cognomi ebraici, anche, ovviamente, colleghi linguisti, quali Maria
Giovanna Arcamone, decana degli studi onomastici italiani, e Franco
Fanciullo, insostituibile per la sua competenza dialettologica, nonché lo
storico del diritto Enrico Spagnesi, accreditato specialista – fra l’altro –
proprio del tema della disciplina giuridica del nome. Al pari di Luzzati,
per questo volume Spagnesi ha utilmente ripreso e sintetizzato per noi
22
Roberto Bizzocchi
i suoi precedenti studi in materia; mentre la mediazione dei colleghi
Arcamone e Fanciullo ci ha permesso di ottenere sia una collaborazione
simile sul piano linguistico da parte di Carla Marcato, sia un saggio
nuovo di ricerca da parte di uno dei giovani del gruppo, Simone Pisano, il
quale non si è limitato a ricostruire con sicurezza le varie componenti del
patrimonio lessicale dei cognomi della Sardegna, ma è stato anche attento
a segnalare le peculiarità socioantroponimiche dell’isola, specie nell’uso
dei soprannomi e nella perdurante competizione fra linee di trasmissione
patronimica e matronimica.
Due parole in più richiede la spiegazione della collaborazione fornitaci
dall’unico scienziato facente parte del nostro gruppo – parte integrante
e irrinunciabile, fin dall’inizio – il fisico, esperto di statistica e da
tempo anche storico a pieno titolo Paolo Rossi, il quale ci ha introdotto
in una dimensione per noi nuova. Da qualche decennio i genetisti
hanno individuato nel cognome patronimico un marcatore del grado
di consanguineità in molti gruppi umani, in quanto esso si trasmette
da una generazione all’altra come il cromosoma y. Più in particolare,
con la consanguineità è stato messo in rapporto matematico, attraverso
calcoli tecnicamente sofisticati, il dato dell’isonimia matrimoniale, cioè
della percentuale dei matrimoni fra coniugi portanti lo stesso cognome.
Il vantaggio che la ricerca genetica può trarre dall’utilizzo di banche
dati facilmente disponibili (almeno per le epoche più recenti e per
quella attuale) rispetto ai tempi e agli oneri di campagne di prelievi in
laboratorio appare evidente17.
Con Rossi abbiamo discusso a lungo e approfonditamente due
questioni. Da una parte, c’è da affrontare la possibile incidenza di fattori
in senso lato storici (omonimia, adulterio, pratiche di registrazione e
Il libro di riferimento in materia resta quello di G.W. Lasker, Surnames and genetics
structure, Cambridge UP, 1985. Una ricca bibliografia aggiornata al 2003, con cospicua
presenza dell’area italiana, in S. Colantonio, G.W. Lasker, B.A. Kaplan, V. Fuster, Use
of surname models in human population biology: a review of recent developments,
in “Human Biology”, LXXV (2003), 6, pp. 785-807. Nel sito di Paolo Rossi presso
la Facoltà di Scienze (di cui è ora Preside) dell’Università di Pisa, sono disponibili,
fra l’altro, alcuni saggi e dispense pensati appositamente per rendere abbordabili
agli storici i risultati di questo ramo della ricerca genetistica. Aggiungo qui che è di
recentissima pubblicazione un libro che fa appello alle tecniche della genetica per
corroborare una tendenza specificamente britannica, cui ho già fatto cenno, a usare i
cognomi come disvelatori di ceppi e zone d’origine: G. Redmonds, T. King, and D. Hey,
Surnames, DNA, and Family History, Oxford UP, 2011.
17
I cognomi italiani fra società e istituzioni
23
trascrizione, e quant’altro) sulla risultanza astratta del rapporto cognome/
gene: un problema che del resto gli stessi genetisti si sono già posti per
conto loro, specie nei casi in cui l’alleanza con qualche collega storico
o antropologo ha risparmiato al loro buon senso il rischio di essere
lasciato a combattere da solo contro l’irriducibilità del mondo alla
disciplina della ragione scientifica18. Dall’altra parte, ci siamo soprattutto
confrontati sulle potenzialità dell’utilizzo di tecniche statistiche raffinate
per valorizzare al massimo le nostre serie di dati storico-onomastici, che
di solito ci accontentiamo di raccogliere in tabelle costruite in modo
alquanto rudimentale, mentre un loro pieno sfruttamento aprirebbe la via
a progressi significativi nel campo della ricerca socio-demografica: per lo
studio delle provenienze, dei movimenti migratori, delle differenziazioni
interne alle discendenze familiari.
Non siamo certo noi ad aver scoperto l’esistenza di questa possibile
e auspicabile collaborazione interdisciplinare19. E in effetti una parte
consistente della già immensa letteratura genetico-isonimica pare meno
aggirarsi intorno a problematiche inerenti alle conseguenze biologicosanitarie della consanguineità o comunque all’attendibilità del dato
isonimico in genetica, che rispondere a interrogativi schiettamente
sociologici: cosa ci dicono, per esempio, gli elenchi telefonici in merito
all’isolamento delle comunità in rapporto alla conformazione territoriale
e al ruolo delle vie di comunicazione? O in merito al rapporto fra offerta
di manodopera e immigrazione, insediamento e turismo, e così via?
C’è la possibilità di un lavoro enorme da svolgere, il cui interesse sarà
proporzionale all’inventiva e alla finezza con cui, anche cercando di
rimontare il più possibile indietro nel tempo, sapremo porre alle nostre
documentazioni le domande storiche meno prevedibili e più intriganti.
In questo volume Paolo Rossi è presente con due contributi. In
uno interviene con un suo istruttivo calcolo statistico in un dibattito,
quello sul nepotismo accademico, troppo spesso sciaguratamente
condotto in base a pregiudizi emotivi e ostilità ideologiche. Nell’altro
ci ha aiutato ad impostare una ricerca i cui risultati ci proponiamo
di pubblicare a parte in un prossimo futuro. Si tratta, per l’appunto,
Cito l’esempio più esplicito a mia conoscenza: K.M. Weiss, R. Chakraborty, A.V.
Buchanan, R.J. Schwartz, Mutations in names: implications for assessing identity by
descent from historical records, in “Human Biology”, LV (1983), 2, pp. 313-322.
19
Ad esempio: Le patronyme. Histoire, anthropologie, société, ouvrage dirigé par
G. Brunet, P. Darlu, G. Zei, Paris, Editions CNRS, 2001; P. Darlu, Patronymes et
démographie historique, in “Annales de Démographie Historique” (2004), 2, pp. 53-65.
18
24
Roberto Bizzocchi
dell’utilizzazione quantitativa, previa informatizzazione, di una raccolta
di dati demografico-onomastici che non esito a definire monumentale:
oltre 200.000 attestazioni ‘cognominali’ (in senso lato) per la comunità di
Montecarlo in Val di Nievole dalla prima metà del Cinquecento al 1900.
L’autore, lungo quasi un quarantennio, di questa spettacolare impresa,
il montecarlese, funzionario dell’Archivio di Stato di Lucca, Sergio Nelli
pubblica al proposito nel volume un saggio su cui tornerò per l’importanza
fondamentale di alcune altre questioni che pone e chiarisce. Confidiamo
comunque, come spiegato nell’altro intervento, quello a firma Nelli-RossiBizzocchi, che il data-base di Montecarlo, immenso e precoce rispetto a
quelli finora usati dai genetisti-isonomi per le epoche prestatistiche, ci
consentirà – a parte un’ulteriore, rilevante verifica dell’attendibilità del
metodo isonimico – delle acquisizioni molto notevoli di conoscenza in
merito al rapporto fra denominazione, famiglia e popolazione nella vita
sociale di una comunità lungo e oltre l’intera età moderna.
Altri temi e altre questioni si sono affacciati alla nostra attenzione
nel corso del lavoro che abbiamo svolto in comune durante il biennio
di finanziamento della ricerca; e ciò soprattutto grazie all’interesse che
la nostra iniziativa ha sollevato da parte di colleghi i quali, pur non
partecipandovi già dalle prime battute, vi hanno però poi contribuito
con una generosità d’impegno e un’incisività di risultati per cui meritano
la nostra più viva gratitudine: sia quelli che hanno discusso con noi il
percorso delle nostre ricerche, aiutandoci a migliorarle, Franco Angiolini,
Marina Caffiero, Carlo Alberto Corsini, Biagio Salvemini, Angelo Torre;
sia quelli che ci hanno permesso di rendere meno lacunoso e uniforme
il pannello delle nostre proposte, e mi riferisco qui in particolare a Elisa
Novi Chavarria, la quale per il nostro volume ha ripensato e rinnovato in
chiave di rapporti fra amministrazione statale, nomadismo e onomastica
il suo precedente e ben noto libro sul popolo rom nel Regno di Napoli
durante l’età moderna20. Nell’insieme, la nostra impressione è quella di
potere ora proporre una silloge di risultati certo parziali ma notevoli e
promettenti, un volume non privo di manchevolezze e squilibri, con molta
carne al fuoco e molte zone d’ombra, e tuttavia vivo e valido precisamente
perché non lascia le cose come stavano.
Il risultato sicuramente più positivo e più importante è che il
problema di fondo dal quale eravamo partiti è stato non tanto risolto,
E. Novi Chavarria, Sulle tracce degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli. Secoli
XV-XVIII, Napoli, Guida, 2007.
20
I cognomi italiani fra società e istituzioni
25
quanto radicalmente riformulato, in termini che ora ci appaiono assai
più penetranti e comprensivi nei confronti del tema così delicato e
umano – quello che ho enunciato qui sopra – dell’identificazione e della
denominazione degli uomini e delle donne italiani lungo i secoli centrali
della nostra storia. La presenza di un eccesso di semplificazione nella
domanda “quando nascono i cognomi?” l’avevamo già assunta come
una premessa della nostra indagine. È una domanda, s’intende, sensata,
e che del resto suole tallonare da presso l’altra che esprime la curiosità
più spontanea ed elementare: “cosa significano questo e quest’altro
cognome?”. Le due domande alimentano fra l’altro incessantemente
da parte di studiosi amatori un’operosità che riversa in rete una massa
imponente di informazioni nell’insieme nient’affatto trascurabili, perché
non sono pochi i casi in cui la passione familiare e locale si è tradotta
in un lavoro consapevole sulle fonti. Si tratta comunque di domande
che la ricerca antroponomastica si poneva ovviamente da sempre come
fondamentali; ciò però con esiti assai diversi in ordine alle rispettive
ricchezze, precisioni e attendibilità delle risposte.
Le tipologie basilari di formazione dei cognomi sono state definite
con chiarezza dai linguisti. Capita di trovarle esposte secondo criteri di
classificazione e distinzione talora un poco divergenti in alcune sfumature;
comunque l’articolazione sostanziale comprende i derivati da patronimici
o matronimici (Martini, De Rosa), da etnici o toponimici (Bolognesi,
Da Ponte), da soprannomi vari (Rossi, Fumagalli), da mestieri o uffici
(Ferrari, Iacono)21. Spiegate le tipologie, a parte le sfumature diverse, un
approfondimento d’indagine di grande rilievo storico sarebbe poi quello di
capire le ragioni del prevalere – nei tempi, negli spazi, nei modi – dell’una o
dell’altra tipologia di formazione. Il problema, già ben presente a De Felice,
è stato proposto in modo pertinente ma inevitabilmente un po’ rapido
nella sintesi di Michael Mitterauer: i cognomi patronimici sembrano
mostrare un forte senso di appartenenza alla stirpe agnatica, quelli da
soprannomi rimanderebbero piuttosto alle solidarietà scherzose proprie
dello stile di vita di gruppi giovanili maschili di contadini o artigiani, e così
via22. Proprio qui nel nostro volume Rita Foti svolge un’analisi puntuale e
convincente delle implicazioni storiche dell’esistenza e delle modificazioni
Un’articolazione particolarmente sottile e raffinata è quella proposta da De Felice, I
cognomi italiani, cit., pp. 229-232. Per una discussione delle varie proposte, Caffarelli,
Marcato, I cognomi d’Italia, cit., I, pp. XIII-XV.
22
Mitterauer, Antenati e santi, cit., pp. 380-387.
21
26
Roberto Bizzocchi
dei cognomi da toponimi centro-settentrionali nella Corleone bassomedievale. Ogni generalizzazione sarebbe però evidentemente del tutto
prematura su questo tema non eludibile, ma affrontabile solo sulla base
di un gran numero di ricerche documentarie paragonabili per acribia e
penetrazione a quella della Foti stessa.
Quanto alla domanda sul periodo di origine – manteniamo ancora
per poco questa terminologia ambigua e insufficiente – dei cognomi,
le risposte date finora dagli specialisti erano sorprendentemente meno
univoche di quanto ci si potrebbe aspettare. Basti per tutti ricordare –
spero senza apparire pedantesco – che proprio il patriarca di questi studi
in Italia nutriva sulla questione un’opinione, da lui espressa più volte,
decisamente sconcertante, e cioè che la formazione, generalizzata, dei
cognomi italiani si sia sostanzialmente realizzata “tra l’11° e l’inizio del
14° secolo”23. La tesi più diffusa, e soprattutto più prudentemente esposta,
abbassa invece ovviamente la datazione di qualche secolo, facendo
riferimento alle conseguenze dell’applicazione dei decreti del Concilio di
Trento, che obbligarono i parroci a tenere regolari registri di battesimo
e matrimonio, obbligo cui s’aggiunse un mezzo secolo più tardi, nel
1614, quello di registrare i decessi e gli stati delle anime. Di registri pre
e posttridentini si trova di fatto solitamente trattare nei contributi dei
demografi; e invero anche in un recente e autorevole bilancio linguistico
che presenta una messa a punto equilibrata e guardinga24. Collegare,
all’ingrosso, il processo di cognomizzazione di massa degli Italiani al
periodo successivo al Concilio appare tanto più plausibile in quanto si
tratta anche del periodo di potenziamento delle burocrazie degli Stati, che
costituirono l’altro grande fattore istituzionale ed esterno di promozione
del processo. Tuttavia, già su questo problema basilare della definizione
De Felice, I cognomi italiani, cit., p. 200. L’affermazione risulta indirettamente un
po’ mitigata e relativizzata da considerazioni collegate proposte in seguito (p. 215),
ma ricompare poi in altra sede, ribadita e argomentata: E. De Felice, Le origini, il
processo di formazione e la tipologia dei cognomi italiani, in Erlanger FamiliennamenColloquium, hrsg. von R. Schützeichel und A. Wendehorst, Neustadt an der Aisch,
Degener, 1985, pp. 93-99 (94).
24
M. Livi Bacci et L. Del Panta, Identification des individus à partir du XVIIe siècle
en Italie, in Noms et prénoms. Aperçu historique sur la dénomination des personnes en
divers pays, a cura di L. Henry, Dolhain, Ordina Editions, 1974, pp. 83-98; D. Kremer,
Autour de la formation historique des noms de famille italiens, in Da Torino a Pisa. Atti
delle giornate di studio di Onomastica, a cura di A. Rossebastiano, Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 2006, pp. 3-29 (6).
23
I cognomi italiani fra società e istituzioni
27
delle date o dei periodi, le ricerche a campione svolte dal nostro gruppo
hanno riservato qualche sorpresa e nel complesso svuotato l’interesse, se
non smentito l’attendibilità, di una risposta così generica e uniforme.
Benché il punto abbia suscitato fra noi dibattiti accesi e nette
contrapposizioni, credo sia innegabile che l’Italia settentrionale, meglio:
alcune zone di essa, abbiano mostrato una forte precocità – per ora
accontentiamoci di questo termine – nella formazione dei cognomi. Era
già ben nota al proposito la specifica e spiccata primazia di Venezia, dove
le più antiche tracce del fenomeno risalgono ad assai prima del Mille: un
dato il cui estremo rilievo, proprio in rapporto alle peculiarità della storia
politica e sociale della città, non era sfuggito a Muratori ed è stato più
recentemente approfondito in un saggio classico del linguista Gianfranco
Folena25. Nell’ambito dell’Italia settentrionale l’insieme dei lavori del
nostro gruppo mette ora in evidenza più di altre la posizione del Piemonte.
Il saggio di Guido Alfani documenta che nei registri parrocchiali tenuti
a Ivrea, Finale Ligure e Mirandola negli ultimi decenni del Quattrocento
la presenza del cognome si attesta fra l’80 e addirittura il 100%, anche
nelle zone rurali; qui gli effetti del Concilio di Trento sembrano limitarsi
a perfezionare un sistema già stabilito. Ancora più impressionanti sono
i dati raccolti da Alessandro Barbero in diverse località del Piemonte,
perché nel suo caso le percentuali molto alte, fra 46 e 89, di cognomi
trascritti nelle liste di giuramenti e negli elenchi di affittuari che ha
collazionato in numero consistente ed esaminato con cura riguardano
le campagne piemontesi addirittura nel corso del Duecento; un fatto che
ribadisce e anticipa ulteriormente i risultati di un sondaggio che era già
stato compiuto in precedenza su di una comunità particolare26.
Una tale ‘precocità’ piemontese viene confermata per una via indiretta
e notevole dall’attenta analisi che Sara Rivoira ha dedicato ai registri
degli affittuari delle terre dei signori di Luserna nella prima metà del
Trecento. La zona corrisponde all’area di diffusione ereticale di quelli
che per l’epoca possono ancora essere definiti come “valdismi” al plurale,
prima dell’identificazione forte tra fede valdese e Valli valdesi realizzata
con l’accordo sulla libertà religiosa stipulato a Cavour nel 1561. È
proprio perché a metà Trecento il processo di formazione dei cognomi
G. Folena, Gli antichi nomi di persona e la storia civile di Venezia (1971), in Id.,
Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova, Editoriale Programma, 1990, pp. 175-209.
26
A. Rossebastiano, Nome, cognome e soprannome nel Piemonte rurale, in “Studi
Piemontesi”, XXXIII (2004), pp. 29-47.
25
28
Roberto Bizzocchi
era già assai avanzato, che possiamo escludere che l’elemento religioso,
più nettamente definito solo due secoli dopo, vi abbia svolto un ruolo
significativo accanto alle consuete ragioni patronimiche, toponimiche e
simili. Un valdese poteva (specie fino alla fine del ghetto nel 1848) e può
sentire di avere un cognome che lo indica come tale; ma tecnicamente
si tratta non di un relativamente tardo cognome valdese quanto di un
precedente cognome tipico delle Valli valdesi.
Di fronte a tali emergenze nel Nord d’Italia sta l’evidenza palmare di
una ben diversa tempistica nel resto del paese: nel Mezzogiorno, forse con
l’eccezione di Napoli, ma specialmente nell’Italia centrale e in Toscana.
Questo fatto, segnalato per casi singoli, Roma compresa, e generalmente
rilevato da tempo con sicurezza durante i lavori del gruppo medievistico
coordinato da Monique Bourin27, ha ricevuto da parte nostra un’ampia
conferma. Il lettore ne troverà le prove in molti dei saggi del volume; ma
quello che va particolarmente citato al riguardo è il contributo che Iva
Puccinelli ha elaborato sulla base di una fonte coerente e completa (e
parzialmente consultabile in rete), i libri dei battesimi di Pisa a partire
dal 1457. Il dato sulla presenza dei cognomi nel primo secolo di esistenza
dei libri (1457-1557), appena superiore al 23%, non può non mettere in
risalto un netto divario rispetto a quelli dei battesimi circa contemporanei
studiati da Alfani.
Continuando ancora per un momento ad astrarre i dati numerici dal
loro contesto storico e documentario, credo si debba riconoscere che
nonostante le nostre e le precedenti ricerche restino lontanissime dall’aver
raccolto informazioni sufficienti ad autorizzare generalizzazioni, le
indicazioni tanto divergenti sul Nord e il Centro o Centro-Sud d’Italia
segnalino comunque l’esistenza di due modelli di denominazione distinti,
di cui occorre indagare le logiche fuori da ogni pregiudizio sulla maggiore
funzionalità o modernità di quello che suona più prettamente cognominale
per il nostro orecchio. Se nei villaggi del Piemonte duecentesco le persone
si distinguevano grazie a coppie onomastiche quali Giovanni Valino,
oppure Otto Cavazza (cito da Barbero), sembra difficile immaginare
che in quelli della Toscana di tre secoli più tardi fosse sufficiente
F. Menant, L’Italie centro-septentrionale, e J-M. Martin, L’Italie méridionale, in
L’anthroponymie document de l’histoire sociale des mondes méditerranéens médiévaux, a
cura di M. Bourin, J-M. Martin et F. Menant, Roma, Ecole Française, 1996, pp. 19-28
e 29-39. Per Roma c’è il dato del 20% di cognomi nel censimento appena precedente
il Sacco del 1527: G. D’Acunti, Un “censimento” romano del primo Cinquecento, in
“Rivista Italiana di Onomastica” (1996), 2, pp. 15-28.
27
I cognomi italiani fra società e istituzioni
29
conoscersi per prenome, specie se questo non era Otto ma Giovanni.
Di fatto, uno dei temi più suggestivi della storia onomastica e sociale
italiana è quello dell’identificazione, e anche della memoria genealogica
profonda, attraverso patronimici o altri indicatori (un esempio solo,
qui dalla Puccinelli: Alessandra di Domenico caciaiolo detto il Cecino),
in condizione di assenza o di instabilità del cognome. Al riguardo
disponiamo da tempo di analisi precise del caso illustre della nobiltà di
Amalfi e di quello, non meno istruttivo, del ceto mercantile di Pisa28.
Ora le penetranti riflessioni di Simone Collavini in questo volume
offrono una seria proposta d’impostazione generale della questione,
collegando la prevalenza del modello cognominale o dell’altro a una
vicenda cruciale della storia medievale italiana, cioè lo scarto cronologico
nell’assestamento delle signorie territoriali al Nord e al Centro. Nel corso
del secolo XI, quando cominciò a svilupparsi con forza il fenomeno della
doppia denominazione, le aristocrazie rurali settentrionali detenevano
già saldamente il controllo delle rispettive località, da cui poterono
così assumere il nome/cognome, estendendolo poi come pratica diffusa
verso l’insieme delle popolazioni. Al contrario, poiché l’affermazione dei
poteri signorili nell’Italia centrale e in Toscana era più lenta, qui non si
realizzò l’appuntamento fra terra e nome, e il modello non cognominale
perdurò assai più a lungo. Va ripetuto, come suggerisce anche Barbero
in riferimento ai sistemi tradizionali di gestione della terra in Piemonte,
che confrontando i due modelli onomastici non ha alcun senso parlare di
modernità o arcaismo: entrambi svolgevano la loro funzione. Aggiungo che
si può scommettere che Giovanni Valino non fosse affatto più facilmente
riconoscibile di Alessandra di Domenico caciaiolo detto il Cecino.
Ho definito quella di Collavini una proposta; credo che sia uno
dei risultati rilevanti che il lavoro del nostro gruppo può rivendicare,
avanzandolo come un’ipotesi forte sulla quale concentrare ulteriori e
massicci sforzi di ricerca, in particolare in merito all’incidenza statistica
dei cognomi toponimici nel Nord e nel Centro Italia a partire dal Medioevo.
Un’indicazione comunque fondamentale resta quella delle conseguenze
del rapporto contingente fra contesto sociale e denominazione. E a tale
proposito, se la presa d’atto del carattere storico-sociale del nome può
28
M. Del Treppo, La nobiltà dalla memoria lunga, in Id.-A. Leone, Amalfi medioevale,
Napoli, Giannini, 1977, pp. 89-119; M. Luzzati, Memoria genealogica in assenza di
cognome nella Pisa del Quattrocento, in Le modèle familial européen. Normes, déviances,
contrôle du pouvoir, Roma, Ecole Française, 1986, pp. 87-100.
30
Roberto Bizzocchi
apparire un’ovvietà, non altrettanto può dirsi di una considerazione
ulteriore, ispirata dall’inizio di un’indagine adeguata al riguardo, quale
quella impostata da Collavini: l’origine dei cognomi, nei modi diversi dettati
dalle rispettive condizioni dei luoghi, non è stata, nei tempi, un fenomeno
puntuale, una nascita più o meno precoce ma sempre avvenuta una volta
per tutte, bensì un processo di formazione prolungato e complicato, di cui
sarebbe sbagliato postulare la linearità e l’irreversibilità. Se al momento
di stendere il progetto del nostro gruppo già pensavamo che la domanda
“quando nascono i cognomi?” fosse insufficiente, i risultati pur parziali
delle nostre ricerche ci aiutano ora a capire meglio in che senso lo era. Il
calcolo delle percentuali di cognomi definibili come tali in questa o quella
situazione, in questo o quell’anno, è un’operazione imprescindibile; essa
però assume spessore attraverso un’analisi socialmente contestualizzata,
e dunque inevitabilmente concentrata su comunità campione, della
stabilità dei cognomi nel susseguirsi delle generazioni, e della loro
interazione con altre forme concorrenti di identificazione.
A tale proposito la microstoria di Castione della Presolana nella
montagna bergamasca, ricostruita qui da Alma Poloni lungo tre
secoli dal Due al Cinquecento, comporta un passo avanti decisivo. La
sua indagine mostra nel modo più convincente che la prima fase di
apparizione dei cognomi, corrispondente, fra fine Due e inizio Trecento,
alla formazione di proprietà contadine su quelle che erano le terre del
vescovo, non chiuse per sempre la partita. Lo studio delle varie tipologie
documentarie disponibili toglie ogni dubbio sul fatto che gli abitanti
continuarono a ricorrere anche ad altri elementi onomastici oltre che ai
cognomi. Molti di questi del resto sparirono con la crisi demografica di
fine Trecento; e la spettacolare ripresa dei cognomi, attestata negli estimi
fra Quattro e Cinquecento come effetto di un radicale ribaltamento
di equilibri economico-demografici in favore delle contrade alpestri
rispetto al capoluogo, non impedì che nel 1544, in misura maggiore
che in precedenza, capifamiglia che ‘avevano un cognome’ venissero
invece identificati nell’estimo in base alla residenza che distingueva il
loro focolare domestico dall’insieme di una discendenza genealogica
più vasta29.
Segnalo qui che nell’ambito del nostro gruppo ha preso avvio, ad opera di Andrea
Addobbati, una ricerca sui rapporti fra struttura sociale e forme di denominazione
nella parrocchia di Urgnano, grosso borgo agricolo alle porte di Bergamo. La ricerca,
basata sul confronto fra libri parrocchiali e atti notarili, riprenderà in altro contesto
29
I cognomi italiani fra società e istituzioni
31
Suggestioni simili provengono dall’altra microstoria – cui ho già fatto
cenno – tracciata da Sergio Nelli per Montecarlo di Lucca. Anche in
questo caso la prima ondata di denominazioni chiaramente cognominali
rispetto alle precedenti abitudini patronimiche, realizzatasi lungo tutto il
corso del Cinquecento, si collegò a un fenomeno rilevante nella vita della
comunità, la bonifica della foresta con la conseguente moltiplicazione
di insediamenti agricoli fuori le mura, nei quali appunto cominciò
a profilarsi l’uso di cognomi trasmessi da una generazione all’altra.
Elemento spiccato di forza nell’analisi di Nelli è poi la ricostruzione di
tutte le genealogie dei Montecarlesi fra il basso Medioevo e il secolo
XIX: una prestazione che gli permette di evidenziare con straordinaria
concretezza il grado di corrispondenza – alto, ma tutt’altro che totale – fra
famiglia e cognome, e la pluralità delle dinamiche di creazione e variazione
onomastica in rapporto con le segmentazioni patrimoniali e residenziali
dei rami familiari. Proprio l’orizzonte dominante di continuità e durata
che marca, anche moralmente, una ricerca di una vita quale è questa di
Sergio dà, per contrasto, risalto tanto maggiore alle emergenze folgoranti,
ma non rare, della reversibilità dei fenomeni, della invitta molteplicità
e oscillazione delle pratiche. E ciò, ancora ben dentro il burocratico
Settecento, da cui Sergio ci trasmette con viva partecipazione la voce dei
suoi antichi compaesani. 1776: “Mi chiamo Francesco del fu Domenico
Incrocci, ma mi chiamano anche Ceccottino per aver presa moglie una
dei Ceccottini”. 1751: “Io ho nome Sebastiano, mio padre si chiamava
Giovanni di Antonio, che non ho casato alcuno”.
Quello dell’instabilità e riformulazione delle definizioni cognominali è
un dato che le nostre ricerche possono mostrare anche per il Mezzogiorno
e la Sicilia. La sintesi di lungo periodo di Gérard Delille, componendo
armoniosamente esempi relativi a Manduria, Amalfi e Procida, dà esatto
conto di ogni aspetto della reciproca adattabilità fra modulazione dei
gruppi di discendenza e creatività onomastica, senza dimenticare il
ruolo avuto in materia dal soprannome. La lenta e contrastata storia
della normalizzazione del cognome contempla, e poi lascia comunque
sopravvivere dopo il suo (relativo) completamento pratiche d’uso più
libere, in cui i soprannomi ereditari sono un elemento essenziale
per l’identificazione di quelli che l’antropologia sociale analizza come
i problemi d’interdipendenza fra riconfigurazione periodica degli assetti proprietari e
variabilità nell’identificazione delle famiglie esaminati da Alma Poloni per la Montagna
Bergamasca.
32
Roberto Bizzocchi
segmenti di parentela30. Quanto all’altro approfondimento microstorico,
il già citato saggio di Rita Foti su Corleone fra metà Duecento e fine
Cinquecento entra con estrema precisione nel meccanismo di incessante
elaborazione e rielaborazione dei cognomi quali ‘composti mobili’,
variamente assemblati negli atti notarili basso medievali, nei registri
parrocchiali lungo tutto il Cinquecento e nel censimento di persone
e beni del 1593. Solo quest’ultimo documento comincia a proporre
una standardizzazione della coppia prenome/cognome, che comunque
irrompe come una forzatura brusca rispetto alla disponibilità fin lì
mostrata da notai e parroci a rincorrere le vicissitudini onomastiche dei
Corleonesi, originari e immigrati ‘lombardi’.
Insomma, rivedendo il senso e riformulando gli obiettivi della nostra
domanda sull’origine del cognome, siamo arrivati a mettere in discussione
il valore assoluto del termine stesso. Il confronto tra l’esito contemporaneo
e attuale del processo e l’evidenza della persistente relatività dell’adozione
e dell’uso del cognome fra Medioevo ed età moderna – in ogni parte
d’Italia, a prescindere dalle priorità nell’inizio dei processi – ci ha chiarito
un punto chiave, che va sottolineato con forza: la storia della formazione
del cognome non è districabile da quella della sua registrazione da parte
dei rappresentanti delle burocrazie statali ed ecclesiastiche attive nel
paese, i cui lasciti documentari furono al tempo stesso attestati e attori di
un’opera di cognomizzazione di cui noi possiamo studiare a fondo le carte
archivistiche ma solo indovinare le pratiche reali.
Su questo aspetto, altri saggi compresi nel volume portano acquisizioni
molto importanti. Circa la questione nodale degli effetti dei decreti
tridentini, l’analisi del caso di Venezia proposta da Jean-François
Chauvard mette bene in risalto le linee di tendenza e di contrasto in una
situazione in movimento. Mentre appare chiaro che sul lungo termine
l’obbligo di tenere registri onomasticamente ordinati indusse i parroci a
concentrarsi essi per primi sulla presenza o meno del dato formale del
cognome, fino a lasciare spazi e puntini dove mancava, è pur vero che
anche dopo la conclusione del Concilio essi adottarono varie tipologie
Il riferimento di base è ovviamente al classico studio dello stesso G. Delille, Famiglia
e proprietà nel Regno di Napoli, XV-XIX secolo (1985), trad. it. Torino, Einaudi, 1988.
Due ricerche puntuali su questo uso dei soprannomi per l’area meridionale: B.
Palumbo, Antroponimia, identità e parentela in un paese del Sannio (1992), in Id.,
Identità nel tempo. Saggi di antropologia della parentela, Lecce, Argo, 1997, pp. 21-74; M.
Le Chêne, Usage et transmission des surnoms dans un village albanais d’Italie du Sud,
in “L’Homme”, XLIV (2004), pp. 153-172.
30
I cognomi italiani fra società e istituzioni
33
alternative o aggiuntive di riconoscimento dei loro parrocchiani: persone
che magari ‘avevano un cognome’, cioè avrebbero potuto essere registrate
secondo la semplice coppia prenome/cognome, ma che il prete, forse
per maggiore aderenza a un’esperienza quotidiana condivisa, preferiva
identificare corredando il prenome di indicazioni locali, professionali, o
anche più marcatamente personali.
La suggestiva indagine di Chiara La Rocca su Livorno sfrutta con
successo l’occasione di mettere a confronto due logiche e procedure
amministrative diverse alle prese con il medesimo caso di una storia
dotata di un punto di partenza ben definito. Nel primo decennio del
Seicento, nei registri granducali di ammissione in città degli immigrati
attirativi dalle leggi “Livornine” del 1591 e 1593, oltre il 70% di
quei personaggi – improbabilmente annoverabili fra i più inquadrati
dell’epoca – risultava provvisto di un cognome31. Nei successivi registri
parrocchiali dal 1611, che La Rocca mostra con certezza riguardare in
misura molto maggiore i numerosi nuovi venuti che i pochi Livornesi
originari, l’attestazione del cognome si dimezzava al 35%. Non occorre
insistere sull’evidente differenza dei contesti e dei comportamenti, degli
interroganti e degli interrogati. Ma c’è dell’altro. Nei registri ecclesiastici
il numero complessivo dei cognomi cominciò invece ad aumentare
sensibilmente dal 1630, cioè all’indomani dell’erezione della pieve di
Livorno in prepositura, con conseguente riorganizzazione dell’istituto;
tuttavia, se si cerca di ritrovare il singolo cognome da una generazione
all’altra attraverso i decenni, il più delle volte si rimane delusi: i cognomi
sembrano svanire, e ciò in una proporzione difficilmente spiegabile con
la sola mobilità demografica, senza che si debba far nuovamente appello
alle infinite dinamiche dell’interazione fra interroganti e interrogati.
Un ulteriore, umanissimo aspetto della questione burocratica è al
centro della precisa e pertinente analisi che Luigi Peruzzi ha dedicato
a varie località della Montagna Pistoiese nel Cinque e Seicento. Anche
qui, grosso modo, sul lungo termine, non c’è dubbio che la tendenza alla
cognomizzazione si faccia strada, e ormai con nettezza alle soglie del
Settecento. Ma intanto, che significava avere o non avere un cognome
per gli abitanti di quei villaggi e nei libri delle loro amministrazioni? A
Popiglio nell’estimo del 1545 figurano dotati di cognome 5 intestatari su
Per questa parte della sua ricerca Chiara La Rocca ha ripreso i dati contenuti nella
tesi di laurea triennale di Eugenio Carini, Immigrazione, identità, cognome. Livorno fra
Cinque e Seicento, Università di Pisa, a.a 2010-2011.
31
34
Roberto Bizzocchi
100; in quello del 1569, 5 su 302; in quello del 1576, appena sette anni più
tardi, 210 su 240. Un uomo che si sposò a Piteglio nel 1592 come Bastiano
di Agnolo di Salvatore, senza portare cognome, era stato battezzato a
Popiglio nel 1569 come Bastiano di Agnolo di Salvatore Notari. Più in
generale, mentre allora a Piteglio tutti parrebbero privi di cognome, a
Popiglio tutti ne risultavano provvisti. Non sappiamo nulla dell’impiegato
dell’estimo del 1576, ma il piovano di Popiglio all’epoca, Girolamo Magni,
è una nota e studiata figura di colto prete tridentino, evidentemente
un uomo che amava tenere la penna in mano32. Anche il contributo di
Gianluca Camerini, che ha riferito al nostro gruppo i frutti della sua
esperienza di ideatore e organizzatore del progetto culturale e archivistico
“La Memoria dei Sacramenti”, torna con competenza su questo aspetto
particolare ma non trascurabile della personalità dei parroci, del loro
livello d’istruzione, del loro grado d’inserimento nelle comunità.
Naturalmente la sottolineatura degli aspetti di relatività e incompiutezza
del processo di affermazione dei cognomi non toglie che sia possibile
cogliere e seguire con sufficiente chiarezza le tracce di un’evoluzione
burocratica in senso stabilizzatore, che ha finito col condizionare la
cultura onomastica stessa degli Italiani e consolidare, almeno sul versante
delle occorrenze pubbliche e ufficiali delle loro vite, l’affermazione della
coppia prenome/cognome; anzi, più esattamente, cognome/prenome.
Il fenomeno – come viene più volte accennato in vari saggi del nostro
volume, come sa ogni esperto di registri parrocchiali, e come del resto
andrebbe indagato con più sistematico impegno – comincia ad apparire
evidente durante il Settecento nel sempre maggiore affinamento del
lavoro amministrativo dei parroci, i quali ormai non si limitavano a
redigere stati d’anime sempre più sistematici e precisi, ma spesso si
preoccupavano anche di riordinare, uniformare e fornire di indici tutti i
registri, più o meno abborracciati e confusi, lasciati in canonica dai loro
predecessori a partire da fine Cinquecento.
Vale la pena, per spiegare gli effetti di una tale attitudine, citare
un caso singolo ma esemplare. Nei libri battesimali di Savignano di
Romagna, oggi Savignano sul Rubicone, nei primi anni del Seicento
compaiono ripetutamente le nascite dei figli di uno stesso uomo che
ogni volta è chiamato diversamente (e senza cognome, come all’epoca
Su di lui vedi A. Prosperi, I benefici delle lettere. La carriera di un prete tridentino, in
Il diario del Pievano Girolamo Magni. Vita, devozione e arte sulla montagna pistoiese nel
Cinquecento, a cura di F. Falletti, Pisa, Pacini, 1999, pp. 23-42.
32
I cognomi italiani fra società e istituzioni
35
avviene per altro a quasi tutti gli abitanti di questa cospicua comunità
di pianura dell’Italia settentrionale, posta sulla via Emilia fra Cesena e
Rimini). Mettendo insieme tutte le diverse combinazioni onomastiche
di tutti i battesimi, l’uomo risulterebbe essere Marcantonio di Lorenzo
(patronimico) della Gentile (matronimico, una vedova?) dell’Albarazzo
(podere) da Gatteo (paese vicino a Savignano). Ma il curato che poi nei
decenni centrali del Settecento resse la parrocchia per quarant’anni,
e risistemò tutti i registri precedenti corredandoli di indici dei nomi,
ha interpretato questi dati con una normalizzazione drastica: “Gentili
Marcantonio”, contenente anche, come si vede, l’invenzione, non saprei
dire quanto duratura, di un cognome33.
La tendenza rappresentata dai più zelanti parroci settecenteschi si
realizzò infine con la successiva vicenda dell’introduzione dello Stato
civile. In periodo francese il Regno d’Italia cercò – come mostra bene
un vecchio ma sempre fondamentale studio di Andrea Schiaffino34 –
d’impiantare dapprima un sistema autonomo dall’esperienza e dalle
risultanze della burocrazia ecclesiastica, per ripiegare poi con maggiore
realismo sul ricorso alla collaborazione obbligatoria da parte di
quest’ultima. Per quanto parziali, gli effetti dei censimenti napoleonici
hanno segnato una svolta storica, e consegnato agli archivi di tanti
comuni italiani un patrimonio d’informazione demografica inestimabile.
A me personalmente è capitato, in una ricerca conclusa prima dei
lavori comuni del nostro gruppo, di poter analizzare proprio il versante
onomastico della premura statistica che tanto caratterizzava la polizia
amministrativa del Regno d’Italia.
In seguito a una segnalazione giunta nel maggio 1812 dal Dipartimento
del Musone (capoluogo: Macerata) sulla presenza di numerosi individui e
famiglie tuttora privi di cognomi e identificati coi soli patronimici (nella
forma, ritenuta ambigua, “Di + prenome”), il governo centrale, insediato
a Milano, ordinò subito un’inchiesta al riguardo limitatamente al Musone,
poi emanò, l’11 giugno 1813, un decreto generale sull’obbligo di portare
un cognome ‘regolare’ (non “Di Benedetto” ma “Benedetti”), cui fece infine
seguire una nuova inchiesta estesa a tutto il Regno. La documentazione
Savignano sul Rubicone, Archivio della Parrocchia di S. Lucia, Libri di Battesimi, n.
2, cc. 43v, 89r, 133v, 177r.
34
A. Schiaffino, L’organizzazione e il funzionamento dello stato civile nel Regno italico
(1806-1814), in “Cahiers internationaux d’histoire économique et sociale”, III (1974),
pp. 341-420.
33
36
Roberto Bizzocchi
risultante, quasi tutta conservata, di questa singolare vicenda permette
di seguire da vicino un episodio decisivo di intervento burocratico sulle
pratiche onomastiche correnti, e di constatarne le conseguenze più
rilevanti. Ciò che più colpisce è che la pretesa di separare nettamente
chi aveva da chi non aveva un cognome tracciò una distinzione alquanto
artificiale all’interno di una popolazione il cui tratto saliente era, sotto il
profilo onomastico, proprio la difformità e pluralità delle designazioni
anche a brevissime distanze di tempo e di luogo35. Imponendo la coppia
cognome/prenome sulla quale erano concettualmente e formalmente
impostati i suoi schedoni prestampati, la burocrazia napoleonica dettava
un modello forte, che alla fin fine risultava però anche assai semplificatore:
come s’è già intravisto e accennato per altri casi sopra ricordati, in specie
quello di Corleone studiato dalla Foti, l’acquisizione del cognome non
comportava tanto l’aggiunta di un elemento di denominazione quanto
la radicale decurtazione, almeno in ambito ufficiale, della pletora delle
precedenti designazioni concorrenti.
L’opzione precisa e forte espressa nel Regno d’Italia, corrispondente in
campo onomastico agli indirizzi complessivi del governo napoleonico in
materia di stato civile, non rappresentava comunque ancora una posizione
scontata. L’esperta e appassionante ricerca che Fausta Gallo ha dedicato nel
nostro volume all’Abruzzo teramano nella prima metà dell’Ottocento mette
in luce una realtà addirittura opposta. Di fronte alla segnalazione, simile a
quella maceratese di vent’anni prima, di case e persone ‘senza cognome’,
la burocrazia borbonica della Restaurazione adottò un atteggiamento di
deliberata e consapevole astensione da ogni imposizione, che rispetto
all’interventismo di stampo francese si giustificava esplicitamente in
termini di delega della soluzione del problema ai rimedi insiti nella
“natura stessa delle cose”. Il contrasto, così netto su questo punto, non
va certo tradotto in generalizzati schematismi grossolani; ma quanto alla
storia dei cognomi, può essere la spia di un fenomeno macrolinguistico
che merita una sottolineatura: la maggiore presenza, tuttora, di cognomi
patronimici (nella forma “Di + prenome”) nel Sud che nel Centro e Nord
d’Italia (e in Abruzzo più che nelle Marche) deriverà, come conseguenza
particolare e piccola ma interessante, dal fatto che prima della chiusura
dei giochi onomastici, con lo stato civile dell’Italia unita, le diverse parti
Per maggiori dettagli e approfondimenti vedi R. Bizzocchi, Marchigiani senza
cognome. Un’inchiesta nell’Italia napoleonica, in “Quaderni Storici”, XLV (2010), 2,
pp. 533-584.
35
I cognomi italiani fra società e istituzioni
37
del paese avevano sperimentato configurazioni diverse dei rispettivi
rapporti con le macchine amministrative degli Stati.
Lo stato civile unitario appena ricordato, entrato in vigore il 1°
gennaio 1866, segna lo spartiacque della storia dei cognomi italiani fra
società e istituzioni, e non ha potuto non costituire, dal nostro punto di
vista, un orizzonte di riferimento. Siamo ben consapevoli che la storia
è continuata, in molte e assai notevoli direzioni. Gli stessi Stati che
hanno imposto alle persone di assumere nomi stabili le hanno talora
anche costrette a cambiarli, per ragioni politiche, razziali, religiose; è
successo anche in Italia, all’indomani della Prima Guerra Mondiale e poi
durante il Fascismo. Altre persone hanno desiderato e spesso ottenuto
di cambiare nome, più precisamente cognome, anche per ragioni assai
meno drammatiche. Altre ancora, i trovatelli, hanno sperimentato a lungo
sulla loro pelle la durezza di una discriminazione che nei loro confronti
si esercitava già fin dalla identificazione onomastica. Sono tutti temi di
grande importanza, e sui quali esistono già bibliografie consistenti: per
non ignorarli del tutto, abbiamo fatto ricorso a Marco Lenci, che ci ha
aiutato col vivace e interessante saggio di sintesi compreso nel volume.
Altro ancora ci sarebbe, vi ho accennato un poco qui sopra. La
fissazione del sistema binominale secco prenome/cognome comporta
in realtà una riduzione di possibilità e un irrigidimento di scelte, tali da
lasciare scoperte funzioni e occorrenze sempre pronte a rinnovarsi; donde
la vitalità e il significato dei soprannomi, individuali ed ereditari. Essi
sono serviti o servono intanto a distinguere le famiglie e le persone entro
comunità dove il numero dei cognomi è limitato, come nel caso celebre
di Chioggia; ma anche a identificare segmenti specifici di condivisione
di proprietà materiali e simboliche all’interno di parentele allargate; e
ancora – come soprannomi individuali – a riconoscere, aggregare ed
eventualmente gerarchizzare i membri di un gruppo, di una classe, di un
reparto, di una squadra. Una cosa per volta. Speriamo che quella su cui ci
siamo soprattutto concentrati durante questo biennio di lavoro comune, e
che cerchiamo qui di proporre al meglio ai lettori, trovi da parte loro un
interesse pari a quello che ci ha animato e ispiri un riscontro di reazioni,
critiche e suggerimenti utili a riprendere le nostre ricerche con nuove
questioni e ulteriori domande.
Recherche de la stabilité
et recherches sur l’instabilité
anthroponymique moderne
Gregorio Salinero
Université Paris I Panthéon-Sorbonne
Plus que d’autres, les travaux d’anthroponymie sont partagés entre deux
orientations contradictoires: d’une part, ils s’efforcent de rendre compte
de la très grande diversité des formes de nomination, des changements
de noms, de l’apparition de modes, de l’irréductible diversité des
comportements et des contextes; d’autre part, et le plus souvent au moyen
de la statistique, ils tentent de dégager de la somme des cas originaux des
règles de transmission, les contours de quelque système de nomination. La
mise au jour de tels systèmes de nomination par les travaux remarquables
des historiens médiévistes n’équivaut nullement (comme on pourrait
être porté à le croire par erreur) à postuler que l’époque moderne voit
triompher la stabilité anthroponymique. Bien au contraire, ces travaux
ont ancré les questions de la dénomination des individus dans la diversité
et la turbulence1.
En effet, si des chaînes de nomination plus complexes apparaissent
et se répandent, il n’en demeure pas moins que les noms des individus
sont très changeants. Les transformations qu’engendre l’adoption de
ces nouvelles références provoquent des tensions nées entre celles-ci et
les modalités onomastiques plus anciennes qui limitent à un seul nom
l’appellation des individus. Les résultas des études médiévales n’induisent
donc pas d’évolution linéaire vers des systèmes stables et intégrateurs des
individus. Il faut entendre tout au contraire que si de nouveaux systèmes de
nomination se mettent en place, les individus eux, continuent de changer
de nom, de passer d’un cadre nominal à un autre ou bien de se mouvoir,
au gré des besoins, au sein d’un même appareil de référence. Il ne s’agit
1
Se reporter aux publications de la série des rencontre d’Azay-Le-Ferron commencées
en 1986 et au travail poursuivi par Monique Bourin depuis plus de vingt ans.
40
Gregorio Salinero
nullement de nier que la transmission et la patrimonialisation des noms
par voie patrilinéaire soit une réalité moderne, mais bien de comprendre
comment deux phénomènes apparemment divergents semblent se vérifier
concomitamment. Il est vrai que les travaux sur les liens de parenté ont
longtemps été les seuls à aborder la question des noms et de la nomination;
tout en privilégiant les phénomènes de stabilité, répétition des modalités
de transmission, constitution et défense d’un patrimoine onomastique,
relevé de stocks plus ou moins limités de noms.
Afin d’appréhender dans un même mouvement les mécanismes
conservatoires des systèmes de nomination et l’agitation dont ils
enregistrent la vigueur il est nécessaire de s’intéresser aux diverses formes
de mobilité de l’époque moderne tout en séparant les études du nom d’une
stricte correspondance avec l’étude de la parenté. Sortir des familles pour
étudier les noms.
Noms de famille et parenté
La correspondance entre noms et parenté vise à fonder l’identité du
groupe familial, elle n’a rien de nécessaire ni de mécanique. La défense
de cette appartenance à un groupe par le nom ne constituait pas la seule
fonction du système de nomination. Mais elle était si fortement enracinée
dans les esprits qu’elle a souvent contribuée à infléchir l’enregistrement
des pratiques nominales par les notaires, le personnel administratif lors
de l’établissement des états civils ou bien lors de l’étude des familles.
À cela, il faut ajouter que les recommandations religieuses telles que
celles du concile de Latran 1215 (interdiction de consanguinité au 4e
degré canonique, mais autorisation des doubles alliances entre familles
différentes) ont sans nul doute pesées sur le développement d’un
système de nomination à deux noms, nom propre et cognomen avec
forte préférence pour le choix du patronyme. Dans une mesure difficile
à estimer, les prescriptions du concile de Trente contre l’inceste jouèrent
elles aussi dans le sens d’une stabilisation.
Les pratiques exogamiques se rencontrent partout dans l’Europe
médiévale et moderne. Elles sont cependant bien loin de faire disparaître
les formes d’alliances endogamiques de longue durée. Les effets des uns et
des autres sur les modalités de nomination et de transmission des noms
sont loin d’être homogènes. Il semble que l’on ne puisse pas associer trop
simplement exogamie à souplesse des pratiques nominales et endogamie à
conservation rigide des noms. Au rang des difficultés à s’interroger sur ces
Recherche de la stabilité et sur l’instabilité anthroponymique moderne
41
points arrive en tout premier lieu la rareté des études de la parenté sur la
très longue durée, suivie par la diversité des perspectives retenues par les
divers travaux sur la question. On peut cependant évoquer quelques cas.
Dans celui de Trujillo d’Espagne, il n’est guère possible de reconstituer les
lignages nobles, au nombre de 18 groupes familiaux, au-delà de la première
moitié du xve siècle2. Mais à l’exception de deux d’entre eux, les Corajo
et les Añasco, leur nom a perduré jusqu’à la fin de l’époque moderne.
Ces familles pratiquent des alliances exogames qui ne semblent guère
perturber la transmission durable des patronymes. Celle-ci est d’ailleurs
renforcée par la répartition préalable des charges de la municipalité
à égalité entre plusieurs lignages ainsi que par la multiplication des
majorats qui comportent l’obligation de conserver le nom du fondateur
ou de celle qui transmet les biens. Les noms de famille composés sont
d’ailleurs en nombre limités, qui soulignent l’alliance de deux lignages ou
bien de deux branches lignagères d’importance: Corajo-Ramiro ou bien
Vargas-Carvajal. L’aura acquis par nombre de ces patronymes durant la
Reconquista (la reconquête de la péninsule sur les maures) dans laquelle
s’illustrèrent plusieurs de leurs membres, affermit encore ce mécanisme
de conservation. Reste que plusieurs d’entre eux disparaissent, et que leur
ancienneté demeure limitée en comparaison des exemples fournis par
quelques cas italiens3. De plus, les vertus conservatoires des noms associés
d’ordinaire au majorat sont quelquefois contredites par la pratique.
Ainsi, Diego de Vargas Carvajal part de Trujillo d’Espagne pour Los
Reyes, vraisemblablement à la fin de l’année 1557 ou au début de 1558,
afin d’y occuper une charge royale. Entre temps, sa femme Béatriz de
2
Féderico Acedo Trigo fut un érudit passionné par l’histoire de Trujillo. On retrouve
sa trace dans quasiment tous les documents des archives municipales et paroissiales,
qu’il a classée, numéroté et conservé, durant la première moitié du siècle xxe. En 1976,
le manuscrit de son œuvre généalogique fut remis à la ville par l’un de ses héritiers.
Les Linajes de Trujillo forment un très long texte manuscrit de l’érudit et généalogiste
Federico Acedo Trigo, rangé en plusieurs séries qui portent sur 18 lignages: Altamirano,
folio 1 à 64; Orellana, 65 à 128 / Sotomayor, 1 à 35; Mendoza 41 à 96; Corajo-Ramiro,
97 à 111; Chaves, 111 à 174; Loaisa, 175 à 22; Tapia, 223 à 272; Calderón, 263 à 334;
Hinojosa, 335 à 366; Escobar, 367 à 414; Paredes, 415 à 502; Torres, 503 à 551 / Vargas,
1 à 48; Carvajal, 51 à 110 / Bejarano; Añasco et Pizarro dont on n’a pas pu relever les
pages.
3
Sur ce point se reporter aux travaux remarquables de Sergio Nelli, dans ce
volume même, sur le bourg de Montecarlo di Lucca, en particulier au cas du lignage
des Moroni suivi du milieu du xive siècle au milieu du xviie siècle et dans lequel
apparaissent plusieurs cognomens nouveaux durant cette longue période.
42
Gregorio Salinero
Vargas restée sur place tombe malade et fait son testament peu de temps
avant de mourir. Elle exige alors un nouveau système de nomination des
héritiers, qui implique des restrictions à l’usage de son seul nom de Vargas
et impose l’alternance des prénoms García et Juan pour l’héritier qui
prendra la tête du majorat créé avant le départ de son mari pour les Indes.
Si le nom est de toute évidence lié aux biens, et spécialement à la terre, on
voit que ce lien qui a lui aussi une histoire est spécialement soumis aux
changements. Dans son testament fait à Los Reyes, le 28 juin 1562, Diego
de Vargas Carvajal ne peut qu’entériner le changement: “L’an passé de
1557, devant Diego de Morales, écrivain public de ladite ville de Trujillo,
doña Béatriz de Vargas et moi […] avons passé un acte (de fondation) de
majorat avec ce qu’elle tenait de Juan de Vargas, son père, au bénéfice de
don Juan, notre fils aîné […] l’année suivante, en 1558, alors que j’étais
absent, la dite Béatriz de Vargas est décédée et dans le testament et les
dernières volontés qu’elle a consigné elle a déclaré et […] commandé que
ceux qui succéderont à la tête du dit majorat s’appellent seulement du nom
de Vargas voulant ainsi déroger à la clause de la fondation du dit majorat
par laquelle elle et moi avions ordonné qu’ils se nomment Carvajal et
Vargas”4. Don Juan n’utilise que le seul nom de Vargas. Sa fille Béatriz en
fait de même. Il existe donc bien à cette époque une tendance au repli sur
un seul nom de famille, le plus prestigieux, qui se confirme une nouvelle
fois dans ces groupes importants, segmentés en de nombreuses branches
latérales. Ce mouvement de sélection exclusive d’un nom s’accompagne
ici d’une expansion de la place économique de la famille. Qui plus est,
il se fait au détriment du nom de la branche paternelle. Les cas de
changements de noms liés à la transmission des majorats sont courants.
Dans le domaine andin, Carvajal n’est pas en odeur de sainteté, le nom est
synonyme de brutalité des conquistadors et de comportement sanguinaire.
Il est probable que ce fait ait pesé sur la décision de Béatriz qui apportait
“El año pasado de 1557 ante Diego de Morales escribano público de la dicha
ciudad de Trujillo, yo doña Beatriz de Vargas […] hicimos una escritura de (asiento)
de mayorazgo de cual la dicha Beatria poseia de Juan de Vargas su padre en don Juan
nuestro hijo mayor […] después en el año de 1558 siguiente estando yo ausente falleció
la dicha doña Beatriz mi mujer y en su testamento (de) ultima voluntad que hizo dijo
[…] y mandó que los que sucedieren en la dicha mejora y mayorazgo se llamasen
solamente de apellido de Vargas queriendo cuanto esto derogar la claúsula del dicho
mayorazgo en que ella y yo habíamos ordenado que se llamasen de Carvajal y Vargas”,
Archivo de Protocolo del Archivo Minicipal de Trujillo (= APAMT), testament de don
Diego de Vargas Carvajal, Los Reyes, 28/6/1562, notaire Pedro Carmona.
4
Recherche de la stabilité et sur l’instabilité anthroponymique moderne
43
l’essentiel des biens mis en commun pour la formation de son majorat
en Estrémadure. Mais la volonté de pérenniser son nom seul, non accolé
à un autre, a prévalu sur toute autre considération. Le nom se répète, le
nom se conserve, mais le nom se change aussi au sein d’un groupe de
parents. D’autant que les liens entre pratiques exogamiques et tendances à
la conservation des noms ne sont pas intangibles.
Gérard Delille a étudié l’exemple des alliances matrimoniales à
Manduria dans les Pouilles (sur la base de la source du Libro Magno
qui s’efforce de reconstituer les filiations par-delà les noms) tout en le
comparant notamment aux situations de Guillestre et de Champoléon
dans les hautes Alpes5. À Manduria, le premier groupe familial cité est
celui des Agostino avec deux branches issues de deux cousins, Cicco et
Paolo, et une troisième dénommée Maiorana. La branche des Maiorana
disparaît durant la seconde moitié du xvie mais leur nom est repris par
la branche de Paolo. Sur 132 mariages étalés sur deux siècles et demi
très peu sont des mariages internes de type parallèle et patrilatéral.
Malgré la séparation des branches il n’y a pas d’unions. Ce phénomène
est démontré ailleurs par l’auteur, pour conduire à mettre en évidence
deux règles: “on ne se marie pas dans le même nom que son père
sauf homonymie évidente”; et on ne se marie pas dans le nom d’une
des mères de sa propre lignée ascendante masculine. Ces règles qui
apparaissent comme très larges et qui se retrouvent dans l’ensemble des
cas étudiées constituent selon l’auteur une sorte de socle fondamental des
comportements familiaux et débordent largement les recommandations
de l’église. Elles sont très largement respectées au xvie et xviie siècle. Il
faut bien comprendre que la segmentation des familles a pu diversifier
les noms de lignages, mais que néanmoins les mariages se font au sein
d’un groupe élargie qui a des origines lignagères communes et identifiées
en tant que tel. Lorsqu’une segmentation du lignage originel se produit
en une nouvelle branche, cette dernière tend à prendre un nouveau nom
qui peut se présenter un temps comme un surnom. La correspondance
entre le nom et la parenté est donc rompue. Il n’en devient pas moins un
nom de famille dans la mesure où il est transmis durablement, y compris
semble-t-il lorsque la mémoire de l’ancêtre unique subsiste. Ce faisant,
les tendances exogamiques contribuent à leur manière à multiplier les
changements de noms, sans nécessairement accroitre à l’infini le stock
5
G. Delille, Parenté et alliance en Europe occidentale. Essais d’interprétation générale,
dans “L’Homme”, CXCIII (2010), pp. 75-136.
44
Gregorio Salinero
général des patronymes. On peut en effet imaginer que les reprises de
noms constatées à Manduria au xvie siècle, dans une période d’exogamie
dominante, contribuent à conserver la mémoire de l’appartenance à un
même lignage, sans toutefois que ceux qui se livrent à de telles reprises
fournissent d’explication sur leurs motivations. En ce sens, l’exogamie ne
contribue à l’instabilité des noms que dans une mesure limitée.
Dans le courant du xviie siècle (la fin du xviie à Manduria) et
au début du xviiie, les mariages internes se multiplient. Quand une
telle alliance survient on parle de “bouclage consanguin”. La formule
“mariage dans le même nom” est donc à comprendre au sens du lignage,
pas nécessairement au sens du nom adoptée puisque la mémoire de
l’appartenance lignagère reste associé à plusieurs noms. Ce faisant, le
retour à une certaine endogamie ne doit pas être associé à une réduction
du stock des noms. La souplesse demeure. Ainsi, les noms de famille
doubles enregistrent diversement l’appartenance lignagère. À Verviers, les
Wilkin sont des Grosfils: les Delle Thour sont en fait des Wilkin… Dans
le cas de l’Estrémadure, il semble que la segmentation s’accompagne
de l’adjonction d’un nom: Vargas-Carvajal, Orellana-Pizarro. Toutefois,
l’association d’un nom à la terre par le biais du majorat, l’attachement aux
noms les plus prestigieux tout comme la tendance à masquer les noms qui
pourraient dénoter une mésalliance sont susceptible de rompre là aussi la
correspondance entre anthroponymie et parenté.
Anthroponymie et aires culturelles
Les études anthroponymiques portant sur diverses régions de l’Europe
moderne démontrent à l’évidence qu’il existe des aires culturelles
conservant une certaine homogénéité en ce sens que les noms (prénoms
et noms de familles) qui en sont issus sont aisément identifiables et
clairement perçus comme étant originaires d’une région particulière.
Ainsi, en Navarre, les noms sont liés habituellement à celui d’une maison,
telle Maria de Enecorena, fille de Maria de Enecorena, de la maison
Enecorena (la casa de Eneco o de Íñigo), durant la seconde moitié du xvie
siècle. Les autres noms du secteur sont composés d’un prénom chrétien
ordinaire et de l’appellation du lieu de naissance. C’est ce que montrent les
travaux d’Anna Zabalza sur la Navarre moderne6. Dans le cas de Majorque
6
A. Zabalza Seguín, La herencia duradera: Los apellidos en la Navarra Moderna, dans
Un juego de engaños. Movilidad, nombre y apellidos en los siglos xv-xviii, estudios
Recherche de la stabilité et sur l’instabilité anthroponymique moderne
45
la tendance à l’hypergamie sociale et l’endogamie générale de groupes tels
que les Xuetes (l’un des rares groupes de convers qui revendiquent cette
identité historico-religieuse) contribue amplement à la formation d’un
modèle anthroponymique reposant sur l’usage des noms de famille et la
stabilité de leur transmission, malgré une très grande diversité religieuse
et sociale. Certaines de ces caractéristique se retrouvent dans l’exemple
irlandais étudié notamment par Ciaran O’sea et Éamon Ó Ciosáin7. Au
point que, selon Éamon Ó Ciosáin il est légitime de déduire du nom des
émigrés irlandais en France, leur lieu d’origine en Irlande, permettant
ainsi une cartographie de l’émigration tout au long de l’époque moderne.
La part d’homogénéité de ces domaines culturels et linguistiques
est cependant bousculée par de multiples mécanismes. L’efficacité
conservatoire des formes de reproduction est mise à mal par l’apparition
de nouvelles références. Ainsi, en Navarre le nom de maison utilisé en
tant que nom de famille demeure vivace jusqu’au xxe siècle. Il faut
relever qu’il indique la puissance d’un lien au foyer sans que nous
soyons toujours sûrs qu’il témoigne de la filiation au sein d’un même
lignage. Toutefois, il n’est pas le seul nom de famille: d’ordinaire, c’est la
transmission du nom de la mère d’une génération à l’autre qui en tient
lieu. Cependant, au xviie siècle la transmission patrilinéaire du nom
gagne du terrain. Ainsi, un certain Juan de Orbaiz Enecorena (descendant
de Maria, évoquée plus haut) porte le nom du village d’origine de son
lignage, mais aussi le nom de la maison héritée sans doute de sa mère,
de plus il fait vraisemblablement usage du nom de celle-ci transmis en
ligne matrilinéaire. Par ailleurs, l’influence espagnole dans cette région
de langue basque explique sans doute que la transmission du patronyme
y progresse depuis les villes jusqu’aux villages du piémont pyrénéen le
plus reculé. Soumis à cet ensemble d’influences, les divers usages du nom
demeurent donc souples durant l’époque moderne.
Il serait cependant simplificateur d’imaginer que deux grandes
catégories se font face: d’une part, celle des individus immergés dans les
cadres d’un système de nomination relativement stable; et d’autre part,
ceux qui de gré ou de force ont rompu avec les modèles en vigueur. La
reunidos y presentados por G. Salinero e I. Testón Nuñez, Madrid-Caceres, Casa de
Velázquez, 2010, pp. 69-83.
7
C. O’Scea, Nominacion de los irlandeses en España, rechazo o asimilación (16001680), et É. Ó Ciosáin Apports de l’anthroponymie à l’étude de la migration irlandaise en
France, dans ibid., pp. 121-138 et pp. 139-151.
46
Gregorio Salinero
stabilité apparente de certains groupes de noms correspond quelquefois
à des stratégies de défense qui masquent les changements d’individus et
les mésalliances. L’étude de ces derniers dispensant en somme de toute
référence aux structures en place. Les pratiques que révèle le Libro Verde
fournissent un bon exemple de la complexité des stratégies suivies par les
familles. Il s’agit d’un traité de généalogie aragonais apparu en 1503 et
qui connaît nombre de versions et d’ajouts. Il dénonce les mésalliances
entre vieux chrétiens et conversos en pistant les liens par les femmes
et par la ligne masculine. Considéré comme infamant pour la noblesse
et brûlé il est longtemps considéré comme purement fantaisiste. Or, les
travaux en cours de Pedro de Montaner révèlent le contraire8. Lorsque
les dénonciations sont vérifiables elles s’avèrent le plus souvent exactes.
Dans le cas de filiations par les femmes, les choix anthroponymiques
opérés dans les lignages semblent bien avoir permis de gommer les noms
compromettant dans un système à noms multiples, pourtant réputé pour
sa meilleure conservation de ceux des femmes. Retenons donc qu’à tout
moment des choix tactiques peuvent être opérés dans l’enregistrement des
noms comme dans les usages de ceux-ci, mêlant les diverses pratiques et
les cadres de référence. Il n’est pas jusqu’aux très caractéristiques noms
irlandais qui ne soient perturbés dans leur composante gaélique par
l’irruption de noms anglais. En sorte que plusieurs générations de noms
différents (noms gaéliques et noms anglais) sont repérables dans un
ensemble pourtant très fortement identifiable.
Il nous faut donc nous garder de postuler une aire culturelle stable
à l’horizon de l’histoire de l’anthroponymie et tenter plutôt d’établir les
contours de divers systèmes de nomination en relation avec un cadre
religieux, linguistique et bien plus encore chronologique. Il s’avère
spécialement nécessaire de s’interroger sur les diverses formes de stabilité
apparente qui deviennent plus courante au cours du xviie siècle: système
à deux appellations, prénoms/nom; usage du patronyme en tant que nom
de famille; recours à des formes complexes à deux noms, notamment. Il
convient de garder présent à l’esprit que le passage à un système à deux
noms, nom propre (prénom français) et nom (un cognonem, patronyme
8
À ce jour, P. de Montaner, Senyor a Mallorca. Un concepte heterogeni, dans “Estudis
Baleàrics”, XXXIV (1989), pp. 5-35; id., Famílies de jueus conversos mallorquins
ennoblides a Sicília: els Tarongí iels Vallseca, dans “Lluc”, n. 850 (2006), pp. 18-25, El
Libro verde de Aragón, Monique Combescure Thiry (intro. y transc.) y Miguel Ángel
Motis Dolader (ed.), Zaragoza, Librería Certeza, 2003.
Recherche de la stabilité et sur l’instabilité anthroponymique moderne
47
ou matronyme généralement), n’équivaut pas à l’établissement d’un nom
de famille qui suppose la transmission et la durabilité. Notons qu’il n’est
guère aisé de décider à partir de quelle durée de transmission stable d’un
cognonem il est légitime de parler de nom de famille. Enfin, ce nom doit-il
s’appliquer à tous ceux et celles qui ont un lien de sang pour constituer un
authentique nom de famille? Sans nul doute faut-il se garder d’assimiler
ces évolutions à l’avènement d’un système anthroponymique européen
stable. Il convient au contraire d’éclairer ses évolutions par des études de
l’usage des noms dans le contexte d’une variété toujours accrue de systèmes
de nomination de référence: noms de métiers, noms d’artistes, noms de
soldats, noms d’esclaves, noms de migrants. Pour ce faire, il convient
de distinguer entre étude des identités et recherche anthroponymique.
L’identité déborde le nom qui tend à fixer et à renforcer une identité choisie
ou subie. De même, mieux comprendre le jeu entre le renforcement des
identités collectives et les itinéraires individuels contribuera sans doute à
ne pas réduire l’anthroponymie à une extension de l’histoire de la famille.
Mobilité et instabilité anthroponymique moderne
Plutôt que de postuler l’évolution vers un horizon anthroponymique
stable réduit à quelques formes régionales, il convient de faire l’hypothèse
de l’instabilité anthroponymique moderne (celle des groupes et celle des
individus) très largement alimentée par les mécanismes de contact et les
grands phénomènes migratoires, politique ou religieux qui atteignent une
ampleur sans précédent: expulsions, déportations, esclavage, Réforme
et Contre Réforme; sans oublier les conflits politiques, annexions (ainsi
celle du Portugal par l’Espagne), sécessions, rébellions et autres périodes
révolutionnaires. Ajoutons à cette longue liste la simple mobilité qui
conduit des millions d’individus des campagnes vers les grandes villes,
parfois via un séjour dans des agglomérations secondaires. Rappelons
quelques chiffres. Les grandes colonisations de l’Amérique démultiplient
en les exportant les différents systèmes de nomination. Dans le même
temps, ce sont de formidables occasions de changer de noms pour de
très nombreux individus. Les migrations d’Espagne vers l’Amérique
impliquent 300 000 personnes au xvie et au moins 400 000 au xviie, si
on se contente d’estimer le volume des départs9. Notons concernant ce
9
R. Sánchez Rubio, La emigración extremeña al Nuevo Mundo: exclusiones voluntarias
y forzosas de un pueblo periférico en el siglo xvi, Madrid, Universidad de Extremadura,
48
Gregorio Salinero
domaine qu’une partie non négligeable de ces mouvements engendre des
retours et des migrations multiples internes au domaine américain et
transatlantique. Côté péninsulaire, on compte la déportation de plusieurs
dizaines de milliers de morisques en 1568 après la guerre des Alpujaras;
puis l’expulsion d’environ de 300 000 d’entre eux en 160910. Pour la période
1450-1750, Pétré-Grenouilleau a estimé à 800 000 personnes le nombre
d’esclaves déportés11. Lucile et Bartolomé Bennassar ont considéré pour
leur part qu’environ 300 000 chrétiens faits prisonniers en Méditerranée
avaient dû embrasser la foi musulmane durant l’époque moderne12. On
peut estimer l’émigration des Irlandais vers les domaines hispanique et
français à un volume compris entre 100 000 et 150 000 personnes durant
les xvie et xviie siècles. La liste n’est pas exhaustive. Elle pourrait tout
autant être complétée par l’installation de nombreux italiens sur le reste
des côtes nord du bassin méditerranéen. Si l’on ajoute à ces quelques
chiffres les mouvements divers qui ne font pas l’objet d’un enregistrement
particulier, tel que le gonflement des grands ports atlantiques durant
l’époque moderne, il faut estimer à des volumes considérables de plusieurs
millions d’individus le nombre de migrants pour les xvie et xviie siècles.
Dans le domaine atlantique, on peut considérer qu’un départ enregistré
correspond à plus de deux migrations réelles. Le taux de retour et de
voyages multiples se situe aux environs de 30% des départs. À cela il
faut ajouter que la mobilité ne saurait se réduire à l’émigration. Elle
mobilise les proches du migrant, des groupes constitués pour l’occasion,
des prêteurs sur gage et nombre de membres des administrations locales.
Une fois parti, l’individu maintient généralement des liens avec sa ville
d’origine, donne ses biens à gérer, fait placer l’argent qu’il envoie et confie
ses enfants en bas âge à une tierce personne. En sorte qu’on peut estimer
à plus de quatre le nombre de personnes directement impliquées dans
1993 et C. Martínez Shaw, La emigración española a América (1492-1824), Oviedo,
Archivo de Indianos, 1994.
10
A. Domínguez Ortiz, B. Vincent, Historia de los moriscos: vida y tragedia de una
minoría, Madrid, Alianza, 1993.
11
O. Pétré-Grenouilleau, Les Traites négrières: essai d’histoire globale, Paris, Gallimard,
2006.
12
B. et L. Bennassar, Les chrétiens d’Allah: l’histoire extraordinaire des renégats, xvie
et xviie siècles, Paris, Perrin, 2006, nouvelle éd. augmentée, et J.A. Martínez Torre,
Prisioneros de los infieles. Vida y rescate de los cautivos cristianos en el Mediterraneo
musulmán (siglos xvi-xvii), Barcelone, Edicions Bellaterra, 2004.
Recherche de la stabilité et sur l’instabilité anthroponymique moderne
49
les affaires nées des liens entre les villes de départ et l’Amérique13. Sans
doute en va-t-il de même aux Indes où les plus modestes recherchent
d’ordinaire le rapprochement avec un parent et la protection de la
clientèle d’un puissant.
Les mouvements migratoires ne conduisent pas à la formation
d’une catégorie particulière de noms, moins encore à la constitution
d’un système de nomination. Quelquefois le doute est permis, comme
il en va du cas des peruleros, les “voyageurs au Pérou” de la péninsule
ibérique, dont le surnom peut coller au nom de plusieurs générations,
mais dont il n’est jamais certain qu’ils soient allés un jour aux Indes.
La très grande majorité de ceux qui sont allés dans les Andes ne sont
pas surnommés peruleros. Par ailleurs, il convient de distinguer ceux
qui se trouvent pris dans un contexte linguistique et anthroponymique
étranger de ceux qui exportent leurs noms dans un milieu de réception
linguistique et religieux favorable, comme c’est le cas dans les colonies
espagnoles pour les péninsulaires. Dans tous les cas cependant, il est
des formes caractéristiques: hispanisation, francisation, adaptations
linguistiques diverses, transpositions, changements purs et simples de
noms, composition de noms mêlés. Les particularités ne manquent pas
pour autant, ainsi les Irlandais dans l’armée espagnole ou française
qui tirent parti de leurs noms commençant par la lettre “o”, et qu’ils se
plaisent à faire valoir pour la particule de noblesse irlandaise “ô” en la
transposant sous la forme de la particule “de”. Toutefois, le migrant est
rarement doté d’un solide patrimoine onomastique, son nom alimente un
pari contre le passé et une stratégie pour l’avenir. D’ordinaire, son nom est
un piètre viatique pour espérer réussir ailleurs. D’autant que la mobilité
spatiale se mêle généralement à son désir d’ascension sociale.
Si le nom est le premier capital de l’imposteur, c’est qu’il a une forme
d’efficacité sociale. Ainsi, en région parisienne durant la seconde moitié
du xviie siècle, un certain Louis Roger évoque les noms d’une vraie
nourrisse, mais qui n’a pas été la sienne, afin de se faire passer pour noble;
le Chevalier Le Bon, lui, se présente en tant que noble de Montpellier
avec force détail et références authentiques. Tout est vrai, mais ni l’un
ni l’autre ne sont les hommes qu’ils prétendent être14. Dans le domaine
G. Salinero Une ville entre deux Mondes. Trujillo d’Espagne et les Indes. Pour une
histoire de la mobilité à l’époque moderne, Madrid, Casa de Velázquez, 2006.
14
Exemples empruntés à V. Denis, Une histoire de l’identité: France, 1715-1815,
Seyssel, Editions Champ Vallon, 2008.
13
50
Gregorio Salinero
Atlantique, les cas de changements de nom pullulent, motivés par de
multiples raisons. Le plus fréquent est sans doute motivé par les exigences
liées à l’obtention d’une licence royale pour aller aux Indes. L’autorisation
exclue notamment ceux qui ont des dettes impayées, ceux qui font l’objet
d’une condamnation grave, les hérétiques de tous poils, ainsi que les
convers et les morisques. Contourner la réglementation suffit à rendre
compte des changements de noms15. Parfois, il semble que le candidat au
départ ait seulement utilisé un titre de passage disponible pour accélérer
les procédures. D’autres fois, il nous est quasi impossible d’expliquer un
changement qui semble connu de tous.
En 1601, la religieuse Gerónima de Jesús y San Agustín (Gerónima
Núñez?), fille de Diego Serrano et de Mencía álvarez, donne diverses
procurations, pour encaisser l’argent que son oncle, Gaspar Serrano,
décédé au Pérou, leur a laissé à elle et sa sœur Francisca Núñez: “pour
encaisser auprès de la caisse des défunts de Séville 5000 réaux laissés par
Pedro Alonso de Paredes qui s’appelait auparavant Gaspar Serrano, son
oncle, fils de Gerónimo Serrano”16. Francisca Núñez est décédée, si bien
que Gerónima réclame à la fois sa part d’héritage et la part de sa sœur. Le
changement de nom de Gaspar est connu, et il est peu vraisemblable qu’il
procède d’une usurpation d’identité ou qu’il soit frauduleux. Toutefois, il
est possible que Gaspar Serrano ait utilisé la licence d’un autre pour aller
aux Indes, empruntant pour se faire le nom du titulaire de la licence, à
moins qu’il n’ait fait la traversé sans papiers personnel, mais compris
dans le groupe de la domesticité d’un noble fortuné17. Notons que les deux
filles de la famille ne portent pas le premier nom de leur père, pas plus que
le premier nom de leur mère. Retenons, concernant ici le cas des femmes,
que l’apparente incohérence de la nomination n’est pas nécessairement le
G. Salinero, Sous le régime des licences. L’identification des migrants vers les Indes
espagnoles, xvie, xviie siècles, dans Gens de passage en Méditerranée de l’Antiquité à
l’époque moderne. Procédures de contrôle et d’identification, sous la dir. de C. Moatti et
W. Kaiser, Paris, Maisonneuve & Larose / Maison Méditerranéenne des Sciences de
l’Homme, 2007, pp. 345-367.
16
“Para cobrar de la Caja de los difuntos de Sevilla 5000 reales que dejó Pedro Alonso
de Paredes que se llamaba Gaspar Serrano, su tio, hijo de Gerónimo Serrano”, APAMT,
procuration, 9/1/1601, Juan de Lucio.
17
Sur les passagers clandestins à proprement parler, c’est-à-dire ceux qui embarquent
sans licence, A.P. Jacobs, Pasajeros y polizones. Algunas observaciones sobre la
emigración española a las Indias durante el siglo xvi, dans “Revista de Indias”, n. 172,
XLIII (1983), pp. 439-479.
15
Recherche de la stabilité et sur l’instabilité anthroponymique moderne
51
signe de la manipulation des identités. Bien des exemples indiquent donc
que dans le centre de la péninsule ibérique le système de transmission des
noms ne sembles pas absolument arrêté au xvie siècle, du moins pas selon
les règles ultérieures du cumul de noms venus de la branche paternelle
et de la branche maternelle. La bigamie successive et les multiples cas de
doubles vies engendrent davantage de camouflages d’identité. Qui plus
est, on voit dans cas précédent que Pedro Alonso de Paredes, après avoir
utilisé un autre nom, retrouve aisément son nom de famille à l’occasion
du règlement d’une affaire d’importance18. Si les modifications semblent
se faire avec tant de fréquence et de simplicité, c’est qu’en exportant les
systèmes de nomination péninsulaires aux Indes, leur souplesse et leur
permissivité d’origine à l’égard des changements sont conservés intactes
par delà la mer océane.
Le cas des régions italiennes est spécialement intéressant. Il semble
parfois qu’une sourde lutte oppose les historiens pour savoir quelle région
accède la première à l’usage d’un cognomi stable constituant un nom de
famille. Sans doute la question constitue-t-elle un enjeu épistémologique
d’importance, le Piémont semble en avance sur la Toscane sur ce point.
Une géographie et une chronologie des usages à base statistique doit
être établie afin de servir de référence à l’ensemble des étudies sociales.
Toutefois, elle ne devrait pas négliger la part de l’instabilité et des brassages
qui peuvent affecter l’Italie, particulièrement pour les périodes tardives
des xviiie et xixe siècles. Les noms italiens du sud s’exportent vers Rome
ou le nord de la péninsule; ils franchissent les frontières cependant que
des phénomènes migratoires affectent parfois très tôt l’Italie: qu’advientt-il des noms des juifs de Livournes; comment subsistent les noms italiens
au travers du bassin méditerranéen et au-delà? On se souvient que le texte
de la très célèbre Livornina faisait allusion à la question des prénoms et les
noms de famille. Le texte de 1593 accordant des privilèges commerciaux
et fiscaux aux étrangers visait à attirer les marchands juifs ou musulmans
susceptibles de dynamiser la région de Livourne et de Pise, le débouché
de la Toscane des Médicis. Les auteurs du texte avaient pris la mesure de
l’importance symbolique des noms en garantissant la sécurité de ceux qui
viendrait et en leur assurant qu’ils ne seraient désormais plus contraient
de se cacher, fusse sous un masque anthroponymique chrétien: “Nous
voulons également que… vous ne soyez l’objet d’aucune… dénonciation
Sentencias del Consejo Con Francisco Noguerol sobre haberse casado dos veces, 1557,
Archivo General de Indias (= AGI), série Escribania, 952/1535-1577.
18
52
Gregorio Salinero
ou accusation, même si vous et vos familles avez dans le passé vécu hors
de notre Domaine en tant que chrétiens d’habit ou de nom”19. Nul doute
que ceux qui reprirent leurs noms furent nombreux.
Il est vrai que les italiens émigrés eux-mêmes recourraient au
changement de nom. Citons seulement le cas de cet italiano de Niza,
un italien de Nice, convaincu de complicité avec les rebelles de Taxco
qui voulurent s’emparer des mines d’argent de la région mexicaine en
1550. Les autres insurgés connaissaient le niçois en tant que Benito
Torres, probablement un nom de famille italien espagnolisé. Mais celui-ci
affirmait s’être toujours appelé Benito Castilla, un nom surprenant pour
un italien né dans le village d’“Esperamonte”, un nom niçois hispanisé
qui ne permet guère d’identifier précisément le lieu. Une sorte de faux
toponyme en guise d’appellation. Il était aux Indes depuis onze ou douze
ans et en avait passé huit au Pérou où il servait comme arquebusier dans
la compagnie rebelle du capitaine Guevara. Fait prisonnier, il avait été
condamné à l’exil du Pérou et à deux ans de galères. De fait, nous avons
retrouvé sa trace (sous le nom de Benito Castillo, et non Castilla cette
fois) parmi les hommes déjà condamnés par le président de l’audience
de Lima, La Gasca, en 1549 à l’exil du Pérou, à la confiscation de tous
ses biens et aux galères à perpétuité. Parvenu en Nouvelle Espagne et
longtemps sans emploi, Benito s’était résolu à travailler dans un ingenio,
une fonderie d’argent à Taxco, pour le compte du mineur García de Vega
pour un salaire de 100 pesos, sans doute pour exercer une fonction de
superviseur et de surveillant des esclaves de l’atelier. Pauvre et poursuivi
par la justice, l’italien avait changé de nom et sans doute de prénom
à plusieurs reprises avant d’être exécuté à la mie août 155020. D’autres
se trouvaient dans une situation bien différente, tels les Fantoni, une
famille de marchands florentins installés à Cadix21. Alliés à des familles
gaditanes (les Villavicencio, les Gonzalez de Albelda, les Chilton) aussi
bien qu’à d’autres familles de marchands florentins et génois présents
en Andalousie (les Marrufo et les Sopranis), ils conservèrent néanmoins
leurs noms entre le xve et les débuts du xixe siècle. Ce simple échantillon
d’exemples démontre à l’envie la variété des pratiques de nomination.
Texte complet de la Livornina dans R. Toaff, La nazione Ebrea a Livorno e a Pisa,
1591-1700, Firenze, L.S. Olschki, 1990, pp. 419-431.
20
Les accusations contre le dénommé “Torres” se trouvent en, Procès des rebelles de
Taxco, AGI, Patronato 181, R. 15, f. 730-760.
21
J.J. Iglesia Rodríguez, El árbol de Sinople. Familia y patrimonio entre andalucía y
Toscana en la Edad Moderna, Sevilla, Universidad de Sevilla, 2008. pp. 163 et suiv.
19
Recherche de la stabilité et sur l’instabilité anthroponymique moderne
53
Les noms en tant que marque et promotion
de l’identité collective
Prenons un autre exemple, cette fois en Estrémadure. Contrairement aux
pratiques de nombre de familles aristocratiques de la péninsule Ibérique
qui passaient à un système à deux noms de famille, parfois dès le xve
siècle, la famille Pizarro adopta très tôt une pratique consistant à lier les
garçons à un nom unique qui véhiculait le prestige militaire des soldats de
la lignée. Pour eux, il n’était pas de stratégie aux petits pieds; faute d’être
issu de l’union de plusieurs lignages nobles, ils conservèrent le nom le plus
tinté d’hidalgía, de petite noblesse. L’arrière grand père du conquistador
Francisco Pizarro avait pour nom Hernando Alonso de Hinojosa, et le
père de son arrière grand-mère Gonzalo Díaz. Pour autant, le grand père
Hernando Alonso Pizarro, délaissa les noms de la branche masculine pour
ne conserver que le second nom de sa mère, Teresa Martínez Pizarro. Cette
attitude peu en accord avec la conservation des patronymes a fait écrire
à nombre d’érudit que le petit fils Francisco Pizarro aurait dû s’appeler
Hinojosa ou bien Díaz22. Toujours est-il que l’aïeul du conquistador
s’illustra dans les guerres d’Italie et que son propre père conserva ce nom
unique. Mais trois des quatre fils Pizarro (Francisco le conquistador,
Gonzalo le rebelle et Juan le cadet), furent des bâtards, en sorte qu’eux
aussi continuèrent de ne porter que le seul nom de Pizarro, excluant celui
tout à fait roturier de leurs mères respective. C’est précisément pour ne
pas apparaître en tant qu’enfants adultérins ou naturels, que les membres
de la bonne noblesse castillane s’attachent à porter deux noms de famille,
évocateurs de leur double noblesse et de leur appartenance aux groupes
de vieux chrétiens, fusent-ils des noms usurpés. L’apparente stabilité du
matronyme Pizarro procédait donc d’une série de choix dérogeant aux
pratiques de nomination communes. Mais ce comportement ne serait que
très banal si le destin n’avait propulsé les quatre frères sur le devant de la
scène atlantique.
Parmi les Espagnols, les capitaines, les conquistadors et ceux qui
reçurent des répartitions d’indiens, furent très fréquemment des donneurs
de noms. Ce fut aussi le cas en Espagne où le propriétaire d’un
esclave, parfois même l’employeur d’un domestique, sans nécessairement
M. Muñoz de San Pedro, Francisco Pizarro debió apellidarse Díaz o Hinojosa: Las
rencillas familiares trujillanas y el cambio de apellidos en los ascendientes del conquistador
del Perú, dans “Revista de Estudios Extremeños”, XXIV (1950), 3-4, pp. 503-542.
22
54
Gregorio Salinero
appartenir à la haute noblesse, donnait son nom, et bien souvent son
prénom, à son subalterne23. Aux Indes, ils donnaient leur prénom et
parfois leurs noms de famille à un serviteur indien ou à un cacique
administrateur d’un des villages pris dans leur encomienda. Très prisé
par les contemporains, le nom de Pizarro connut une certaine diffusion
accélérée après l’assassinat du marquis de la Conquête dans le palais
du gouverneur à Los Reyes en 1541. Encore aujourd’hui, il est l’objet de
nombre de convoitises, d’autant que la descendance des frères fut tout à
fait réduite. Dès le début des années 1530, Martín, l’interprète indigène du
Gouverneur Francisco Pizarro, prit le nom de son maître et se fit appeler
Martín Pizarro24. Il suivra Gonzalo Pizarro dans sa révolte et perdra
finalement les biens qui lui avaient été distribués par le gouverneur.
Suite aux dénonciations du complot de Martin Cortés à Mexico,
au milieu des années 1560, les auditeurs de l’audience firent arrêter et
assigner à résidence près d’une centaine de personnes. Parmi elles, Diego
Pizarro fut décrit par les délateurs comme un homme très fort, expert
dans le maniement des armes, redoutable soldat venu du Pérou répandre
l’insurrection en Nouvelle Espagne. En somme un comportement arrogant
non dénué de quelque coquetterie: “homme très rude et doté de beaucoup
de force un grand tireur d’arquebuse dont il a entendu dire qu’il est très
courageux, c’est pourquoi je crois que c’est l’un des principaux conjurés”;
“irréductible sectateur, homme d’une très grande force qui affiche partout
son courage”. Quand l’ordre de se saisir de lui fut donné, il parvint à
s’enfuir: “il était caché sur les terres du marquis del Valle… et il s’est
vanté d’être des Pizarro, un membre du clan qui a trahi le service du roi
et qui s’est soulevé dans le royaume du Pérou… un homme fourbe”25.
Craignant d’essuyer les pires difficultés pour se saisir de lui, les membres
de l’audience le traquèrent et parvinrent non sans mal à le mettre aux
A. Stella, Histoires d’Esclaves dans la péninsule ibérique, Paris, Editions de l’EHESS,
2000; G. Salinero, Maîtres, domestiques et esclaves du siècle d’or, avec dessins d’A. de
Kermoal, Madrid, Casa de Velázquez, 2006.
24
M. Rostworowski de Diez Canseco, Senoríos indígenas de Lima y Canta, Lima, IEP
Ediciones, 1978.
25
“Hombre rigoroso y hombre de mucha fuerza y grande arcabuzero que ha oido decir
que es hombre muy valiente y por esto cree este testigogo que sería uno de los mas
ciertos conjurados”; “incorregible facioneroso y hombre de mucha fuerzas que presume
de valiente”; “se halló y escondió en tierra del marques del Valle… y se a alavado que
es de los Pizarros y deudos de los que han traicionado al real servicio se alzaron en los
reinos del Pirú… es hombre travieso”, AGI, série Patronato 218 R2 fol. 1-64.
23
Recherche de la stabilité et sur l’instabilité anthroponymique moderne
55
fers. Les commissaires royaux ordonnèrent rapidement qu’il soit soumis
à la question, aux tourments de la corde et de l’eau, tormento de agua y
cordelles, afin de faire céder un homme doté d’un caractère bien trempé.
Mais avant même la première séance de torture dans les cachots de
l’audience, Diego se présenta comme un modeste charpentier de 25 ou 26
ans. Les tourments de Diego s’intensifièrent “on lui a mis un entonnoir
étroit dans la bouche… on y a versé une jarre d’eau… puis l’opération a
été répétée; puis il a dit: arrêtez, je vais parler, attendez… l’entonnoir lui a
été retiré et il a promis de faire consigner son témoignage; puis l’entonnoir
lui as été remis et on y a reversé de l’eau…”26. Une trentaine de fois durant
la même matinée, il fut soumis à cet infâme traitement. Il nia tout en
bloc et admit seulement être le fils de Gonzalo del Corral y de Catalina
Pizarra. Selon ses dires, il avait seulement pris le nom de sa mère. Notons
toutefois que Pizarra est rarissime (un simple prétexte ici?) et qu’à tout
prendre Pizarra ne vaut pas Pizarro. Enfin, il tenta dans un premier temps
de cacher aux visiteurs qu’il était venu aux Indes pourvu d’une licence
pour faire des bombes dans les chantiers de construction et les mines,
une compétence qui ne pouvait qu’intéresser les rebelles. Il est clair que
Diego, entré dans la ligue pour y perpétrer quelque mauvais coup, avait
usurpé le nom de Pizarro pour faire encore grandir sa réputation de
redoutable soldat et d’expert en arquebuses27. Nom emprunté certes, mais
nom renforcé par le nombre de tous ceux qui veulent s’en emparer pour
affirmer ce qu’ils sont ou ce qu’ils voudraient être. La sentence tomba:
“selon la culpabilité établie à l’encontre du dit Diego Hernández Pizarro
nous le devons condamner et condamnons à ce qu’il soit tiré de la prison
où il se trouve et soit mis, pieds et poings liés et le torse nu, sur une bête
de somme avec une proclamation publique de son délit et de la justice qui
doit être faites; qu’il soit ainsi exhibé dans la cité par les rues accoutumées
et que lui soient infligés cent coup de bâtons; nous le condamnons, en
plus, à servir sa majesté sur les galères qui naviguent le long des côtes
espagnoles en tant que rameur durant les quatre prochaines années sans
aucun salaire et qu’il fournisse entièrement le dit service sans faillir sous
peine de devoir le rendre pour le double de cette durée; et par la présente
“Y luego le fue puesta una toca delgada en la boca y por mandamiento de los dichos
señores se le echaron un jarro de agua… y se le hizo otro tal apercibimiento el quel
dijo yo diré esperar… fuele quitada la toca y dijo que levantaré testimonio y tornósele
a poner la toca y a echarle agua…”, ibid.
27
Ibid.
26
56
Gregorio Salinero
sentence définitive… nous l’ordonnons en imputant à sa charge les frais
de justice”28. Il parvint finalement à faire commuer sa peine en simple
amende. L’histoire de Diego démontre comment la pérennité d’un nom
renforce les identités collectives et permet de souder les clientèles de tout
un clan. Au-delà même de celles-ci, il créait des modes et des parentés
fictives durables. Mais l’apparente pérennité s’échafaude sur la base de
multiples changements préalables qui permettent de constituer une sorte
de vitrine du nom.
Notons que les historiens et autres généalogistes ont leur part de
responsabilité dans la création de faux semblants anthroponymiques. Dans
la généalogie d’un éminent biographe anglo-saxon des Pizarro, Francisco
Pizarro (fils d’Hernando Pizarro et de doña Francisca Pizarro) est désigné
sous le nom de Francisco Pizarro y Pizarro, un nom qui n’apparaît pas
dans la documentation notariale29. Il s’agit d’un étiquetage logique, sorte
de travail d’entomologiste scrupuleux, soucieux d’éviter les nombreuses
confusions qui sont possibles, mais en rien de l’enregistrement d’une
pratique du temps. C’est aussi une manière de souligner la concentration
de noblesse et la somme vertueuse des héritages accumulés dans une seule
personne, sorte de nom au carré. Après 1580, dans la documentation de
Trujillo Francisco Pizarro apparaît en tant que Francisco Pizarro alférez,
titre quelque peu symbolique de sergent des hommes d’armes. Avant cette
date, son père puis son frère Juan accaparent cette charge; il est alors
question de lui sous le simple nom de Francisco. L’aboutissement de ce
processus à une stricte concentration sur un nom de famille est aussi rendu
possible par le gommage du nom indien de la grand-mère maternelle de
l’édile, Inés Huayllas Yupanqui. De fait, la mère de Francisco, fille de
Francisco Pizarro et d’Inés (mariée avec son oncle Hernando) est toujours
mentionnée sous la simple forme de Francisca Pizarro.
“Por la culpa que resulta contra el dicho diego Hernández Pizarro le devemos
condenar y condenamos que de la carcel e prisión en que esta sea sacado cavallero
encima de una bestia de albarda atado pies y manos desnudo de la cintura arriba
con pregón público que manifeste su delito e la justicia que se manda hacer; sea
traido por las calles publicas acostumbradas desta ciudad y le sean dados cien azotes;
condenámosle más a que por tiempo y espacio de quatro años primeros siguientes
sirva a SM en las galeras que andan en las costas de la mar en España e por galeote y
sin sueldo y al remo el cual dicho servicio guarde e cumpla y no lo quebrante so pena
que lo cumpla doblado; y por esta nuestra sentencia definitiva… lo… mandamos con
costas”, ibid.
29
J. Hemming, La Conquista de los Incas, Mexico, FCE, 1982.
28
Recherche de la stabilité et sur l’instabilité anthroponymique moderne
57
Que les hommes de l’époque moderne aient recherché à établir un
nom stable ne fait pas de doute. Mais le nom visé ne consistait pas
nécessairement dans la conservation ou la transmission de celui de leurs
pères. Les systèmes de nominations recélaient le plus souvent une grande
souplesse et constituaient des cadres de références à l’égard desquels
s’exprimait une grande tolérance. Le délit de changement de nom n’existait
pas en tant que tel. Quelquefois les changements s’accompagnaient
d’authentiques usurpations d’identité, mais généralement au contraire,
ils visaient à renforcer des identités collectives en construction. Pour
parvenir à renforcer celles-ci, les choix stratégiques et anthroponymiques
engendraient des changements successifs, publics ou occultes selon le cas.
Aussi, les études de l’anthroponymie moderne ne peuvent-ils se réduire à
la reconstitution des familles ou bien à celle des stocks de noms (prénoms
et noms de familles) et de leurs évolutions30. De tels travaux doivent
s’efforcer dans le même temps de comprendre la volonté de changer de
nom qui s’exprime tout au long de l’époque moderne.
Publié récemment, voir Anthroponymie et migrations dans la chrétienté médiévale,
études réunies par M. Bourin et P. Martinez Sopena, Madrid, Casa de Velázquez, 2010.
30
I cognomi italiani nel Medioevo:
un bilancio storiografico
Simone M. Collavini
Università di Pisa
Questo contributo, nato su sollecitazione di Roberto Bizzocchi e pensato
come funzionale all’impostazione di un gruppo di ricerca formato solo
in parte da medievisti, si propone di fare il punto sullo stato degli studi
sulla nascita e sulla diffusione di forme cognominali in Italia centrosettentrionale nel medioevo. Per farlo, ci si concentrerà sugli studi di
un’équipe internazionale coordinata da M. Bourin sul tema della Genèse
médiévale de l’anthroponymie moderne, cercando di rileggerli in funzione
del nostro specifico questionario. Quel gruppo di ricerca ha prodotto
alcuni volumi collettivi sulla Francia, sulla Penisola Iberica e sull’Italia.
Le ricerche condotte sull’area italiana, che più da vicino ci interessano,
sono state coordinate da F. Menant e J.-M. Martin: esse consistono in
oltre un migliaio di pagine di studi, pubblicati nelle “Mélanges de l’École
Française de Rome” e in un volume1. Sebbene non certo limitati al nostro
tema, questi saggi disegnano un utile quadro dello stato delle conoscenze
e offrono spunti importanti, a chi intenda studiare i nostri problemi
anche in epoche successive.
1. Come è ben noto, nell’alto medioevo vigeva un sistema onomastico
basato sul nome unico: ogni individuo aveva un solo nome, latino o
1
Genèse médiévale de l’anthroponymie moderne: l’espace italien. Actes de la table ronde
(Rome, 8-9 mars 1993), in “Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge-Temps
Modernes” [d’ora in poi “MEFRM”], CVI (1994), pp. 313-736; Genèse médiévale de
l’anthroponymie moderne: l’espace italien. 2. Actes de la table ronde (Milan, 21-22 avril
1994), in “MEFRM”, CVII (1995), pp. 331-633; Genèse médiévale de l’anthroponymie
moderne: l’espace italien. 3. Actes des séminaires (Rome, 24 février et 7 avril 1997), in
“MEFRM”, CX (1998), pp. 79-270; L’anthroponymie: document de l’histoire sociale des
mondes méditerranéens médiévaux. Actes du colloque international (Rome, 6-8 octobre
1994), a cura di M. Bourin, J.M. Martin, F. Menant, Roma, École Française de Rome,
1996. All’interno di questi volumi è possibile trovare i rinvii al resto della produzione
(quella ‘transalpina’) dell’équipe coordinata da M. Bourin.
60
Simone M. Collavini
germanico che fosse2. Quando per specifiche circostanze si voleva definire
con maggior precisione un individuo, per esempio al momento di mettere
per iscritto una donazione o una compravendita, si ricorreva ad alcuni
elementi accessori (impiegati singolarmente o cumulativamente): in
primo luogo la filiazione (nella forma Albertus filius [quondam] Guidi)
o un altro rapporto di parentela (Albertus frater Ildibrandi, Guilla uxor
Alberti). In secondo luogo e in minor misura, erano impiegati dei
riferimenti toponimici (Albertus de loco Arsago [o de civitate Florentia]). Di
uso ancor più occasionale erano altri elementi che avevano la medesima
funzione di meglio precisare l’identità dell’individuo, ma erano confinati
a particolari gruppi: i titoli, connessi o meno all’esercizio di cariche
pubbliche (comes, vir magnificus, gastaldus, vassus); le dichiarazioni di
status o di nazionalità (clericus, servus, alamannus); i nomi di mestiere
(negotians, aurifex, magister, massarius).
Tali elementi, e in particolare i primi due (patronimico e toponimico),
non facevano parte del nome vero e proprio dell’individuo evocato. Lo
mostrano innanzitutto l’occasionalità e l’opzionalità del loro impiego.
Di norma, nelle carte private (donazioni, locazioni, compravendite)
patronimico e toponimico sono usati in riferimento agli attori, mentre
solo di rado si impiegano per i testi o per i confinanti. Patronimico
e toponimico, dunque, erano elementi accessori che, in determinati
contesti espressivi e soprattutto in contratti scritti destinati a conservare
a lungo nel tempo validità, definivano più precisamente l’identità degli
individui, per evitare i possibili equivoci frutto di un sistema onomastico
basato sul nome unico. Per servirsi di un’analogia tratta dalla nostra
esperienza quotidiana, questi elementi avevano una funzione e un
valore analoghi a quelli che hanno oggi la data di nascita, la residenza
e il codice fiscale in una dichiarazione ufficiale: informazioni volte a
una più sicura identificazione personale, ma non veri e propri elementi
onomastici.
Più stabili e coerenti nell’uso – e più spesso impiegati anche per chi non
era attore del negozio – sono gli elementi del terzo tipo (titoli pubblici ed
ecclesiastici, dichiarazioni di status e nomi di mestiere). I titoli connessi
all’esercizio di cariche pubbliche e, ancor più, le dichiarazioni di status
ecclesiastico sono, infatti, usati con tale sistematicità che li si potrebbe
considerare a pieno titolo parte dell’identità onomastica di molti di coloro
2
Un’utile guida in J. Jarnut, Avant l’an mil, in L’anthroponymie: document de l’histoire
sociale, cit. pp. 7-18.
I cognomi italiani nel Medioevo
61
che li portavano (sebbene il ‘nome proprio’ ne rimanesse il cardine). In
ogni caso la quantità di individui interessati dal fenomeno era ristretta e
tale da non mettere in discussione il predominio del nome unico.
Un esempio chiarirà questo punto. Come ha osservato M. Ginatempo
in un contributo dedicato al sistema onomastico vigente nell’area
circostante al monastero di S. Salvatore all’Isola (in Toscana centrale)3,
si può cogliere il carattere più o meno accessorio dei diversi elementi
onomastici alto medievali, osservando che nelle carte gli attori sono
citati in forma estesa al principio del documento (per esempio Albertus
filius quondam Guidi de loco Montione), ma sono ricordati in seguito
con il solo nome (nel nostro caso Albertus). Non altrettanto si può dire,
invece, degli elementi del terzo tipo (essi sì parte integrante del nome):
se la prima occorrenza è Iohannes clericus filius Erithei de civitate Luca o
Ildebrandus comes filius Rainerii comitis le successive menzioni saranno
Iohannes clericus e Ildebrandus comes – e non semplicemente Iohannes
o Ildebrandus. Nell’alto medioevo, insomma, i titoli erano elementi più
stabili e meno accessori dell’identità onomastica personale rispetto a
patronimici e toponimici.
2. Al di là di scarti minori, dunque, il sistema onomastico alto medievale si
basava sul nome unico, ma nel corso del pieno medioevo (secoli XI-XIII)
esso conobbe una radicale trasformazione. Infatti, nel primo Trecento
quasi tutti gli individui portavano ormai nomi costituiti da due elementi
(nomen e cognomen), occasionalmente integrati da elementi accessori.
Sebbene si tratti di due fenomeni chiaramente intrecciati fra loro, non
bisogna confondere l’affermazione del nome a due elementi con la nascita
del ‘cognome’ in senso moderno. Gli attuali cognomi (che sono nomi di
famiglia ereditari, obbligatori e con funzione identificativa prevalente
rispetto al nome proprio) sono, infatti, solo una delle varie forme di nome
doppio storicamente determinatesi.
I cognomina basso medievali (il secondo membro del nome doppio
allora dominante) potevano essere costituiti da elementi molto diversi
fra loro: patronimici, toponimici, soprannomi, indicazioni di mestiere
o veri e propri nomi di famiglia. Ancora incerte ne erano inoltre la
fissità nel tempo per il singolo individuo e ancor più la trasmissione
ai discendenti. Infine, essi non avevano ancora assunto una funzione
3
M. Ginatempo, Tracce d’antroponimia dai documenti dell’abbazia di San Salvatore
all’Isola (Siena) 953-1199, in “MEFRM”, CVI (1994), pp. 509-558; 520-521.
62
Simone M. Collavini
prevalente nell’identità dell’individuo e nella sua percezione da parte della
società circostante. Era invece la coppia nomen/cognomen a identificare
in prima battuta ciascuna persona.
Le ricerche dell’équipe coordinata da M. Bourin, condotte sulle
fonti seriali e sugli atti notarili, hanno precisato la cronologia del
cambiamento, disteso in Italia tra XI e XIII secolo (e quindi leggermente
in ritardo rispetto ad altre aree europee), e le sue consistenti varianti
regionali. Nell’ultimo dei seminari dell’équipe ‘italiana’, poi, è stato
affrontato lo specifico problema della ‘fissazione’ del cognomen e della
sua trasmissione ai discendenti. Il gruppo, secondo una pratica di
organizzazione della ricerca caratteristica della medievistica ‘italiana’, ha
dato origine a due équipes distinte, che hanno studiato rispettivamente
l’Italia Centro-Settentrionale e l’Italia Meridionale. Si cercherà di dar
conto qui dei risultati raggiunti sulla prima di queste aree, proponendone
in parte una rilettura4. Non ci si soffermerà invece sull’Italia Meridionale,
sia per ragioni di spazio, sia perché i risultati raggiunti non mi paiono del
tutto univoci e non offrono un quadro pienamente coerente.
Sebbene l’équipe coordinata da F. Menant abbia trattato l’Italia
Centro-Settentrionale come un’unità discreta e omogenea, è forse più
utile provare a circoscrivere due aree distinte, portatrici di sistemi
antroponimici diversi.
Come per altri aspetti delle strutture sociali e politiche del pieno
medioevo, Italia Settentrionale e Italia Centrale mostrano, infatti,
evoluzioni discordanti e relativamente omogenee all’interno di ciascuna
macro-regione. Sebbene le sintesi in tale direzione siano solo all’inizio,
la scelta di considerare l’Italia Centrale (Toscana, Umbria e Marche),
come una realtà con caratteristiche proprie pare promettere risultati
molto significativi, non diversamente da quanto è avvenuto quando
nella storiografia francese è emerso uno specifico interesse per il Mîdi
come regione storica e non solo come variante ‘arretrata’ delle evoluzioni
caratteristiche della Francia Settentrionale5.
4
Gli esiti dell’indagine collettiva sono sintetizzati in F. Menant, L’Italie centroseptentrionale, in L’anthroponymie: document de l’histoire sociale, cit. pp. 19-28; cfr.
anche Id., Entre la famille et l’État: l’héritage du nom et ses détours dans l’Italie des
communes, in “MEFRM”, CX (1998), pp. 253-270.
5
Un buon punto di partenza per riflettere su entrambi gli aspetti è I poteri territoriali
in Italia Centrale e nel Sud della Francia. Gerarchie, istituzioni e linguaggi (secolo XIIXIV): un confronto (Roma-Chambery-Firenze, dicembre 2006-dicembre 2007), a cura
di G. Castelnuovo, A. Zorzi, i.c.s. in “MEFRM”, CXXIII/2 (2011)
I cognomi italiani nel Medioevo
63
Sono dunque riconoscibili due aree differenti per ritmi e per
caratteristiche dell’evoluzione del sistema antroponimico. Della prima,
centrata sulla Lombardia, fanno parte Veneto, Emilia, Liguria e Piemonte.
Nella seconda rientrano certamente Toscana (finora la meglio studiata),
Marche, Umbria e, forse, anche il Lazio6. Per ciascuna area si può
enucleare un modello di riferimento coerente. Sebbene le varianti interne
siano molto importanti, infatti, esse non si articolano in base ad ambiti
regionali o sub-regionali (per esempio Emilia vs Lombardia o Toscana
vs Marche), ma hanno una base cittadina (per esempio Firenze vs Roma
o Cremona vs Bologna) oppure si articolano secondo linee di frattura di
natura sociale (per esempio gruppi eminenti urbani vs ceti inferiori o
cittadini vs rurali).
A differenziare Nord-Italia e Italia Centrale sono sia i tempi di
affermazione del cognomen (cioè i tempi del passaggio dal sistema a
nome unico a quello a nome doppio), sia, soprattutto, le forme e le
caratteristiche assunte dal secondo elemento, allorché esso si affermò.
Solo in Italia Settentrionale la sua trasformazione in nome di famiglia fu,
infine, un fenomeno maggioritario tra pieno e basso medioevo.
3. In Italia Settentrionale7 il superamento del nome unico fu precoce: già
nel secolo XI, a partire dalle aristocrazie signorili (le prime ad impiegarlo),
6
Dai, per altro verso interessanti, contributi sul Lazio non sono riuscito a recuperare
un quadro organico del funzionamento del sistema onomastico basso medievale
riguardo alla questione che qui ci interessa, cfr. é. Hubert, Évolution générale de
l’anthroponymie masculine à Rome du Xe au XIIIe siècle, in “MEFRM”, CVI (1994),
pp. 573-594, T. di Carpegna, Le trasformazioni onomastiche e antroponimiche dei ceti
dominanti a Roma nei secoli X-XII, ibid., pp. 595-640, Id., L’antroponomastica del clero
a Roma nei secoli X-XII, in “MEFRM”, CX (1998), pp. 513-534 e S. Carocci, Cognomi e
tipologia delle fonti. Note sulla nobiltà romana, ibid., pp. 173-181.
7
Per l’Italia Settentrionale, oltre a quelli citati di seguito, ho fatto riferimento a
questi saggi: O. Guyotjeannin, L’onomastique émilienne (XIe-milieu XIIIe siècle). Le
cas de Reggio Emilia d’après le fonds de San Prospero, in “MEFRM”, CVI (1994), pp.
381-446; P. Racine, À propos du système anthroponymique placentin (XIIe siècle), ibid.,
pp. 447-458; P. Corrarati, Nomi, individui, famiglie a Milano nel secolo XI, ibid., pp.
459-474; M. Montanari, Estimi e antroponimia medievale: il caso di Chieri (a. 1289),
ibid., pp. 475-486; P. Corrarati, Percorsi dell’antroponimia familiare: Milano e il Milanese
nel XII secolo, “MEFRM”, CVII (1995), pp. 497-512; O. Guyotjeannin, Problèmes de
la dévolution du nom et du surnom dans les élites d’Italie centro-septentrionale (fin du
XIIe-XIIIe siècle), ibid., pp. 557-594; F. Menant, Comment s’appelaient les habitants de
Crémone vers le 1300? Contribution à l’histoire du nom de famille en Italie, in “MEFRM”,
CX (1998), pp. 183-200.
64
Simone M. Collavini
il cognomen si diffuse, dapprima in ambito urbano, poi negli insediamenti
rurali maggiori (come la Monselice studiata da S. Bortolami8) e, infine,
anche nelle stesse campagne9.
Il nome doppio si affermò attraverso quattro canali: la comparsa di
nomina paterna (come Petrus Alberti), l’uso di toponimici (come Petrus
de Arsago), l’impiego di titoli o indicazioni di mestiere (come Petrus
vicecomes o Petrus ferrarius) o il ricorso a soprannomi (come Petrus qui
dicitur Grassus o, direttamente, Petrus Grassus). Fu a partire da queste
tipologie di doppio nome – ancora personali, spesso instabili e comunque
non ereditarie – che nacquero vere e proprie forme cognominali. Ciò
avvenne con la trasformazione del secondo elemento da patronimico a
nome di famiglia (come Petrus de Alberto o, in una fase più matura, Petrus
de Albertis), con il distacco della designazione toponimica dall’effettiva
residenza e dell’indicazione di mestiere da quello effettivamente esercitato
o, infine, con la ripetizione del soprannome o la sua trasformazione in
nome di famiglia (Petrus Grassus f. Petri Grassi o Petrus de Grasso, poi
Petrus de Grassis).
La necessità di sintesi impedisce di rendere giustizia alla qualità delle
ricerche e agli elementi di complessità introdotti nelle varie analisi. Ci
si deve limitare a notare, perciò, che nel complesso esse tracciano un
panorama variegato e articolato localmente e socialmente, chiarendo
inoltre le gravi difficoltà poste allo studio delle forme antroponimiche dalla
tipologia delle fonti impiegate e dal forte condizionamento dell’inevitabile
mediazione notarile tra pratiche quotidiane orali e loro precipitazione
nei documenti scritti. Si tratta di elementi che consigliano prudenza nei
confronti di modelli univoci e di affermazioni perentorie. Va sottolineata,
in particolare, l’insistenza sulle rilevanti variabili locali nei tempi e
nei modi della trasformazione: sebbene sia senz’altro riconoscibile un
percorso comune nella direzione su delineata – quella che porta dal nome
singolo al nome doppio e quindi al cognome –, tempi modi e generalità
della trasformazione variarono sostanzialmente nelle varie località. Va
inoltre notato che, ancora per un certo tempo dopo la comparsa del
cognome, il patronimico non venne meno, mantenendo un proprio
8
S. Bortolami, L’evoluzione del sistema onomastico in una ‘quasi città’ del Veneto
medioevale: Monselice (secoli X-XIII), in “MEFRM”, CVI (1994), pp. 343-380.
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La questione della generalizzazione del fenomeno in ambito rurale resta comunque
un problema aperto e che necessita di ulteriori indagini. Per un quadro d’insieme vd.
F. Menant, L’anthroponymie du monde rural, in L’anthroponymie: document de l’histoire
sociale, cit. pp. 349-363.