n. 16 Anno 2010 - Associazione Iasos di Caria

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n. 16 Anno 2010 - Associazione Iasos di Caria
via Borgoleoni, 21
Tel. 0532/20.98.53 - 20.34.71
44100 Ferrara
ASSOCIAZIONE
S O M M A R I O
2
Iasos 1960-2010: 50 anni della Missione Archeologica Italiana
8
Iasos, campagna 2009
12
Fede Berti
Il territorio di Iasos: monumenti antichi, problemi moderni.
Campagna 2009
Raffaella Pierobon Benoit
19
Il ‘castello di terraferma’ a Iasos. Indagini 2009
27
Un nuovo frammento del decreto IIasos 40
31
Les monnaies de fouilles trouvées à Iasos. Bilan provisoire et
étude de cas
Alessandro Viscogliosi
Roberta Fabiani
n° 16 anno 2010
Fabrice Delrieux
36
Appunti per uno studio preliminare di alcune anfore a labbro
diedro provenienti da Iasos
Giulia Lodi
43
Una croce e un gallo scolpiti su una colonna: una
testimonianza di periodo crociato a Iasos?
Hanno collaborato:
Valentina Cabiale
48
Damien Aubriet
Daniela Baldoni
Fede Berti
Valentina Cabiale
Fabrice Delrieux
Roberta Fabiani
Carlo Franco
Giulia Lodi
Raffaella Pierobon Benoit
Alessandro Viscogliosi
Voyageurs en Carie: Philippe Le Bas et le sanctuaire de Zeus à
Labraunda (Carie)
Damien Aubriet
56
Recensioni
Die Karer und die Anderen, hrsg. von Frank Rumscheid
Carlo Franco
61
Notiziario
a cura di Daniela Baldoni
1
IASOS 1960-2010
50 anni della Missione Archeologica Italiana
D
opo lo scavo di alcune tombe a tholos nel sito di Gökçallar, sulla penisola di Alicarnasso
(1922), e dopo un viaggio di ricognizione in Caria, compiuto nel 1955 con Paolo Verzone,
Doro Levi scelse Iasos («...città costiera...dalla quale prende inizio la descrizione dell’esplorazione da
parte di Giacomo Guidi...piccola ma particolarmente promettente...») per le ricerche che intendeva
intraprendere sui rapporti tra «...la primordiale civiltà caria e le civiltà preistoriche dell’Egeo».
La prima campagna, eseguita con i fondi delle Missioni Scientifiche Italiane in Levante e il contributo della Scuola Archeologica Italiana di Atene (di cui Doro Levi era direttore) iniziò il 23
giugno e si concluse il 6 di agosto del 1960. Vi presero parte, con Levi, Giovanni Rizza, Nicola
Bonacasa e Alì Caravella.
da Doro Levi, Le due prime campagne di scavo a Iasos (1960-1961), Annuario della Scuola Archeologica di
Atene, XXXIX-XL, n.s. XXIII-XXIV (1961-1962), Roma 1963, p. 505 ss.
Doro Levi e Clelia Laviosa, succedutisi alla direzione della Missione Archeologica Italiana di Iasos
in viaggio verso Güllük insieme a Luigi Tondo e Francesca Minellono (in secondo piano).
2
La casa della
Missione nel 1968
(Foto archivio SAIA)
La casa della Missione
Nell’estate del 1966 ogni altra attività venne sospesa per consentire all’architetto Gino Pavan di
procedere nei lavori che poco dopo consegnarono a Doro Levi la 'casa della Missione': un edificio
in origine più piccolo, quasi isolato, affacciato sul porticciolo del villaggio (allora Asin Kurin) che
era stato la sede della locale dogana.
La casa della
Missione oggi
3
La tomba nel 1962
(Foto archivio SAIA)
La cucina della Missione
È la tomba più monumentale del piccolo gruppo (costituito da 12 edifici) di sepolture allineate
lungo la terrazza che si affacciava sul porto piccolo, a occidente della città.
È ricordata da Raymond Chandler (1825) per le decorazioni pittoriche sulle pareti interne (da
tempo scomparse) e da Charles Texier come uno degli esempi più caratteristici tra gli edifici funerari di età romana imperiale del sito.
Dotata di un terrazzamento artificiale con gradinata assiale, è costituita da tre vani. La camera
funeraria ha volta a botte e architrave monolitico su ingresso eccezionalmente ampio.
La cucina oggi
4
L'agora nel 1960
(Foto E. Fiandra)
L’agora
Alcuni sondaggi condotti da Giovanni Rizza ne avevano fatto comprendere nel 1963 lo schema
planimetrico. Lo scavo sistematico ebbe inizio successivamente, a partire dalla stoa meridionale,
allora denominata “stoa a nord del bouleuterion”. Sono così ritornati alla luce gran parte del perimetro rettangolare del grande piazzale, le stoai che lo delimitano e, nel tratto centrale, le strutture
preistoriche, la necropoli protostorica e i resti, disparati per cronologia e funzione, delle successive
fasi insediative. Al momento attuale i lavori proseguono lungo il tratto più settentrionale della stoa
occidentale. Le opere di restauro più recenti risalgono alle campagne degli anni 1998 e 1999.
L'agora oggi
5
Il bouleuterion nel
1965
(Foto archivio SAIA)
Il bouleuterion
Charles Texier (1849) riteneva che tra le rovine visibili nella zona dell’istmo (quelle dei principali
monumenti pubblici della città) vi fosse lo stadio. Così lo descrive: «...ce dernier...est completement
adossé aux murs de la ville; il se compose d’une partie circulaire avec quatre ranges de sièges et deux
lignes de gradins qui s’ étendent en ligne droite, parallèlement à l’axe».
Trattavasi, in realtà, del bouleuterion, che venne riportato alla luce, tra il 1964 e il 1967, da Werner
Johannowsky, Giovanni Rizza e Piero G. Guzzo. L’edificio, prontamente consolidato da Doro
Levi, inscrive in una pianta rettangolare la gradinata curvilinea aperta verso il proscenio, conserva
in buono stato il sistema di ingressi e ambulacri, e costituisce uno degli organismi più cospicui per
interesse architettonico della fase imperiale di Iasos.
Il bouleuterion oggi
6
Il Balık Pazarı nel
1963
(Foto archivio SAIA)
Il Balık Pazarı, o mercato del pesce
Così lo denominò Giacomo Guidi nella relazione sul suo viaggio in Caria pubblicata nel 19211922, suggestionato dal ricordo dell’aneddoto di Strabone e dalla forma dell’edificio, che gli
ricordava quella di una pescheria.
Lo scavo, iniziato nel 1962 da Letterio De Gregorio, si concluse due anni dopo sotto la guida
di Gino Pavan, a cui si deve anche la parziale anastilosi del tempio funerario posto al centro del
piazzale delimitato sui quattro lati da un porticato.
Nel 1995, alla conclusione di un’intensa stagione di scavi e restauri, è divenuto il museo-lapidario
della città.
Il Balık Pazarı oggi
7
Iasos, campagna 2009
di Fede Berti
1. Acropoli: l’edificio 1
I
lavori della Missione Archeologica Italiana, iniziati il 10 di agosto, si sono conclusi il 10 ottobre
2009.
Vi hanno preso parte, oltre a chi scrive, Simonetta Angiolillo, Daniela Baldoni, Devrim Bekret,
Fulvia Bianchi, Stefano Borghini, Francesco Giuseppe Bracci, Giulia Castaldi, Simona Contardi,
Francesca Curti, Roberta Fabiani, Flavia Giberti, Marco Giuman, Maria Adele Ibba, Alessio La
Paglia, Giulia Lodi, Gianfranco Maddoli, Maurizia Manara, Nicolò Masturzo, Davide Mengoli,
Anna Maria Monaco, Maurizio Molinari, Flavia Morelli, Massimo Nafissi, Annamaria Nizzi,
Giampiero Rellini Lerz, Carlotta Rodriquez, Laura Ruffoni, Giulia Santucci, Alessandro Viscogliosi, Norbert Zimmermann.
Il dr. Levent E. Vardar (che ci ha raggiunto da Ankara, Direzione Generale del Ministero della
Cultura, quale rappresentante del Governo di Turchia) è stato un prezioso punto di riferimento,
adoperandosi grandemente anche per trovare le soluzioni più idonee ad alcuni problemi sorti in
seguito a recenti normative. Lo ringrazio quindi calorosamente, rivolgendo inoltre un pensiero
riconoscente, per la cordiale disponibilità nei nostri confronti, al direttore e al personale tutto del
Museo Archeologico di Milas.
2. Planimetria del
castello dell’acropoli
8
3. Acropoli:
l’edificio 1
Per ciò che riguarda lo scavo, l’attività si è concentrata sulle fortificazioni di periodo bizantino
dell’acropoli e sulla stoa occidentale dell’agora.
Della seconda, proficua campagna di rilevamento e analisi strutturale del ‘castello dell’istmo’ è
stata artefice la cattedra di Architettura della Università di Roma La Sapienza (si veda, in questo
stesso numero del Bollettino, quanto riferisce al riguardo Alessandro Viscogliosi). Finalizzata ad
un controllo generale sugli affreschi della ‘casa dei mosaici’ e sui pavimenti musivi della città per
la preparazione di pubblicazioni è stata la presenza di S. Angiolillo, M.A. Ibba e M. Giuman
(Università di Cagliari), così come, da parte di G. Maddoli, R. Fabiani e M. Nafissi (Università
di Perugia), sono avanzati la revisione e il controllo del corpus delle epigrafi.
Lo scavo sull’acropoli ha interessato due delle strutture che si addossano all’interno delle mura
della fortezza (fig. 2): l’edificio 1 (a sinistra dell’ingresso principale) e l’edificio 11, vano A, a cui
corrisponde la torre d’angolo sud-ovest, l’unica delle 15 dell’intero circuito a pianta poligonale. Di
quanto restava dell’edificio 1 (non completamente liberato dal terreno per via di un albero di olivo)
si sono potuti cogliere precipuamente gli aspetti strutturali, poiché, sotto il crollo degli elementi
leggeri del tetto (sottili travi parallele tenute insieme da argilla), il muro laterale a sud-est ha rivelato
la presenza di un focolare incassato in una sorta di piccola nicchia rettangolare (figg. 1 e 3).
I ritrovamenti nel vano A dell’edificio 11 (nemmeno questo compiutamente scavato a causa del notevolissimo spessore dell’interro dovuto alla pendenza del suolo: fig. 4) consistono viceversa in uno
scarico costituito da vasellame da fuoco e dispensa e da altre stoviglie, materiali che, aggiungendosi
ai due contenitori rinvenuti accanto al focolare dell’edificio 1 (parti di una grande olla cordonata
e una pentola anch’essa di notevoli dimensioni), rappresentano il solido punto di partenza per
un’analisi da cui si potrà ricavare il
periodo d’uso delle costruzioni che,
numerose, articolavano l’interno
della fortificazione differenziandosi con tutta probabilità in quanto a
uso e funzione.
La debolezza strutturale denunciata
dai muri dei due edifici, alti circa m
0.80 ma costruiti con pietre tenute
insieme da argilla o terriccio, ha
fatto sì che, per difenderli e meglio
conservarli fino ai prossimi interventi, essi siano stati nuovamente
coperti.
9
4. Acropoli: l’edificio
11, vano A
5. Agora: scavo in corso
nella stoa occidentale
Nello scavo della stoa occidentale dell’agora si è giunti a brevissima distanza dal punto in cui il
muro perimetrale del castello dell’istmo si sovrappone, con diverso andamento, alla stoa stessa
(figg. 5-6).
Ancora di più, in questo settore, il lavoro è stato rallentato dalla rimozione a mano dell’enorme
quantità di pietre franate dal muro soprastante e accumulatesi contro di esso; una fatica mitigata
dal fortunato ritrovamento, tra le macerie, di un piccolo gruppo di marmi decorati e di iscrizioni
risalenti a periodi ed edifici diversi e dalla possibilità, infine, di cogliere visivamente la tessitura
della superficie muraria che palesa qua e là rifacimenti e ripristini.
I piani di calpestio sottostanti al crollo hanno rivelato una fitta trama (a volte costituita solo da
labili tracce) di apprestamenti produttivi destinati alla lavorazione di metalli o di altro materiale:
fosse e buche dalle pareti concotte, canalizzazioni, qualche scarto di fornace, che il ritrovamento
di frammenti di ceramiche invetriate e graffite e di due monete risalenti alla metà circa dell’XI
secolo d.C. consente di datare attorno a tale periodo.
I medesimi piani di calpestio furono
tagliati dalla fossa aperta per gettarvi
le fondazioni del muro del castello. Per
ciò che riguarda, invece, le più antiche (e
sottostanti) strutture della stoa imperiale
(il muro di fondo, gli ambienti retrostanti, ecc.), si è andato caratterizzando
meglio il vano, di modesta estensione,
che era in comunicazione con il dipylon,
nel quale sono state ritrovate anche una
lunga iscrizione e la statua (acefala) di
una divinità femminile seduta (fig. 7).
Dovrebbe trattarsi di un testo concernente la vendita di un sacerdozio e della
statua di culto: in breve, una scoperta,
per Iasos, molto, molto significativa.
6. Agora: scavo in corso
nella stoa occidentale
Dei molteplici studi sui materiali, del rilevamento e del restauro di cui ci siamo occupati (ho già
accennato poco sopra ai programmi di lavoro di alcuni tra di noi) ricorderò i temi e le realizzazioni
principali.
F. Curti, per il dottorato di ricerca in Storia e Civiltà del Mondo Antico presso il Dipartimento di
Scienze dell’Antichità dell’Università degli Studi di Firenze, ha esaminato un nuovo, numericamente cospicuo gruppo di frammenti attici a figure rosse; S. Contardi (dottorato in Scienze Storiche
dell’Antichità DI.S.A.M., Università degli Studi di Genova) ha avviato l’esame del 'cesareo' (strut-
10
ture murarie e architettoniche dell’edificio, materiali dallo scavo, epigrafi che lo
riguardano); N. Masturzo (dottorato in
Storia e Storiografia dell’Antichità Classica, Università degli Studi di Perugia) si
è concentrato sulle ipotesi ricostruttive
concernenti gli alzati delle esedre della
cd. area di Artemis Astias e i monumenti
di IV secolo a.C. (la base con iscrizione
metrica in cui si legge il nome di Idrieus
e le parastades del Maussolleion) ritrovati
in anni non molto lontani.
F. Bianchi, dopo nuovi controlli metrologici sugli elementi architettonici di ordine dorico e corinzio appartenenti alla cd.
area di Artemis Astias, ha ripreso l’esame
della struttura (smembrata) di cui restano
alcune lastre con ghirlande e bucrani e
che doveva essere ubicata nei pressi del
passaggio dal porticato est dell’agora ai
quartieri orientali.
M. Manara ci ha dotato di un’ipotesi ricostruttiva assai convincente degli alzati
del tratto della stoa occidentale dell’agora
compresa tra l’ingresso e il dipylon nelle
sue principali (e complesse) fasi edilizie a
partire dal IV secolo a.C.
F. Giberti, per la tesi da discutere presso l’Università di Bologna, ha iniziato lo studio della parte
produttiva della villa (?) scavata tra gli anni 1961-1967 nel suburbio della città; G. Lodi ha schedato un primo gruppo di anfore commerciali di IV secolo a.C.; D. Baldoni ha ripreso l’esame
della piccola necropoli ritrovata nei pressi della casa della missione (1988) e della cisterna della
torre del porto, con i suoi disparati materiali; N. Zimmermann ha documentato parte del gruppo
(assai frammentario) di affreschi di età bizantina relativi a due delle chiese riportate alla luce; D.
Mengoli ha raccolto l’industria litica (un capitolo di storia iasia di altissima cronologia fino ad ora
trascurato). Per quanto mi riguarda, la ricerca e l’avvio della schedatura (supportata dai disegni
di A. Monaco e di L. Ruffoni) della ceramica a vernice nera presente nella città tra VI e IV secolo
a.C. ha rappresentato il primo tassello di una ricerca che si preannuncia lunga e complessa.
Il nostro ringraziamento e la nostra gratitudine vanno a quanti, con il loro contributo finanziario,
hanno consentito la realizzazione dei lavori della Missione Archeologica Italiana di Iasos, alla quale
il Ministero per la Cultura e il Turismo della Repubblica di Turchia ha confermato, anche per la
campagna 2009, il proprio consenso:
• al Ministero degli Affari Esteri
• all’Università degli Studi di Perugia
• all’Università degli Studi di Roma La Sapienza
• all’Università degli Studi di Cagliari
• ad Alvaro Orpelli, SEI Escavazioni Inerti S.r.l., Ferrara
• alla NUDIBRANCO, Case e Cose, San Giuseppe di Comacchio (Ferrara)
• alla Antea S.r.l., San Giuseppe di Comacchio (Ferrara)
• all’Aero Products International S.r.l., Trezzano sul Naviglio (Milano)
• alla TurbanItalia, Milano
• alla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna
• all’Associazione Iasos di Caria
11
7. Agora: il ritrovamento
della statua nella stoa
occidentale
Il territorio di Iasos:
monumenti antichi,
problemi moderni.
Campagna 2009
di Raffaella Pierobon Benoit
L
2. Carta AYDIN N19A4, con la localizzazione
dei siti del 2009
(G. Marchand)
1. Villaggio in costruzione alle pendici
del Çanacık Tepe
e ricerche archeologiche nel Golfo di Mandalya sono iniziate nel 1988 e hanno mostrato, sin
dai primi interventi, quanto il territorio retrostante la città di Iasos fosse ricco di insediamenti,
distribuiti su di un lungo arco cronologico, dal III millennio a.C. almeno sino al XVI secolo d.C.1,
cronologia che coincide con quanto si conosce per la città.
Dei risultati ottenuti si è data ampiamente notizia, anche su questo Bollettino2, per cui ci si limiterà
in questa sede a una brevissima sintesi del quadro generale che si è potuto ricostruire per il territorio quanto ai modi di occupazione e alla loro trasformazione nel tempo, per soffermarsi piuttosto
sulle condizioni, ogni anno più difficili, di conservazione del ricco e importante patrimonio individuato nel corso delle ricerche.
Il territorio è stato densamente abitato e numerose e varie sono le tracce conservate: dalle abitazioni - isolate o riunite in piccoli villaggi - di forme peculiari (come le costruzioni ovali dette ‘edifici
lelegi’), alle più tradizionali ville di età imperiale, sino alle vie che le collegavano, alle strutture di
difesa, alle tombe. Non ultimo punto di interesse è infatti la presenza di piccole necropoli, con
tombe più o meno monumentali, accanto agli abitati, fenomeno che rivela
un profondo radicamento degli abitanti
nel territorio.
Tra le attività che hanno determinato,
e favorito, la continuità e quantità degli insediamenti vanno messi al primo
posto la pastorizia e l’allevamento, cui si
affiancano lo sfruttamento delle foreste
e, dove possibile, la pratica dell’agricoltura.
Apparentemente queste attività, che
hanno influenzato anche i modi del costruire, sono state praticate lungo tutta
la storia dell’area, mentre, a parte casi
isolati e particolari che sembrano risalire al V secolo a.C., è solo a partire dal
IV secolo, con un graduale incremento
nell’età ellenistica, che si è attuato lo
sfruttamento delle cave del cd. 'marmo
rosso iassense', poi cavato in maniera
sistematica dall’età imperiale romana e
per tutta l’età bizantina.
La necessità di controllare queste attività, probabilmente da parte della città,
ha determinato la costruzione, con
12
3. La torre S27: facciata
caratteristiche proprie per ogni periodo storico, di cinte murarie e torri, che costituiscono ancora
oggi alcuni degli elementi caratterizzanti il paesaggio.
Per il loro proficuo svolgimento era poi necessaria la protezione delle divinità, di cui sono stati
individuati alcuni santuari, tipici per la collocazione sempre su alture.
Il quadro generale qui sommariamente presentato è stato ricostruito in particolare nel quadrante
occidentale del territorio, ma lo schema di distribuzione degli edifici in posizione elevata in età
arcaica e classica, con una graduale occupazione delle aree pianeggianti a scopo abitativo a partire
dall’epoca ellenistica, sembra caratterizzare anche il quadrante orientale, dove le ricerche sono
ancora in corso.
Nell’ultima campagna di ricognizioni si sono individuati 32 nuovi siti, distribuiti sia sulla linea di
costa, sia sui versanti delle colline rivolte al mare, per un ampio arco cronologico, dall’età arcaica
al periodo ottomano3 (fig. 2).
Alla fase più antica si attribuiscono un edificio lelego di cospicue dimensioni (S.294) e uno più
piccolo (S.24), cui si collegano altre costruzioni e alcune sepolture, riconoscibili dalle lastre di
copertura come probabili tombe a camera.
L’epoca meglio rappresentata sembra essere quella ellenistica, con numerosi piccoli abitati, cui si riferiscono cisterne a pianta ovoidale e tombe, isolate o a gruppi, una delle quali a camera ipogeica.
Al controllo dell’area erano destinate due torri quadrangolari (S.13 e S.27), di un tipo a muratura
di grossi blocchi già noto dal territorio occidentale. La seconda è di particolare interesse perché si
è conservata la ripartizione interna del primo piano, con due piccoli ambienti di controllo ai lati
della porta, da cui un corridoio conduceva a due vani costruiti sulla parete di fondo (fig. 3).
Dalla torre si ha una buona visibilità sulla piana sottostante, dove già in passato si erano individuate due tombe a camera ellenistiche e dove quest’anno è stata rinvenuta un’altra sepoltura (S.28).
Alla punta di Zeytin Burnu accanto a un piccolo abitato ellenistico, forse collegato a due tombe a
cassa scavate nella roccia, si è individuata un’ampia cava, probabilmente risalente all’età imperiale
(S. 21-22, fig. 4)
Sempre sulla costa, bassa e rocciosa, sono visibili i resti di un edificio di età imperiale, forse decorato con colonne di cui si conservano tre fusti, e un piccolo abitato, oltre a aree di dispersione di
frammenti ceramici, probabilmente scivolati dall’alto.
E ancora a poca distanza dalla riva, in particolare sulle sponde dell’insenatura a est di Zeytin
Burnu, si sono rinvenute alcune strutture circolari, di un tipo già noto, identificate come cisterne,
ma che almeno in alcuni casi potrebbero essere state utilizzate come forni per calce e attribuite al
periodo bizantino.
13
4. La cava S22.
Sullo sfondo,
dall’altro lato del
golfo, un villaggio
vacanze
La frequentazione della zona prosegue almeno fino al XVI secolo, periodo cui si possono attribuire
due belle cisterne circolari, con copertura a pseudo-volta, del tipo noto come ‘ottomano’.
Del tutto particolare, sempre nella stessa area, è una grotta naturale sotterranea, con ampia apertura rettangolare dall’alto, le cui pareti, per quanto è stato possibile osservare sembrano essere state
almeno in parte regolarizzate (S.6).
Tra i rinvenimenti più significativi della campagna del 2009 si ricorda infine, sul versante occidentale del Mezarlık Tepe, un santuario di cui si conserva un ampio taglio nella roccia (18x10m) che
sembra costituire una sorta di alta recinzione di una grossa fossa circolare. Intorno, purtroppo non
in situ, si conservano alcuni blocchi con modanatura a gradini, che confermano la natura artificiale
dell’apprestamento e il suo valore simbolico (S.26).
I ritrovamenti citati restituiscono, come si è detto, l’immagine di un territorio abitato senza apprezzabile soluzione di continuità, con la predominanza di siti sparsi, che suggeriscono anche in questo
versante, pur con differenze dovute alla cronologia, una distribuzione legata allo sfruttamento
sistematico delle risorse, si tratti di culture o di attività più specializzate, come quelle estrattive.
La ricchezza e la potenzialità dei dati, anche nella prospettiva di una valorizzazione destinata a un
pubblico ampio, contrasta sfortunatamente con gli attacchi che questo patrimonio subisce in maniera sempre più evidente, ad opera di scavatori clandestini e di vandali più o meno consapevoli.
Se strutture poco accessibili, come la torre S.27, per la sua posizione al centro di una macchia di vegetazione, non hanno subito danni importanti, nella maggioranza dei casi le strutture individuate
in questo comparto del territorio sono in pessimo stato di conservazione, non soltanto per i guasti
del tempo, ma soprattutto a causa di interventi recenti (fig. 5).
Proprio le ultime indagini hanno evidenziato infatti come i monumenti disseminati nel territorio
5. Il santuario sul
Çanacık Tepe: nel 1995
e oggi, dopo l' intervento
dei clandestini
14
6. Edificio lelego
parzialmente distrutto
dalla dinamite
costituiscano in generale per gli abitanti un elemento di preoccupazione come possibile freno allo
sviluppo insediativo, piuttosto che un collegamento con le proprie radici.
Questo timore, più che - o forse oltre - la ricerca di preziosi tesori sepolti, sono la causa della distruzione, con mezzi meccanici o addirittura con la dinamite, di imponenti edifici lelegi di cui, almeno
in un caso, si riconosce ora appena la pianta (fig. 6), o di tombe divelte per ricavare una superficie
pianeggiante libera e consentire la costruzione di nuovi edifici, come si osserva sui due lati della
carrozzabile Iasos-Milas: a est molti ulivi sono stati asportati con il bulldozer, danneggiando fortemente la tomba a camera ipogeica di epoca ellenistica S.28 e distruggendone probabilmente altre,
le cui tracce - grossi lastroni frammentari - risultano tuttavia meno evidenti; a ovest è in corso,
su terreno archeologico, la costruzione di una serie di palazzine a più piani, come documentato a
partire dal 19935 (fig. 7).
L’intervento brutale di mezzi meccanici si è avuto anche nelle aree di cava. In particolare, il tentativo, poi abbandonato, di riaprire aree di estrazione ha portato alla distruzione di buona parte
di una delle meglio conservate cave di marmo rosso, cui si è aggiunta, con la costruzione di un
ristorante, la demolizione di un villaggio che al loro sfruttamento era collegato e di cui, come nel
caso precedente, era stata segnalata la presenza6.
Un analogo intervento distruttivo si è verificato in una cava di pietra bianca con l’asportazione
7. Nuovi edifici
residenziali in
costruzione lungo la
carrozzabile Iasos-Milas,
nell’area della necropoli
ellenistica situata a circa
7 km dal villaggio
15
8. Kıyıkışlacık dall’ ingresso
agli scavi: la mole, ogni
anno in crescita, di una
pensione
parziale della collina di Mengis Dere, dove era situato un piccolo villaggio di età bizantina: la presenza dell’agglomerato, costituito da edifici abitativi e da una probabile chiesa, è ormai soltanto
ipotizzabile per il riconoscimento di un’abside e il rinvenimento nei suoi pressi di un rocchio di
colonna e di alcuni blocchi lavorati.
Ai guasti dovuti alle distruzioni si aggiunge, a dispetto delle leggi di tutela, il degrado progressivo
del paesaggio sia sulla costa, sia nello stesso paese di Kıyıkışlacık (fig. 8) dove la costruzione di nuove case, o la ristrutturazione di quelle esistenti, ha causato la distruzione di molte tombe antiche:
delle 74 sepolture recensite da F. Tomasello nel 19917 solo 34 sono ancora visibili o se ne riconosce
la posizione; delle restanti, già in cattivo stato di conservazione, non si conserva alcuna traccia.
Lo sviluppo urbanistico del centro abitato non ha infatti tenuto conto in alcun modo di queste
significative preesistenze, mostrando la totale mancanza di interesse da parte dei suoi abitanti e di
cura da parte delle competenti autorità locali.
Il problema dei nuovi fabbricati è particolarmente sensibile sulla costa, soprattutto a ovest del paese, dove sono sorti e si continuano a costruire grandi villaggi assai poco rispettosi dell’ambiente.
Il più grave scempio è stato causato dal nuovo, enorme, complesso edificato ai piedi del Çanacık
Tepe, collina su cui è ubicato il santuario più importante e meglio conservato del territorio (figg.
1 e 9).
9. Villaggio in costruzione
alle pendici del
Çanacık Tepe
16
10. Il villaggio di Zeytinli
Köyü dal mare.
Se questi interventi hanno modificato irreversibilmente il paesaggio, altri aggiungono a questo
danno la vera e propria distruzione di monumenti antichi, come sta avvenendo a Zeytinli Köyü
(fig. 10) e ad Alagün (fig. 11), e come si è più volte segnalato.
Un problema a sé è costituito dalle cd. case ‘greche’, situate sulla sponda orientale dell’ampia
insenatura a est di Iasos, sulla riva occidentale dello Zeytin Burnu (fig. 12). Abitate dagli attuali
proprietari, queste case sono in realtà riadattamenti di costruzioni probabilmente ottocentesche,
a loro volta risultanti da trasformazioni di edifici più antichi. Di questi sono ancora riconoscibili
alcuni elementi, come l’abside e parte della facciata di quella che oggi è una stalla/rimessa, ma in
età bizantina era verosimilmente una basilica. Ai danni causati dagli occupanti, poco sensibili alla
storia delle loro case, si aggiunge la scarsa considerazione generalmente accordata a questo tipo di
architettura perché ‘moderna’ e, in ogni caso, legata stilisticamente agli originari occupanti da cui
le strutture ottocentesche hanno preso il nome, cioè i Greci.
Si auspica che con la documentazione fornita alle autorità competenti sia possibile mettere un freno a tali attività illegali e si possano promuovere, viceversa, interventi di protezione, conservazione
e valorizzazione del territorio che ne favoriscano la fruizione da parte di un largo pubblico non
ristretto agli addetti ai lavori8.
11. Alagün: resti della
basilica inglobati in una
villa di nuova costruzione
17
12. Le ‘case greche’
Sui primi risultati La Rocca 1992. La bibliografia successiva è in Pierobon Benoit 2005b, pp. 200244.
2
Nei fascicoli 8, 2002, pp. 17-21; 10, 2004, pp. 26-28; 11, 2005, pp. 6-12; 12, 2006, pp.10-13; 13, 2007,
pp. 7-13; 14, 2008, pp. 7-9.
3
Le ricerche sul terreno, quest’anno, si sono svolte a est di Kıyıkışlacık (quadranti da X 553000m a X
555000m; da Y 4127000m a 4129000m della carta AYDIN N19-a 4).
4
I numeri si riferiscono a quelli riprodotti alla figura 2.
5
Nelle relazioni ufficiali e sulla carta archeologica inviate ogni anno alla Direzione Generale dei Beni Culturali e Musei di Ankara.
6
Oltre che nelle citate relazioni, cfr. Pierobon Benoit 2003, pp. 337-339.
7
Tomasello 1991.
8
Una segnalazione del problema è stata fatta in occasione dell’incontro promosso dal Vali di Muğla nel mese
di luglio del 2009, i cui atti sono in corso di stampa.
1
BIBLIOGRAFIA
&La Rocca 1993 = E. La Rocca (ed.), Sinus Iasius I. Il territorio di Iasos: ricognizioni archeologiche
1988-1989, AnnPisa, 23, n° 3-4, 1993.
&Pierobon Benoit 2002 = R. Pierobon Benoit, La chora di Iasos, Bollettino dell’Associazione Iasos
di Caria, 8, 2002, pp. 17-21.
&Pierobon Benoit 2003 = R. Pierobon Benoit, Survey of the Mandalya Gulf Report on the 2000
and 2001 Campaigns, in XX. Araștırma Sonuçları Toplantısı (Ankara, 27-31 Mays 2002), Ankara
2003, pp. 335-348.
&Pierobon Benoit 2004 = R. Pierobon Benoit, Nuovi dati dalle ricognizioni nel golfo di Mandalya,
Bollettino dell’Associazione Iasos di Caria, 10, 2004, pp. 26-28.
&Pierobon Benoit 2005a = R. Pierobon Benoit, La campagna di ricognizione del 2004: la cinta di
terraferma e l’Akarca Tepe, Bollettino dell’Associazione Iasos di Caria, 11, 2005, pp. 6-12.
&Pierobon Benoit 2005b = R. Pierobon Benoit, Paralypros chora: il territorio di Iasos alla luce
delle recenti ricognizioni, in R. Pierobon Benoit (ed.), Iasos e la Caria. Nuovi studi e ricerche, PP,
60, 2005 (2006), pp. 200-244.
&Pierobon Benoit 2006 = R. Pierobon Benoit, Ricognizioni archeologiche nel golfo di Mandalya,
Bollettino dell’Associazione Iasos di Caria, 12, 2006, pp. 10-13.
&Pierobon Benoit 2007 = R. Pierobon Benoit, Ricognizioni archeologiche nel golfo di Mandalya,
Relazione sulla campagna 2006, Bollettino dell’Associazione Iasos di Caria, 13, 2007, pp. 7-13.
&Pierobon Benoit 2008 = R. Pierobon Benoit, Un tempio extraurbano nel territorio di Iasos? Nuovi dati dalle ricognizioni archeologiche nel golfo di Mandalya. Campagna 2007, Bollettino
dell’Associazione Iasos di Caria, 14, 2008, pp. 7-9.
&Tomasello 1991 = F. Tomasello, L’acquedotto romano e la necropoli presso l’istmo, Roma 1991.
18
Il ‘castello di terraferma’
a Iasos. Indagini 2009
di Alessandro Viscogliosi
1. Il gruppo di lavoro della Facoltà di Architettura
“Valle Giulia”-Sapienza, Università di Roma
L
a campagna di sopralluoghi e rilievi condotta tra l’agosto e il settembre 2009 da un gruppo di architetti e studenti facente capo alla Facoltà di Architettura “Valle Giulia”-Sapienza,
Università di Roma (fig. 1), ha avuto come obiettivo il completamento del rilevo topografico del
cd. ‘castello di terraferma’ o ‘castello dell’istmo’ (fig. 2), già parzialmente indagato nel corso della
precedente campagna di studi (sulla quale si è riferito nel numero precedente di questo Bollettino).
Si sono pertanto rilevati il tracciato delle mura, un grande edificio termale (fig. 3, A) che occupa
l’intero settore orientale del ‘castello’, e una serie di strutture immediatamente adiacenti al lato
settentrionale dell’agora (fig. 3, B), esaurendo in tal modo le principali emergenze architettoniche
riconoscibili nel complesso; si prevede di completare il rilievo topografico nel corso della Missione
2010, rilevando le strutture solo affioranti ed effettuando i rilievi di dettaglio dei vari edifici.
1. Il completamento del rilievo delle mura ha permesso di comprendere meglio la natura del
‘castello’. Il circuito è risultato di composizione eterogenea e rappresentativa delle fasi più importanti della città dall’età tardoclassica fino alla conquista islamica. Alla fase preromana delle mura
appartiene il tratto (fig. 2.1) che costituiva originariamente uno degli avancorpi del cd. dipylon
(fig. 3, D), dispositivo difensivo a tenaglia, sostanzialmente perpendicolare alle mura e all’agora:
la sua torre (fig. 2.2), oggi completamente spogliata, era divenuta la prima torre dell’ampliamento
delle mura effettuato in età tardoimperiale, per ora messo in relazione con le scorrerie degli Eruli
(intorno al 268 d.C.). Dalla torre, il tracciato romano (fig. 2.3) (qui in blocchi di una curiosa arenaria, il cui impiego è stato sinora riscontrato solo nelle canalizzazioni portate alla luce nell’agora
2. Il circuito murario
del ‘castello’ con i
principali edifici di età
classica
19
3. Il ‘castello’ inquadrato
nella topografia dell’istmo
tra la basilica cristiana e la stoa ovest [fig.
3, G], quindi a brevissima distanza da
questo tratto di mura) con un lieve sbaionettamento arriva a inglobare il poderoso
blocco delle cisterne dell’acquedotto (fig.
3, C), che ne costituiva un bastione avanzato.
Al riparo di questo bastione, più volte in
seguito rinforzato fino a dotarlo di un torrione angolare a tre quarti di cerchio (fig.
2.4), si apre la porta principale (fig. 2.5),
architravata all’esterno, decorata con un
archivolto marmoreo di reimpiego verso
l’interno della città: è questa peraltro la
direzione verso cui puntavano l’acquedotto (fig. 3, E) e i tracciati viari che lo
accompagnavano. Dalla rientranza in cui
è alloggiata la porta parte verso nord-est
un lungo tratto di mura, ove si è conservato meglio che altrove il paramento romano in bei blocchi di reimpiego (fig. 4);
al centro spicca un avancorpo (figg. 2.6 e
5) collegato forse a una fortificazione più avanzata (di cui si può ancora percepire il paramento che
affiora al bordo dell’attuale strada asfaltata che conduce al porto di Kıyıkışlacık) e, flettendo verso
est, presentava forse un’altra porta (fig. 2.7) difesa da due torri (una più tarda circolare, l’altra ottagonale, che ingloba un bel tratto di mura in blocchi) nel punto in cui probabilmente confluivano
i percorsi provenienti dalla chora, il retroterra agrario di Iasos. Poiché il tratto di muro in blocchi
(fig. 2.8) sembrerebbe preromano, con i blocchi in giacitura primaria e non soltanto reimpiegati
nella struttura più tarda, sarebbe fondamentale determinarne la natura: se cioè si tratti o meno di
un tratto della cinta tardoclassica, il che permetterebbe di avanzare interessantissime ipotesi sulla
configurazione originaria del circuito, o di un monumento isolato reimpiegato strategicamente
nella frettolosa definizione del tracciato costruito dopo le scorrerie degli Eruli. Dalla torre ottagonale le mura ripartono per un lungo tratto rettilineo in direzione est, quindi, con un angolo
irrobustito da un più tardo torrione a tre quarti di cerchio (fig. 2.9), piegano bruscamente a 90
gradi verso sud, allineandosi sull’ideale prolungamento del lato maggiore delle terme (fig. 3, A):
coincidenza topograficamente interessante, ma non ancora valutabile in termini di seriazione cronologica. In prossimità del punto di flesso (fig. 2.10) il pessimo stato di conservazione non permette di verificare l’esistenza di una porta verso la rada; il tratto immediatamente successivo (fig. 2.11),
4. Tratto superstite
del paramento delle
mura tardoimperiali
20
5. Avancorpo delle
mura sul lato ovest del
‘castello’
che punta a sud-est, presenta tutte le fasi documentate nelle fortificazioni di Iasos: oltre a riscontrarvi le due fasi postclassiche, che analizzeremo fra breve, e la fase tardo imperiale, caratterizzata
da materiali architettonici di reimpiego (fig. 6), è ipotizzabile che esso ricalchi e inglobi un tratto
delle mura greche: si tratta infatti dell’unico settore delle mura del ‘castello’ che presenti ampie
trincee di spoliazione (il che dimostrerebbe la presenza di un’altissima percentuale di blocchi nella
sua composizione); il suo andamento, inoltre, determina il taglio irregolare del lotto delle terme di
età imperiale (fig. 3, A), il cui lato settentrionale presenta una disposizione planimetrica irrisolta,
caratterizzata da ambienti di risulta e spessori murari abnormi, spiegabili solo con un forte condizionamento topografico. Una torre rettangolare postclassica (fig. 2.12) marca il centro di questo
tratto di mura conservatosi fino a una lacuna (fig. 2.13), in cui è forse possibile ipotizzare una torre
in opera isodomica, completamente asportata. Da qui infatti continua verso sud-est il percorso
accertato delle mura preromane, caratterizzato dalla capillare spoliazione operata nel XIX secolo;
ma da qui spicca anche, in direzione sud, una ‘bretella’ destinata a trasformare il settore di città
compreso nel tracciato fin qui descritto in un borgo fortificato: il cosiddetto ‘castello di terraferma’
o ‘dell’istmo’. La ‘bretella’ è sostanzialmente omogenea, costituita da due fasi postclassiche giustapposte, probabilmente non troppo distanti cronologicamente, il cui percorso tiene conto di particolari emergenze architettoniche (le terme [fig. 3, A], trasformate forse in complesso ecclesiale, e il
blocco di edifici [fig. 3, B] a esse praticamente perpendicolare) che ne risultano inglobate, mentre
oblitera definitivamente non soltanto le strutture, ma anche l’orientamento dei portici dell’agora.
6. Materiali
architettonici di
reimpiego nelle fasi
postclassiche delle mura
del ‘castello’
21
7. Le terme: ipotesi
interpretativa del
complesso
8. Le terme: stato di
fatto
Dalla torre ipotizzata (fig. 2.13) un brevissimo tratto di mura raggiunge la grande sala
absidata delle terme (fig. 3, A) e ne avviluppa
l’abside in un bastione a pianta trapezoidale
(fig. 2.14); dopodiché il percorso punta decisamente a sud, con un tracciato rettilineo
scandito in tre parti all’incirca uguali da una
torre quadrata (fig. 2.15) e da una semicircolare (fig. 2.16). All’estremità meridionale
di questo segmento, però, è il muro stesso
che piega a ovest a formare un bastione (fig.
2.17), simmetrico a uno ricavato poco più
avanti nella stessa direzione (fig. 2.18), inglobando uno dei vani del complesso B (descritti
in seguito al punto 3), con ogni probabilità
per proteggere una porta, poi murata, in direzione della venerata basilica dell’agora (fig. 3,
G). Dopo il torrione semicircolare (fig. 2.18),
che completava la fortificazione incrostandosi
in due strati successivi intorno all’edificio
antico, un ultimo segmento rettilineo, dotato
forse di una sola torretta semicircolare (fig.
2.19), puntava verso la radice del dipylon, da
cui è partita la nostra descrizione, chiudendo
il circuito delle mura del ‘castello’. Proprio alla giunzione con il dipylon, nello scavo del 2009, Fede
Berti ha rinvenuto materiali databili all’XI secolo nello strato relativo alla fondazione della cortina
più esterna delle mura. Questo ultimo settore, peraltro, costituiva la parte meno munita della
fortificazione, sia in quanto rivolta verso un’area già protetta dalle antiche mura urbiche (esistenti
ancora - come già ricordato - e in buono stato fino al XIX secolo), sia perché, per quanto forse scarsamente abitata, protetta dal castello cd. ‘dell’isola’, eretto sull’acropoli con ogni probabilità tra l’XI
e il XII secolo: un vero castello, costruito sostanzialmente in un’unica fase, con una caratteristica
maniera di realizzare le scalette che dall’interno della cinta raggiungevano gli spalti, molto simile a
quella riscontrabile in una delle due fasi postclassiche del ‘castello dell’istmo’.
2. Negli studi che hanno tentato di delineare un
quadro urbanistico globale di Iasos, ivi compresi
i rilievi a scala topografica, scarsissimo risalto è
dato alle terme, in stridente contrasto con quanto comunemente accade in tutto il mondo romanizzato. Doro Levi attribuiva a un impianto
termale le frammentarie, ma cospicue, strutture
venute alla luce in un piccolo saggio effettuato
immediatamente dietro il muro perimetrale
della stoa nord dell’agora (fig. 3, F); nel suo
studio sull’acquedotto romano, Franco Tomasello segnalava alcuni ambienti di presumibile
uso termale nell’immediato suburbio di Iasos;
recentemente Nicolò Masturzo ha identificato
come terme un piccolo complesso limitrofo
alla cd. ‘stoa di Artemis Astias’ e prospiciente
il porto. Non era stato ancora oggetto di attenzione scientifica il complesso di vani voltati,
movimentati da absidi e nicchie, riccamente rivestiti di sectilia, ma soprattutto dotati di vistose
canalizzazioni (discendenti, canne fumarie di
22
suspensurae e condutture d’acqua), racchiuso nel
‘castello dell’istmo’ (figg. 7 e 8). Rimandando a
sede più opportuna la descrizione analitica degli
ambienti, alcuni dei quali presentano tracce di
complessi rimaneggiamenti, presentiamo solo alcune considerazioni preliminari utili a un primo
inquadramento dell’edificio nella storia edilizia
del ‘castello’.
In conseguenza della costruzione dell’acquedotto, viene costruito un impianto termale in una
zona ancora all’interno delle mura preromane,
compresa tra la stoa nord dell’agora e la grande
rada che probabilmente fungeva da porto per le
barche da pesca e il piccolo cabotaggio. Costruite con una tecnica molto simile a quella degli
altri monumenti iasii di piena età imperiale, le
terme occupano un lotto a forma di trapezio
rettangolo, il cui lato obliquo era evidentemente
determinato dall’andamento delle mura urbiche.
L’ingresso oggi meglio conservato si trova sul lato
corto orientale (base minore del trapezio): qui si apre un vestibolo (fig. 7.1) che conduce a un cortile (fig. 7.2), con pareti articolate ad archi e nicchie e un ninfeo (figg. 7.3 e 9), tutti rivestiti in opus
sectile; uno o più lati erano dotati di portici, ed è possibile che l’area scoperta fungesse da palestra.
Di qui, oltre che a vani accessori, si accede a un primo ambiente, quasi certamente con funzioni
di apodyterium (fig. 7.4), quindi a una serie di tre ambienti voltati (fig. 7.5a, b, c), risultanti dalla
suddivisione di un’unica lunga sala mediante due tramezzi: il primo da considerarsi realizzato nella
stessa fase costruttiva della volta e posteriore soltanto come fase di cantiere; l’altro sicuramente diverso per tecnica costruttiva, e quindi da rinviare ad altra fase edilizia. Per l’assenza di finestre vere
e proprie (deve essere ancora verificata l’esistenza di bocche di lupo all’imposta della volta) questi
vani, dotati peraltro di discendenti e tracce di canalizzazioni, potrebbero aver espletato diverse
funzioni connesse con i bagni freddi, mentre potrebbero aver avuto finestre esposte a sud i due vani
attigui, in cui alcune pareti sono integralmente crollate, in contrasto con lo stato generalmente
buono delle restanti murature dell’edificio. Di questi, il più occidentale (fig. 7.6) avrebbe potuto
costituire il tepidario, in quanto direttamente connesso con la zona fredda, e di passaggio per il
vano (fig. 7.7), che presenta una fontana-ninfeo e un ambiente in alcova, in cui si sarebbero potuti
collocare uno o più labra, elementi distintivi di un calidario (fig. 10).
Dalla parete meridionale delle terme spicca un lungo muro (fig. 7.8) che prolunga in direzione sud
il muro di spina tra il tepidario e il calidario, costruito con una tecnica più
approssimativa, ma forse bisognerebbe
dire più disinvolta, i cui segni peraltro
si percepiscono anche nelle murature
del tepidario e del calidario. Anziché
blocchetti di scisto più o meno regolari, più o meno omogenei nelle
dimensioni, disposti in ordinati piani
orizzontali (fig. 11), come visibile nel
blocco delle supposte sale fredde, si
usano pietre più grandi e irregolari, il
cui compattamento lascerebbe a desiderare se non ci fosse la provvidenziale
malta di Iasos a rendere tenacemente
solidale la muratura (fig. 12). Questa
‘disinvoltura’ esecutiva, in assenza di
una conclamata minore tenuta statica,
23
9. Le terme: parete ad
archi della corte
10. Le terme: parete
nord del supposto
calidario
11. Esempio di
muratura di età
imperiale a filari regolari
12. Esempio di
muratura di età
imperiale ‘a sacco’
potrebbe essere dovuta a una più matura prassi costruttiva, consapevole dell’eccezionale qualità del
legante, anziché a fretta o a scarsa capacità tecnica. Il muro 8, che nasce ortogonale alle terme, ben
presto assume una lievissima deviazione verso ovest, fino a presentare un andamento ortogonale
al complesso in fig. 3, B (che descriveremo al successivo punto 3). Sulla sua fronte occidentale si
notano muri perpendicolari di altri ambienti (fig. 7.9), che potrebbero essere stati pertinenti alle
terme, ma sono difficilmente definibili allo stato attuale della ricerca; potrebbe invece aver svolto
il ruolo di vera e propria palestra l’area a oriente, che era forse delimitata da un secondo muro di
cui pare di scorgere indizi sull’angolo esterno SE del calidario e che sembra essere stato parallelo
al muro 8.
Al fronte est delle terme, previa demolizione di uno dei lati corti dell’originario frigidarium e sullo
stesso asse di questo, in una ulteriore fase costruttiva fu annessa una lunga sala voltata a botte (fig.
7.10), dotata di abside sull’estremità orientale e di quattro ambienti perpendicolari, anch’essi voltati
a botte, su ognuno dei due lati lunghi (fig. 13). L’analisi delle strutture emergenti non permette di
riconoscere se e come questo nuovo ambiente fosse separato dal vano più antico: in caso, ciò sarebbe potuto avvenire solo mediante uno schermo architettonico marmoreo, che potrebbe essere stato
in seguito asportato o giacere in rovina sotto gli strati di crollo. In questo ampliamento si potrebbe
cogliere l’influsso delle grandi sale termali romane e della basilica di Massenzio, notoriamente da
esse derivata, traslitterato però secondo la prassi
costruttiva di Iasos, che sembra ignorare la volta a crociera e preferisce la volta a botte, di cui
tanto nelle terme, quanto in questo sala, si fa
un uso esclusivo. Proprio a una scaltrita tecnica
di realizzazione delle volte a botte si deve anche
la prassi - già notata in altri ambienti racchiusi
nel ‘castello dell’istmo’, in tutta Iasos e in molti
edifici del mondo romano (valga per tutti citare
le sostruzioni del cd. Pecile di Villa Adriana a
Tivoli) - di realizzare prima le pareti e le volte a
esse sovrapposte, e solo in un secondo momento i muri non portanti (in questo caso realizzate
come un'unica parete, esterna ai quattro vani
e che ingloba solo in minima parte le strutture
voltate) (fig. 14).
In assenza di ulteriori dati, è quanto mai spinoso valutare l’impatto di questa aggiunta
sulla funzionalità dell’impianto termale: non
ci sarebbero grandi difficoltà a considerarla un
ampliamento delle vecchie terme, mediante la
24
13. Le terme: lato
nord della grande aula
absidata
costruzione di un nuovo, magnifico, frigidario; in tal caso, la suddivisione mediante tramezzi del
vecchio frigidario sarebbe da leggere come dettata soltanto da progressive e più sofisticate ‘specializzazioni’ della pratica termale, che richiedevano ambienti adeguati. Resta però fortissima la
suggestione di una destinazione cultuale cristiana, e sarebbe allora da ridefinire il ruolo che in tale
circostanza avrebbero assunto i vani del complesso termale. Da queste considerazioni dipenderà
anche l’interpretazione delle due nicchie scavate nel maschio murario tra l’ex frigidario (fig. 7.5a)
e il calidario, la più occidentale delle quali è oggi in comunicazione con la fontana-ninfeo del calidario, ma non è certo che lo fosse in antico. Ugualmente difficile la datazione dell’ampliamento
in base ai soli dati costruttivi: in assenza di frammenti architettonici a esso riferibili con certezza,
i pochi lacerti di affreschi ancora visibili presentano patterns che possono essere indifferentemente
attribuiti a un edificio civile romano o a uno religioso cristiano. È però quasi impossibile che la
sala non sopravvivesse come chiesa cristiana quando l’abside venne inglobata in una torre (fig. 8.1)
del tratto di mura che, come abbiamo visto, chiuse il grande avamposto fortificato costruito in età
tardoimperiale, trasformandolo nel ‘castello dell’istmo’, ovvero nella Iasos fortificata del periodo
compreso fra le Crociate e la conquista islamica delle coste egee. Verso l’interno, l’abside perse
tutta la sua profondità, occlusa da un muro rettilineo (figg. 8.2 e 15) riempito di terra e detriti: in
questo interro (fig. 16) potrebbero essersi conservati gli affreschi dell’abside e l’interro stesso potrebbe contenere materiali di fondamentale importanza per una più precisa datazione delle mura.
3. Poco si può dire dell’edificio, o complesso di edifici (fig. 3, B), che occupa il settore del ‘castello’ immediatamente a ridosso dell’agora. Già nella campagna 2009 si era individuata una serie di
strutture che formano una sorta di trapezio (anche questo rettangolo) la cui ipotenusa è ricostruibile come parallela alla stoa nord dell’agora. A ovest, verso la porta principale del ‘castello’, era già
stata rilevata e descritta una facciata monumentale che sembrerebbe mediare dal punto di vista urbanistico le varie direttrici presenti nell’area; non è però escluso che con le sue
arcate essa potesse costituire un ulteriore
tratto dell’acquedotto, diretto verso una
zona dell’agora in cui più fitti sono stati
i ritrovamenti (ad es. fontane e canalizzazioni) che comportano la presenza di
acqua (fig. 3, G). A nord, la facciata è
legata con un muro (fig. 2.21) a essa
perpendicolare, conservato per notevole
lunghezza, che sembra andare a congiungersi con quello (fig. 2.20) proveniente dalle terme: nella pianta generale
si può osservare come questo secondo
25
14. Le terme: lato
nord della grande aula
absidata, metodo di
chiusura di un ambiente
laterale
15. Le terme: angolo
nord-est della grande
aula absidata, il muro
medioevale che chiude
l’abside
muro devii dall’orientamento delle terme proprio per coordinarsi all’orientamento dell’edificio B.
A nord di questo si è conservato un breve tratto murario a esso parallelo (fig. 2.22), come a definire
un asse viario (probabilmente occluso da muri non perpendicolari in fasi successive); a sud sono
stati rilevati muri a esso perfettamente ammorsati e perpendicolari, che costituiscono almeno due
grandi ambienti (fig. 2.23), comunicanti tra loro attraverso archi in successione: tali archi traguardano, con grande evidenza visiva e blandissimo scarto topografico, l’arco mediano della facciata
monumentale, da cui si percepiva, tramite un asse viario, la porta principale del ‘castello’. Questi
ambienti sono conservati per notevole altezza, in quanto i muri sono stati ripresi e soprelevati in
una seconda fase costruttiva, poi inglobata nelle mura del ‘castello’: sul muro meridionale dell’ambiente meglio conservato si venne ad attestare uno dei torrioni circolari. Coordinate alle strutture
descritte appaiono quelle scavate da Doro Levi e da lui attribuite a un impianto termale (fig. 3, F):
oltre all’orientamento, le accomunano anche l’assenza di tracce di decorazione marmorea, molto
diffusa invece nelle terme descritte al punto 2. Pur nella loro limitata estensione, per tecnica edilizia e per linguaggio architettonico, questi ambienti ben si attagliano a una destinazione termale,
non immediatamente riconoscibile invece in quelli del blocco B. Se il coordinamento topografico e le caratteristiche in comune fossero sufficienti a considerare tutte queste strutture come un
complesso unitario, avremmo un secondo blocco praticamente ortogonale all’impianto di certa
destinazione termale: il loro reciproco disassamento è talmente lieve da risultare praticamente impercettibile al fruitore. Non è per ora possibile stabilire quale dei due blocchi sia più recente, ma
il risultato urbanistico non può che essere frutto
di un progetto attento a un coordinamento armonioso delle preesistenze: un tratto delle mura
greche in blocchi, la stoa settentrionale dell’agora,
il tracciato (dei vari rami?) dell’acquedotto.
La ricognizione è opera, oltre che dello scrivente, di
un gruppo di studio della Facoltà di Architettura
“Valle Giulia” di “Sapienza-Università di Roma”,
composto dall’arch. Stefano Borghini, dottore di
ricerca in Storia dell’Architettura, e dagli studenti: Francesco Giuseppe Bracci, Giulia Castaldi,
Alessandra Ferri, Alessio La Paglia, Flavia Morelli, Annamaria Nizzi, Giampiero Rellini Lerz,
Carlotta Rodriquez, Giulia Santucci; il rilievo
architettonico è stato concepito e coordinato dall’arch. Nicolò Masturzo, dottore di ricerca in Storia
dell’Architettura, che l’intero gruppo ringrazia per
il suo impegno scientifico e didattico.
16. Le terme: l’abside
inglobata in una torre
delle mura medioevali
del ‘castello’
26
Un nuovo frammento
del decreto IIasos 40*
di Roberta Fabiani
1. Iasos, Antiquarium: le iscrizioni
I
decreti, in particolare quelli onorari, rappresentano senza dubbio il più numeroso gruppo di
iscrizioni di epoca ellenistica che sia stato rinvenuto a Iasos. Di fronte alla notevole scarsità di
fonti letterarie, il loro studio sistematico e la conseguente comprensione delle loro caratteristiche e
della loro evoluzione rappresentano una fondamentale premessa per un lavoro di ricostruzione, sia
pure per linee molto generali, della struttura istituzionale e delle vicende cittadine in quell’epoca.
Tale studio è stato avviato da qualche tempo da chi scrive1. L’analisi, volta a stabilire la sequenza
cronologica dei decreti conservati e, laddove possibile, ad agganciarla alla cronologia assoluta, è
stata condotta sul formulario, sulla grafia, sulle componenti linguistiche, sulle connessioni prosopografiche e gli elementi cronologici interni attestati negli psephismata iasei. Il lavoro svolto,
oltre a contribuire con alcune novità alla comprensione della storia della città, ha portato anche a
‘mettere ordine’ nel materiale epigrafico conservato, permettendo non soltanto di avvicinare pezzi
dalle caratteristiche analoghe, ma, in alcuni casi, anche di riconoscere la reciproca pertinenza di
frammenti più o meno grandi di decreti.
Questo è il caso di un lacerto di decreto che qui viene pubblicato per la prima volta e che è conservato presso la Missione Archeologica Italiana (fig. 2). Si tratta di un frammento di calcare biancogrigiastro spezzato su tutti i lati rinvenuto nel 1973 presso lo stilobate occidentale dell’agora, nello
strato superficiale (n. inv. 3631; dimensioni massime: alt. cm 8,7; largh. cm 12,6; sp. cm 12,8).
Dell’iscrizione restano quattro linee di scrittura frammentarie (della prima solo minimi resti). La
parte iscritta misura cm 5 di altezza e 12,6 di larghezza. Il vacat in basso (cm 3 circa) rivela che la
quarta riga iscritta doveva essere anche l’ultima del testo. La grafia (altezza delle lettere cm 1-1,3;
interlinea cm 0,6 circa) è ampia e regolare, con apici in genere piccoli. Alpha è a barra centrale diritta. I tratti orizzontali di epsilon, di cui il centrale appena più breve, sono chiusi da apici triangolari. Le barrette oblique di kappa sono molto brevi e restano distanti - soprattutto quella inferiore
- dalle linee. Ny è regolare, l’incontro tra diagonale e asta verticale destra giunge a sfiorare la linea
inferiore. Omicron è appena più piccolo delle altre lettere. Le barre esterne di sigma si incurvano
solo leggermente, i tratti obliqui si incontrano in posizione piuttosto arretrata. Ypsilon presenta
una biforcazione molto alta, da cui si dipartono due
tratti ben curvi.
Questo il testo del frammento.
Vidi.
]o.[
ge]gevnht≥a≥[i
d]e; aujtoi'ı k[ai;
ka]iv ejn eijrhvn[hi kaiv ejn polevmwi
4
A l. 3 tracce di una rasura che pare estendersi al di
sotto delle prime quattro lettere. I segni rimasti non
consentono di comprendere in quale errore fosse
incorso il lapicida, che della prima incisione sembra
2. Frammento n. inv.
3631 (foto archivio
Scuola Archeologica
Italiana di Atene, neg.
18749)
27
3. Blocco n. inv. 1312,
frammento sinistro
(foto archivio Iasos,
Perugia, neg. 11/5))
fosse riuscito a conservare almeno le lettere O e S,
tra cui inserì in un secondo momento lo iota, come
suggerisce l’assenza della consueta spaziatura nella
sequenza OIS.
La grafia del frammento è identica, anche in quanto
a dimensioni delle lettere, a quella del decreto IIasos
40, inciso su di un blocco (n. inv. 1312) oggi ricomposto da due grossi frammenti2 (figg. 3-4) e conservato nell’Antiquarium di Iasos (fig. 1). L’uguaglianza
del tipo di supporto (in entrambi i casi abbiamo a
che fare con un calcare bianco-grigiastro) e la coincidenza del luogo di ritrovamento delle due pietre
(anche il blocco 1312 fu rinvenuto presso lo stilobate occidentale dell’agora) suggeriscono che la
pietra qui pubblicata porti inciso un frammento non aderente della parte sinistra del decreto IIasos
40. A sostenerlo ulteriormente è la compatibilità e integrabilità dei due testi.
Questo il testo frutto della ricomposizione3. Il decreto IIasos 40 è stato sottoposto ad autopsia da
parte di chi scrive; si apportano pertanto alcune lievi modifiche alla lettura del primo editore G.
Pugliese Carratelli, che poté pubblicare il testo sulla base di una fotografia. L’analisi comparativa
del formulario e l’attribuzione del frammento rendono necessaria un’integrazione del decreto diversa da quella proposta da W. Blümel, che non aveva ugualmente potuto giovarsi di una revisione
diretta della pietra.
Vidi.
[∆Epi; stefanhfovrou < < < < < tou' < < < < < mhno;]ı ∆An≥[q]esthriw'noı e{kthi iJstamevnou:
[< < < < < < < < < < ejpestavtei, < < < < <]K≥leavnd[ro]u≥ ejgrammavteuen: Puqivwn
[< < < < <ei\pen: e[doxen th'i boulh'i kai;] t≥w'i dhvmwi: ej[pei]dh; ∆Aqhnagovraı Teleiva ÔRovdi≥o≥ı
[ajnh;r ajgaq]o≥vı [ejstin peri; th;n povlin th;]n ∆Iaseivwn kai; [po]l≥loi'ı tw'n ejntucovnt[w]n
4
[crhvsimoı ge]gevnht≥a[≥ i, ei\nai aujto;n kai; ej]ggovnouı pro≥[x]evnouı tou' dhvmou tou' ∆Iaseivwn≥:
[dedovsqai d]e; aujtoi'ı k[ai; politeivan kai; p]roedrivan ej[n t]oi'ı ajgw'si kai; ei[sploun≥ k≥[ai;]
[e[kploun ka]i; ejn eirhvn[hi kai; ejn polevmwi aj]sulei; kai; aj[spond]eiv.
«Sotto lo stefaneforo - - - figlio di - - -, nel sesto giorno del mese di Antesterione, presiedeva - - - figlio di - - -, era segretario - - - figlio di Kleandros; Pythion figlio di - - - disse; il consiglio e il popolo decretarono: poiché Athenagoras figlio di
Teleas di Rodi è uomo benemerito nei riguardi della città dei Iasei e si è reso utile a molti (dei Iasei) che gli si presentano,
siano lui e i suoi discendenti prosseni del popolo dei Iasei; sia data loro anche la cittadinanza; gli si conceda il diritto di
seggio d’onore negli agoni e il diritto di entrata e uscita dal porto sia in tempo di pace che in tempo di guerra, immune
da rappresaglia e anche in assenza di tregue».
La sequenza degli elementi di apertura dello psephisma (stefaneforo, mese, giorno, epistates, grammateus, proponente, formula di sanzione del tipo etbktd) è la stessa attestata anche in IIasos 64, e
rappresenta uno dei pochi esempi di decreti iasei nei quali la formula etbktd chiude il prescritto4.
L’assemblea che promulgò il decreto ebbe luogo nel mese di Antesterione, per il quale sono note
altre due attestazioni5. Alla r. 3 è preferibile integrare la formula di sanzione rispetto a quella di
mozione, dal momento che quest’ultima si trova in genere dopo la formula di motivazione (v. e.g.
IIasos 33, 3-4; 46, 1; 56, 9-10) o dopo la presentazione della mozione formale (o almeno dopo
l’avvio di essa): cf. e.g. IIasos 23,19; 35,12; 36, 8-9. A r. 4 la prima lettera conservata del blocco ricomposto (inv. 1312, IIasos 40) è certamente ]n e non ]i come proposto da Pugliese Carratelli
1967-1968, n. 7, p. 457, seguito da W. Blümel. La formula di motivazione, sempre molto variabile
a Iasos, viene integrata sul modello di quella attestata in IIasos 45, 5-7. Per ben due volte (l. 4 e
5) il testo documenta il genitivo plurale Iaseivwn in luogo di Iasevwn6. Si tratta del fenomeno (ei
per /e≥/ chiuso)7 che spiega anche l’uso della forma Teleiva (l. 3), in luogo dell’atteso Televa8, del
patronimico dell’onorato; tale fenomeno si trova attestato a Iasos solamente in epigrafi databili
tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C.9. L’ipotesi che ci troviamo in questo stesso ambito
cronologico è rafforzata da due ulteriori osservazioni. Il decreto in esame si conclude senza fornire
indicazioni, normalmente presenti, sulla pubblicazione (non vengono infatti precisati né i magistrati incaricati né quale debba essere il luogo deputato all’esposizione): tali indicazioni mancano
anche in altri decreti10, tutti databili nel IV o al più tardi dell’inizio del III secolo a.C.; il privilegio
della proedria viene concesso con la formula (dedovsqai de; aujtoi'ı) kai; proedrivan ejn toi'ı
28
ajgw'si, senza l’aggiunta dell’aggettivo pa'si, riscontrabile esclusivamente in psephismata risalenti al
periodo compreso tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C.11. La coincidenza delle indicazioni
cronologiche desumibili sia dai dati linguistici che della struttura formulare inducono pertanto a
datare il decreto in tale torno di tempo; la grafia non contraddice questa ipotesi.
Il decreto onorario conferisce prossenia, cittadinanza, proedria e diritto di eisplous ed ekplous al
rodio Athenagoras figlio di Teleas, personaggio non altrimenti attestato. A Rodi è normalmente
adoperata, come ci si attende in un’isola dorica, la forma onomastica ∆Aqanagovraı: potrebbe
essere stato pertanto il grammateus che a Iasos redasse il decreto a ‘piegare’ in forma ionica il nome
dell’onorato12. Il nome Televaı13, qui proprio del padre dell’onorato, trova a Rodi una sola altra
attestazione, più precisamente a Kameiros, dove un Televaı Telesivaı è sacerdote di Atena
Poliàs nell’anno 266 a.C.14. La rarità del nome Televaı e il teoforico ∆Aqhnagovraı dell’individuo onorato a Iasos, evidentemente legato alla stessa divinità, rendono seducente l’ipotesi di un
collegamento familiare tra quel sacerdote e il personaggio qui onorato; tuttavia - nonostante a
Rodi, e particolarmente a Lindos, esistano sacerdozii certamente legati ad un ristretto numero di
famiglie15-, è d’obbligo la cautela a causa dell’annualità del sacerdozio di Kameiros e soprattutto,
come attesta la notevole mole dei nomi di coloro che lo rivestirono, a causa della sua apertura ad
un numero molto ampio di persone. La non ereditarietà della carica sacerdotale e la datazione qui
proposta per il testo di Iasos, che porrebbe Athenagoras nella generazione precedente lo hiereus (di
cui potrebbe essere ipoteticamente uno zio), rendono ancora più fragile il possibile collegamento.
Questo decreto costituisce ad oggi la prima sicura attestazione epigrafica del rapporto, indubbiamente più antico, tra Rodi e Iasos16. Oltre a ciò esso resta fino ad ora l’unico decreto iasio in onore
di un privato cittadino rodio che ci sia noto, sebbene in epoca successiva le due poleis abbiano
intrattenuto una relazione molto stretta, che spesso nei documenti tra la fine del III e l’inizio del
II secolo a.C. viene collegata all’esistenza di una syggeneia17. A una tale comunanza di stirpe fanno
riferimento sia uno psephisma di Iasos in onore di un collegio dicastico rodio18 sia i noti decreti
rodii - pubblicati però a Iasos - attestanti l’intervento e la mediazione svolta da Rodi a favore della
polis caria (su sollecitazione della stessa) presso Filippo V di Macedonia in una circostanza che
vedeva Iasos danneggiata da Podilo, un ufficiale del dinasta locale Olimpico di Alinda, a sua volta
subordinato del re macedone; tutti questi documenti, cronologicamente molto vicini tra loro,
sono plausibilmente contestualizzabili nel penultimo decennio del III secolo a.C.19. Sull’esistenza
di una syggeneia fecero ancora leva alcuni esuli iasei, che nel 191/90 a.C. decisero di rivolgersi ai
Rodii, nuovamente in cerca di aiuto, per chieder loro di dissuadere il pretore Lucio Emilio Regillo
dalla decisione di distruggere Iasos, occupata da una guarnigione di Antioco III, decisione maturata dopo che i magistrati cittadini, consultati da Regillo circa una loro disponibilità a schierarsi
con Roma, avevano dichiarato di essere impossibilitati a prendere decisioni autonome20. Anche in
quel caso Rodi accettò di intervenire e la sua mediazione si dimostrò convincente e decisiva: persuase infatti il pretore ad abbandonare le proprie intenzioni, che sarebbero state gravide di nefaste
conseguenze per Iasos21.
* Il presente contributo è stato elaborato nel corso di un soggiorno di studio presso il Deutsches Archäologisches
Institut (Zentrale Berlin) e presso l’Akademienvorhaben Inscriptiones Graecae della Berlin-Brandenburgische Akademie
der Wissenschaften finanziato dalla Alexander von Humboldt Stiftung.
1
Fabiani, in preparazione. L’avvio di un lavoro non dissimile è anche in Delrieux 2005.
2
Tale decreto fu edito da Pugliese Carratelli 1967-1968, 7, p. 456 s. (con fotografia). Si tratta di un blocco che venne
riadoperato, come dimostrano la presenza di due grossi incassi praticati sul lato superiore, la resecazione di una porzione
triangolare del lato inferiore, probabilmente la causa dell’attuale frattura, l’evidente scalpellatura di una fascia verticale
del lato iscritto nel frammento di sinistra. Il blocco fu rinvenuto il 31 luglio 1968.
29
4. Blocco n. inv. 1312
ricomposto (foto archivio
Missione Archeologica
Italiana di Iasos)
Il ricongiungimento dei due frammenti rende infatti più sicura l’integrazione del formulario mancante. È certo invece
che a questa pietra non appartenga il frammento IIasos 134 (lo suggeriva Pugliese Carratelli 1967-1968, 49, p.
478), non soltanto perché il formulario presente nei due testi non è compatibile, ma anche, come ha rivelato l’esame
autoptico, perché le due grafie sono differenti.
4
V. ancora i soli IIasos 27 e Maddoli 2007, 5.
5
IIasos 6,12; Blümel 2007, 2 II, 2.
6
V. nota di W. Blümel nel commento a IIasos 40; v. anche Maddoli 2007, p. 244 a proposito dell’epigrafe n° 9.
7
Si veda commento di W. Blümel in IIasos 40, 4-5.
8
Lo stesso fenomeno presenta il Dhmeivaı di IIasos 42, 3, su cui v. ulteriore commento di W. Blümel. Sul nome Televaı
v. oltre.
9
IIasos 42, 3 (per la datazione di esso si rinvia a Fabiani, in preparazione; Maddoli 2007, n° 9, 6; 10, 3, ove si dà conto
della proposta di datazione.
10
Si vedano, solo a titolo di esempio, IIasos 34; 71; Pugliese Carratelli 1985, II A-C (= SEG 36.982 A-C); Maddoli
2007, 1.2; 1.3; 1.4; 5. Anche per la datazione di essi rinvia alle rispettive pubblicazioni e, più complessivamente, a
Fabiani, in preparazione.
11
Sull’uso e l’evoluzione di questa formula e sul suo valore datante si rinvia a Fabiani, in preparazione.
12
V. LGPN I, s.v. ∆Aqanagovraı.
13
La lettura del nome è confermata in questa forma dall’autopsia: non è certamente Telesivaı, come sospettava Blümel
(commento a IIasos 40, 3), sospetto ripreso in LGPN I, s.v. Telesivaı.
14
TCam 5 II, 8.
15
Sherk 1990, pp. 281-283; Dignas 2003, spec. pp. 38, 40 e 46.
16
Le due poleis si trovarono a far parte dell’alleanza nota grazie alle cosiddette monete SUN, a mio avviso convincentemente
databili tra 396 e 394 a.C.: sulla questione v. Fabiani 1999 e, più recentemente ma con una diversa ipotesi interpretativa
(che si rifà tuttavia a quella precedente di Karwiese 1980), Ashton 2007, pp. 50-52.
17
A proposito di questa syggeneia si vedano Curty 1995, pp. 154-159 e Raffaelli 1995, spec. p. 309 s.
18
IIasos 76, 13. Le possibili proposte di datazione vengono discusse da Crowther 1995, pp. 101-102, 107-112, 118,
che si pronuncia prudentemente a favore degli anni intorno al 215 a.C. V. anche IIasos 150, 4.28.39.
19
IIasos 150, incisi su di un pilastro oggi conservato al British Museum; su di essi v. in particolare Meadows 1996, con
bibliografia precedente. Meadows pensa, diversamente da Holleaux 1899 (che ne individuava tre), che i decreti rodii
pubblicati sul pilastro di Iasos fossero quattro. Sulle vicende qui accennate v. Mastrocinque 1979, pp. 163-165.
20
Su tutta la vicenda v. Liv. 37.17.3-8; in particolare, queste le parole degli esuli iasii ai Rodii: «ii frequentes Rhodios orare
instituerunt ne urbem et vicinam sibi et cognatam innoxiam perire sinerent...» (Liv. 37.17.5). V. ancora Mastrocinque
1979, pp. 188-190.
21
Per una possibile prosecuzione della protezione rodia su Iasos anche dopo la Pace di Apamea v. Mastrocinque 1979,
p. 192 s.
3
BIBLIOGRAFIA
&Ashton 2007 = R.H.J. Ashton, The pre-Imperial coinage of Iasos, NumChron, 167, 2007, pp. 47-78.
&Blümel 2007 = W. Blümel, Neue Inschriften aus Karien III, EpigrAnat, 40, 2007, pp. 41-48.
&Crowther 1995 = Ch. Crowther, Iasos in the Second Century BC III: Foreign Judges from Priene, BICS,
40, 1995, pp. 91-136.
&Curty 1995 = O. Curty, Les parentés legendaires entre cités grecques. Catalogue raisonné des inscriptions contenant le terme SUGGENEIA et analyse critique, Genève 1995.
&Delrieux 2005 = F. Delrieux, Les décrets d’Iasos en l’ honneur d’ étrangers au début de l’ époque hellénistique.
Notes sur un essai de classement, ZPE, 154, 2005, pp. 173-180.
&Dignas 2003 = B. Dignas, Rhodian Priests after Synoecism, AncSoc, 33, 2003, pp. 35-51.
&Fabiani 1999 = R. Fabiani, La questione delle monete SUN: per una nuova interpretazione, Annali dell’Istituto
Italiano per gli Studi Storici, 16, 1999, pp. 87-123.
&Fabiani, in preparazione = R. Fabiani, I decreti onorari di Iasos. Cronologia, istituzioni e storia.
&Holleaux 1899 = M. Holleaux, Trois décrets de Rhodes, REG, 12, 1899, pp. 20-37.
&Karwiese 1980 = S. Karwiese, Lysander as Herakliskos Drakonopnigon (‘Herakles the Snake-strangler’), NumChron, 140, 1980, pp. 1-27.
&LGPN = P.M. Fraser, E. Matthews (eds.), A Lexicon of Greek Personal Names, I-IV, Oxford 1987-2005.
&Maddoli 2007 = G. Maddoli (con la collaborazione di R. Fabiani e M. Nafissi), Epigrafi di Iasos. Nuovi
supplementi, I, PP, 62, 2007, pp. 193-372.
&Mastrocinque 1979 = A. Mastrocinque, La Caria e la Ionia meridionale in epoca ellenistica (323-188
a.C.), Roma 1979.
&Meadows 1996 = A. Meadows, Four Rhodians Decrees. Rhodes, Iasos and Philip V, Chiron, XXVI, 1996,
pp. 251-266.
&Pugliese Carratelli 1967-1968 = G. Pugliese Carratelli, Supplemento epigrafico di Iasos, ASAtene, n.s.
29-30, 1967-1968, pp. 437-486.
&Raffaelli 1995 = T. Raffaelli, Sulle origini di Iaso e di Alicarnasso, Ostraka, 4, 2, 1995, pp. 307-313.
&Sherk 1990 = R.K. Sherk, The Eponymous Officials of Greek Cities. Mainland Greece and the Adjacent Islands,
ZPE, LXXXIV, 1990, pp. 231-295.
&TCam = G. Pugliese Carratelli, M. Segre, Tituli Camirenses, ASAtene, 27-29, 1949-1951, pp. 141-318.
30
Les monnaies de fouilles
trouvées à Iasos.
Bilan provisoire
et étude de cas
par Fabrice Delrieux
1. Temple d’Apollon Smintheus (Troade)
I
l y a aujourd’hui presque vingt ans, dans un vibrant plaidoyer en faveur des monnaies de fouilles
trouvées sur le territoire de la Turquie, B. Rémy déplorait la négligence, voire le mépris des
spécialistes de l’Antiquité à l’égard de ce genre de matériel1. Les publications encore trop rares,
partielles ou mêlées à celle d’autres matériels semblaient être alors le reflet d’un large désintérêt
pour une source d’information pourtant de première importance. Il est vrai que, aujourd’hui
comme hier, ce sur quoi on est amené à travailler nous parvient souvent dans un (très) mauvais
état de conservation. À cela s’ajoute la nécessité de connaître la production de nombreux ateliers
à toutes les époques de leur existence, ou bien encore de manipuler une production scientifique
spécialisée très dispersée et pas toujours facile d’accès. Cela étant, pour qui fait l’effort d’affronter
ces obstacles, les monnaies de fouilles ouvrent d’heureuses perspectives. Elles peuvent être en effet
un moyen de datation de l’environnement stratigraphique dans lequel elles ont été trouvées2. Elles
permettent parfois de localiser des cités “errantes” ou d’attribuer des monnayages “orphelins”3. De
même, elles sont toujours un précieux indice sur la durée d’occupation d’un site et informent sur
la circulation des hommes et des marchandises4. Enfin, elles peuvent appartenir à des émissions
jusque-là inconnues ou révéler l’existence d’un atelier encore ignoré5. À l’évidence, les champs
d’application de la numismatique ne manquent pas.
Le premier de tous, L. Robert a souvent insisté sur l’importance historique des monnaies trouvées
sur le terrain6, mais ses appels répétés ont longtemps eu peu d’effets, au grand regret de B. Rémy.
Or, depuis quelques années, les choses tendent à évoluer, aussi bien sur les chantiers de fouilles
que dans les rangs des prospecteurs. Pour ne prendre que l’exemple de la Carie, nous signalerons,
parmi les travaux les plus récents, la publication de tout ou partie des monnaies trouvées au nordest du golfe de Kéramos, dans la région d’Halicarnasse, dans la basse vallée de l’Harpasos, ou bien
encore, aux portes du territoire carien, dans le sanctuaire d’Apollon à Didymes7. À Iasos, les études
de ce genre ne manquent pas, mais ces dernières ont paru, très irrégulièrement, dans des articles à
la fois dispersés et ne prenant en compte qu’une partie du matériel.
Les premières publications sur le sujet virent le jour dans les années 1960. Ainsi, dans le rapport
de fouilles consacré aux campagnes de 1962-1964, étaient présentées toutes les pièces trouvées
jusqu’alors, quelles que fussent leur origine et la date de leur émission8. Dans celui dédié aux
fouilles de 1969-1970, quelques bronzes iasiens d’époque hellénistique étaient à leur tour édités9.
À ces travaux prometteurs succéda pourtant un long silence interrompu seulement au début des
années 1990. Les publications de nouvelles monnaies se sont alors multipliées, les unes faisant
connaître une nouvelle pièce au détour d’une argumentation, les autres révélant au lecteur l’ensemble du matériel numismatique trouvé en un point précis du territoire iasien10. Mais ce n’est
qu’au début des années 2000 qu’un premier travail d’ampleur fut entrepris par S. Pennestrì d’après
les trouvailles faites entre 1960 et 197911. Cette publication accompagnait celle d’un important
trésor du IIIe siècle p.C. découvert en 1969 sur l’agora d’Iasos12. Dans le même temps, l’abondant
31
2. Monnaie d’argent
trouvée sous la
basilique chrétienne
de l’agora d’Iasos
monnayage romain et byzantin mis au jour depuis le début des fouilles permettait à L. Tondo de
produire quelques synthèses sur la circulation monétaire dans la cité entre le Ier et le XIe siècle de
notre ère13.
La qualité et l’intérêt de tous ces travaux rendait nécessaire le rassemblement du matériel publié, de
le présenter selon les règles, notamment métrologiques, propres à la numismatique et de le joindre
aux nombreux exemplaires encore inédits. La généreuse proposition faite en ce sens par F. Berti,
que nous remercions vivement, nous a permis de travailler sur un échantillon de plusieurs centaines de pièces trouvées au cours de ces dernières années. Les monnaies déjà identifiées nous mettent
en présence d’un ensemble courant de la fin du Ve siècle a.C. au début du XIIIe siècle p.C. et
couvrent une région allant pour l’instant de la Gaule Narbonnaise à la Syrie et de la Macédoine
à l’Égypte. Il ne saurait être question ici d’en dresser le catalogue ni d’en faire un commentaire
exhaustif. Toutefois, en attendant la publication de cette étude, actuellement en cours, nous nous
proposons d’attirer l’attention sur deux exemplaires iasiens ayant suscité, parmi d’autres, notre
intérêt. Ceux-ci sont présentés ci-après dans l’ordre où ils ont été frappés.
Le premier est une petite monnaie d’argent trouvée en 1986 sous la basilique chrétienne de l’agora d’Iasos (fig. 2). Le monnayage auquel elle appartient n’est connu qu’à travers un seul autre
exemplaire, de même poids, de même module et semble-t-il des mêmes coins, publié récemment
par R.H.J. Ashton14. Selon ce dernier, cette pièce pourrait être une obole de poids attique, émise
entre la fin du Ve (avant la prise de la ville par le Spartiate Lysandre en 412 ?) et le début du IVe
3. Temple d’Apollon
Smintheus (Troade)
32
4. Statuette de souris
en terre cuite
trouvée à Iasos
siècle a.C.15. Au droit apparaît une protomè de griffon à droite et, au revers, une souris également
à droite accompagnée des lettres IAS pour IASEWN (on ne lit plus que le sigma sur la monnaie
mise au jour à Iasos). La présence de ce rongeur sur des pièces iasiennes, type exceptionnel dans
l’histoire monétaire de la cité, a été tout de suite rapprochée d’Apollon Smintheus (fig. 1 et 3), bien
connu dans le nord-ouest de l’Asie Mineure, mais attesté également, en Carie et dans ses environs
immédiats, à Magnésie du Méandre, à Rhodes et peut-être à Nisyros16. Ce lien est aujourd’hui
d’autant plus étroit qu’une petite représentation de souris en terre cuite a été mise au jour en
1971, dans le sanctuaire dit d’Artémis Astias, au sud de l’agora, près du bouleutérion. Publiée il y a
peu par F. Berti17, la statuette fait 5,80 cm de long, représente un rongeur recroquevillé, la queue
ramenée vers la tête, comme sur les petites monnaies d’argent présentées ici (fig. 4). Daté de la
première moitié du IVe siècle a.C., ce nouveau témoignage de la présence d’Apollon à Iasos vers le
milieu de l’époque classique vient s’ajouter à d’autres, contemporains, transmis également par les
monnaies: tête du dieu au droit de tridrachmes, de drachmes et d’hémidrachmes de poids chiote,
lyre d’Apollon au revers des deux dernières dénominations18. Selon toute apparence, si l’on savait
déjà qu’Apollon était une des principales divinités du panthéon iasien19, un culte était consacré
à Apollon Smintheus dans la cité d’Iasos et son temple pourrait avoir été l’édifice élevé, peut-être
sous les Hécatomnides, dans le sanctuaire dit d’Artémis Astias et dont on voit encore aujourd’hui
quelques vestiges20.
La seconde monnaie dont nous voudrions parler (fig. 5) date cette fois de l’époque hellénistique21.
Celle-ci appartient à une abondante série de bronzes frappés aux types de la tête laurée d’Apollon
au droit et à celui, fameux, du jeune garçon nageant avec un dauphin au revers22. Sa particularité
par rapport aux autres pièces est qu’elle est une des rares à porter une contremarque. Cette dernière, de forme circulaire, a été apposée au droit et reproduit une couronne de laurier avec peutêtre quelque symbole ou quelque lettre indéterminé à l’intérieur. Cette présentation rappelle un
type de revers iasien montrant l’ethnique IASEWN écrit dans une couronne de lierre23. S’il est vrai
que les monnaies portant les deux couronnes datent à peu près de la même époque, seconde moitié
du IIIe-début du IIe siècle a.C. pour la première et milieu du IIe siècle a.C. pour la seconde24,
nous ne saurions voir pour autant dans la couronne de laurier une préfiguration de la couronne de
lierre en raison des différentes essences représentées. Reste donc la possibilité d’un contremarquage
réalisé ailleurs qu’à Iasos, à l’image d’une autre empreinte, de forme rectangulaire, montrant une
5. Monnaie
de bronze avec
contremarque
33
harpè apposée au droit d’une pièce aux mêmes types que l’exemplaire présenté ici. Selon R.H.J.
Ashton, cette dernière contremarque pourrait venir, soit d’Astypalaia (où la harpè figure sur ses
monnaies des IIIe et IIe siècles a.C.), soit d’Harpasa (hypothèse à notre sens moins séduisante)25.
Dans le cas de la couronne de laurier, l’identité de l’atelier à l’origine de celle-ci demeure pour le
moment une énigme, même si le type n’est pas sans rappeler, par exemple, celui que l’on peut voir
au revers de petits bronzes émis non loin d’Iasos, à Kalymna, au IIIe-début du IIe siècle a.C.26.
Aussi, en l’état actuel de la situation, la prudence invite toujours à ne considérer comme iasiennes
que les contremarques apposées, parfois ensemble, sur des drachmes pseudo-rhodiennes émises
dans l’est de la Carie dans les années 180-170 a.C., l’une avec la tête d’Apollon, l’autre avec un
dauphin et les lettres IA27.
Rémy 1991, p. 227.
À condition que les couches fouillées n’aient pas été bouleversées entre le moment de l’enfouissement et celui de la
découverte. Inversement, une monnaie non datée peut l’être parfois grâce au niveau dans lequel elle a été trouvée.
3
L’expression “cités errantes” s’inspire des “pierres errantes” évoquées par L. Robert et qui, «déplacées de leur lieu
d’origine et de trouvaille, ont été transportées ailleurs» (Robert 1966, p. 5). Sur la localisation de cités d’après les
monnaies, cf., en Carie, Robert 1935, p. 340 (pour Hydisos); Robert 1982, p. 318-319 (pour Bargasa); Robert
1962, p. 228-231 (pour Kidrama). De leur côté, ce que nous appelons “monnaies orphelines” sont des pièces à types
non parlant anépigraphes ou à légendes trop abrégées pour qu’on puisse les attribuer sans hésitation. Sur l’identification
de certains de ces exemplaires, cf. par exemple, en Carie, Troxell 1984, p. 249-257.
4
Une mission récente à Pompeiopolis de Paphlagonie nous a montré qu’aucune des monnaies trouvées en fouilles n’était
postérieure au VIIe siècle p.C. Or, selon une tradition locale, la ville aurait été détruite par un sultan à une époque non
précisée (Fourcade 1811, p. 37). Sur la foi de notre indice numismatique, l’événement pourrait avoir eu lieu lors des
invasions arabes survenues dans le nord de l’Asie Mineure dans la seconde moitié du VIIe siècle. Sur la circulation des
monnaies, cf. par exemple Amandry 1991, p. 221.
5
Entre autres exemples, les fouilles menées à Aphrodisias ont permis de trouver des séries monétaires inédites d’Antioche
du Méandre (MacDonald 1976, p. 9.325 et 327), Attouda (ibid., p. 10.351), Harpasa (ibid., p. 10.361-362) et
Trapézopolis (ibid., p. 11.379). Sur la découverte de l’atelier de Kranaos par les monnaies, cf. Walker 1978, p. 86-88.
6
Cf. par exemple Robert 1962, p. 19-23 et 424-426.
7
Cf. Konuk 2001, p. 77-79; Konuk 2004, p. 165-176; Delrieux 2008, p. 170-171; Baldus 1996.
8
Levi 1965-1966, p. 455-463.
9
Levi 1969-1970, p. 530-531, et Levi, Laviosa 1970, p. 148 et 156.
10
Cf., au gré de nos lectures, Berti 1991, p. 236; Tomasello 1991, p. 62-64; La Rocca 1992, p. 64; Baldoni 1993,
p. 940-941; Franco 1994, p. 181-182.
11
Pennestrì 2003-2004, p. 269-293. À lire en tenant compte de Delrieux 2007, p. 48-49.
12
Tondo 2003-2004a, p. 29-262.
13
Tondo 1999, p. 411-412; Tondo 2003-2004b, p. 265-267.
14
2007, p. 49.1, pl. 7.5. La pièce mise au jour à Iasos fait 0,75 mm, pèse 0,70 g et a un axe orienté à 9h. Celle publiée
par R. H. J. Ashton fait 0,85 mm, pèse 0,65 g et a un axe orienté à 9h.
15
2007, p. 50. Sur la prise d’Iasos par Lysandre, cf. Thc, VIII, 28, 2-4.
16
Laumonier 1958, p. 534 et 717; Ashton 2007, p. 49-50. Sur la représentation de souris dans le monde égéen et
ailleurs, cf. Berti 2005-2006/2006-2007, p. 136-137.
17
Berti 2005-2006/2006-2007, p. 136.
18
Ashton 2007, p. 50-51.
19
Cf. Laumonier 1958, p. 592-594.
20
Masturzo 2003-2004, p. 141-157; Berti 2005-2006/2006-2007, p. 142.
21
N° d’inv. 19300-19301 (18 mm; poids et axe indéterminés).
22
Sur l’ensemble de ce monnayage, avec ou sans nom de personne, cf. en dernier lieu Ashton 2007, p. 58 sq.
23
Levi 1965-1966, p. 456 et 457, fig. 67.3; Ashton 2007, p. 75.1-3, pl. 15.242-244.
24
Ashton 2007, p. 58 et 75.
25
2007, p. 64, n. 70. Sur les monnaies d’Astypalia avec une harpè, cf. par exemple SNG München, Karien, 483 et 485486. Selon nous, l’attribution de la contremarque à Astypalaia est préférable à un classement à Harpasa car nous ne
connaissons pas de harpè sur les pièces de cette cité (Delrieux 2008, p. 27-37). De plus, le nom d’Harpasa doit être lié
à celui de l’Harpasos, affluent du Méandre coulant sur son territoire et souvent représenté sur les monnaies harpasiennes,
non à un objet au nom phonétiquement proche.
26
Cf. notamment SNG München, Karien, 493-494.
27
Ashton 1987, p. 9.8, p.10.20 et p. 1.
1
2
34
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35
Appunti per uno studio
preliminare di alcune
anfore a labbro diedro
provenienti da Iasos
di Giulia Lodi
1. Anfora mushroom rim type da Iasos
L
e anfore del IV secolo a.C. rinvenute a Iasos e provenienti da differenti settori della città appartengono, in gran parte, alla famiglia di contenitori da trasporto denominata mushroom rim type
(fig. 1), dalla principale caratteristica distintiva o, in alternativa, Solocha I, nome quest’ultimo derivante dal kurgan ucraino Solocha all’interno del quale è stato individuato il primo esemplare1.
Il tipo è facilmente riconoscibile per la presenza di un pesante labbro diedro (o a fungo) e di anse
a sezione ovale che si innestano su di un alto collo cilindrico. Il corpo, di forma ovoide, termina in
un puntale a pomello lievemente rientrante nella superficie inferiore.
I recipienti vengono collegati alle produzioni di ateliers dislocati nelle regioni del sud-est dell’Egeo
e presenti sui mercati a partire dagli inizi del IV fino alla prima metà del III secolo a.C.; tali fabbriche sono state portate in luce nella penisola di Datça (Cnido), sull’isola di Cos, a Panormos, a
Chios, mentre deve ancora essere individuato quello di Samos2.
Per quanto riguarda la periodizzazione, mi è stato utile il confronto con altri contesti3, dal momento che dati di scavo relativi al materiale sono difficilmente recuperabili.
Nel caso particolare dei recipienti iasii non è da escludere l’ipotesi di un loro utilizzo secondario,
elemento che porterebbe a rifiutare l’idea di una contemporaneità rispetto al contesto. Casi simili
sono noti da tempo agli studiosi, primo tra tutti quello rappresentato dal relitto di El Sec4: un’indagine condotta sugli elementi facenti parte del carico ha mostrato come un gruppo di anfore
originarie di Mende fosse già più antico di 20-40 anni rispetto alla data presunta del naufragio.
Parimenti S.Ju. Monachov riporta l’esempio di un cospicuo numero di sepolture ucraine all’interno delle quali le anfore mushroom rim type sono notevolmente più antiche rispetto all’epoca della
deposizione all’interno del tumulo5.
Lo studio che qui si presenta non vuole certamente porsi in maniera esaustiva o risolutiva rispetto
a una tematica così complessa: esso propone una prima classificazione e attribuzione cronologica
dei reperti partendo dall’analisi sia dei frammenti distinguibili con un buon margine di certezza
(orli e puntali), sia degli esemplari bollati.
Tipo Zeest 32
Il gruppo più cospicuo tra le anfore oggetto del lavoro appartiene alla variante Zeest 326, in particolare ai sottotipi 32a (n. inv. 8127), 32Β (n. inv. 8108, 8110, 8120, 8123), 32δ (n. inv. 8118),
32HC (n.inv. 8106), 32e (n. inv. 8111) e 32ς (n. inv. 8119).
32a
• Inv. 8127. Orlo. Impasto 5 YR 7/67,
ruvido con inclusi di diametro inferiore
al millimetro (calcite). Frattura netta.
Ingobbio 5 YR 8/2. Provenienza: agora,
saggio D. Dimensioni: spess. dell’orlo cm
0,8; diam. imboccatura cm 11,2 (fig. 2).
2. Anfora tipo Zeest
32a (n. inv. 8127)
36
Le anfore sono caratterizzate da un orlo piuttosto massiccio, dal profilo triangolare e da anse
recanti bolli con lo stemma della città di Cnido (la prora di una nave) accompagnato da nomi
di magistrati8. La tipologia dell’impasto del nostro esemplare sembra indicare l’appartenenza alla
produzione della bottega di Resadıye-Kiliseyanı (penisola di Cnido) attiva a partire dal 325 a.C.9.
Secondo N.F. Jefremov la cronologia per gli esemplari va individuata nell’intervallo tra il 305 e il
280 a. C. e si basa quasi esclusivamente sui nomi degli stessi magistrati10.
32Β
• Inv. 8108. Orlo. Impasto 7.5 YR 7/6, ruvido, povero di inclusi. Frattura concoide. Ingobbio
dello stesso colore dell’impasto. Provenienza: necropoli preistorica. Dimensioni: alt. cm 6,8;
spess. dell’orlo cm 2.
• Inv. 8110. Orlo. Impasto 5 YR tra 7/6 e 6/6,
ruvido, povero di inclusi. Frattura concoide.
Ingobbio 5 YR tra 8/4 e 7/4. Provenienza: necropoli
preistorica. Dimensioni: alt. cm 3,9; spess. dell’orlo
cm 3; diam. imboccatura cm 12,3 (fig. 3).
3. Anfora tipo Zeest
32B (n. inv. 8110)
• Inv. 8120. Orlo. Impasto 5 YR 6/4, ruvido con frequenti inclusi micacei. Frattura concoide.
Ingobbio 7.5 YR 7/4. Provenienza: agora. Dimensioni: spess. dell’orlo cm 3; diam. imboccatura
cm 10,8.
• Inv. 8123. Orlo. Impasto 7.5 YR 7/4, ruvido, con inclusi micacei inferiori al millimetro.
Frattura netta. Residui di pece. Ingobbio dello stesso colore dell’impasto. Provenienza: agora.
Dimensioni: alt. cm 6,7; diam. imboccatura cm 12,8; spess. dell’orlo cm 2,5.
I nostri contenitori, con labbro più arrotondato, dovrebbero appartenere a una produzione non
più tarda del IV secolo a.C.11. Essi sono caratterizzati da un orlo spesso, ripiegato verso l’esterno.
È difficile attribuire le anfore descritte a un insieme specifico, anche se l’analisi macroscopica degli
impasti indica la provenienza samia o dall’isola di Rodi (Fabric III di Lawall), dove, peraltro, non
sono ancora state individuate le officine produttrici12.
32δ
• Inv. 8118. Orlo. Impasto 5 YR tra 8/3 e 7/3, ruvido,
con inclusi micacei inferiori al millimetro. Ingobbio
dello stesso colore dell’impasto. Provenienza:
necropoli preistorica. Dimensioni: alt. cm 3; spess.
dell’orlo cm 2,8; diam. imboccatura cm 10,5 (fig. 4).
4. Anfora tipo Zeest
32δ (n. inv. 8118)
Il frammento sembra appartenere alla produzione dell’atelier di Meropis, sull’isola di Cos, attivo
dal V secolo fino al 366 a.C.13. È probabile che facesse parte della serie più comune e diffusa (n.
III di Kantzia), caratterizzata da un orlo dal profilo triangolare, da anse semplici con andamento
a S recanti l’impronta del pollice dell’artigiano nel punto di inserzione14. Il tipo ebbe una vita
piuttosto breve rispetto agli altri, caratterizzati da una doppia ansa, ed è presente soprattutto in
contesti del IV secolo a.C.
32HC
• Inv. 8106. Orlo. Impasto 7.5 YR 6/6, ruvido
con minuscoli inclusi micacei. Ingobbio
dello stesso colore dell’impasto. Provenienza:
necropoli preistorica. Dimensioni: alt. cm
9,2; spess. dell’orlo cm 1; diam. imboccatura
cm 10,3 (fig. 5).
5. Anfora tipo Zeest
32HC (n. inv. 8106)
37
Le caratteristiche morfologiche e il tipo d’impasto porterebbero a supporre per questa anfora una
origine samia. I contenitori samii, caratterizzati da un netto restringimento tra orlo e collo dovuto
all’innesto superiore dell’ansa, sono databili al IV secolo a.C.15.
32e
• Inv. 8111. Orlo. Impasto 7.5 YR tra 8/4 e 7/4,
compatto, povero di inclusi. Frattura netta.
Ingobbio dello stesso colore dell’impasto.
Provenienza: quartiere a sud del teatro, Ins. I, 12.
Dimensione: alt. cm 4,1; spessore dell’orlo cm 2,5;
diam. imboccatura cm 12,5 (fig. 6).
6. Anfora tipo Zeest
32e (n. inv. 8111)
Le caratteristiche dell’orlo, ampio e dritto, e dell’impasto sembrano richiamare più da vicino
la produzione dell’isola di Peparethòs, della quale è noto soprattutto l’atelier di Panormos
attivo nella prima metà del IV secolo a.C.16. Doulgeri-Intzessiloğlou e Garlan si sono mostrati
dubbiosi nell’assegnare i recipienti di questa bottega alla famiglia delle Solocha I, in quanto le
anfore provenienti dalla Russia e dall’Ucraina presentano un impasto tendente al giallognolo,
sostanzialmente diverso nelle tonalità da quelle prodotte a Peparethòs. Gli studiosi svedesi
ritengono tale argomentazione piuttosto debole, dal momento che le Solocha I provenienti da altre
regioni presentano impasti differenti tra loro17.
32ς
• Inv. 8119. Orlo. Impasto 5 YR 6/4, ruvido, scistoso,
povero di inclusi. Ingobbio 5 YR 8/4. Provenienza:
necropoli preistorica. Dimensioni: alt. cm 6; spess.
dell’orlo cm 2,5; diam. imboccatura 10,4 (fig. 7).
7. Anfora tipo Zeest
32ς (n. inv. 8119)
L’esame autoptico dell’argilla fa pensare a un recipiente di origine cnidia, caratterizzato da un orlo
dal profilo triangolare rientrante nella parte inferiore. Stando a Monachov la produzione è da
collocarsi tra il 370 e il 280 a.C.18.
Esemplari con bollo
• Inv. 8128. Impasto 7.5 YR 7/6, ruvido con
rari inclusi micacei. Ingobbio dello stesso
colore dell’impasto. Provenienza: quartiere
a sud del teatro. Dimensioni: spessore
dell’orlo cm. 3,2; diam. imboccatura cm
13,2; diam. ansa cm 4,7; dimensioni del
cartiglio: alt. cm 1,4; largh. cm 2,1 con
bollo ΠΑΘ (fig. 8).
8. Anfora cnidia con
bollo (n. inv. 8128)
Un esemplare dello stesso tipo (n. inv. 944), proveniente dall’insula I, 22, è conservato presso
il Museo Archeologico di Izmir. L’anfora, cnidia, appartiene alla variante detta del Chersoneso (Monachov). I contenitori recanti il monogramma ΠΑΘ sono noti da tempo e sono stati
ritrovati in numerosi insediamenti del Bosforo19: essi si distinguono per un netto distacco tra la
spalla e il ventre, oltre che per la presenza di un puntale piuttosto massiccio. Il bollo è racchiuso all’interno di un cartiglio quadrangolare dalle dimensioni variabili20. Un reperto fondamentale, in quanto reso oggetto di studi che hanno permesso di estrapolare notizie preziose riguardanti la produzione, proviene dall’insediamento di Gerovkai presso Nymphaia21. Un secondo è
stato portato in luce nell’insediamento di Belozerskoe22. I dati desunti dall’analisi stratigrafica
dei contesti hanno consentito l’identificazione dell’intera serie, comprendente anche anfore
anepigrafi, e di circoscriverne il periodo di circolazione nella seconda metà del IV secolo a.C.,
in particolare negli ultimi anni del dominio persiano, prima del 332 a.C.
38
• Inv. 7460. Orlo con ansa parzialmente conservata.
Impasto 10YR 8/3, compatto, a frattura netta,
povero di inclusi. Ingobbio 10 YR 7/3 . Provenienza:
area cd. di Artemis Astias. Dimensioni: alt. cm
10,6; spess. dell’orlo cm 3,2; diam. imboccatura
cm 13,2; diam. ansa cm 2,7. Bollo: lettere A e I
separate da un grappolo, entro un cartiglio a forma
di cuore (fig. 9).
9. Anfora cnidia con
bollo a forma di cuore
(n. inv. 7460)
Di questo bollo a forma di cuore contenente un grappolo d’uva stilizzato, di probabile origine
cnidia, sono noti due soli esemplari riconducibili a recipienti realizzati nelle botteghe di Nossos e di
Archelaia23. Un frammento dalle caratteristiche morfologiche simili a quelle del nostro e recante il
bollo ΝΟΣΣΟΥ, è stato ritrovato a Elizavetovskoe, mentre un esemplare recante il nome Archelaia,
accompagnato dalla lettera I, è stato ritrovato a Eraclea Pontica24. Secondo gli studiosi, il periodo
di attività degli ateliers specializzati nella produzione di tali anfore è compreso tra il IV secolo e i
primi anni settanta del III secolo a.C.25.
Anfore di Gelendzik (tipo IB Monachov)
• Inv. 8101. Porzione di ventre e puntale.
Impasto 5 YR 6/6, duro, con minuscoli inclusi
micacei. Frattura netta. Ingobbio dello stesso
colore dell’impasto. Provenienza: quartiere a
sud del teatro, insula, I, 22. Dimensioni: alt.
cm 14,4; diam. puntale cm 5,8 (fig. 10).
10. Porzione di
ventre e puntale di
anfora di Gelendzik
(n. inv. 8101)
• Inv. 8102. Puntale. Impasto 10 YR 5/8, poroso con inclusi micacei. Ingobbio dello stesso
colore dell’impasto. Provenienza: quartiere a sud del teatro, insula, I, 22. Dimensione: alt. cm
5,8; diam. puntale cm 5,9.
• Inv. 8103. Puntale. Impasto 7.5 YR 7/4, ruvido, con rari inclusi micacei. Ingobbio dello stesso
colore dell’impasto. Provenienza: quartiere a sud del teatro, insula, I, 22. Dimensioni: alt. cm
15,8; diam. puntale cm 7,4.
I contenitori appartenenti al gruppo di Gelendzik sono di dimensioni piuttosto ampie, con una
capacità che varia dai 45 ai 47 litri26. Le anse in alcuni casi recano il bollo Φ; la produzione è da
attribuirsi a una bottega individuata presso Mukhal Tepe (penisola di Cnido), attiva nella seconda
metà del IV secolo a.C.27.
Anfore di Cherednikov (tipo ID Monachov)
• Inv. 8107. Puntale. Impasto 7.5 YR 7/6,
ruvido, a frattura concoide. Ingobbio dello
stesso colore dell’impasto. Provenienza:
necropoli preistorica. Dimensioni: alt. cm 6,8;
diam. puntale cm 5,9 (fig. 11).
11. Puntale
di anfora di
Cherednikov
(n. inv. 8107)
• Inv. 8124. Puntale. Impasto 7.5 YR 7/4, compatto, ruvido, con inclusi inferiori al millimetro.
Ingobbio dello stesso colore dell’impasto. Provenienza: agora, saggio D. Dimensioni: alt. cm
4,4; diam. puntale cm 9,8.
Le anfore di Cherednikov differiscono dagli altri recipienti appartenenti alla famiglia delle
mushroom shaped rim per le proporzioni allungate. La loro capacità è superiore ai 30 litri
(corrispondenti allo standard di 9 choes attici). I primi esemplari furono individuati nel tumulo n.
8 della necropoli di Cherednikov, che ha dato il proprio nome al tipo consentendo di datarlo agli
anni sessanta del IV secolo a.C.28.
39
Anfora pithoide (IIB Monachov)
• Inv. 8129. Puntale. Impasto 7.5 YR 7/4, duro, con rari inclusi micacei, a frattura netta. Ingobbio dello
stesso colore dell’impasto. Provenienza: agora, stilobate ovest. Dimensioni: alt. cm 11,1; diam. puntale
cm 6 (fig. 12).
12. Puntale di
anfora pithoide
(n. inv. 8129)
I recipienti cnidii appartenenti a questa variante
sono caratterizzati da un collo piuttosto breve,
da un ventre espanso terminante in un puntale
a rocchetto segnato da una profonda scanalatura.
Essi sono stati ritrovati in gran numero nel
Bosforo e sono in gran parte anepigrafi. Si datano
tra la seconda metà del IV e il III secolo a.C.29.
Anfora di produzione non identificata
• Inv. 8094. Collo con anse. Impasto 2.5 YR 5/8,
duro, ruvido con inclusi minuti. Ingobbio di colore
pallido 5 YR 8/4. Provenienza: basilica est, zona a
sud della cisterna. Dimensioni: alt. cm 24,9; spess.
dell’orlo cm 1,4; diam. imboccatura cm 12,6;
diam. ansa cm 1,9 (fig. 13).
13. Anfora di
produzione non
identificata (n. inv.
8094)
L’anfora è distinguibile per una sorta di doppio
orlo, ad anello nella parte superiore, a labbro
diedro nella parte inferiore, lievemente ripiegato ‘a
gancio’, che si innesta su di un alto collo cilindrico
tendente ad ampliarsi nel punto di inserzione
delle anse. Queste ultime, a bastoncello semplice,
presentano una sezione ellittica.
L’anfora, appartenente a una produzione non
meglio identificata, sembrerebbe riassumere le caratteristiche di differenti gruppi di recipienti del
IV secolo a.C.30. Le caratteristiche morfologiche dell’impasto porterebbero a ipotizzare che sia
stata realizzata a Chios: potrebbe trattarsi di una sorta di produzione intermedia, di passaggio da
un tipo a un altro.
Le considerazioni iniziali non toccano il contenuto delle anfore, il significato dei bolli riportati su
alcune di esse e, infine, i rapporti commerciali intrattenuti da Iasos con il resto del Mediterraneo,
problematiche che ora saranno rapidamente presentate.
Gli studiosi si sono trovati in disaccordo nello stabilire quali merci venissero trasportate nei recipienti
sopra descritti. Oggi pare siano pressoché unanimemente concordi nel ritenere i contenitori come
vinari e, solo in misura minore, destinati alla conservazione di olive in salamoia, olio o conserve di
pesce31: le fonti letterarie ricordano come alcuni vini, da ritenersi particolarmente pregiati, quali
quelli di Thasos, Chios, Cos, Lesbos e Mende fossero adatti all’invecchiamento (Hom. Od. 2, 340;
3, 391; Pind. Ol. 9, 48; Ath. 1, 26 a-b) e altri (è forse questo il caso del vino prodotto a Iasos)
andassero consumati giovani. È probabile che la maturazione del vino avvenisse all’interno delle
anfore piuttosto che all’interno dei pithoi, utilizzati usualmente per la fermentazione del mosto32.
I bolli, apposti al momento della realizzazione del recipiente, sarebbero stati utili in una fase
avanzata della commercializzazione delle derrate, quale attestazione di qualità33. Essi venivano
applicati non tanto per essere visti dall’acquirente, ma perchè fossero comprensibili per un gruppo
ristretto di controllori specializzati, in grado di valutare le minime inadempienze in rapporto a
standards precisi.
Iasos deve essere annoverata tra le città produttrici di anfore? Secondo D. Levi e G. Pugliese
Carratelli sì, in quanto era sede di un’industria vinicola e di una figlina. Va tuttavia osservato che
se la diffusione della viticoltura trova conferma nelle fonti epigrafiche, in particolare in un testo di
40
II secolo a.C., l’ipotesi della produzione locale di contenitori da trasporto si basa soltanto su due
bolli con il nome della città34.
Il rinvenimento di anfore di Cos, di Cnido o di Samo non stupisce dal momento che Iasos
costituiva una tappa della direttrice commerciale che dalla Grecia raggiungeva Rodi per poi
ripartire verso la Palestina, Alessandria e le coste settentrionali dell’Africa35; forse gli abitanti
consumavano in occasioni particolari (cerimonie o sacrifici) vini importati di qualità eccellente,
usando quotidianamente la (mediocre?) produzione locale.
Avram 1989, p. 247. I materiali provengono dagli scavi condotti negli anni ‘60 e ‘70, ad eccezione dei nn. 8120, 8123
e 8124, ritrovati nel 2008.
2
Doulgeri-Intzessiloğlou, Garlan 1990, pp. 369-371, 376 e 386-388; Empereur, Garlan 1992, p. 15;
Georgopulos 2004, p. 129; Nørskov, Lund 2002, pp. 60-61.
3
Mi sono basata sui risultati degli scavi stratigrafici condotti nel sito della città-stato di Elizavetovskoe, comprendente
numerosi complessi tombali, nell’ insediamento di Belozerskoe e di Cherednikov. Cfr. Monachov 1999 a.
4
Lawall 2005, pp. 53-54. Contra: Monachov 1999b, pp. 372-379, per il quale le merci trasportate costituiscono
un insieme più o meno omogeneo dal punto di vista cronologico. Precedentemente Monachov 1997, p. 203
aveva interpretato la presenza di molti materiali databili tra il tardo V e il primo IV secolo a.C. come frutto della
contaminazione tra più relitti giacenti in un medesimo punto.
5
Tumulo 26/1911 e tumulo 5 del Gruppo detto dei Cinque Fratelli nella necropoli di Elizavetovskoe; sepoltura 2 nel
kurgan 1 vicino al villaggio di Pribugskoe (Monachov 1999b, pp. 251, 271-272, 338-340). Altri esempi in Monachov
1997, pp. 202-212.
6
Per le distinzioni tipologiche cfr. Zeest 1960.
7
Nelle schede il colore dell’impasto è stato indicato sulla base delle Munsell Soil Color Charts, 1975.
8
Monachov 1999a, p. 165.
9
Empereur, Hesse, Tuna 1999, pp. 109-110.
10
Jefremov 1995, n. 62 ss. Per Monachov 1999a, p. 165, nota 117, i nomi che accompagnano il simbolo della prora
non sono di magistrati, bensì dei fabbricanti delle anfore.
11
Nørskov, Lund 2002, pp. 60-61.
12
Per analisi degli impasti si intende un esame di tipo autoptico, dal momento che nessuno dei frammenti è stato reso
oggetto di campionature o di analisi di tipo petrografico.
13
Georgopulos 2004, p. 130. Secondo la studiosa, a partire dal 366 a.C., a causa dell’estendersi dell’abitato, l’atelier si
sarebbe spostato in un altro settore della città.
14
Kantzia 1994, pp. 337-342; Georgopulos 2004, p. 130.
15
Nørskov 2004, pp. 287-288, fig.4.
16
Doulgeri-Intzessiloğlou, Garlan 1990, pp. 369-371; pp. 376 e 386-388.
17
Cfr. ad esempio le anfore di Halikarnassos: Nørskov, Lund 2002, p. 61.
18
Monachov 1999a, pp. 164-165; Nørskov, Lund 2002, pp. 66-67.
19
Un esemplare è stato pubblicato in IOSPE III.
20
Su un’ansa conservata presso il Museo di Kerç l’abbreviazione è leggibile all’interno di un minuscolo quadrato: essa si
differenzia da altri tipi in quanto il P è distinto dall’A. Cfr. Garlan 2000, pp. 45 e 46, fig. 20, a.
21
Attualmente conservato a San Pietroburgo, presso l’Istituto di Storia Materiale dell’Accademia Russa delle Scienze
(scavi del 1986).
22
Monachov 1999a, p. 163, p. 171, fig. 1.
23
Monachov 1999a, pp. 167-168, p. 172, fig. 10; Lawall 2004.
24
Lawall 2004.
25
Monachov 1999a, p. 167.
26
La capacità è stata misurata utilizzando degli esemplari integri.
27
Monachov 1999a, pp. 162-163; p. 171, tav.2.
28
Monachov 1999a, pp. 163-164, p. 171, fig. 4.
29
Monachov 1999a, pp. 166 e 172, figg. 7-8.
30
Lawall 1994, pp. 94-96; Whitbread 1995, pp. 139-144; Nørskov, Lund 2002, p. 59.
31
Secondo Stolba 2007 derrate diverse dal vino sarebbero state collocate all’interno delle anfore in fase di riutilizzo. Per
Doğer 1986, p. 471 le anfore mushroom rim erano adatte al trasporto di olio d’oliva, elemento questo che spiegherebbe
la particolare forma del labbro, più adatto a versare un liquido denso e vischioso. In realtà tale teoria, per quanto
suggestiva, non ha trovato fino ad ora conferme dal punto di vista archeologico.
32
Rossiter 1981, p. 347, n. 8; Stolba 2007, pp. 156-157.
33
Garlan 2000, pp. 165-172.
34
Levi 1961-1962, p. 623, n. 88 segnala l’esistenza di un bollo iasio conservato ad Atene ma ne ignora la provenienza.
Per l’iscrizione Pugliese Carratelli 1992, pp. 49-51 n. 1: il testo menziona una “dodicesima” gravante sulla vendita
del vino locale (imposta che lo studioso ritiene eccessiva). Sulla viticoltura cfr. anche Delrieux 2002, p. 273.
35
Garlan 2007, p. 147.
1
41
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42
Una croce e un gallo
scolpiti su una colonna:
una testimonianza di
periodo crociato a Iasos?
di Valentina Cabiale
1. Iasos: la stoà orientale dell’agora
S
u una porzione di colonna, appoggiata sotto un ulivo nella stoa orientale della agora di Iasos
(fig. 1), sono scolpiti una croce e un volatile, mentre sull’altro lato è incisa una più piccola e
semplice croce latina (figg. 2-3). La colonna, conservata per un’altezza di 53 cm e con entrambe
le estremità spezzate, è in pietra grigio scuro. La croce, equilatera a estremità espanse, è inscritta
in un cerchio del diametro di 15 cm. Sotto di essa, spostato leggermente a sinistra, è visibile, più
piccolo (altezza 11 cm) e a rilievo molto basso, un uccello di profilo a sinistra, con triplice cresta
e coda corta. Accanto e sotto la zampa sinistra è inciso un elemento curvilineo poco chiaro, non
decifrabile.
La localizzazione e l’utilizzo originari della colonna non sono noti. In periodo paleobizantino fu
costruita, al centro dell’agora, una chiesa rimasta in uso, pur con successive modifiche, almeno sino
al XIII secolo1 (fig. 4). L’attuale luogo di giacitura del pezzo potrebbe suggerire una sua originaria
appartenenza a uno dei colonnati che dividevano le tre navate della chiesa, o a una fase costruttiva
successiva. Non si tratta, probabilmente, di un elemento di reimpiego proveniente da un edificio
romano; il diametro della colonna (37 cm), è minore di quello delle colonne dell’agora imperiale
ed è invece compatibile con quello delle colonne della chiesa2.
È verosimile che la croce e il gallo siano di realizzazione contemporanea all’uso architettonico della
colonna, per quanto successivi alla sua messa in opera.
Non si può completamente escludere, però, che siano stati scolpiti successivamente allo smantellamento della colonna, quando il blocco potrebbe essere stato reimpiegato in un edificio, del quale
comunque mancano attestazioni e di cui è difficile immaginare una destinazione non religiosa.
Non dimostrabile è la contemporaneità dei due
soggetti. Il motivo principale è sicuramente la croce
inscritta, rispetto alla quale il gallo è un motivo accompagnatore e quindi verosimilmente o contemporaneo o successivo. La sproporzione dimensionale
tra i due soggetti sottolinea la dipendenza (la subordinazione?) del secondo motivo rispetto al primo.
L’uso di scolpire o incidere soggetti cristiani, in
particolare croci, su elementi architettonici, con la
funzione di decorare, sacralizzare, forse anche di
de-paganizzare, nel caso di elementi di reimpiego
appartenuti a edifici pagani, è una pratica corrente
in particolare nel mondo bizantino3, per un arco di
tempo molto lungo. La croce come complemento
decorativo su elementi architettonici inizia a comparire con una certa frequenza dal V secolo ma è
particolarmente diffusa soprattutto in età giustinianea. Sin dall’età costantiniana, invece, il simbolo
della croce compare su molti altri supporti e su una
43
2. Porzione di colonna con la raffigurazione di una croce e
di un volatile
3. Porzione di
colonna: visibili
entrambe le croci
molteplicità di oggetti, non solo di uso liturgico: gemme,
monete, dittici, ma anche manufatti di uso comune come
le lucerne4. La piccola croce latina (alt. 7 cm, larghezza 4
cm; fig. 5), incisa su un fianco della colonna rientra in questo uso generalizzato e quasi automatico di ‘marchiare’ con
la croce manufatti, oggetti, monumenti5.
A Iasos sono numerosi gli elementi architettonici (blocchi,
capitelli, basi, rocchi di colonne), di diversa provenienza o
ubicazione, ‘decorati’ con croci di tipologia e dimensioni
variabili6. La croce più impiegata è quella greca, di solito
con estremità dei bracci allargate; sono presenti, tuttavia,
anche croci latine, a sei bracci, inscritte o no in un cerchio.
Talvolta la croce è accompagnata da altri complementi: ad
esempio è visibile fiancheggiata da due fiori o inscritta all’interno di una nicchia.
Da chiarire sono la modalità e la frequenza di questa pratica, attestata sia su elementi di reimpiego, per i quali si volle forse investire il pezzo di una nuova
identità cristiana, sia su elementi approntati ex-novo7; se, cioè, si trattasse di una pratica indiscriminata e casuale oppure se gli elementi che ricevevano una croce venissero scelti per la loro funzione
architettonica, per la localizzazione (in spazi più o meno sacri) o in base alla loro visibilità8.
I differenti tipi di croci, almeno in alcuni casi, potrebbero essere indicatori cronologici o cultuali.
La croce equilatera o crux quadrata, nelle sue varianti (croce greca, di S. Andrea o crux decussata,
di Malta, a sei bracci) è stata molto usata in campo artistico per la geometricità e l’adattabilità
ai diversi supporti e forme, e la si trova spesso inscritta in una cornice circolare, più raramente
quadrangolare9. Essa è visibile, ad esempio, su plutei e sulla fronte di numerosi sarcofagi di età bizantina, di produzione sia costantinopolitana sia provinciale. Una lastra proveniente da Priene, ora
al museo di Mileto, presenta una croce a estremità espanse inscritta in un cerchio e fiancheggiata
da due pavoni affrontati. È ritenuta di periodo tardo-giustinianeo10; il braccio inferiore della croce
poggia sopra un piccolo globulo semicircolare. Questo elemento, visibile anche nella croce sulla
colonna di Iasos, sembra essere la semplificazione di un globo; la croce poggiante su globo, molto
rappresentata nell’arte paleocristiana11, è simbolo della sovranità di Cristo sul mondo intero e talvolta è sostituita dalla figura stessa di Cristo in trono. La croce con globetto in basso è impiegata
almeno sin dall’età giustinianea12.
Nella croce di Iasos (fig. 6) i bracci si allargano già a partire dal centro della composizione, a differenza di quanto visibile sulla citata lastra di Priene e sui capitelli di S. Giovanni di Efeso, dove
ad allargarsi sono solo le estremità13. Esistono comunque anche esempi di periodo giustinianeo/
paleobizantino nei quali la croce è simile a quella in discussione, con bracci allargati sin dal centro14. Nelle murature della chiesa medio-bizantina esterna alla porta urbica est di Iasos, uno dei
4. Iasos: la chiesa
bizantina dell’agora
44
numerosi elementi di spoglio è un blocco di architrave con
scolpite sulla fronte una croce latina a estremità allargate e, più
in alto, una croce maltese inscritta in un cerchio15; la chiesa,
però, era intonacata e affrescata e quindi i blocchi di spoglio
non visibili.
La definizione “croce di Malta”, valida per il nostro esemplare, talvolta è applicata solo alle croci i cui bracci non solo si
allargano, ma terminano con una doppia punta, in quanto il
tipo di croce a otto punte fu quello adottato dal primo ordine
militare e religioso generato dalle Crociate. L’ordine di Malta,
sorto a Gerusalemme nel 1048 e sotto la tutela della Santa Sede
dal 1113, scelse la croce come proprio simbolo sin dalla metà
del XII secolo16.
La forma definita e compiuta della croce di Iasos sembra implicare un lungo periodo formativo. Se così fosse (l’ipotesi in verità è fragile) essa potrebbe risalire ad
un periodo pienamente medievale e non a quello paleobizantino, ed essere collegata alla presenza
o al passaggio dei crociati17. Quando i crociati furono cacciati dalla Terrasanta (1187, battaglia di
Hattin), i cavalieri maltesi si rifugiarono prima a S. Giovanni
d’Acri, poi a Rodi e infine a Malta.
L’adozione sistematica della croce ad otto punte come simbolo
risale soprattutto agli ultimi due periodi, il primo dei quali
(rodio: 1310-1523) potrebbe esser messo in relazione con una
permanenza dei crociati a Iasos18. Il tipo di croce usata dall’ordine nel XII e XIII secolo è ancora piuttosto fluttuante, anche
se di solito viene impiegata quella equilatera, spesso con il
globulo in basso: si vedano ad esempio i sigilli degli ospedalieri
della metà circa del XIII secolo.
Di fronte a una ‘croce maltese’ è comunque difficile fornire
attribuzioni cronologiche ristrette e individuare una precisa
committenza. Tra i confronti tardi è da citare la croce maltese,
con punte perlate, visibile al centro dell’epistilio in uso nella
fase medio-bizantina della chiesa dell’agora, a Iasos, uno dei
pochi pezzi scultorei di questo periodo conservati nel sito19.
Una croce maltese è scolpita su una lastra pertinente un arredo liturgico proveniente da un edificio
medio-bizantino di Kütahya20 (Turchia occidentale); inscritta in un rombo e non in un cerchio,
ha le estremità dei bracci leggermente concave come nella croce di Iasos; non è visibile il globulo
ma la lastra è frammentaria21.
Il volatile rappresentato accanto alla croce (fig. 7) potrebbe essere un gallo22, un animale di antica
presenza nell’iconografia sia cristiana sia pre-cristiana23. Simbolo soprattutto della resurrezione, fu
rappresentato su lucerne, mosaici, ampolle, tessuti, gemme, pitture, in particolare a partire dalla
prima metà del VI secolo.
L’associazione di gallo e croce non è molto frequente24. Oltre a
richiamare l’episodio evangelico della triplice negazione di Pietro25, l’accostamento del gallo al simbolo di Cristo rimanda alla
figura del salvatore e alla sua resurrezione.
In sintesi: la croce (più che il gallo) presa in esame è forse un
indizio della presenza dei crociati a Iasos?
La colonna sulla quale sono rappresentati con un rilievo bassissimo i due simboli si ergeva in un edificio ancora frequentato
dalla comunità o da una sua componente?
Si tratta del segno di una fede ‘privata’ e di una committenza
singola oppure del segno di un gruppo più ampio che intendeva, attraverso di esso, dichiarare la propria appartenenza?
Allo stato delle cose, le domande sono destinate a restare senza
risposta.
45
5. Particolare della
piccola croce latina
6. Particolare
della croce
7. Particolare
del volatile
Dopo una prima piccola cappella ‘martiriale’ di V secolo, si costruisce, in periodo giustinianeo, una più grande
basilica; in età medio-bizantina (X-XI sec.), in corrispondenza della navata principale della chiesa precedente (distrutta
forse da un terremoto), viene costruita una più piccola chiesa, circondata da una necropoli molto affollata ed utilizzata
presumibilmente fino al XVI-XVII secolo. La chiesa medio-bizantina, a unica aula, fu adibita al culto almeno sino
all’epoca lascaride (1204-1261). La chiesa è stata scavata nel 1983; su di essa e in generale sugli edifici religiosi di Iasos:
Serin 2001; Serin 2004, pp. 27-102; Berti 1986.
2
Il diametro delle colonne dell’agora è: 0,548 m all’imoscapo, 0,59 all’enthasis e 0,475 al summoscapo (stoa nord, v.
Pagello 1986, p.141). Le colonne della basilica giustinianea hanno un diametro di 0,395 m alla sommità e 0,44 m alla
base (Serin 2007, p. 43).
3
Sull’uso bizantino di decorare elementi architettonici con croci v. ad esempio Serin 2004, p. 164 e nota 4, e
Farioli Campanati 1983. Il successo e la frequenza di questa pratica potrebbero essere correlati con la diffusione del
monofisismo (che riconosce solo la natura divina del Cristo) e la sua riluttanza verso rappresentazioni storiche e ‘carnali’,
come la crocifissione e il calvario. Dove l’arte bizantina influenza l’occidente (ad esempio a Ravenna e a Roma), la scena
della crocifissione è meno rappresentata della semplice croce (Heinz-Mohr 1984, p.128).
4
Simbolo di fede, di resurrezione, dell’obbedienza di Gesù a Dio, la croce, che come segno ha una lunga storia precedente l’affermarsi del cristianesimo, fu usata con grande frequenza e a volte con intento solo decorativo e non simbolico
(secondo la definizione di C. Jung, «Una parola o un’immagine sono simboliche quando contengono più di quanto vi si
può scorgere a prima vista»). Sulla storia della croce come simbolo: Heinz-Mohr 1984, pp. 127-132; Leclerq 1914a;
Urech 1995, pp. 68-80. Sull’uso della croce su oggetti di uso quotidiano: Pierobon Benoit 2007, pp. 307-343. Croci
rappresentate sopra due lucerne bizantine di Iasos in Michelucci 1999, p. 378, fig. 5 e p. 383, fig. 10.
5
Numerosissimi sono i graffiti di croci, chrisma ed elementi accompagnati da croci a Lagina; Ruggeri 2009, pp. 215216, li ritiene un indice della nuova identità assunta dal santuario quale centro di pellegrinaggio cristiano.
6
Alcuni sono esposti nello spazio museale del Balık Pazarı. Altri sono ancora visibili in situ; i graffiti con croci sono
soprattutto sulle lastre pavimentali delle stoai dell’agora, sulle colonne e sul pavimento del tempio in antis nell’area
cosiddetta di Artemis Astias.
7
Ne sono un esempio celebre i capitelli della chiesa giustinianea di S. Giovanni a Efeso (De Bernardi Ferrero
1983).
8
Forse chiarificatore sarebbe uno studio complessivo, su un singolo sito, dei manufatti caratterizzanti, inseriti nel loro
contesto architettonico e storico.
9
La croce greca o equilatera, con estremità espanse, è visibile su monumenti a partire dal IV secolo, ma le attestazioni
principali si trovano in opere e manufatti di VI-VII (si veda Galavaris 1970, pp. 179 ss., che ha studiato gli stampi
eucaristici per pane, sui quali la croce è il soggetto maggiormente rappresentato); la composizione di croce inscritta in
un cerchio o in un rettangolo (cross in a medallion type), si formalizza nei secoli VIII-IX.
10
Farioli Campanati 1983, pp. 224-225.
11
Molti esempi di croci su globo, soprattutto su arredi liturgici, in Serin 2004, pp. 166-167; v. anche Ruggeri 2003, p.
291 ss., n. 45, foto A63. Poggiano tutte su globo le croci (abrase in periodo islamico) scolpite sulle lastre del matroneo di
S. Sofia a Istanbul. La croce su globo (che talvolta diventa molto piccolo o si riduce a un punto) è frequente anche sulle
monete (ad esempio quelle merovinge), sino ad epoche recenti (XIX secolo).
12
In Caria si veda, ad esempio, la croce scolpita su un ambone di Keramos di VI secolo: Ruggeri 2004, p. 234 e fig.
V, 10.
13
Per croci con solo le estremità allargate si vedano gli esemplari ravennati e costantinopolitani (sarcofagi, plutei, lastre)
di età giustinianea e tardo-giustinianea in Farioli Campanati 1983 .
14
Alcune lastre quadrangolari, visibili nella chiesa di S. Giovanni a Efeso, fuori contesto, presentano una croce inscritta
simile a quella di Iasos; croci dello stesso genere, per quanto con resa stilistica diversa, sono scolpite su mensole e architravi nel complesso di Karabel, datato al VI secolo (Turchia occidentale; ringrazio l’architetto Diego Peirano per l’indicazione), e nei pannelli del muro di cinta del monastero di S. Caterina del Sinai, di periodo giustinianeo (Pierobon
Benoit 2007, p. 313, fig. 7).
15
Serin 2004, pp. 161-162.
16
Curzi 2007, p. 139 ss.
17
La simbologia della croce fu rivitalizzata durante le crociate (Curzi 2007, pp. 128-129). Nell’XI secolo si sviluppò
un rituale durante il quale chi aveva scelto la via del pellegrinaggio armato afferrava materialmente la croce, un gesto
metafora dell’impegno militante e della funzione redentrice della croce. Stendardi, abiti, stemmi, vessilli, scudi furono
ossessivamente ricoperti di croci, dando così al simbolo anche un valore profilattico e di protezione; la croce comparve
anche sugli edifici residenziali, le grange, le proprietà fondiarie. Gli ordini avevano una profonda venerazione per la
reliquia della croce conservata a Gerusalemme e ospedalieri e templari facevano da scorta alle uscite processionali della
Vera Croce alla testa delle truppe franche. È da ricordare che, dopo la presa di Gerusalemme del 15 luglio 1099, Tancredi
d’Altavilla fece erigere una monumentale croce sull’Haram al-Sharif, per investire di un nuovo significato cristiano la
spianata con le due moschee. Il termine “crociata” sembra invece essere comparso più tardi, intorno alla metà del XII
secolo.
18
Alcune sepolture della necropoli nell’agora potrebbero risalire a questo periodo, ma in nessuna di esse è stata ritrovata
ceramica ‘crociata’.
19
Serin 2004, p. 91 ss., fig. 85 per diversi confronti reperibili in Asia Minore e in Grecia.
20
Niehwohner 2008, p. 318, fig. 19.
1
46
Una croce maltese a otto punte, datata al X-XI sec., è visibile sul lato di una vasca battesimale conservata al
museo archeologico di Antiochia di Pisidia (Ruggeri 2005b, pp. 84-87, foto 16c). Croci di Malta figurano anche
nell’architettura religiosa e funeraria occidentale; un’estrema sintesi della croce equilatera inscritta in un cerchio si ha ad
esempio in un sarcofago normanno conservato nella cripta della cattedrale di Palermo, la cui fronte presenta una croce
di Malta centrale con terminazione dei bracci convessa e punte che quasi si toccano.
22
Rimane il dubbio che possa trattarsi di un pavone, animale anch’esso molto rappresentato e spesso dotato di una
triplice cresta.
23
Heinz-Mohr 1984, pp. 168-169; Leclerq 1914b; Nauerth 1986; Urech 1995, pp. 105-106. Secondo Prudenzio
(Leclerq 1914a, p. 2886) il gallo è simbolo di Cristo e della resurrezione in quanto annuncia l’aurora.
24
Leclerq 1914b, p. 2899 e n. 3296 per gemma con rappresentazione di un gallo sormontato dal monogramma di
Cristo; Ruggeri 2004, p. 170, n. 14, fig. III, 102, per il frammento di architrave conservato nella chiesa di Tavşan Adası,
in Caria, con croce maltese affiancata da un uccello, visibile in parte; Peschlow, Peschlow-Bindokat, Wärrle 2002,
p. 491, fig. 23 f, per uccello con tre piume sul capo e croce.
25
Matteo XXVI, 69-75; Marco XIV, 66-72; Luca XXII, 54-62; Giovanni XVII, 16-27.
21
BIBLIOGRAFIA
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H. Leclerq), Paris 1914, s.v. Coq, pp. 2886-2905.
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Schwarzmeerküste, IstMitt, 52, 2002, pp. 429-522.
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oggetti d’uso comune in Oriente (secoli I-VIII), in B. Ulianich (ed.) La croce: iconografia e interpretazione
(secoli 1.-inizio 16.), Atti del Convegno Internazionale di Studi (Napoli, 6-11 dicembre 1999), Napoli 2007, pp.
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&Ruggeri 2009 = V. Ruggeri, The Carians in the Byzantine Period, in Die Karer und die Anderen, Internationales
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&Serin 2004 = U. Serin, Early Christian and Byzantine Churches at Iasos in Caria: an Architectural Survey,
Città del Vaticano 2004.
&Serin 2007 = U. Serin, Some Observations on the Middle Byzantine Church outside the East Gate at Iasos, PP,
LX, 2007, pp. 156-178.
&Urech 1995 = E. Urech, Dizionario dei simboli cristiani, Roma 1995 (Genève 1972).
47
Voyageurs en Carie:
Philippe Le Bas
et le sanctuaire de
Zeus à Labraunda1
par Damien Aubriet
1. Labraunda: andrôn A d’Idrieus
L
2. Mylasa:
Baltalı Kapı
a littérature de voyage des périégètes européens en Orient évoque Mylasa très tôt, ainsi
que Labraunda, dans une mesure non négligeable et d’une façon exponentielle, à partir du
XVIIème siècle2. Ces deux sites ont été redécouverts et comme tirés de leur sommeil prolongé par
bon nombre de voyageurs qui sont, pour la plupart, des autodidactes et non des universitaires.
On a souvent insisté, et à juste titre, sur «le rôle primordial dans la connaissance de l’Asie Mineure
de voyages de relevés»3: «Pour toutes ces études, qui sont de géographie, il faut s’attacher au pays,
méditer le paysage ou en reconstituer l’image par les cartes et les voyageurs. Il faut aussi toujours
penser à la notion de territoire et avoir le souci des limites et des zones frontières»4. Si l’objectif
principal des voyageurs a, certes, évolué au cours des siècles, il n’en reste pas moins vrai qu’il a très
souvent été de faire la moisson la plus riche possible de matériel épigraphique: «Le voyageur, dans
l’Anatolie, même là où il ne trouve pas d’inscriptions ni de monuments, trouve à s’instruire dans la
méditation du paysage, l’étude des formes du pays et de ses ressources»5. S. Reinach parle même, à
ce propos, d’une «épigraphie militante et voyageuse, préface nécessaire de l’épigraphie de cabinet»6.
L. Robert, pour sa part, n’a de cesse de marteler, dans ses conférences et ses écrits, le caractère
primordial et vivifiant qu’ils peuvent apporter, soulignant qu’il faut «connaître le pays sur lequel
on cherche à discuter: soit connaissance directe par les cartes, par les photographies ou dessins
et par l’énorme trésor de descriptions et d’observations des bons et nombreux voyageurs qui ont
sillonné le monde antique surtout depuis un siècle et demi»7, ou encore: «Chaque helléniste et
chaque latiniste doit mettre la Terre, tout comme le Papier, dans son activité d’études, chacun
doit avoir les pieds sur le sol, sur le sol antique,
les yeux ouverts sur les paysages et sur les livres
des voyageurs et des géographes»8. Ailleurs,
son épouse et lui-même précisent: «Utiliser
les voyageurs, en ce qui était utile, dans une
vue géographique du pays, à la fois érudite et
sensible, où se mêlent intimement l’antique,
avec déjà des témoignages sur le pays et les
productions, le moderne, avec les voyageurs, et
le contemporain, par l’observation personnelle.
Cela a sa place en tête, comme propylées, et qui
éclaire toute l’histoire et les inscriptions»9.
Par ailleurs, on a parfois souligné également les
difficultés inhérentes à l’action des voyageurs,
comme c’est le cas de Ph. Le Bas, lors de son
voyage archéologique en Grèce et en Asie
Mineure, en 1843-1844: «La Grèce n’ayant pas
encore de grandes routes, pas même de chemins
vicinaux, on ne peut y voyager qu’à pied ou à
cheval. Mais comme les montures qu’on y loue
48
sont assez mauvaises et que l’usage des selles y
est presque inconnu chez les muletiers, nous
avons pris le parti d’acheter quatre chevaux
qui (…), s’ils ne sont pas élégants, sont forts
et accoutumés aux chemins difficiles»10. Du
monastère de la Panagia, près de l’antique
Messène, il écrit encore à sa mère: «Dans un
pays pauvre dont l’organisation date pour
ainsi dire d’hier (…) ce n’est pas chose des
plus commodes que de voyager. (…) Pas de
routes royales, départementales même; nos
chemins vicinaux seraient de grandes routes en
comparaison des misérables sentiers qu’on suit
par monts et par vaux, au milieu des pierres et
des broussailles au risque de se casser vingt fois
le cou»11. Les conditions météorologiques sont
également un facteur de première importance:
«La pluie en voyage, au milieu des bois, dans
des routes qu’un jour suffit pour défoncer,
est un accessoire fort décourageant et qui
amortit promptement le zèle et l’ardeur de
l’antiquaire»12. Sur un autre point de vue, Ph. Le Bas, à son arrivée à Constantinople, confie
ces lignes à sa mère: «Mais sois tranquille, le pays est bon, les habitants de moeurs douces; nous
sommes tous armés jusqu’aux dents, nous avons avec nous un gendarme turc, on nous a remis le
firman du Grand Seigneur et tout se passera pour le mieux à quelques fatigues près»13. G. Cousin,
à la fin du XIXème siècle, souligne: «Il faut dans ces pays savoir perdre un peu de temps, s’arrêter
pour prendre des notes, être toujours prêt à descendre de cheval, faire causer les paysans, gagner
leur confiance, et leur arracher un à un les renseignements que l’on désire. Avec l’apathie et la
défiance orientales, les voyageurs pressés n’aboutissent guère»14. Quelques décennies plus tard, L.
Robert, fort de son expérience acquise en Carie au début des années trente, revient à son tour sur
la complexité de l’activité des voyageurs, «ces prédécesseurs qui ont parcouru, il y a des décennies
ou presque un siècle, les sentiers de la région, dans la steppe assoiffante à l’infinie monotonie ou
dans la montagne escarpée et pierreuse, au pas de leur cheval et au gré de l’hospitalité des villageois
ou des nomades»15. Il n’en reste pas moins vrai que l’étude nécessaire des voyageurs permet à
l’historien de débuter autrement l’étude du territoire, de la χώρα. La lenteur des déplacements à
l’époque permet aux voyageurs d’entrer en relation, en sym-pathie avec le territoire, avec le pays,
aidés qu’ils sont par le tempo régulier de la marche ou de l’avancée de leur monture.
3. Mylasa:
Baltalı Kapı
4. Labraunda:
andrôn A d’Idrieus
49
5. Vue de l’andrôn A,
confondu avec le temple de
Zeus, depuis le Sud-Est
(Ph. Le Bas 1844, repris
par S. Reinach 1888)
Au XIXème siècle, il faut souligner l’importance, avant même la fondation de l’École française
d’Athènes, le 11 septembre 1846, et les séjours des jeunes Athéniens, des voyages pionniers de
Philippe Le Bas (1843-1844) et de William Henry Waddington (1850)16. Le début du XIXème
siècle va marquer en effet une étape décisive dans l’organisation de la science archéologique.
È. Gran-Aymerich souligne: «Les années 1828-1829 marquent une accélération simultanée
de l’histoire et de l’archéologie: la Grèce se libère des Turcs, la France l’y aide en organisant
l’expédition de Morée qui (…) sera à la fois militaire et scientifique»17. Alors que persistent, après
la guerre de libération, les difficultés inhérentes à la création de leur État, les Grecs prennent des
mesures relatives à la protection de leurs antiquités. C’est dans ce contexte politique très important
qu’est relancée l’activité archéologique française en Grèce.
Élu membre ordinaire de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres le 9 février 1838, Philippe Le
Bas, Maître de conférences à l’École Normale Supérieure, est chargé de l’explication des monuments
rapportés par l’expédition de Morée, en 1829. Il est alors envoyé, accompagné du jeune architecte
Eugène Landron, par une mission du Ministre de l’Instruction Publique, M. Villemain, en Grèce
où il gagne d’abord Athènes, l’Attique, le Péloponnèse et les îles. Puis, il cingle vers l’Asie Mineure.
Il découvre alors Constantinople, la Bithynie, la Mysie, la Phrygie, la Lydie, l’Ionie et le sanctuaire
de Didymes. C’est ensuite le tour de la Carie où il visite Mylasa et décèle douze marbres portant
des inscriptions grecques, dont certaines sont d’une véritable importance historique18. Celles où
Mausole apparaît comme satrape de Carie sont en effet qualifiées par A. Boeckh de tituli maxime
memorabiles19. Par chance, la correspondance de Ph. Le Bas nous livre la réponse du Ministre de
l’Instruction publique, M. Villemain: «Quant à l’acquisition que vous m’annoncez avoir faite en
passant à Mylassa, d’un marbre contenant trois décrets promulgués sous le règne d’ArtaxerxèsMnémon et sous la satrapie de Mausole, quoiqu’il soit déjà connu, comme vous l’indiquez, je
pense ainsi que vous, Monsieur et cher confrère, que cette acquisition sera précieuse pour le
Musée Royal, surtout, si, comme vous l’espérez, vous y pouvez ajouter, par la suite, les autres
monuments historiques que vous m’indiquez. La dépense nécessaire pour cette acquisition et les
frais accessoires qui s’y rattacheraient seront acquittés à l’aide du crédit spécialement affecté aux
voyages et missions scientifiques, dès que vous m’en aurez fait connaître la note exacte»20.
Pratiquant l’estampage, Ph. Le Bas procède à de nombreuses empreintes d’inscriptions et recueille
quelque quatre mille inscriptions, presque toutes grecques, dont 2000 copiées à Athènes et 2000
recueillies dans les autres régions du monde grec21. Il exécute également des fouilles pour dégager
de petits monuments et les dessiner. Ces différents dessins ou esquisses se montent à plus de 450.
À son retour en France, il devient Conservateur administrateur de la Bibliothèque de l’Université
de Paris jusqu’à sa mort en 1860, date à laquelle seule une partie de son oeuvre a été publiée.
Découvrant Labraunda le 16 mars 1844, Ph. Le Bas relate son séjour à Mylasa et sa visite à
Labraunda dans une longue lettre adressée à sa mère, qui a été publiée à l’insu de l’auteur. Cette
lettre est datée d’Athènes, le 10 mai 184422.
50
Ma bonne mère, je te dois la continuation du récit de
ma dernière course en Asie; mais où en étais-je resté? Je l’ai
totalement oublié. Je reprendrai pour plus de sûreté à mon
départ de Tralles. (…)
Je t’ai conduite, si je ne me trompe fort, jusqu’à
Stratonicée, but principal de mon excursion.
Là j’ai retrouvé le fameux édit de Dioclétien gravé sur les
parois extérieures du Sérapéium et copié beaucoup d’autres
inscriptions moins importantes sans doute, mais d’autant
plus précieuses qu’elles sont inédites, car c’est de l’inédit que
je cherche, de l’inédit qu’attend de moi M. Villemain, que
me demandent à grands cris tous mes confrères de France,
d’Italie et d’Allemagne; sans inédit, pour moi point de salut.
Il me faut de l’inédit, n’en fût-il plus au monde. Voilà mon
mot d’ordre de chaque jour. Après cinq jours employés à
copier, estamper, fouiller, gratter la terre avec mes ongles,
je quittai les débris de la ville bâtie en l’honneur de la belle
Stratonice et deux jours plus tard j’étais à Mylasa. Quelle
riche récolte dans cette ville! Que de trésors inconnus sont
venus enrichir mes calepins! Pendant huit jours entiers, j’ai
écrit, écrit, écrit et toujours de l’inédit: juge de ma joie. Je dois ce bonheur à un compatriote, M. de Salmont,
médecin, qui, à la suite d’une vie aventureuse qui l’a promené dans toutes les contrées de l’Europe, en Égypte
et en Asie, s’est fixé et marié dans ce coin de l’Anatolie et veut y faire souche d’honnête homme. Grâce à son
titre d’Ekim-bachi, les grilles et les verrous sont tombés devant l’archéologue qui, pour la première et l’unique
fois de son voyage, a pu pénétrer, à la faveur de ce talisman, dans l’intérieur des maisons turques, sanctuaires
ordinairement fermés aux djiaours (infidèles). Près de 150 inscriptions! toutes longues et incomplètes! Ce
qui est un mérite de plus, car de fait s’il n’avait pas à déployer sa sagacité dans les restitutions, que serait
l’épigraphiste? Un écolier qui traduit plus ou moins fidèlement une version grecque et dans deux ans Léon
pourrait devenir mon rival, mon antagoniste! Près de 150 inscriptions inédites! Et tout cela dû à un seul
mot d’Ekim-bachi, voilà un mot digne de figurer à côté du Sésame, ouvre-toi du fameux conte d’Ali Baba ou
les quarante voleurs qui a si longtemps charmé mon enfance et plus tard celle de ma gentille Clémence et de
mon cher Léon.
Mais ce n’est pas tout, je n’ai pas seulement copié des inscriptions, j’ai fait plus: j’en ai emporté, et quelles
inscriptions! Rien moins que trois décrets du temps d’Artaxerxès Mnémon et du satrape Mausole, le mari
de la célèbre Artémise. Ce sera un des plus précieux ornements de notre Musée des Antiquités. Et ce rare
et intéressant monument, que m’a-t-il coûté? 1000 francs? Non. 900 francs? 800 francs? Non, encore. 500
francs? Non, mille fois non. Je l’ai payé la bagatelle de 100 francs, et il en vaut 2000 comme un liard. On ne
dira pas que je ruine le Gouvernement.
Le 16 mars, je quittai Mylasa, ayant pressé le citron
jusqu’à la dernière goutte. Les voyageurs peuvent
se dispenser de passer par là désormais, je ne leur ai
point laissé le moindre petit épi à glaner. Il s’agissait
maintenant de retrouver un temple qui s’était jusqu’alors
dérobé aux recherches des voyageurs. Et quel temple!
Ni plus ni moins que celui de Jupiter Labrandenus, le
dieu protecteur de la Carie, le dieu à la double-hache!
On l’avait cru voir dans plusieurs endroits notamment
à Ayakli, mais aucune des positions qu’on lui avait
assignées ne répondait aux renseignements fournis par
Strabon. Me voilà donc parti, gravissant les montagnes
situées au nord de Mylasa, rôdant en tous sens à travers
les rochers et les précipices, criant: Labranda! Labranda!
et ne recevant de réponse que des échos. Le soir nous
allâmes prendre gîte à Turbet, petit village célèbre par le
tombeau d’un saint musulman. Là, le soir, en fumant le
chibouk et en buvant le café sans sucre, j’interrogeai les
nombreux visiteurs qui, suivant un usage fort importun,
étaient assis les jambes croisées et la pipe en main autour
du foyer, près duquel j’occupais la place d’honneur,
couché sur un matelas qu’habitent de père en fils des
51
6. Labraunda:
chapiteau
7. Labraunda: restes
de la voie sacrée
8. Eurômos: temple
de Zeus Lepsynos
insectes plus importuns que tous les visiteurs du monde, fût-ce même P… de triste mémoire.
J’appris d’eux qu’à environ une heure à l’ouest, sur la route de Mylasa à Tralles, on voyait un ancien château
Eskikali ou Eski-Hissar, distant de Mylasa d’environ trois heures. Ce devait être Labranda que Strabon place
à 68 stades au nord de la ville que je viens de nommer. Juge de l’impatience avec laquelle j’attendis le
lendemain. J’en dormis à peine et dès le lever du soleil, au grand déplaisir de Suleyman et de Gaspar qui
n’aiment pas se mettre en route sans avoir copieusement déjeuné et fait leur kief, nous partîmes sous la
conduite d’un guide qui, par des sentiers presque impossibles, nous mena au lieu si désiré appelé aujourd’hui
Yaïla. J’avais enfin rencontré l’objet de mes fatigantes recherches, j’étais bien à Labranda. Strabon dit que le
temple de Jupiter Stratius dans ce lieu était fort ancien. Tout dans les ruines de celui de Yaïla annonce une
haute antiquité. Il ne ressemble en rien à tous ceux que j’ai vus jusqu’à ce jour. Point de péristyle. Quatre
murs en assises régulières, trois fenêtres ouvertes au nord et au sud du portique, au fond du sanctuaire, une
grande niche carrée où était sans doute placée la statue en bois du roi des dieux. En avant du portique,
parmi les décombres, deux fûts de colonnes ioniques en marbre blanc qui devaient soutenir l’architrave et le
fronton, si toutefois il en a existé un. Ce temple était un lieu de pèlerinage pour tous les Cariens du voisinage
et notamment pour les Mylasiens. Encore aujourd’hui les Grecs établis à Mylasa y viennent chaque année
dans la belle saison passer quelques jours à se divertir, ce qui mieux que des inscriptions et des médailles
prouve l’exactitude de mon opinion sur ce lieu. Mais une preuve plus concluante encore, ce sont les traces
nombreuses et, de distance en distance, très bien conservées, de la voie sacrée qui, au dire de Strabon,
conduisait de Mylasa à Labranda. Les dalles et les murs de soutènement subsistent encore dans plusieurs
endroits et la largeur de la route est à peu de chose près la même que celle de la voie sacrée qui conduisait
d’Athènes à Éleusis. Ma découverte me paraît donc hors de doute (…).
Le temps me manque pour te parler des nombreux édifices dont j’ai observé les ruines, du stade, des
tombeaux.
Assurément, le romantisme grec, mis à la mode par Chateaubriand, a inspiré Ph. Le Bas dans
cette relation: paysages pittoresques, invocations, échos, enthousiasme rempli de lyrisme quelque
peu affecté quoique probablement sincère. Il faut noter ici la confusion de Ph. Le Bas qui parle
d’un temple, alors qu’il est question de l’andrôn d’Idrieus, mais il était assurément bien difficile
de le savoir avant la découverte, par les Suédois, de la dédicace du bâtiment23. Nous devons
cependant souligner avec force la dette que les générations suivantes ont contractée à l’égard de
Ph. Le Bas, puisque c’est lui qui redécouvre le site de Labraunda après bien des errances dues à ses
prédécesseurs. C’est par l’examen de ce point que nous souhaiterions clore cette présentation.
Soulignons tout d’abord le réalisme de Ph. Le Bas devant l’ampleur de la tâche: «En Asie
seulement, ma bonne mère, il y en aurait pour quatre ou cinq ans. Mais il faut laisser quelque
chose à ceux qui viendront après moi»24. Il est également lucide devant les difficultés à surmonter:
«L’amour seul de la vérité et de la science me guide. En effet, je dois plus que personne me montrer
indulgent pour les voyageurs, car dans cette vie de fatigues, de privations et d’obstacles à vaincre,
que de voies ouvertes à l’erreur!»25. Ce dernier point est capital: Ph. Le Bas pointe ainsi du doigt
la responsabilité capitale des voyageurs et, particulièrement, celle de Ch. Fellows: «Là se voient
les restes d’un théâtre, d’une citadelle, mais surtout d’un temple d’ordre corinthien qui n’a jamais
52
été achevé et dont la fondation ne peut remonter au delà du IIème siècle de notre ère, ce qui,
indépendamment d’autres raisons plus fortes encore, ne permet pas de les confondre, comme l’a
fait tout récemment encore M. Fellows, avec le temple de Jupiter Labrandenus»26.
Ch. Fellows effectue trois voyages scientifiques dans le Sud-Ouest de l’Asie Mineure dans les
années qui précèdent la mission de Ph. Le Bas. Au cours de son troisième périple, en 1841, Ch.
Fellows pense découvrir Labraunda: «About eight miles on my journey today I saw the ruins
of Labranda, near the modern village of Iakly. The only conspicuous building of the place is a
beautiful temple of the Corinthian order (…): it stands in a recess in the hills, and is consequently
not seen without approaching close to it. There are twelve fluted columns, and four not fluted, but
apparently prepared for this ornamental finish. Other columns lying on the ground are reeded,
and yet are evidently for the same temple. From several features about it, I should fancy that the
temple had never been completed. (…) On each tablet is an inscription. I copied two from those
on the columns at the back or west end, which were the easiest of access. The contents of the two
are in effect the same. The following is the translation of one: «Menecrates, son of Menecrates,
the chief physician of the city, wearing a wreath, provided this column with its base and capital in
memory of his daughter, Tryphaenete, herself also wearing a wreath, and being a director of the
gymnasium»»27. En mentionnant cette inscription encore en place à Eurômos, Ch. Fellows signe
sa confusion d’une manière indubitable, comme le souligne à juste titre Al. Laumonier28. En fait,
Ch. Fellows n’est pas à l’origine de cette erreur, déjà opérée par un autre voyageur anglais, le jeune
épigraphiste R. Chandler, introduit en 1764 dans la Société des Dilettanti29.
Ainsi, les errances d’un voyageur sont des sources d’erreurs potentielles pour d’autres voyageurs, du
fait d’une trop grande confiance accordée aux publications antérieures. Les historiens de l’Antiquité,
pour qui les voyageurs sont une source néanmoins essentielle, se doivent d’être particulièrement
rigoureux dans la vérification de leurs écrits30. La multiplication des formes de transmission du
savoir joue également un rôle fondamental car les sources s’éclairent et s’expliquent les unes par les
autres. Par ses voyages en Grèce et en Asie Mineure, par la moisson épigraphique qu’il en récolte,
et par sa méthode minutieuse, Philippe Le Bas concourt indubitablement à donner une impulsion
déterminante à l’essor de l’activité et du renom de l’activité archéologique française en Grèce et en
Asie Mineure, alors même que l’École française d’Athènes n’est pas encore fondée.
[email protected]
Notre thèse de Doctorat, intitulée Recherches sur Mylasa et Labraunda à l’époque hellénistique 336-31, et menée sous
la direction du Professeur André Laronde, Membre de l’Institut, a été soutenue publiquement devant l’Université Paris
IV-Sorbonne le 7 mars 2009. Suite à nos recherches universitaires engagées sur la Carie, nous souhaitons présenter, dans
cet article, quelques réflexions relatives à la venue de Philippe Le Bas à Labraunda et montrer en quoi cette dernière a
été capitale pour la redécouverte du site.
2
Nous pensons cependant au géographe arabe Ibn Battûta qui évoque brièvement, dans une rihla, son passage à Mylasa,
durant l’été 1333: Charles-Dominique 1995, p. 641-642, ainsi qu’à Cyriaque d’Ancône qui visite Mylasa, au début
de 1446: Riemann 1877, p. 288 et Feissel 1994, p. 266, note 18.
3
Robert, Bull. Épigr. 1974, p. 19.
4
Robert 1935, p. 426.
5
Robert 1939, p. 6 = O.M.S. III, 1969, p. 1671.
6
Reinach 1885, p. XV.
7
Robert 1960, p. 171-172.
8
Robert 1974, p. 402.
9
Robert, Bull. Épigr. 1973, 375.
10
L. Le Bas 1898, lettre de Ph. Le Bas à sa mère, 20 avril 1843.
11
L. Le Bas 1898, lettre de Ph. Le Bas à sa mère, 23 mai 1843.
12
L. Le Bas 1898, lettre de Ph. Le Bas à sa mère, 10 octobre 1843.
13
L. Le Bas 1898, lettre de Ph. Le Bas à sa mère, 6 octobre 1843.
14
Cousin 1898, p. 362.
15
Robert 1965, p. 19.
16
Sur les séjours des Athéniens en Anatolie à cette époque, consulter Radet 1901, p. 267-268: dès 1879, Am. HauvetteBesnault et M. Dubois mettent le pied sur le sol carien; en 1885-1887, ce sont Ch. Diehl, G. Cousin et G. Deschamps
qui vont parcourir la Carie, puis G. Fougères et V. Bérard. C’est à l’occasion de son voyage de noces que W.H.
Waddington découvre la Grèce et l’Asie Mineure: il en profite alors pour recueillir de nombreuses monnaies et transcrire
1
53
des inscriptions. Il va publier, après la mort de Ph. Le Bas, les inscriptions que tous deux ont copiées durant ce voyage
en Asie Mineure.
17
Gran-Aymerich 1998, p. 46-47. Edgar Quinet, jeune helléniste, participe à l’expédition de Morée comme
épigraphiste.
18
L. Le Bas 1898, lettre de Ph. Le Bas à sa mère, 21 mars 1844: «J’ai visité successivement Smyrne, Tralles, Alabanda,
Stratonicée, Mylasa, Iasos, Milet, Priène, Éphèse, et suis revenu à Smyrne où je me suis embarqué pour Syra.»
19
Blümel I. K. 34, N° 1 à N° 3.
20
L. Le Bas 1898, lettre de M. Villemain, 30 avril 1844.
21
L. Le Bas 1898, lettre de Ph. Le Bas à sa mère, 21 mars 1844: «À Mylasa seulement, j’ai transcrit près de cinquante
inscriptions inédites.» Consulter également sa lettre du 20 mai 1844 à sa mère: «Tout en m’occupant de nos moulages,
de l’expédition de onze nouvelles caisses dont le contenu ne peut manquer d’avoir du succès à Paris, je n’ai pas négligé
ce qui doit être mon occupation principale: les inscriptions. Il en existe ici près de 2400; mais il s’agit de savoir quelles
sont celles qui ont été publiées et de s’assurer jusqu’à quel point elles l’ont été d’une manière convenable. Il fallait encore
prendre copie de toutes celles que les estampages exécutés l’an dernier n’avaient pas suffisamment reproduites et c’est à
cela que j’ai employé tous mes loisirs. Ce sera le fond principal de ma récolte. Je suis loin d’avoir fini, mais c’est un travail
qu’on peut reprendre et laisser sans inconvénient».
22
Ph. Le Bas, Revue Indépendante, mai-juin 1844, t. XIV, p. 535-536 = 1898, p. 99-101.
23
Crampa 1972, N° 15.
24
L. Le Bas 1898, lettre de Ph. Le Bas à sa mère, 19 janvier 1844.
25
L. Le Bas 1898, lettre de Ph. Le Bas, 16 novembre 1843.
26
L. Le Bas 1898, lettre de Ph. Le Bas à sa mère, 10 mai 1844.
27
Fellows 1852, p. 195. Pour le texte grec de l’inscription et sa traduction, se reporter commodément à Samama 2003,
p. 376, n° 263, en apportant quelques corrections dans le lemme.
28
Laumonier 1936, p. 303, note 1.
29
Sur la Société des Dilettanti, consulter Mougel 1978, p. 389-414; Chandler 1776, II, p. 40.
30
Rey 2009, p. 34.
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ème
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- http://www.labraunda.org/Labraunda.org/Foreword_eng.html
55
Recensioni
Die Karer und die Anderen. Internationales Kolloquium an der Freien
Universität Berlin, 13. bis 15. Oktober 2005, hrsg. von Frank Rumscheid,
Bonn, Habelt, 2009, pp. 258, s.i.p.
di Carlo Franco
N
1. Die Karer und die
Anderen. Internationales
Kolloquium an der Freien
Universität Berlin
on c’è una bipenne, una labrys, in copertina al volume che raccoglie gli atti di un convegno berlinese
del 2005 sui rapporti tra la cultura caria e quelle circostanti, bensì un segnacolo funerario, di impronta chiaramente achemenide: la ‘sfinge’ da Labranda, conservata al
Museo di archeologia subacquea di Bodrum (fig. 1). E
se vi è un modo per comunicare visivamente il taglio di
un libro, questo, consapevolmente prescelto dagli editori
(p. viii), è di immediata efficacia, e ben corrisponde al
contenuto. Il ponderoso volume accoglie ventisei saggi,
di varia ampiezza, ordinati in tre sezioni tematiche: il
rapporto tra la Caria e ‘gli altri’, singoli aspetti della cultura caria, studi topografici. Già viene così delineato l’approccio multidisciplinare al ‘problema’ cario, oggetto in
tempi recenti di altre messe a punto (si pensi soprattutto
al convegno di Oxford su “Hellenistic Caria”, del giugno
2006, di cui si attendono con ansia gli atti). Grandi temi storici, dall’Anatolia del II millennio
alle ‘migrazioni’ greche, dalle forme dell’insediamento ai contatti con altre lingue e culture, dalla
dibattuta ‘ellenizzazione’ e ‘carianizzazione’ al tempo ecatomnide fino alle trasformazioni indotte
dalla conquista romana, formano il nucleo portante del libro, che si raccomanderà d’ora in poi
anche per i notevoli apparati bibliografici che accompagnano alcuni dei contributi, qui discussi,
naturalmente, con particolare attenzione agli spunti che riguardano Iasos.
Un primo aspetto cui è andata molta attenzione è la lingua: lo studio del cario è molto progredito
in anni recentissimi, pur tra molte difficoltà, e ormai la documentazione epigrafica in lingua epicorica è uno dei ‘fossili-guida’ per l’individuazione di presenze carie, a fronte della relativa ambiguità ‘etnica’ dei corredi archeologici (M. Meier-Brügger). Ricca di sviluppi è poi la definizione
delle relazioni linguistiche con le altre parlate dell’Anatolia antica, luvio e ittito anzitutto (proprio
un graffito da Iasos restituisce probabilmente il nome cario di Zeus, affine all’ittito Tarhunt).
L’avanzamento degli studi, oltre che da nuove scoperte glottologiche, sembra dipendere dall’analisi degli snodi geo-culturali più significativi: è questo il caso di Mileto. Questo centro propone
infatti spunti molto rilevanti sia se accostato a partire dalla tradizione mitico-storica, sia se
studiato per le documentazione archeologica, costantemente rivisitata, sia integrato con i dati
desumibili dalla cronachistica ittita. L’ampio resoconto delle scoperte effettuate a Mileto e della
complessa stratificazione degli insediamenti non tace i problemi di fondo: ad esempio la difficoltà
di identificare etnicamente i reperti (W.-D. Niemeyer, p. 13 s.). Anche il ripensamento della
cosiddetta ‘migrazione’ dei Greci in area ionica apporta elementi di riflessione, in un lavoro di
notevole ampiezza, di quasi cento pagine con più di 450 abbondantissime note (A. Herda), che
opera secondo una linea di feconda combinazione di indagine linguistica, storica e archeologica.
Insieme a tante messe a punto di dettaglio, il saggio contiene molte note di metodo, ad esempio
56
sulla necessità di riformulare la tradizione antica considerando la fase dinamica
dell’etnogenesi, invece che la sovrapposizione di popolazioni in movimento o
lo scontro tra nuclei già individuati: e si
valorizza in questo senso il ruolo dei culti
greci, e soprattutto il valore identitario
del santuario di Panionion di Mykale.
Similmente, si indagano con particolare
impegno i dati desumibili dalla tradizione ittita per l’area di Mileto/Milawanda
e le attestazioni relative ai Cari (fig. 2),
e si considerano i problemi posti dalla
discontinuità tra le fonti anatoliche e la
tradizione greca, tra le quali si collocano
i cosiddetti ‘secoli oscuri’ (xi-ix a.C.). In
tale contesto si apprezzano notevolmente
la dettagliata discussione sui “Cari in
Omero” (p. 43 ss.), così come le indagini onomastiche e toponomastiche: l’analitico spoglio della
letteratura consente di fornire una concisa rassegna anche sulle ipotesi relative al nome Iasos (p.
57, n. 158). Al riguardo vi sono alcuni che lo ritengono toponimo 'anatolico' e altri che lo intendono invece come 'ellenico': giusta quindi l’osservazione che se Iasos è nome greco ‘importato’,
si dovrebbe indagare quale fosse il nome indigeno dell’insediamento (il suffisso –assos resta pur
sempre un elemento che rinvia al ‘cario’).
La cultura caria appare da questi approcci fortemente aperta alle influenze ‘altre’: l’area geografica
cruciale su cui insisteva favorì gli incontri e le importazioni, le convivenze e le ibridazioni, di cui
si può leggere traccia anche nella vicenda dei culti. Quali problemi però ponga la valutazione etnico-culturale delle frequentazioni di santuari è cosa ben nota a chi studia Iasos, ripensando per
esempio all’oscuro santuario “delle doppie asce” rinvenuto nell’agora. Tornano, a proposito delle
‘migrazioni’ greche, i temi tante volte discussi dalla storiografia sui movimenti coloniali, soprattutto il rapporto con gli indigeni, talora descritto come conflittuale. Alle analisi di tipo politico
e poi antropologico sembra essersi sostituito, si direbbe con vantaggio, uno studio degli insediamenti: e l’area caria, con i suoi Ovalbauten già noti come “edifici lelegi”, tanto presenti anche nella
chora di Iasos (fig. 3), è un buon campo di osservazione, una volta che si sia compreso che lo studio
degli edifici deve essere integrato con quello delle forme di sfruttamento del territorio e valutato
in rapporto a una cronologia di insediamento spesso molto prolungata, quindi culturalmente ed
etnicamente dinamica.
2. Caria e Ionia secondo le
fonti ittite (da A. Herda,
Karkiša-Karien und die
sogenannte Kolonisation)
3. Iasos: edificio lelego
(Foto archivio SAIA)
57
Qualcosa di analogo vale per lo studio dell’area dorica della Caria meridionale (A. Bresson), nel
quale pure si affrontano i problemi del rapporti interculturali: qui interessa soprattutto il tema
delle tradizioni 'argive' (pp. 110-11), che per Iasos appare suggestivo collegare a una mediazione
rodia, certamente (ri)lanciata in età medio-ellenistica. Notevole la sottolineatura del fattore linguistico come strumento di ellenizzazione della Caria: ciò va sottolineato, perché implica una
strada differente da quella che in passato ha prediletto come guida, con rischio di sovrainterpretazione, l’elemento architettonico e monumentale. A un orizzonte cronologico più recente conduce
poi lo studio della Perea rodia (W. Held), che si concentra sulla rilevazione della politica di controllo militare e navale, ma anche di sfruttamento economico, impostata dalla ‘repubblica’ rodia
nei secoli in cui dominò ampie porzioni della costa caria: ma non pare ancora spiegabile il declino
del Chersoneso cario nel II a.C., quale è documentato dalla ceramica. La riflessione sui Cari e i
Lidi riporta invece all’età arcaica e classica, tra amministrazione achemenide e differenti culture
indigene in contatto (Ch. Ratté). Divengono così significativi i graffiti cari rinvenuti a Sardi,
e l’iscrizione lidia da Afrodisia, che impone di chiedersi quanto il precedente della regalità lidia
poté contare rispetto alla successiva esperienza ecatomnide. E più in generale acquista chiarezza
la caratterizzazione ‘profonda’ della cultura caria; da un lato l’idea che i Cari fossero “relative latecomers” nella regione che da essi prese il nome, dall’altro la tipicità di un insediamento: la Caria
come “land of villages and decentralised unions” (p. 136), temi che vengono esplorati in rapporto ai
risultati di una survey nella valle del Morsynos.
E gli Achemenidi? Interessante osservare che nelle iscrizioni persiane i Cari, anche se non costituivano una satrapia a sé, erano riconosciuti come popolazione, forse con il nome di Krkā (H.
Klinkott). Rilievi della scalinata di Persepoli, iscrizioni dall’Egitto e pagine famose di Erodoto
concorrono a formare un’immagine non generica della popolazione, tra artigianato specializzato
e mestiere delle armi. Ma anche più interessante è il riconoscimento dei Cari come poliglotti: caratterizzazione resa celebre da un famoso lavoro di L. Robert (Hellenica, 8, Paris 1950, p. 37 ss.),
essa appare oggi più significativa, essendo emersa la posizione della Caria come cerniera culturale
tra mondo greco e mondo anatolico, ben evidente soprattutto in età arcaica e classica. Né poteva
mancare una discussione del piano più propriamente politico: e quindi del rapporto tra Mausolo
e il potere centrale. Questione complessa, sulla quale pesa tra l’altro la ‘lente’ talora prescelta per
l’analisi, ovvero il rischio di un possibile ellenocentrismo alla Isocrate (viva Mausolo, che si ribella
al ‘grande malato’ persiano).
Qui sono tenuti presenti molti lavori recenti, che hanno sottolineato ad esempio quanto poco la
defezione regionale di Mausolo costituisse un ‘problema’ a livello centrale, e come le scelte dei dinasti si muovessero su una sorta di doppia agenda verso la Grecia e verso la Persia, per cui sarebbe
4. Luoghi di rinvenimento di
iscrizioni carie (da D. Piras,
Der archäologische Kontext
karischer Sprachdenkmäler
und seine Bedeutung für
die kulturelle Identität
Kariens)
58
da cassare ogni idea di ‘ribellione’ (p.
160): sul punto, discusso con finezza,
qualche sguardo ‘orientalistico’ in
più, e un ricorso più ampio a L’Asie
Mineure au IVe siècle di P. Debord
(Bordeaux, 1999), e soprattutto
alla Histoire de l’Empire Perse di P.
Briant (Paris, 1996) sarebbero stati
utili. Opportunamente poi la figura
del satrapo viene considerata anche
a livello locale: ma oltre alle celebri
iscrizioni di Mylasa (n. 62, p. 158)
sarebbe stato vantaggioso riferirsi ad
altri casi, ad esempio quello di Iasos. Qui, oltre al decreto contro gli attentatori a Mausolo, nuove
iscrizioni, di recente pubblicazione, confermano “la fedeltà e l’ossequio ufficiale della città ai satrapi carii” (G. Maddoli, PP, lxii, 2007, pp. 251-252, richiamando i nuovi testi del Mausolleion).
Sempre al IV secolo si collocano i rapporti con la Licia: sono esplorate le spinte espansionistiche
degli Ecatomnidi verso quest’area, legate alla stagione della cosiddetta ‘rivolta dei satrapi’, ma
predomina l’influsso della trilingue di Xanthos, guida a un’analisi fluida delle relazioni culturali
e politiche (W. Tietz), valorizzando gli elementi di ellenizzazione introdotti, e stabilizzatisi, nella
Licia. Di grande interesse per chi si occupa dell’area di Iasos è certo lo studio sul problematico
ethnos dei Lelegi: in un contributo di grande respiro teorico e di ampia documentazione, viene
problematizzata tutta la tradizione antica, riletta alla luce della ricerca moderna e dei problemi,
già sopra ricordati, sulla caratterizzazione ‘etnica’ dei reperti archeologici o monumentali (F.
Rumscheid). Importante la messa a punto geografica, ossia l’acquisita necessità di separare le
aree in cui gli antichi localizzarono i ‘Lelegi’ in Anatolia, e di considerare attentamente l’epoca a
cui si riferisce l’attestazione: quindi la presenza ‘lelega’ in Troade, Ionia e Caria è da riconsiderare
alla luce delle attuali teorie sul popolamento e l’etnogenesi. Tale cornice guida il ripensamento
dei dati archeologici, particolarmente importante per l’area della penisola di Alicarnasso (e della
regione di Iasos): in questione è la possibilità di ‘distinguere’ gli insediamenti dei Cari da quelli
dei ‘Lelegi’, per i quali si postula un’evoluzione verso una forma di sottomissione ‘ilotica’.
Sempre alla documentazione archeologica si rivolgono gli studi sulle tombe rupestri della Caria
meridionale, studiate nell’interazione tra cultura caria e lidia (B. Schmaltz), e sull’evoluzione
(religiosa e amministrativa) della regione in età tardoantica e bizantina (V. Ruggieri): si giunge
fino alla fase islamica, come documenta tra l’altro un graffito su pietra da un edificio del “castello
dell’Istmo” a Iasos.
Alla documentazione epigrafica in lingua caria (circa 200 pezzi) sono dedicati due importanti
lavori che aggiornano i dati disponibili e pongono con chiarezza i problemi aperti, di tipo più
socio-linguistico e storico-epigrafico che squisitamente glottologico (fig. 4). Da un alto infatti si
considerano (W. Blümel) questioni come la corrispondenza imperfetta tra segni alfabetici cari
e greci, le tipologie testuali, le persone dei praticanti la scrittura (l’annoso problema: chi scrive,
e per chi?), dall’altra si approfondiscono, ove possibile, i contesti topografici delle iscrizioni (D.
Piras). Qui spicca in evidenza proprio Iasos (pp. 232-34), dove i reperti in lingua caria hanno
un contesto in qualche modo riconoscibile (le aree sacre), condizione non sempre accertabile per
altri documenti pur fondamentali. Anche qui però le incertezze prevalgono: proprio la conoscenza del contesto suscita ulteriori domande (chi appose i graffiti supposti votivi? chi frequentava le
aree sacre?) che non possono al momento avere risposta, se non in generiche considerazioni sulla
mescolanza culturale e cultuale (fig. 5).
Per non dire di altri interrogativi aperti, come la differente diffusione dei documenti scritti nella
Caria costiera rispetto a quella interna, segno forse di un diverso livello di acculturazione (nonché,
se l’uso della scrittura caria ‘dipende’ dalla pratica scrittoria greca, segno di differente ellenizzazione), oppure la difficoltà di datare i reperti epigrafici, non essendo definibile ancora uno schema di
evoluzione diatopica e diacronica della scrittura caria. Quindi viene la questione dei culti, trattata
da un assoluto esperto (P. Debord), che l’affronta come un interrogativo, non dando cioè per
scontato che le attestazioni regionali costituiscano per sé prova di una identità religiosa regionale,
59
5. Iasos: oinochoe del
“Middle Wild Goat
Style I” (partic. del
grifo e del cd. “albero
sacro”)
tanto più che, come si osserva opportunamente (p. 252), la gran parte delle informazioni di cui si
dispone è greca, quindi a rischio di deformazione nelle percezioni. Domina la sintesi il richiamo
alle figure dello Zeus anatolico (e cario), possibili eredi di culti di epoca luvia, ma si delineano
anche, pur tra le abituali cautele, divinità ctonie e culti minori regionali. Analizzato da vicino è
il caso di Hyllarima, ma vengono toccati anche altri aspetti del complesso legame che la cultura
oggi chiamata caria ebbe, per esempio, con Creta o la Licia o la Lidia, e ovviamente la Grecia: ne
scaturisce l’idea, ancora una volta contraria ai contenitori identitari rigidi, che sia preferibile parlare di “un pantheon che si elabora in Caria”, appunto in rapporto con molteplici apporti (p. 264).
Di nuovo sull’identità (caria) si ritorna a proposito dell’architettura sacra, con evidente centralità dei casi di Labranda e Amyzon, servendosi anche di materiale inedito (P. Hellström). Un
tentativo di rivendicare la specificità dell’ambiente cario, contro la tendenza a considerarlo prevalentemente (o solo) come luogo di assorbimento di influenze esterne, è esperito poi a proposito
dell’edilizia pre-ecatomnide (A. Baran): naturalmente lo stato della documentazione impedisce
di raggiungere sufficienti certezze. Non è infatti possibile determinare quale fosse non solo il
contesto monumentale, quanto quello culturale dei frammenti ionici da Iasos (pp. 298-300), ma
la tendenza caldeggiata nel contributo merita interesse come dichiarazione di principio. Infatti
la ‘svolta’ ecatomnide non si lascia più esaminare come esperienza isolata: le realizzazioni di Alicarnasso possono ormai essere studiate entro un contesto locale e internazionale. Il mondo greco
offriva pochi modelli di architettura palaziale, mentre essa era presente, in differente scala di grandezza e monumentalità in vari contesti anatolici (e particolarmente in Caria), che debbono essere
presi in considerazione come precedenti dei palazzi ecatomnidi (P. Pedersen).
La sezione conclusiva del volume comprende contributi di taglio più specificamente archeologico:
dallo studio del corredo di una camera funeraria micenea, di recente scoperta intatta non lontano
da Iasos (M. Benter), alle indagini condotte nell’area di Hydai e Pedasa, che aggiungono nuovi
materiali allo studio degli insediamenti e della produzione ceramica (A. Diler). L’archeologia
funeraria tiene, come consueto, il ruolo principale: ma oltre alla salvaguardia e alla catalogazione
dei reperti, questa particolare area di ricerca implica importanti connessioni storiche, più spesso
sottintese che esplicitate. Non è questo il caso di un lavoro di sintesi (A.M. Carstens), che anzi
si apre proponendo senz’altro per la Caria il concetto di “melting pot”, certo non nuovo ma utile
dal punto di vista euristico, soprattutto come antidoto a sommarie definizioni di identità (p.
377). Su tali basi, lo sguardo d’insieme sull’architettura tombale della Caria (comprese le tipiche
camere scavate nella roccia) viene guidato da domande basilari sui livelli economici, sulle capacità
tecniche e sui destinatari delle sepolture: l’eclettismo delle soluzioni riscontrabili sul suolo cario
rifletterebbe la vera natura della cultura locale, appunto un “melting pot”.
La varietà delle situazioni è riproposta, in termini differenti, nell’ampia rassegna di materiali
provenienti da Mylasa, appartenenti a strutture funerarie databili dall’età geometrica al principio
dell’età imperiale romana (A. Kızıl), mentre i reperti provenienti da scavi (anche clandestini)
nell’area di Hydai (Damlıboğaz), che vanno dal III millennio a.C. fino all’età bizantina, confermano l’intensità dell’influsso esercitato dai centri ionici di produzione ceramica in età arcaica (İ.
Fazlıoğlu). Lo studio del sito fortificato di Hydas, occupato dalla tarda età del bronzo al tardoantico, presenta una scelta dei monumenti rilevati e dei materiali raccolti (M. Benter), inquadrandoli nell’evoluzione di un insediamento presumibilmente devoluto al controllo del territorio
e della costa. Il rilievo e lo studio delle fortificazioni coinvolgono il problema della rifondazione di
Myndos, che sarebbe avvenuta non spostando l’insediamento, ma ricostruendo su quello esistente
(M. Şahin), mentre i risultati preliminari delle ricerche condotte nell’area di Knidos (N. Tuna,
N. Atıcı, İ. Sakarya, E. Koparal) gettano qualche luce sul sito di Burgaz, ove viene localizzato
l’abitato che precedette la città ellenistica, e che fu abbandonato nel terzo quarto del IV secolo
a.C. Quanto a Knidos, interessanti appaiono i recenti rinvenimenti di una stoa, con ambienti
annessi (D. Pastutmaz). L’ornamentazione fu compiuta in età adrianea, e costituisce quindi un
nuovo parallelo per le strutture dell’agora di Iasos.
L’ampia ricognizione sin qui condotta dovrebbe aver già mostrato l’importanza del libro: pregio
del convegno berlinese è l’aver dato spazio non solo alla presentazione di singole novità, o all’aggiornamento sullo ‘stato dell’arte’, ma anche a riflessioni generali, che impostano la rilettura
attuale dei grandi problemi che ogni sito della Caria pone a quanti, con passione e metodo, vi
lavorano.
60
N O T I Z I A R I O
a cura di Daniela Baldoni
Attività dall’Associazione
L’Associazione “Iasos di Caria” ha lo scopo di patrocinare le attività di scavo, di restauro e di pubblicazione dei ritrovamenti effettuati nel centro cario dalla Missione Archeologica Italiana, nonché
di promuovere ogni iniziativa atta alla loro divulgazione.
Secondo quanto stabilito dallo Statuto, i contributi finanziari ricevuti nel corso dell’anno sono
stati in gran parte destinati alla campagna 2009 della Missione Archeologica, dal momento che le
quote sociali versate hanno coperto interamente le spese per la gestione e per le attività dell’Associazione.
Il Bollettino dell’Associazione Iasos di Caria
La diffusione del “Bollettino dell’Associazione Iasos di Caria” costituisce un valido strumento tanto per l’informazione sulle attività svolte dall’Associazione, quanto per la divulgazione delle notizie relative ai lavori effettuati dalla
Missione Archeologica Italiana.
Esso viene inviato, con scadenza annuale, ai soci e a tutti coloro (Enti, Istituti, Associazioni, Soprintendenze, Musei,
Università, Biblioteche, studiosi) che si ritengono interessati agli argomenti trattati.
Vi saremmo grati se voleste contribuire all’iniziativa comunicandoci suggerimenti e proposte in merito ai contenuti
del fascicolo.
Saremo inoltre lieti di poter ospitare vostri eventuali contributi, redatti secondo le modalità che potremo indicarvi
se vorrete mettervi in contatto con noi presso la sede dell’Associazione o all’indirizzo e-mail
[email protected]
iii
Vita della Missione
� Rappresentante del Governo di Turchia presso
la Missione Archeologica Italiana di Iasos è stato,
nel 2009, il dr. Levent E. Vardar, archeologo presso
il Kültür Varlıkları ve Müzeler Genel Müdürlüğü
di Ankara.
La sua simpatia, la sua sensibilità e la sua pazienza
ci hanno reso particolarmente gradita la sua compagnia.
Gli siamo inoltre grati per la sua assidua e attiva
partecipazione ai lavori di scavo e per aver risolto,
con grande disponibilità e competenza, i gravi problemi derivanti dalla nuova, complessa, normativa
che, da quest’anno, regola le modalità di assunzione
degli operai.
1. Levent E. Vardar
61
N O T I Z I A R I O
L a scomparsa di Werner Johannowsky
di Fede Berti
Improvvisa, avvenuta subito dopo l’inizio del 2010, anche per noi è assai dolorosa poiché ci
separa da un amico, un archeologo, uno studioso che per Iasos ha fatto molto.
Werner Johannowsky mise piede a Iasos per la prima volta (allora era ispettore della Soprintendenza alle Antichità di Napoli) nel 1962, ritornandovi nel 1963, nel 1969, nel 1970.
A lui si devono le scoperte concernenti alcuni monumenti o complessi che costituiscono altrettanti capisaldi della storia della città: le strutture murarie e gli ex-voto fittili in
cui riconobbe il santuario di Demetra e Kore e la sua importante stipe, le abitazioni che
fiancheggiano la strada che conduce alla gradinata orientale del teatro e il teatro stesso, il
bouleuterion.
Dopo quegli anni (per certo già a partire dal 1970), l’edificio sorto in età tardo arcaica in
onore delle due dee e il quartiere che, nel IV sec. a.C., venne costruito sopra uno dei terrazzamenti orientali della penisola non hanno più visto la ripresa delle indagini.
Si attendeva infatti che la pubblicazione dei risultati di quelle iniziali campagne chiarisse
la problematica storica, cronologica e topografica che esse stesse ponevano; un lungo lavoro
che Werner Johannowsky ha avviato ritornando più volte sul campo, anche con i collaboratori che per un certo periodo lo hanno affiancato nell’analisi dei materiali e nello studio.
Intendeva prendere parte alla campagna del 2008 ma non poté farlo.
L’intensa attività, svolta prevalentemente nell’ambito delle Soprintendenze per i Beni Archeologici della Campania, non gli ha concesso che piccole parti di tempo per Iasos, ma a
Iasos è rimasto unito anche da vincoli di un profondo e ricambiato affetto.
2. Werner Johannowsky
con Doro Levi a Iasos
nel 1969
62
N O T I Z I A R I O
3. Werner Johannowsky
con i membri della
Missione di Iasos
nel 1970
La bibliografia iasia di Werner Johannowsky
• Osservazioni sul teatro di Iasos e su altri teatri in Caria, Annuario della Scuola Archeologica
di Atene, XLVII-XLVIII, n.s. XXXI-XXXII (1969-1970), 1972, pp. 451-459.
• Appunti sul santuario di Demeter e Kore, in Studi su Iasos di Caria. Venticinque anni di
scavi della Missione Archeologica Italiana, Bollettino d’Arte, supplemento al n. 31-32, 1987,
pp. 55-58.
• Osservazioni sul bouleuterion di Iasos, Ostraka, III, 2, 1994, pp. 451-454.
• Note sullo sviluppo urbanistico di Iasos, in Gli scavi italiani a Iasos in Caria, La Parola del
Passato, 307-309, 1999, pp. 283-288.
• Osservazioni sull’evoluzione urbana di Iasos in Caria, in Iasos tra VI e IV sec. a.C., Miscellanea storico-archeologica, supplemento al volume 81 degli Atti dell’Accademia delle Scienze di
Ferrara, a.a. 181, 2003-2004, Ferrara 2004, pp. 49-53.
Le collaborazioni
• R. Bonifacio, Su un rilievo con scena di banchetto dal bouleuterion di Iasos, Ostraka, III,
2, 1994, pp. 455-465.
• R. Bonifacio, Osservazioni su alcune statuette votive del Qesmofo rv ion di Iasos, in Gli
scavi italiani a Iasos in Caria, La Parola del Passato, 307-309, 1999, pp. 304-315.
• R. Bonifacio, Statuette arcaiche dal santuario di Demetra e Kore, Bollettino dell’Associazione Iasos di Caria, 8, 2002, pp. 14-16.
• G. Gasperetti, Osservazioni preliminari sulla ceramica romana di Iasos di Caria. Materiali
dal quartiere a sud del teatro, in C. Abadie-Reynal (éd.), Les céramiques en Anatolie aux
époques hellenistiques et romain, Actes de la Table Ronde d’Istanbul, 23-24 mai 1996, Paris
2003, pp. 141-163.
63
N O T I Z I A R I O
Convegni e conferenze
�
Il 22 gennaio 2009, in occasione della Riunione Seminariale promossa del Dipartimento di Scienze Storiche dell’Università di Perugia,
sezione di Scienze Storiche dell’Antichità, Fede Berti, direttrice della
Missione Archeologica Italiana di Iasos, ha presentato i nuovi dati
emersi dai recenti interventi nell’agora di Iasos (L’agora di Iasos alla
luce degli ultimi scavi); Raffaella Pierobon Benoit, responsabile della
Missione di Survey nel Golfo di Mandalya, ha svolto una relazione
sul tema Strabone e i Lelegi: nuovi dati dal territorio di Iasos.
�
4. “31.Uluslararası Kazı,
Arștırma ve Arkeometri
Semposyumu”
Dal 25 al 29 maggio 2009 si è svolto a Denizli (Turchia) il
31.Uluslararası Kazı, Arştırma ve Arkeometri Semposyumu, Convegno
annuale sugli scavi, le ricognizioni topografiche e l’archeometria in
Turchia, promosso dal T.C. Kültür ve Turizm Bakanlığı - Kültür
Varlıkları ve Müzeler Genel Müdürlüğü, con il patrocinio della
Pamukkale Üniversitesi e del Kongre ve Kültür Merkezi di Denizli.
Fede Berti ha illustrato i lavori della campagna di scavo del 2008 a
Iasos (Excavations in Iasos 2008).
�
Dall'8 al 13 giugno 2009 si è tenuta a Tarragona (Spagna) la IX International Conference di
ASMOSIA (Association for the Study of Marbles and Other Stones in Antiquity. Interdisciplinary
Studies on Ancient Stone). Mathias Bruno ha illustrato, in un poster, il progetto di studio dei numerosi blocchi di cava in marmo iassense recuperati, nel corso degli scavi effettuati negli anni ’70,
all’interno del mausoleo romano noto come Balık Pazarı (Quarry Bloks in Marmor Iassense from
the Balık Pazarı at Iasos -Turkey). Il rinvenimento di tali blocchi, attualmente conservati nell’area
5. Spostamento dei
blocchi di marmo
iassense nell’ area
antistante il Balık Pazarı
64
N O T I Z I A R I O
6. “Karia, Karialılar
ve Mylasa”
antistante il monumento, attesta che in epoca bizantina l’edificio era usato come cantiere per la
lavorazione del marmo estratto dalle cave locali, ancora attive.
�
Dal 16 al 19 giugno 2009 si è svolto ad Atene un Colloquio Internazionale sul tema Tout
vendre, tout acheter. Structures et équipements des marchés antiques, promosso e organizzato dalla
École Française d’Athènes, dalla Société Archéologique d’Athénes e dal GDRI du CNRS “Les
marchés antiques”.
Fede Berti ha presentato una relazione dal titolo: Un luogo di vendita dell’età medio-imperiale
nell’agora di Iasos.
� Nei giorni 3 e 4 settembre 2009 si è svolto a Milas un convegno dal titolo Karia, Karialılar
ve Mylasa, patrocinato dal Belediye della città e organizzato da Özgen Acar. Vi hanno partecipato
studiosi stranieri (W. Blümel, W. Held, F. Rumscheid) e turchi (A. Diler, M. Sayar, B. Söğüt, A.
Tirpan, E. Varinlioğlu), da tempo impegnati in scavi e ricerche in Caria, che hanno presentato i
risultati dei loro lavori recenti, offrendo preziosi contributi
alla conoscenza della regione in cui era situata l’antica
Mylasa e dei suoi ancora poco noti abitanti.
In questa sede Fede Berti e Alessandro Viscogliosi hanno
illustrato i loro recenti lavori a Iasos .
� Dal 5 al 7 novembre 2009 si è svolto a Bordeaux
(Francia) il Colloque EUPLOIA sul tema Carie et Lycie
Mediterranéennes: échanges et identités, promosso dall’Université de Bordeaux 3.
Fede Berti ha presentato una relazione dal titolo La ceramica a vernice nera di Iasos dal VI al IV secolo a.C.
Nella stessa sede Massimo Nafissi e Roberta Fabiani (Università di Perugia) sono intervenuti rispettivamente su Un
nouveau document sur les Hécatomnides e su Iasos between
Mausolus and Athens.
7. “Carie et Lycie
Mediterraneennes:
échanges et identités”
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N O T I Z I A R I O
� Dal 19 al 22 novembre si è svolta a Paestum la XII edizione della Borsa Mediterranea del
Turismo Archeologico.
Tra le numerose iniziative di particolare interesse è stata la tavola rotonda sul tema L’archeologia
degli italiani all’estero. Confronti, riflessioni, prospettive nell’anno del centenario della Scuola Archeologica Italiana di Atene, organizzata allo scopo di attirare l’attenzione di un più vasto pubblico su
queste particolari attività di ricerca, alternativamente esaltate o meno, dalle istituzioni pubbliche
che dovrebbero sostenerle.
Nel suo intervento introduttivo Emanuele Greco ha ricordato, accanto alle importanti realizzazioni scientifiche della Scuola, dalla sua fondazione a oggi, cui si affianca una sempre più significativa
attività di formazione di giovani studiosi, le difficoltà che la Scuola incontra, non solo a livello
di finanziamenti, ma addirittura di sopravvivenza: è davvero un paradosso, infatti, che un Paese
che si vanta del suo patrimonio artistico abbia incluso tra gli Enti inutili la Scuola Archeologica
Italiana di Atene, fortunatamente senza conseguenze, se non in una parte disinformata dell’opinione pubblica.
Tutti gli interventi hanno fornito una breve sintesi dei maggiori risultati ottenuti; N. Bonacasa
(Cirene), R. Pierobon Benoit (Tell Barri), S. Santoro (Durazzo), G. Semeraro (Hierapolis) hanno
posto l’accento soprattutto sui problemi di conservazione e valorizzazione dei siti, in sintonia
con una generale nuova tendenza della ricerca all’estero, tesa al coinvolgimento sempre più ampio
oltre che delle comunità scientifiche, delle istituzioni e delle comunità in cui le attività di ricerca
si svolgono. Non potevano mancare osservazioni, pienamente condivise dai partecipanti, sulla
scarsità dei finanziamenti da parte delle istituzioni pubbliche e sui meccanismi non sempre chiari,
né sempre funzionali, della loro attribuzione, in particolare da parte del Ministero degli Affari
Esteri: la natura delle attività e la loro importante funzione di diffusione della ricerca italiana, cui
si lega sempre più l’attività di formazione nei paesi partner, richiederebbe infatti una partecipazione effettiva e più consapevole. Peccato che, ancora una volta, nessun rappresentante del Ministero
fosse presente!
(di Raffaella Pierobon Benoit)
8. “XII Borsa
Mediterranea del
Turismo Archeologico”
66
N O T I Z I A R I O
Siti Web
L’Associazione “Iasos di Caria” ha ora il proprio sito web, visitabile all’indirizzo:
www.associazioneiasosdicaria.org
Il sito fornisce informazioni sulle finalità e sulle attività dell’Associazione, nonché sulla storia degli scavi condotti a Iasos dalla Missione Archeologica Italiana a partire dal 1960. Una serie di immagini dei
singoli monumenti consente, inoltre, la visita virtuale della città antica. La lettura degli indici di tutti i
numeri del Bollettino costituisce, infine, un utile strumento per la ricerca dei diversi articoli pubblicati
sulla rivista.
Ricordiamo che è possibile consultare in rete il sito:
www.misart.it
MISART (Missioni Archeologiche Italiane in Turchia)
una guida alle Missioni Archeologiche Italiane in Turchia, redatta in lingua italiana, turca e inglese.
Il sito web, patrocinato dal Ministero degli Affari Esteri e dall’Ambasciata Italiana ad Ankara, è stato
curato dal Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Lecce, grazie al supporto finanziario
dell’ENI.
Nel Notiziario del Portale Numismatico dello Stato:
http://www.numismaticadellostato.it
Fede Berti dà notizia del rinvenimento avvenuto a Iasos, nel corso della campagna di scavi del 2007, di
un gruzzolo costituito per lo più da antoniniani, databile al III sec. d.C.
Le 15 monete sono state raccolte sul piano di calpestio di un ambiente, situato lungo la stoa orientale
dell’agora, e più precisamente a ridosso della parete meridionale della stanza. Esse forniscono una testimonianza estremamente utile per la ricostruzione della circolazione monetaria nel centro cario, che
si aggiunge alla scoperta avvenuta nel 1969, sempre nell’agora, di un ‘tesoretto’ della stessa epoca. Si
trattava allora di un ripostiglio composto da 2997 antoniniani e 11 denari d’argento, nascosto probabilmente alla vigilia di un’incursione degli Eruli, nella seconda metà del III secolo. A quella scoperta
e all’edizione del ‘tesoro’ è stato dedicato un intero volume del Bollettino di Numismatica, n. 40-43,
pubblicato nel 2005.
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1 Acquedotto
14 Complesso della basilica presso
la porta est
2 Basilica a est del mausoleo
romano
15 Teatro greco
3 Mausoleo romano (Balık Pazarı)
16 Quartiere a sud del teatro
4 Tomba ellenistica
5 Tombe a camera ellenistico-romane
17 Cinta di età geometrica e terrazze
sotto l’acropoli
6 Agora
18 Basilica dell’acropoli
7 Saggio all’interno dell’agora
19 Castello medievale
8 Bouleuterion
20 Tempio sull’acropoli
21 Villa dei mosaici
9 Complesso di Artemis Astias
10 Tempietto in antis
22 Complesso del propileo sud
11 Caesareum
23 Santuario di Demeter e Kore
12 Porta est
24 Torre del porto
13 Santuario di Zeus Megistos
25 Tomba ellenistica
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