institut national d`archeologie et d`arts

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institut national d`archeologie et d`arts
AFRICA
INSTITUT NATIONAL D'ARCHEOLOGIE ET D'ARTS
AFRICA
CE NUMÉRO A ÉTÉ COMPOSÉ EN
MONOPHOTO ET ACHEVÉ
D'IMPRIMER SUR LES PRESSES
DU SECRETARIAT D'ETAT AUX
AFFAIRES CULTURELLES ET A
L'INFORMATION LE 27 JUIN 1968 A
TUNIS
EDITÉ PAR L'INSTITUT NATIONAL D'ARCHÉOLOGIE ET D'ARTS-SERVICE PUBLICATION
INSTITUT NATIONAL D'ARCHÉOLOGIE ET D'ARTS
AFRICA
Fouilles, monuments et collections
archéologiques en Tunisie
TUNIS
SECRETARIAT D'ETAT AUX AFFAIRES
CULTURELLES ET À L'INFORMATION
1968
Les manuscrits doivent être envoyés au Secrétaire de rédaction, Institut National
d'Archéologie et d'Arts 4, Place du Château - Tunis.
Pour les échanges, les abonnements et la vente, s'adresser au «Service Publication» de
l'Institut National d'Archéologie et d'Arts, Place du Château - Tunis.
Sommaire
Mémoires et articles
A. M. BISI
I Pettini d'Avorio di Cartagine ..........................
11
J. FERRON et Ch. SAUMAGNE
Adon-Baal, Esculape, Cybèle à Carthage . . .
75
G. VILLE
Recherches sur le costume en Afrique romaine
Le pantalon..............................................................
139
L. FOUCHER Découvertes fortuites à Sousse ....................................
183
Musée archéologique de Sousse, acquisitions de 1949
à 1964 ....................................................................
205
M. FENDRI
Un vêtement islamique ancien au Musée du Bardo
241
Fouilles archéologiques (1965 -1966)
J. P. DARMON
A. MAHJOUBI
K. BELKHODJA
M. M. CHABBI
Néapolis ....................................................................
Henchir el - Faouar....................................................
Ksar Lemsa ..............................................................
Raqqada (résumé) ......................................................
271
293
313
349
Mélanges, comptes-rendus et notes critiques
Dr. A. Sahly
H. Fantar
A. Mahjoubi
C. R.A.H
Le Genre «Homo» .................................................
Inmemoriam G. Levi Della Vida .................................
In memoriam Georges Ville .......................................
Chronique administrative ...........................................
353
373
375
377
...................................................................................
3925
CHAQUE ARTICLE EST SIGNÉ, ET L'AUTEUR SEUL EN EST RESPONSABLE
MÉMOIRES ET ARTICLES
Le abbreviazioni più frequentemente usate, oltre quelle della
Keilschriftbibliographie in Orientalia, sono le seguenti :
A.E.A. =
Archivo Espagnol d'Arqueologia.
B. A. C. = Bulletin archéologique du Comité des travaux historiques et scientifiques.
BARNETT, Ivories = R. D. BARNETT, A Catalogue ofthe Nimrud Ivories with Other
Examples ofAncient Near Eastern Ivories in the British Museum, London 1957.
BELLIDO, Colonizaciones = A. GARCIA Y BELLIDO, El Mundo de las Colonizaciones:
Historia de Espana, 1, 2, Madrid 1952, pp. 281-492.
BELLIDO, Fenicios = A. GARCIA Y BELLIDO, Fenicios y Carthagineses en Espana: Sefarad,
II, 1942, pp. 5-93, 227-92.
BONSOR, Colonies = G. BONSOR, Les colonies agricoles pré-romaines de la Vallée duBétis: R.
Ar., XXXV, 1899, pp. 126-59, 232-325, 376-91.
DECAMPS, Inventaire = C. DECAMPS DE MERTZENFELD, Inventaire commenté des ivoires
phéniciens et apparentés découverts dans le Proche-Orient, Texte et Album, Paris 1954.
FREIJEIRO, Orientalia = A. BLANCO FREIJEIRO, Orientalia II : I- Los morfiles de
Carmona: A.E.A., XXXIII, 1960, pp. 3-25.
GAUCKLER, Nécropoles = P. GAUCKLER, Nécropoles puniques de Carthage, I-II, Paris
1915.
HULS, Ivoires = Y. HULS, Ivoires d'Étrurie, Bruxelles-Rome 1957. M.É.F.
=
Mélanges d'archéologie et d'histoire de l'Ecole Française de Rome. PERROT-CHIPIEZ,
Art — G. PERROT - CH. CHIPIEZ, Histoire de l'art dans l'antiquité, III, Phénicie-Chypre,
Paris 1885.
POULSEN, Der Orient = F. POULSEN, Der Orient und die fruhgriechische Kunst, LeipzigBerlin 1912.
Symposium = Primer Symposium de Prehistoria de la Peninsula Iberica. Septiembre 1959,
Pamplona 1960.
10
I Pettini d'Avorio di Cartagine
I.
Premessa
Nel Museo Nazionale di Cartagine e nel Museo Alaoui a Tunisi sono conservati
alcuni pettini d'avorio provenienti dalle necropoli arcaiche della città africana (VII-VI
sec. a. C.)1. Essi furono rinvenuti alla fine del XIX secolo dai pionieri dell'archeologia
punica, il Delattre e il Gauckler, che ne dettero una concisa descrizione nei loro
rendiconti di scavo, accompagnata da qualche disegno ma non da fotografie2.
Dall'atto della loro scoperta ad oggi questi pettini sono rimasti quindi alquanto
trascurati, poiché le difficoltà inerenti alla lora frammentaria trattazione in vecchi
rendiconti e cataloghi scoraggiavano una nuova, dettagliata analisi d'as-sieme3. Anche
un'opera assai recente come quella dello Harden, dedicata alla civiltà fenicia
d'Occidente, reca solo una breve menzione di uno di questi pettini4. Nel libro dello
Harden sono contenute inoltre due affermazioni degne di esser rilevate : quella che i
pettini sono un prodotto dell'artigianato punico del VI secolo a. C. e quella che li
paragona ad un gruppo di oggetti analoghi trovati in tombe spagnole dell'Andalusia5.
L'accostamento ai pettini spagnoli non era sfuggito ai primi commentatori6, i quali
erano prevalentemente inclini a considerare gli uni e gli altri opera dell'artigianato
fenicio7.
1
2
3
4
5
6
7
J. VERCOUTTER, Les objets égyptiens et égyptisants du mobilier funéraire carthaginois, Paris 1945, pp. 21-22.
Cfr. le referenze alle note 6, 7, 9, 12, 21, 23.
Esprimo la mia più viva riconoscenza al prof. Jean Ferron, Directeur des Recherches del Museo Nazionale
di Cartagine, e alla mia amica Sig. na Samira Gargouri del Museo del Bardo. Grazie al loro gentile interessamento ho potuto ottenere tutte le fotografie che illustrano quest'articolo ed esaminare direttamente i
pettini cartaginesi. Ringrazio inoltre il R. P. Jean Deneauve che ha eseguito le foto del pettine del Meseo
di Cartagine e il prof. A. Driss, ex-Conservatore del Museo Alaoui, per le facilitazioni ricevute nello studio
del materiale del museo.
D. HARDEN, The Phoenicians, London 1962; traduz. italiana Corsivo, Milano 1964, pp. 229-30, fig. 68.
Ibidem, figg. 67, 69.
L. HEUZE Y, A propos des fouilles à M. Gauckler à Carthage: C.R.A.I., 1900, pp. 16-18; . MERLIN, Fouil
les de tombeaux puniques à Carthage, B.A.C, 1918, p. 292.
A. MERLIN, in Bulletin de la Société Nationale des Antiquaires de France, 1917, p. 115.
11
AFRICA
Gli ultimi anni hanno visto un risveglio d'interesse per il mondo punico e per la
sua civiltà artistica. Nuovi scavi sono stati intrapresi, anche per merito degli studiosi
italiani, nella Fenicia propria, a Malta, in Sardegna e in Sicilia8; tutti hanno gettato
vivissima luce sul problema dell'irradiazione semitica in Occidente nei primi secoli
del I millennio a. C. Perció crediamo che sia utile riprendere la trattazione dei pettini
cartaginesi, estendendola ai pezzi fenici che possaono aver funto da modelli e agli
esemplari spagnoli, che a quelli cartaginesi strettamente si ricollegano, e per i quali
sussiste tuttora una notevole incertezza di attribuzione.
Descriveremo prima i pettini africani noti, indi analizzeremo le tradizioni
artistiche della madrepatria semitica per quel che concerne in particolare l'incisione
dell'avorio e la tipologia dei pettini. Gli avori dell'Andalusia richiederanno un esame
più dettagliato, dal momento che si tratta dei soli oggetti eburnei ritrovati nel
Mediterraneo aventi una quasi perfetta identità con gli esemplari cartaginesi. Infine,
cercheremo di trarre alcune conclusioni riguardo l'origine dei pettini cartaginesi e
spagnoli, la loro datazione e l'importanza che essi assumono nel dibattuto problema
vertente sui tempi e sui modi dell'espansione fenicio-punica nel bacino del
Mediterraneo.
II. I pettini cartaginesi
II Museo Nazionale di Cartagine possiede un solo pettine, frammentario come
tutti gli esemplari che appresso descriveremo, rinvenuto nel 1895 dal P. Delattre
nella necropoli di Duimès9 (tav. IV, 2-3). Su un lato è un toro con la testa abbassata
in atto di caricare un ipotetico avversario e con una delle zampe anteriori sollevata, al
di sotto della quale è una pianticella con estremità piriforme. Sull'altro
8
9
Per i principali risultati di queste scoperte cfr. G. Pesce, Sardegnapimica, Cagliari 1961 ; S. Moscati, L'archeologia italiana nel Vicino Oriente: Oriens Antiquus, III, 1964, pp. 1-14; G. Garbini ed altri, Natiziario: ibidem,
pp. 131-39; F. BARRECA- G. GARBINI, Monte Sirai, I, Roma 1964; Monte Sirai II, 1965; Monte Sirai III, 1966.
V. BONELLOe altri, Missione archeologica italiana a Malta. Rapporto preliminare della campagna 1963, Roma
1964 cui sono seguiti altri due volmini (Malta II e Malta III), editi rispettivamente nel 1965 e 1966. Per la
Sicilia cfr. A. Ciarca e altriMozia I, Roma 1964; Mozia II, 1966; Mozia III, 1967.
L. DELATTRE, la nécropole punique de Douïmis (Carthage). Fouilles de 1895 et 1896 (Extrait des Mémoires de
la Société Nationale des Antiquaires de France, LVI), Paris 1897, pp. 43-44, fig. 24; Ph. Berger, Musée Larvigerie à Saint-Louis de Carthage, I, Paris 1900, pp. 191-92, tav. xxvIII, n. 2. L'oggetto, che non è stato più
pubblicato in seguito, è privo di numéro d'ordine. Nell'inventario del Museo reca soltanto la referenza al
catalogo del Berger e l'indicazione «acquisition 22 mars 1895 fouilles Delattre». Alt. cm. 6,5; largh. cm. 5,5.
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I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
lato è visibile la parte anteriore di un cavallo incedente in senso opposto all'altro
animale, con lo stesso motivo vegetale fra le zampe anteriori e le briglie e una sella
ricoperta da un panno reso da linee a reticolato. Probabilmente la scena doveva
completarsi con la figura di un carro montato da un cavaliere, dati la bardatura
dell'animale e l'ampio spazio che esiste fra questo e l'estremità sinistra dell'oggetto, il
quale era senza dubbio assai più esteso in origine su questo lato. Sia il cavallo sia il
toro poggiano su un listello orizzontale di base con profilature su entrambi i lati, che
funge nello stesso tempo da elemento di separazione fra la zona decorata e i denti del
pettine.
Tutti gli altri esemplari cartaginesi sono conservati al Museo Alaoui del Bardo a
Tunisi. Possiamo raggrupparli in quattro tipi principali a seconda della forma che essi
presentano (cfr. anche lo schema a p. 32). Esistono infatti pettini costituiti da un'unica
fascia rettangolare allungata con decorazione incisa e due file di denti più o meno
radi, ed altri in cui la fila dentellata è unica, mentre i lati corti presentano un incavo
presso la parte superiore; in un terzo gruppo ricompaiono le due file di denti di uguali
dimensioni, ma gli incavi sono posti al centro dei listelli laterali e la superficie da
decorare è quandrangolare piuttosto che rettangolare allungata; una quarta série,
infine, sembra essere costituita da pettini pressoché quadrangolari, senza incavi
laterali e con una sola fila di denti. Mentre l'esemplare del Museo di Cartagine è troppo
mutilo per essere attribuito ad uno di questi gruppi, ben si adatta alla prima delle
nostre ripartizioni un pettine del Bardo10 (tav. II, 1). Esso reca due grifoni giacenti
antitetici ad una palmetta del tipo detto «cipriota», cioè con una corolla di
petali - che nel caso specifico sembra sostituita da un grande calice espanso (come se
l'incisore fosse incerto sulla natura del fiore da rappresentare) -sorgente da una grande
base a voluta dalla lieve curvatura e con le estremità piegate verso l'interno. I grifoni,
con la testa d'aquila fornita di un becco sporgente e con la grande ala che si innalza
dal centro del dorso, sono del tipo frequentissimo sugli avori siro-palestinesi del I
millennio, ai quali pervengono dalla koinè figurativa del Tardo Bronzo11 (fig. 3 e). A
causa della mancanza di spazio e per inesperienza
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11
A. Driss, Trésors du Musée National du Bardo, Tunis 1962, tav. VIII, 1. Anche questo pettine, come i
seguenti, è privo di numéro d'inventario. Le dimensioni, ottenute da un esame diretto dell'oggetto, sono le
seguenti : alt. cm. 1,8; largh. cm. 9,4.
A. M. BISI, Ilgrifone. Storia di un motivo iconografico nell'antico Oriente mediterraneo, Roma 1965, cap.
III. Siria e Palestina pp. 69-106
13
AFRICA
dell'artigiano, tuttavia, dei mostri appare solo la parte anteriore del corpo,
maldestramente resa e appiattita in maniera del tutto innaturale. E' da notare anche
che il ciuffo di aigrettes dei grifoni siriani è qui ridotto a due schematici cornetti sulla
fronte.
Che il repertorio degli incisori di questi pettini fosse alquanto limitato e ricorrente
con favore ad alcuni soggetti canonici, è mostrato da altri due esemplari del Bardo,
provenienti dalla necropoli arcaica di Dermeš, entrambi appartenenti, per la forma
dell'oggetto, allaterza delle nostre categorie II primo12 (fig. 1 e-f; tav. I, 1-2), conserva
ancora tracce di colore verde (resti di policromia sono diffusi anche sugli avori
spagnoli) e reca su un lato una scena di ispirazione assira, sull'altro due figure di
tipo egiziano. In entrambi i casi, tuttavia, alcuni particolari mostrano 1'alterazione
dell'iconografia originaria e quindi l'impronta fenicia delle due rappresentazioni.
Nella prima scena appare un personaggio con lunghi capelli fluenti sulle spalle
che ricordahno alia lontana un klaft egiziano, ma con un gran naso sporgente di tipo
semitico, trasportato su un carro con alta ruota e la cui cassa è segnata da un reticolato
di listelli che delineano una serie di rombi con un punto al centro; si tratta sicuramente
del sistema per rendere la decorazione della cassa del veicolo il quale, come nell'arte
mesopotamica tarda, doveva essere ornato da appliques metalliche o di cuoio a
sbalzo13. II carro, la cui ruota sembra piena come mostrano i listelli orizzontali
all'interno che sostituiscono il cerchione raggiato, è tirato da due cavalli di cui sono
conservate parzialmente le teste con i finimenti (è da notare che del secondo animale, a
differenza di quanto si riscontra nell'arte assira e - in genere - orientale e classica, ove
si moltiplicano le zampe per dare l'idea di una successione di bestie in movimento,
appare solo la testa) ; il personaggio, che indossa una tunica ricamata sul collo, sul
davanti e sul dorso14, reca in pugno un oggetto cuspidato15.
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P. GAUCKLER et autres, Catalogue du Musée Alaoui. Supplément I, Paris 1910, pp. 361-62, tav. CVI, nn. 1-2.
Alt. della fascia figurata cm. 7, largh. cm. 9,30.
F. STUDNICZKA,Der Rennwagen im syrisch-phönikiscben Gebiet: J. d. I, 1907, pp. 147-96; M. ZUFFA,S. V. Car
ro: Enciclopedia dell 'Arte Antica, II, Roma 1959, p. 360, R. L. ALEXANDER, The Royal Hunt: Archaeology,
XVI, 1963, p. 243-50, illustra vari esemplari di carri di tipo assiro, con alta cassa quadrata, sulle patere me
talliche « fenicio-cipriote ».
Cosi interpretiamo la fila di perline sovrapposte che segue il contorno délia schiena.
Si tratta di un'asta da parata assira terminante con un cappuccio triangolare sormontato da un globetto che
ne dissimula la punta.
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I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
Come abbiamo già detto, la cassa quadrangolare istoriata si ispira evidentemente ai
modellï assiri, ma - rispetto a questi ultimi - la figura dell'auriga16 è imperfettamente
resa; si noti infatti come sia mal riuscita la curva pettorale, come siano raccorciate le
proporzioni del corpo, come la balaustra del carro arrivi al petto del personaggio,
mentre sui rilievi vicino-orientali non sale mai oltre la vita. Infine, l'iconografia di tipo
assiro è alterata da altri due elementi : la fisionomia egiziana, o comunque di aspetto
ibrido, non assiro, della figura umana, e la tre pianticelle che si drizzano davanti e fra
le zampe dei cavalli e che costituiscono un elemento di disturbo della scena. Esse
sono di diversa altezza e con una corolla di petali espansa a gui sa di palmetta cipriota
che sorge alPestremità dello stelo inclinato.
La faccia posteriore di questo pettine reca al centro una gigantesca palmetta
cipriota fiancheggiata da due figure con parrucca egiziana e lunghe ali aperte, sorgenti
l'una dal braccio destro proteso, l'altra dal fianco e accompagnante il movimento
dell'altro braccio lievemente abbassato. Le due figure, che indossano una lunga
tunica con un gallone ricamato nel lembo inferiore e sulle maniche, sono riprese
dall'iconografia di Isis e Nephtys che assistono alla nascita di Horo e che sappiamo
diffusissima, dato il suo significato apotropaico, su un'enorme congerie di oggetti
della produzione egiziana. La stessa iconografia, come diremo appresso, è diffusa in
molti prodotti dell'arte fenicia e siriana del I millennio, in particolare sulle patere
metalliche dette «fenicio-cipriote» - coppe di Kurion e di Amatunte17, sugli avori di
Samaria, ArslânTâs, yorsâbâd, Nimrûd18 (fig. 1 a) e sugli scarabei19.
Nel nostro pettine si potrebbe postulare la figura di Horo fanciullo come esistente
in origine nello spazio centrale sopra la grande corolla di petali espansi della voluta.
Tuttavia, già alcuni avori di Arslân Tas mostrano le due dèe inquadranti, in luogo di
Horo sul loto, un elaborato motivo végétale a palmette sovrapposte20. Perció
riteniamo più probabile, data anche l'esiguità della superficie - oggi abrasa -fra le ali
délie due figure e al di sopra della palmetta, che quest'ultima sorreggesse non già il
dio egizio ma un altro ornamento végétale di coronamento.
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Il personaggio ha più l'aspetto di un auriga che di un dignitario; inoltre doveva tenere in pugno le briglie,
giacché lo spazio ristretto fra la cassa del carro e la groppa dei cavalli esclude la presenza di un'altra figura,
soldato o sovrano, che appare invece di fréquente sui carri assiri. Tutta la scena si dimostra un'imbarbarita
versione di un originale mesopotamico del I millennio.
D. HARDEN, IFenici, cit., p. 208, fig. 46; E. GJERSTAD,DecoratedMetalBowls from Cyprus: Op. Ar., IV,
1946, tavv. VI-VII.
C. DECAMPS de Mertzenfeld, Inventaire des ivoires phéniciens et apparentés découverts dans le
Proche-Orient, Paris 1954, tavv. VIII, nn. 39-40; XIX, nn. 211; LXXXII-LXXXVI, nn. 817-837; C-CI, nn.
949-950, 1118; cx, n. 992.
D. Harden, I Fenici, cit., tav. CVIII, nn. c, f (VII-VI sec. a. C).
DECAMPS, De Merfzenfeld, Inventaire, CIT, TAV. LXXXII, nn. 831-835.
15
AFRICA
Le due dèe con le ali spiegate riappaiono su una faccia del secondo pettine da Dermeš (fig. 1 c-d), mutile di quasi tutto il corpo. Gli scarsi frammenti che restano sono
tuttavia sufficienti a mostrare la ricomparsa della palmetta al centro della scena la
quale è di tipo alquanto diverso da quella incisa sul pettine précédente, dato che è
composta non più da una corolla di petali che sorge a ventaglio dal centro di una
voluta, ma da un flore di loto che si espande all'estremità superiore di un grosso stelo
colonniforme svasato alla base. Anche le ali delle due figure, se è esatta la riproduzione
che ne hanno dato i primi commentatori, sono diverse da quelle delle dèe sul primo
pettine da Dermeš, giacché recano una série di solchi paralleli nel senso della
lunghezza in luogo del disegno a trattini con nervatura mediana e spuntano dalle
ginocchia delle figure senza avvolgerne il corpo come nell'esemplare precedente, ove
le ali - per giunta - avevano il punto di attacco sensibilmente rialzato. I
personaggi antitetici ritornano sull'altro lato del nostro pettine, mentre lo stato
di deterioramento impedisce di dire se essi fiancheggiavano qual-che oggetto od
emblema. A somiglianza dei genî gradienti dei bassorilievi neo-assiri, le due figure
maschili hanno lunghe vesti ricamate all'estremità inferiore e che lasciano scoperta una
gamba, mentre un mantello ricopre la parte inferiore del corpo.
Il motivo delle due dèe alate antitetiche ricompare su un terzo pettine del
Museo del Bardo22 (tav. II, 2), anch'esso assai frammentario, senza alcuna variante
rispetto all'esemplare precedente.
Gli altri pettini cartaginesi mostrano per lo più scene in cui sono assenti i
protagonisti umani. Due pettini, incisi su tutte e due le facce e appartenenti
tipologicamente al quarto gruppo, furono trovati dal Gauckler nella necropoli di
Dermeš e recano figure di animali passanti23 (fig. 2 a-c, tav. V, 1-2). Sono ridotti in
uno stato deplorevole ma non tanto da cancellare del tutto le rappresentazioni incise.
Si tratta sempre di un unico animale, gradiente alternatamente a destra o a sinistra,
che ri-empie tutta la superficie quadrangolare nell'atto stesso in cui poggia le zampe
sull'ampio listello di base, reso da linee diagonali che sembrano evocare
l'immagine
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L. HEUZEY, A propos des fouilles de M. Gauckler à Carthage, cit., pp. 16-18, fig. alla p. 17; articolo ripreso in
GAUCKLER, Nécropoles, II, pp. 418-21, fig. alla p. 419.
Si tratta di un pettine, per quanto ci consta, inedito e del quale non abbiamo trovato menzione negli inventari dei Musei e nei vecchi cataloghi.
Gauckler, Nécropoles, II, tav. cxLIII. Soltanto il pettine illustrate alla tav. v è stato da noi ritrovato al Museo
del Bardo; solo di esso, quindi, possiamo dare le misure : alt. della fascia decorata cm. 5,30; largh. mas-sima
cm. 2,30 e cm. 3 (del primo e del secondo frammento, includenti, rispettivamente, la testa e la parte
posteriore dell’animale rappresentato).
16
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
di un prato erboso. In almeno due casi è inoltre riconoscibile chiaramente la natura
dell'animale : si tratta rispettivamente di una gazzella o antilope alata24 che volge
indietro la testa, incurvando il collo sinuoso con un bel movimento naturalistico, e
di un grifone con la testa d'aquila assai allungata, grande occhio amigdaloide e cresta
ad aigrettes, di un tipo cioè direttamente dipendente da prototipi micenei25 e che trova i
più stretti addentellati in alcuni grifoni sugli avori di Nimrûd26.
Nel I Supplemento al Catalogo del Museo Alaoui si dà notizia di altri due
pettini27 , uno in osso e l'altro in avorio, provenienti da Cartagine, e recanti rispettivamente una testa di antilope e un bue e un leone passanti alternatamente a destra e a
sinistra. Non sappiamo se si tratti degli avori trovati dal Gauckler a Dermeš nel
1899, e di cui abbiamo or ora discusso, ma la cosa ci sembra assai probabile.
Il pettine cartaginese proveniente dalla collina di Giunone è il più noto della
série per i paralleli evidentissimi o - diciamo pure - l'assoluta identità che esso présenta
con gli esemplari spagnoli28 (tav. III, 1-2). E' del secondo tipo, con incavi nella parte
più alta dei lati corti e con una decorazione incisa su ambedue le facce. Sulla prima è
una rappresentazione identica a quella che appare nell'esemplare del Museo di
Cartagine : un toro gradiente verso sinistra, in atto di carica, con la testa abbassata dalle
poderose corna e il collo e il ventre segnati da vigorose incisioni che indicano le pieghe
cutanee. Fra le zampe dell'animale e davanti al muso sorgono i soliti arbusti, qui a
forma di giganteschi fïori di loto dal calice aperto e inclinati verso destra. Sull'altro
lato è una sfinge femminile accosciata, con klaft egiziano, riguardante verso sinistra
corne il toro, e davanti alla quale sorgono i due consueti giganteschi fiori di loto
inclinati. Sulla groppa del mostro e volto in direzione contraria rispetto a quest'ultimo
è un uccello dal folto piumaggio. E' da notare che entrambe le scene sono incorniciate
su tutti e quattro i lati da listelli con un disegno a linee zigzagate che costituisce
un'innovazione rispetto ai precedenti esemplari.
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Sembra infatti che un'ala si drizzi di fronte al muso dell'animale. Una gazzella alata retrospiciente appare
su un pettine da Megiddo su cui ritorneremo in seguito (DECAMPS, Inventaire, tav.XXXVIII, n. 358). Un manico
di flabello in avorio, pressappoco contemporaneo al nostro pettine e proveniente da una tomba di Dermeš, reca
un leone alato nel registre inferiore : Gauckler, Nécropoles, II, tav.CXLIII.
A. M. BISI, Il grifone, cit., Cap. VII Creta e Micene pp. 167-95.
R. D. BARNETTE, A Catalogue ofthe Nimrud Ivories, Withe, British Museum, Landon 1957, tavv. xxxvI, n. S 62
c, XXXVIII, n. S 75.
P. Gauckler et autres, Catalogue du Musée Alaoui, SupplémentI, cit., p. 361, nn. 271 e 272.
A. Merlin, in Bulletin de la Société des Antiquaires de France, 1917, pp. 109-110 e fig.; id., Fouilles de tom
beaux puniques à Carthage, cit., pp. 290-91, fig. 1 (alla p. 299 si dà notizia di un altro pettine con una sola fila
di denti, ma cosi frammentario e rovinato che al posto dei soggetti incisi restano solo dei tratti orizzontali); A. Merlin - R. Lantier, Catalogue du Musée Alaoui, 2è Supplément, Paris 1922, p. 346, n. 435; D. Harden
IFenici, cit., p. 229, fig. 68. Alt. senza la fascia dentellata cm. 4,3, lungh. cm. 10.
17
AFRICA
L'ultimo pettine della serie cartaginese, del tipo trapezoidale con doppia fila di
denti, fu rinvenuto in una tomba databile al VII-VI secolo a. C. sul versante sudoccidentale della collina di San Luigi (fig. 2h; tav. IV, l)29. La scena è di generica
ispirazione egiziana. Inquadrate da due fasce orizzontali che recano all'interno una fila
di palmette di tipo cipriota, sono due figure umane volte verso un gigantesco motivo
vegetale che occupa per tutta l'altezza l'estremità destra del pettine ed è composto da
una doppia palmetta sovrapposta, del tipo cioè che appare frequentemente sulle patere
metalliche e sugli avori fenici. II personaggio immediatamente fiancheggiante questo
albero della vita stilizzato è inginocchiato ( ?) ed indossa una lunga tunica pieghettata
che giunge fino alle caviglie; sembra inoltre tenere appoggiato al petto il manico di un
flabello (metà del busto e la parte superiore del capo. sono mancanti); con l'altra
mano libera questo personaggio (di cui rimane incerto il sesso per il fatto che la testa
è quasi completamente perduta) sembra toccare l'appendice pendula di una delle
volute dell'albero. La figura eretta alle sue spalle, di profilo verso destra, è invece
chiaramente individuata come femminile dal seno aguzzo e sporgente; reca il klaft ed
ha le ali allargate dalle due parti del corpo, pale-sandosi cosi il fedele equivalente delle
rappresentazioni di Isis e Nephtys che già rilevammo su altri tre pettini cartaginesi. Al
pari di molte figure dalla fisionomia egittizzante sugli avori ed altri oggetti della
produzione artistica siro-palestinese del II e del I millennio30, la dea reca un oggetto
nel pugno; sugli avori si tratta, nella maggior parte dei casi, di un flore di loto (cfr. la
fig. 2 g), mentre di quello del nostro pettine resta incerta la natura (mazza o flabello ?).
Potrebbe tuttavia anche avanzarsi l'ipotesi, dato che l'oggetto è posto dietro il pugno
serrato e non è racchiuso in esso, che si tratti di qualche particolare dei motivi di
sfondo.
Balza evidente da questo pettine che gli incisori di avorio lavoravano seguendo
schemi precostituiti, paragonabili in certo qual modo agli attuali «cartoni». Infatti il
motivo bruscamente troncato a meta dell'albero stilizzato con i due perso-
29
30
CH. Saumagne, in B.A.C., 1932-1933, pp. 86, 87, fig. 1. Lungh. cm. 9,1 ; largh. senza i denti cm. 7,4; M.
ASTRUC, Traditions funéraires de Carthage : Cahiers de Byrsa, VI, 1956, pp. 34-35.
C. DECAMPS, Inventaire, cit., tavv. I, n. 7 (personaggi egiziani con fiori di loto in mano) (Tell Farca); vIII, nn. 39-40 (a)
e xxI, 39-40 b (Samaria) ; xxIv, n. 342 b ; xxxv, n. 342 a ; xxxvI, n. 343 (Megiddo) ; LXXXII-LXXXVI, nn. 817-835 (Arslân
Tas), ecc. Présenta strette analogie con il personaggio inginocchiato del nostro pettine quello che appare su una
conchiglia di tridacna incisa del Museo del Louvre, inginocchiato accanto a un'ela-borata palmetta cipriota e con le
braccia protese verso gli steli che spuntano dal motivo végétale centrale : CHR. BLINKENBERG, Lindos. Fouilles de F
acropole 1902-1914,I, Les petits objets, Berlin 1931, coll. 176, 178, fig. 23.
18
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
naggi volti verso di esso dimostra come nel modello originario la scena fosse
com-pletata da altre due figure, a queste antitetiche, volte cioè verso l'altro lato della
palmetta. Possiamo anche supporre che la seconda metà della scena si svolgesse
sull'altro lato del pettine (nulla dice a questo proposito il Saumagne circa l'eventuale
decorazione sul retro); tuttavia è altrettanto probabile che il motivo fosse stato ideato
in partenza sic et simpliciter, sminuito di una sua parte, dall'artigiano che incise il
pettine, per adattarlo più facilmente alla ristretta superficie da decorare.
III. I pettini d'avorio vicino-orientali
Gli antecedenti immediati dei pettini cartaginesi sono costituiti, sia per la
tipologia sia per il repertorio figurato, dagli esemplari siriani e fenici del II e del I
millennio a. C. Pettini in avorio sono conosciuti fin dall'epoca preistorica nelle più
antiche culture del Vicino Oriente: basti ricordare gli esemplari egiziani
predinastici della fase detta di Naqâda31. Tuttavia questi pettini arcaici non hanno
decorazioni, owero un animale intagliato nella parte superiore. La fascia ornata con
motivi incisi, o a bassorilievo, o ajourée, appare sui pettini egiziani soltanto a partire dal
Nuovo Regno; si tratta allora di figurazioni prettamente locali, quali fiori e boccioli
di loto alternati, teste hathoriche fiancheggiate da urei discofori, ecc.32. Soltanto in
epoca persiana appare in Egitto un tipo di pettine a doppia fila di denti e con animali
passanti ricavati a traforo, che deve considerarsi di derivazione orientale (cfr.
appresso)33. E'infatti la regione siro-palestinese, con la sua appendice cipriota, che ci
fornisce gli esempi più probanti e numerosi di pettini decorati, per giunta con motivi
assai simili a quelli dei nostri avori cartaginesi, mentre la Mesopotamia, seppure
conosce i pettini incisi di una forma assai prossima al nostro quarto gruppo, li
decora poi in prevalenza con scene complesse, di carattere religioso. Si osservi ad
esempio un pettine neo-assiro da Assur, recentemente pubblicato34. In esso la
concezione figurativa è completamente diversa da quella dei pettini cartaginesi e
siropalestinesi. Mentre infatti in questi ultimi la rappresentezione ha un carattere
esclusivamente decorativo e sembra talora far postulare che si tratti di motivi presi da
un
31
32
33
34
G. BENEDITE, Objets de toilette, Ière partie (Catalogue général du Musée du Caire, Nos 44301-44638), Le
Caire 1911, tavv. III, vI.
Ibidem, tav. Iv, nn. 44315, 44319.
Questo tipo di pettine resta in vigore fino all'epoca copta : ibidem, tav. vII, n. 44334 (la tavola illustra un
esemplare da Saqqâra, con un leone passante, simile ai pettini fenici e assiri di età persiana).
A. Parrot, Gli Assiri, Milano 1961, p. 146, fig. 179 A (X-IX sec. a. C).
19
AFRICA
altro genere di produzione e adattati alla tematica dei pettini, l'esemplare assiro reca
una scena complessa, organicamente distribuita e con precise scansioni verticali,
sottolineate dall'aspetto rigidamente ieratico delle figure e dai motivi vegetali; nel
caso specifico, la palma da datteri funge da nucleo accentratore di tutta la cerimonia
che probabilmente per invocarne la fertilità accanto ad essa si svolge. Si noti inoltre
come anche la decorazione della cornice esterna diverga, giacché non reca le linee a
denti di lupo degli esemplari cartaginesi, bensi semplici trattini obliqui nella parte
superiore e una serie di rosette - motivo tipicamente locale - nel lato lungo inferiore e
sui fianchi.
Esiste poi un gruppo di pettini definiti «assiri» dai primi commentatori e
conservati al Louvre35. Si tratta di pettini con animali per lo più a bassorilievo su un
fondo a traforo, incedenti o accosciati, dalle membra gonfie e massicce, prive di
vigore: appaiono leoni gradienti o con la testa abbassata e sfingi maschili barbate con
un copricapo a kalathos. La perfetta somiglianza di queste ultime figure, in ispecie,
con quelle che compongono i fregi policromi in mattoni smaltati del palazzo di Dario
a Susa36, conferisce molta verosimiglianza alia teoria che attribuisce questi pettini all'età
persiana. Rivive infatti in essi soltanto un'eco affievolita dei prototipi assiri del
IX-VIII secolo, in cui i motivi zoomorfi sono resi con ben altro vigore realistico. E' da
notare anche che la forma di questi pettini è assai tipica, costituita com'è da un
rettangolo con una massiccia cornice decorata da linguette e zigzag e da due sbarre
trapezoidali che spuntano dai lati lunghi della fascia mediana con la rappresentazione a
bassorilievo, rimanendo alquanto rientranti rispetto ad essa, e che contengono
all'interno le due file di denti di diverse dimensioni, più grossi e più fitti e sottili.
Questo tipo di pettine si trova in Egitto (cfr. la nota 33) e nella Siria di età persiana ed
ellenistica. Nella cosidetta «tomba della regina» a Sidone, risalente, come le altre
sepolture della necropoli, alla fine del V - inizio del IV secolo a. C., l'emiro M. Chéhab
ha rinvenuto, insieme a molti gioielli, un pettine simile a quelli del Louvre, decorato
sulle due facce; sull'una é una sfinge barbuta assirizzante, accosciata, vista di tre quarti;
sull'altra è una seconda sfinge coricata sulle quattro zampe, ma questa volta imberbe e
con acconciatura e fisionomia egiziane37.
35
36
37
PERROT-CHIPIEZ, Histoire de l’ Art dans l'Antiquité, III, Phénicié-Chippre, Paris 1885. pp. 758-59, figg. 417-419;
F. POULSEN, Der Orient, und die fruhquèchische Kunst, Berlin-Leipzig 1912, pp. 54-55, figg. 50-52; R.KOLDEH. FRANKFORT, The Art and Architecture ofthe Ancient Orient, Harmondsworth 1954, tav. CLXXXVIII B.
AN., Rinvenimenti archeologici in Libano; Archeologia, n, 1964, n. 16, p. 94.
20
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
Che non si tratti in tutti questi casi di una produzione assira, bensi fenicia, sorta
dapprima sotto l'influsso assiro (fino al VI secolo) e poi ispirantesi all'Egitto (a partire
dal dominio persiano sul territorio), è mostrato da un altro pettine del Louvre che puô
includersi nella serie sopracitata38. Esso è del tipo consueto ad H, con la scena
rettangolare inquadrata dal disegno ad ovuli o fogliette con nervatura centrale che
appare su un altro dei pettini del Louvre già menzionati. Su un lato è una vacca
retrospiciente verso il vitellino che tocca con il muso le sue mammelle, mentre un
servitore abbigliato all'egizaiana, con corto gonnellino, sostiene con ambedue le
mani un recipiente; sull'altro lato è un leone che calpesta con le zampe anteriori una
gazzella atterrata, la quale inarca il dorso nello sforzo di risollevarsi. Il motivo della
vacca che allatta il vitello è di origine egiziana, ma diviene poi diffusissimo nella
produzione fenicia del I millennio39; d'altro canto la posta statica del leone, il quale,
più che assalire l'altro animale ed esprimere quindi la foga della lotta, è rappresentato
corne se fosse raggelato in un atteggiamento araldico, mostra che non siamo qui in
presenza di un motivo prettamente assiro, bensi di una scena che - pur ispirandosi a
quell'ambiente - palesa nella resa sciatta e lontana da ogni naturalismo il grande
divario cronologico esistente rispetto ai prototipi mesopotamici.
L'attribuzione da noi sostenuta di questo gruppo di pettini all'artigianato fenicio
del VI-V secolo a. C. ci porta a trattare più da vicino della produzione siropalestinese. I
pettini decorati seguono logicamente le vicende delle scuole di avorio attive nella
contrada fin dalla seconda metà del II millennio e ne rispecchiano tutte le
caratteristiche. Molti studi recenti hanno lumeggiato gli aspetti più significativi di
questa produzione, le influenze che vi si riscontrano (egee, mesopotamiche, egiziane),
i motivi più diffusi o che più a lungo vi permangono attraverso il tempo, creando
un'indubbia continuità fra il repertorio figurativo del II millennio e quello del I40.
Per quel che riguarda i pettini, i quali costituiscono - occorre subito dire - uno dei
rami collaterali di questa produzione di oggetti eburnei che si diffondono in tutta
l'Asia anteriore antica, gli esemplari più numerosi provengono da Megiddo.
38
39
40
C. DECAMPS, Inventaire, cit., tav. cxxIv, nn. 1080 a-b.
P. MATTHIAE, Il motivo della vacca che allatta nell'iconografia del Vicino Oriente antico : R.S.O.,
XXXVII, 1962, pp. 1-31.
Questa continuità è affermata in A. M. BISI, Il grifone, cit., Cap. III Fra gli studi più recenti sugli avori
siro-palestinesi cfr., oltre C. DECAMPS, Inventaire, cit., H. J. Kantor, Syro-Palestinian Ivories : J.N.E.S.,
1956, pp. 153-74; P. MATTHLAE, Ars Syra. Contributi alla storia dell’arte figurativa siriana nelle età del
Medio e Tardo Bronzo, Roma 1962, pp. 83-94 (con tutta la bibliografïa anteriore).
21
AFRICA
Secondo le ipotesi più recenti41, essi si datanofrail 1250 eil 1150 a. C. e costituiscono
un gruppo omogeneo sia per la decorazione - che è esdusivamente vegetale ed
animalistica42 -, sia per la forma. Si tratta infatti di pettini con una duplice fila di
denti e con un'ampia fascia decorata rettangolare che talora si sdoppia in due registri,
talora si curva nel lato lungo superiore; in quest'ultimo caso, che trova analogia solo
in un esemplare cipriota (cfr. appresso), la fila dentellata è unica.
Predominano nei pettini di Megiddo le gazzelle. Un pettine a duplice registro43
mostra infatti in entrambi i settori una gazzella dalle lunghe corna ricurve con le
zampe anteriori ripiegate; in un caso essa è inquadrata da due arbusti ricchi di foglie,
mentre un fiore di loto spunta dietro la sua schiena; nell'altro caso 1'animale è alato e
volge indietro la testa in atto guardingo, quasi temesse un assalto improvviso; le ali si
aprono a ventaglio dai due lati del corpo, in una maniera desueta nella Siria del II
millennio ma che anticipa curiosamente moduli fenici (cfr. appresso).
Un leone seduto sulle zampe posteriori e con rami fronzuti che si dipartono a
raggera dietro il corpo appare su un secondo pettine da Megiddo44 (fig. 3 c), incluso
nel consueto registro rettangolare delineato da un fregio zigzagato su tutti i lati.
Nonostante le membra alquanto convenzionalmente rese e i motivi vegetali che
spuntano dietro il dorso e davanti alle zampe e che costituiscono un elemento di
disturbo della scena, questo leone sopravanza, per l'eccellenza artistica con cui è resa
l'elastica tensione del corpo, gli animali che abbiamo visto rappresentati sui pettini
del Museo del Louvre.
Di molto superiore dal punto di vista artistico è l'ultimo e più famoso dei pettini
di Megiddo45. Esso si distacca inoltre dagli altri esemplari sia per la forma (è l'unico ad
avere il lato superiore concavo) sia per il procedimento a bassorilievo -anziché ad
incisione - con cui una scena di lotta animale, circondata da una fascia di perline, è
ripetuta sulle due tacce. Una gazzella, caduta a terra sui ginocchi, tenta invano di
sottrarsi alla stretta feroce di un molosso che si è insinuate sotto il suo ventre e
l'azzanna al fianco, mentre con una zampa le artiglia contemporaneamente il dorso.
II viluppo contorto di membra serba un'eco sensibilissima dei modelli cretesi-micenei
del Tardo Minoico, in cui gli animali si azzannano e si abbrancano in
41
42
43
44
45
P. MATTHIAE, Ars Syra, cit., p. 84, riporta e appoggia quest'abbassamento di datazione, propugnato per
primo da W. F. ALBRIGHT.
Esistono anche alcuni pettini con decorazione esclusivamente geometrica sulla cornice : C. Decamps,
Inventaire, cit., tav. LXI, nn. 535-541.
Ibidem, tav. xxxvIII, n. 358.
Ibidem, tav. xl, n. 360.
Ibidem, tavv. xxIv, n. 389 b; XL,n. 389 a; D. Harden, I Fenici, cit., p. 203, fig. 45.
22
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
una fusione indissolubile di membra, con schiene e zampe volanti nell'aria e colli
spasmodicamente tesi, in una concezione figurativa quasi parossistica, al limite
estremo del realismo, ma che non cade mai nell'astrattezza e in cui pulsa la vita
nonostante una certa faticosità dell'invenzione figurativa46.
Completano il panorama dei pettini siro-palestinesi due esemplari del I millennio,
rispettivamente da Cipro e dalla Mesopotamia méridionale. Il pettine di Amatunte47
puó considerarsi direttamente derivato da quello di Megiddo che abbiamo or ora
descritto. Assai simili sono infatti la forma, con il lato superiore incavato (l'incavo,
assai meno percettibile, si ripete sui lati corti), il bordo di perline che circonda la
scena, e il motivo figurato che riempie da solo tutta la superficie. Un cerbiatto (o
antilope) è coricato verso destra, con il dorso inarcato, una delle zampe anteriori
sollevata e il muso leggermente proteso verso l'alto. La maculatura della pelle
conferisce una nota di realismo a questa elegante figura.
L'altro pettine proviene da Ur48 ma appartienne ad un gruppo di avori con
iscrizioni fenicie, onde risulta evidente la sua appartenenza alla grande produzione
siriana. Esso mostra sulle due facce un toro in posizione di carica, con la testa
abbassata e le pieghe cutanee del collo schematicamente rese, giganteggiante come
unico protagonista al centro della superficie rettangolare inquadrata da cerchielli
concentrici, incorniciati a loro volta da tre linee parallele.
In conclusione, i pettini siro-palestinesi ostentano un repertorio non molto
variato ma trattato con alto senso estetico. Predominano i temi zoomorfi e anche
quando i personaggi umani compaiono - pettine del Louvre - sono sempre in
posizione subordinata rispetto ai protagonisti ferini. Negli eleganti ritmi
compositivi la maggior parte di questi pettini si affianca ai pezzi più noti della
produzione siriana degli ultimi due secoli del II millennio, in cui l'influenza egea è
ancora assai forte, come mostra il verismo di alcune scene di lotta. Nel pettine di Ur
assistiamo tuttavia ad una incipiente stilizzazione che puô esser dovuta sia all'epoca
più tarda in cui il pezzo si pone (prima metà del I millennio) e al graduale esaurirsi
del filone di tradizione cretese-micenea che in quel periodo si riscontra, sia anche ad
una vera e propria differenza di scuola e di livello artistici.
46
47
48
Più che gli avori dell'Artemision delio, in cui è già latente un certo convenzionalismo d'espressione (H. GALLET de
SANTERRE- J. TRÉHEUX, Rapport sur le dépôt égéen et géométrique de l’Artémision à Délos : B. C.H., LXXILXXII, 1947-48, tavv. xxvII, 3, xxIx, 7), sono esemplificativi di queste lotte ferine alcuni sigilli cretesi-micenei
del Tardo-Minoico : O. Rossbach, Griechische Gemmen ältester Technik : Archäologische Zei-tung, XLI, 1883,
tav. xvI, 10; H. TH. BOSSERT, Altkreta, Berlin 1937, n. 393 d; V. E. G. KENNA, Cretan Seals with a Catalogue
ofthe Minoan Gems in the Ashmolean Museum, Oxford 1960, n. 342,tav. xIII.
C. D ECAMPS, Inventaire, cit., tav. LXXIV, n. 769.
Ibidem, tav. CXIX, n. 1064.
23
AFRICA
Infine, si deve menzionare in questa sede un pettine in avorio da Gordion49,
formato da un'ampia fascia rettangolare decorata a bassorilievo, dalla quale sporge
una lunga fila di denti. Il pettine, a giudicare dalla linea netta di frattura nel lato corto
di destra, non è completo50. La rappresentazione che vi compare, infatti - un grifone
antitetico ad un arbuste fogliato -, deve essere con tutta probabilità integrata con un
altro animale identico nella parte di destra. Il grifone, che reca nel becco un pesce, è di
tipo greco arcaico, con testa d'aquila, protuberanza sulla nuca ed ala incurvata a falce,
ma ha la coda terminante con una testa d'uccello, curiosa reminiscenza dell'arte
tardo-hittita51.
Lo Young dà notizia52 di altre placche in avorio provenienti da Gordion e
decorate con cervi, guerrieri a cavallo, ecc, rendendo cosi verosimile l'ipotesi
formulata antecedentemente dal Barnett di una scuola d'avori locale che si
affiancherebbe a quella siro-palestinese e a quella nord-siriana, meglio attestate53.
Occorre tuttavia osservare che questo pettine frigio, nonostante la singolare
commistione di elementi iconografici orientali e greco-arcaici che lo avvicina ad
alcuni esemplari spagnoli, non ha avuto alcun'eco in Occidente, ove probabilmente
mai giunse corne modello. La coincidenza apparente di alcuni temi e motivi con
quelli dei pettini spagnoli si spiega tenendo presente la comune derivazione da un
ceppo di tradizioni artistiche vicino-orientali.
49
50
51
52
53
R. S. YOUNG, Gordion 1954 : Türk Arkeoloji Dergisi, X, 1960, p. 63, tav.LXVI, fig. 12; id., The Campaign of
1955 at Gordion: Preliminary Report: A.J.A., LX, 1956, p. 257, tav. LXXXVI, figg. 23-24; id., The Gordion
Campaign of 1959 : Preliminary Report : ibidem, LXIV, 1960, p. 240, tav. LX, fig. 25 b; A. M. BISI, IL grifone,
cit., Cap. IV, Anatolia pp. 127, 130; R. GHIRSHMAN a. O., Dark Ages and Nomads c. 1000 B.C. : Studies in
Iranian and Anatolian Archaeology, Istanbul 1964, tav.XIX, 2.
Manca infatti, come ci risulta da una visione diretta che abbiamo avuto dell'oggetto ncl nuovo padiglione del
Museo Hittita di Ankara, il bordo rilevato che circonda la fascia decorata sugli altri lati e che termina allo
spigolo superiore conuntondino sporgente. Secondo E. L. KOHLER, invece (Phrygian Animal Style and
Nomadic Art : R. GHIRSHMAN a. O., Dark Ages and Nomads, cit., p. 61 ) rimane incerto se i due mostri
avessero un corrispondente dall'altra parte dell'albero sacro ovvero se fossero eretti isolati accanto alla
pianta, dovendosi intendere in questo caso il pettine come conservato nella sua interezza, il che non ci pare
possibile.
Cfr. ad esempio la coda terminante con una testa d'uccello di un grifone su un ortostato da Zincirli : F. von
LUSCHAN, Ausgrabungen in Sendschirli, III, Thorsculpturen, Berlin 1902, p. 206, fig. 97, tav. xxIv e; E.
POTTIER, L'art hittite, I, Paris 1926, pp. 55-56, 58, fig. 6.
R. S. Young, The Gordion Campaign of 1959, cit., p. 240; E. L. KOHLER, Phrygian Animal Style, cit., tav. xx,
1-2.
R. D. BARNETT, Early Greek and Oriental Ivories : J. H. S., LXVIII, 1948, p. 24. Per E. L. KOHLER, Phrygian
Animal Style, cit., p. 62, la scuola di intagliatori d'avorio frigia mostra un repertorio in cui confluiscono
elementi di tradizione orientale e motivi dell'arte delle steppe, amalgamati in uno stile peculiare che non ha
paralleli altrove.
24
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
IV.
I pettini dell 'Andalusia
I pettini in avorio della Spagna meridionale provengono per la maggior parte
dagli scavi compiuti alla fine dell'800 da G. Bonsor nei tumuli funerari (o motillas)
dell'Acebuchal, di Santa Lucia, e soprattutto della Cruz del Negro, situati nella bassa
valle del Guadalquivir54. Sfortunatamente, tutti gli oggetti di avorio andarono
dispersi in varie collezioni spagnole e alcuni presero addirittura la via d'oltre
Atlantico.
Scavi recenti, condotti con criteri scientifici nella zona esplorata alquanto
confusamente dal Bonsor 55 , non hanno apportato alcun contributo decisivo
all'origine del materiale di impronta orientale precedentemente noto, pur
confermandone la datazione al VI/V secolo a. C.
Tutti questi fattori hanno concorso e concorrono a far si che gli avori spagnoli
siano sostanzialmente ignorati dalla maggior parte degli studiosi, i quali li
attribuiscono alternatamente, da decenni, all'arte fenicia o a quella punica56 senza
avere spesso cognizione diretta del materiale e con forti oscillazioni di datazione,
basate su dati complementari di tipo storico o su una generica rassomiglianza
iconografica57. Assai recentemente, tuttavia, alcuni studiosi spagnoli, in particolare il
Blanco Freijeiro, hanno ripreso in esame gli avori di Carmona con maggior
ricchezza di
54
55
56
57
BONSOR, Colonies, passim; BELLIDO, Fenicios, pp. 235-40; id., Colonizaciones, pp. 482-89. Una chiara
suddivisione di tutti gli avori spagnoli noti secondo il luogo il luogo di provenienza si trova in Blanco,
Orientalia, pp. 4-11, cui si rimanda per ogni ulteriore notizia sulle caratteristiche delle scoperte.
J. de M. CARRRIAZO - K. RADDATZ, Ergebnisse einer ersten Stratigraphiscben Untersuchimg in Carmona :
Madrider Mitteilungen, II, 1961, pp. 71-106, in particolare p. 104 (sugli avori).
Secondo L. JOULIN, Les âges protohistoriques dans le Sud de la France et dans la Péninsule Hispanique : R. Ar.,
XVI, 1910, p. 235, si tratterebbe dell’opera di Greci, «probablement des colonies d'Egypte». Evidente -mente si
equivoca qui sul carattere fenicio ed egittizzante che questi avori posseggono e che hanno in co-mune con
molti oggetti dell'artigianato minore rinvenuti a Naukratis e in altri luoghi del Delta.
Riassumiamo qui, in ordine cronologico, alcuni dei pareri emessi su questi avori. Secondo il BONSOR, CO
lonies, p. 153, «l'origine phénicienne est manifeste»; gli avori di Carmona sarebbero opera di Libio-fenici, cioè
di Punici immigrati in Spagna. Secondo l'opinione già ricordata di L. HEUZEY, A propos des fouilles de M.
Gauckler à Carthage, cit., p. 16, i pettini sono «de fabrication phénicienne et probablement carthagi noise». P.
PARIS, Essai sur l'art et l'industrie de l'Espagne primitive, I, Paris 1903, p. 96, riconosce che i pettini sono di uno stile
orientale assai puro. Per J. DÉCHELETTE, Essai sur la chronologie préhistorique de la péninsule ibérique : R. Ar., XII,
1908, p. 392, gli avori di Carmona sono importati e devono annoverarsi fra quegli «objets de toute sorte dont
les marins de Carthage approvisionnaient les bazars phéniciens». Secondo F. POULSEN, Der Orient, cit., p. 53, si
tratta di avori fenici; parere analogo esprime ST. GSELL, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord, I, Paris 1913, p. 441.
Per P. BOSCH-GIMPERA, Fragen der Chronologie der Phönizischen Colonisation in Spanien: Klio, XXII, 1929, p.
352, si tratta di importazioni orientali posteriori alla fine del VI sec. a. C. ; al contrario, G. LOUD, The Megiddo
Ivories (== O.I.P., LII), Chicago 1939, p. 1, attribuisce
25
AFRICA
paralleli iconografici, prospettando una nuova ipotesi : che cioè gli avori del Guadalquivir siano, almeno nei loro esemplari più tardi, il prodotto dell'artigianato
tartessio58, cioè del territorio della Spagna meridionale che per la posizione
geografica e per circostanze storiche si trovó alla confluenza del mondo orientale
(fenicio e siriano) ed occidentale (iberico e celtico) e la cui civiltà sorse proprio dalla
fermentazione di un impulso migratorio e culturale fenicio-cipriota nell'humus
dell'elemento di tradizione indigena59.
Prima di esporre la nostra idea sull'origine degli avori spagnoli, passiamo a un
loro rapido esame. Per criteri pratici di concisione, e per restare nei limiti di un articolo
sui pettini fenicio-punici, menzioniamo solo incidentalmente le numerose placche in
avorio e in osso rinvenute dal Bonsor in Andalusia, con decorazione incisa
gli avori di Carmona all'VIII secolo, considerandoli contemporanei di quello di Horsabad e di Nimrud
(«gruppo Layard»). Per una datazione assai alta, cioè per il IX secolo a. C., propende anche W. F. ALBRIGHT,
New Light on the Early History ofPhoenician Colonization: B.A.S.O.R., LXXXIII, 1941, p. 22, nota 33.
Secondo il B ELLIDO , Fenicios, pp. 238-39, si tratterebbe di avori fenici, analoghi a quelli cartaginesi
dell'VIII-VII sec, ma risalenti al VI secolo o ad epoca anche posteriore. Per C. FERNANDEZ-CHICARRO,La colecci
ón de marfiles, producto del comercio fenicio opùnico, del Museo Arquelógico Provincial de Sevilla : A.E.A., XX, 1947, p.
58
59
224, siamo in presenza di prodotti del commercio o punico risalenti al VII/VI sec. a. C. Giova poi ricordare la
tesi di P. CINTAS, Céramique punique, Paris 1950, pp. 585-86, sefondo la quale gli avori di Carmona «sont les
exactes copies des ivoires de Carthage dont les plus vieux... sont du VIIème siècle»; i pettini, fatti di avorio
africano, sarebbero stati lavorati a Cartagine da artisti punici. Parere contrario è espresso da A. GARCIA y
BELLIDO,Materiales de arquelogia hispano-pùnica. Jarros de bronce: A.E.A., XXIX, 1956, pp. 99, 106, il quale
ascrive gli avori di Carmona, di cui sono evidenti le somiglianze con l'arte assira del IX-VIII secolo, a
quell'ambiente di cultura mista che va sotto il nome di orientalizzante spagnolo e in cui si inquadrano anche il
tesoro di Aliseda e le oinochoai bronzee. R. Carpenter, Phoenicians in the West :A.J.A., LXII, 1958, p. 51, pensa
al tardo VI secolo come alla data più probabile per questi avori, che egli considera oggetti di importazione
punica introdotti nelle tombe celtiche dell'interno dell'Andalusia attraverso il porto punico di Gades. Per W.
CULICAN, The FirstMerchant Venturers : The Dawn of Civilisation, London 1961, p. 149, i pettini di Carmona,
pur essendo di indubbia ispirazione fenicia, non trovano finora equivalenti nella Fenicia propria; sono stati
quindi fabbricati a Cartagine intorno al 600 a. C. D. HARDEN, I Fenici, cit., pp. 206-08, attribuisce, come
rilevammo sopra (p. ), sia i pettini di Carmona sia quelli di Cartagine al VI secolo a. C, considerandoli opera
dei Fenici d'Occidente, cioè dei Punici. Recentemente, infine, J. BOARDMAN, The Greeks Overseas,
Harmondsworth 1964, p. 219, ritorna a una datazione abbastanza alta, considerando che i pettini spagnoli
«seem from their style more likely to be from early Phoenician trade, before the Greeks arrived, than of the
later sixth century when the Phoenicians were again in control».
Arribas, The Iberians, London 1964, pp. 50,189; M. ALMAGRO-BASCH, L'influence grecque sur le
monde ibérique : VIIIème Congrès International d'archéologie classique, Paris 3-13 septembre 1963.
Rapports et communications, Paris 1963, p. 27. Anche per quest'autore si tratterebbe di un artigianato
tartessio fiorito improvvisamente nel VII secolo sotto l'azione delle correnti artistiche fenicie e cipriote. Nello
stesso senso cfr. già A. BLANCO FREIJEIRO, Orientalia. Estudio de objetos fenicios y orientalizantes en h
Peninsula: A.E.A., XXIX, 1956, pp. 41, 49-50.
J. MALUQUER de MOTES NICOLAU, Nuevas orientaciones en el Problema de Tartessos: Symposium, pp. 273-95, in
particolare pp. 284-87.
26
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
ovvero-più raramente - scolpita a bassorilievo nella tecnica «a traforo». II repertorio
figurativo, nonostante la grande varietà dei pezzi (peraltro assai deteriorati e
frammentari), non è ricco come quello degli avori fenici. Predominano in modo
assoluto figure di animali, isolati o, più spesso, in coppia antitetica o in lunghe file,
accanto a motivi vegetali: palme, fiori di loto, piante di papiro60.
E' da notare che spesso gli elementi vegetali che accompagnano come motivo
sussidiario gli animali passanti (la più fréquente è la gazzella dalle lunghe corna e
dalla testa retrospiciente, ma appaiono anche l'ariete, il leone e il cavallo), spuntano
dietro il loro dorso, secondo quel processo eminentemente convenzionale e astratto
che già vedemmo in atto sugli avori della Fenicia propria61. Le sfingi ripetono il tipo
maschile egizio, con il klaft e il pettorale adorno di bande zigzagate. Nella placca di
Santa Lucia, che costituisce la rappresentazione più antica del mostro sugli avori
spagnoli, compare pure il grembiale fra le zampe anteriori, onde l'iconografia si
dimostra di origine siriana62. Non mancano i pesci63, i grifoni di tipo siromiceneo, con
lungo ricciolo pendente dalla nuca e becco d'aquila64 (fig. 2 d), e le figure umane :
personnaggi egittizzanti con il klaft65, teorie di donne tunicate di tipo egittizzante66,
che ricordano le file di figure femminili in scene di cerimonia e di musica sugli avori
siropalestinesi67. Il pezzo più significativo è tuttavia quello, assai noto, in cui un
guerriero inginocchiato con una lunga lancia e uno scudo rotondo si appresta a
trafiggere un leone retrospiciente posto alla sua destra, mentre dietro le sue spalle (a
sinistra nella placca) incombe un grifone del tipo già descritto68. Della stessa scena
esiste una replica su un'altra placca, con una leggera variante, giacché il guerriero vi è
rappresentato senza elmo e il posto del grifone alle sue spalle è occupato da una
pacifica gazzella retrospiciente69. Poiché il personaggio porta
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BONZOR, Colonies, figg. 15-21,24; C. FÉRNANDEZ-CHICAKRRO, la colección de marfiles, cit., figg. 1-5;
BELLIDO, Fenicios, figg. 7-9,17-19; Blanco, Orientalia, figg. 3 B-E, 16-17.
Cfr. ad esempio C. DECAMPS, Inventaire, cit., tavv. x, n. 96 ; xxxv, nn. 305, a, c ; xxxvIII, nn. 353-354, 358 ;
XL, n.360; XLI, n. 377 a, ecc.
BLANCO, Orientalia, pp. 17-18, fig. 3 A.
BONZOR, Colonies, fig. 14; C. FERNANDEZ-CHICARRO, La colección de marfiles, cit., fig. 5, n. 7.
BONZOR, Colonies, fig. 22; C. FERNANDEZ-CHICARRO, La colección de marfiles, cit., fig. 2; BLANCO,
Orientalia, :p. 18, fig. 3 E.
BONZOR, Colonies, fig. 25.
BONZOR, Colonies, fig. 50; BELLIDO, Fenicios, fog. 19; BLANCO, Orientalia, p. 17, fig. 19.
C. DECAMPS, Inventaire, cit., tavv. CXII,n. 1017; CXXX,nn. 1130b-c.
BONSOR, Colonies, pp. 241-42, fig. 42; W. Culican, The First Merchant Venturers, cit., p. 149, fig. 35;
BELLIDO, Fenicios, p. 91, fig. 6; id., Colonizaciones, p. 484, fig. 433; F. POULSEN, Der Orient, cit., p. 52,
fig.47;
BLANCO, Orientalia, pp. 13-16, figg. 6 A, 13.
BLANCO, Orientalia, p. 13, fig. 6 B.
27
AFRICA
un elmo con cimiero che ricorda la foggia di quelli corinzi, è state visto in questa
scena un influsso greco (fig. 3 h). L'elmo è certo di aspetto non orientale, ma si tratta
dell'unico particolare di diversa origine in una scena che si ispira evidentemente a
modelli dell'Asia anteriore antica. Il personaggio inginocchiato in atto di assalire il
leone trova uno stringente parallelo, fra l'altro, in una delle coppe «fenicie» da
Nimrûd70, in uno scarabeo cipriota del VI secolo a. C.71 (fig. 3 g) e, prima ancora, in
numerosi sigilli mesopotamici del periodo protostorico72 (fig. 3 f). Vi è poi un'altra
placca da Bencarron (Carmona)73 in cui ritornano il grifone accanto a una gazzella
retrospiciente e il guerriero, il quale ha assunto questa volta l'aspetto di un cavaliere
egiziano, con klaft, corta tunica e frustino in mano; esso ricorda, nel corpo volte di tre
quarti per seguire lo slancio della cavalcatura, le figure equestri di una coppa di
Palestrina74, ove appaiono - si noti - anche carri di tipo assiro e il personaggio
inginocchiato saettante le fïere (tav. III, 3) e alcuni cavalieri rappresentati in opere
dell'artigianato orientalizzante etrusco e piceno75.
Una placca da La Cruz del Negro, ridotta a due piccoli frammenti, conserva il
capo e la parte inferiore del corpo di una figura col klaft, sotto un fregio a
scompartimenti metopali sormontato da quelli che sembrano i resti di una fila di
palmette di tipo «cipriota»76. Il personaggio ha una veste che giunge quasi aile
caviglie, ricamata con un gallone terminale zigzagato e adorna di varie strisce
parallele nel senso della lunghezza, vuote o riempite da trattini orizzontali e
verticali. Davanti alla figura restano le tracce di un'ala abbassata, solcata da linee
verticali e parallele.
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H. FRANKFORT, The Art and Architecture ofthe Ancient Orient, cit., tav.CLXXIII B.
O. MASSON, Les inscriptions chypriotes syllabiques, Paris 1961, pp. 345-46, n. 355, fig. 110;
L.R.D.BARNETT, Ivories, cit., p. 74, fig. 23. Si noti che anche qui il guerriero ha un elmo dall'altissimo
cimiero tripartito, di
cui è impossibile precisare la foggia, stante l'estrema semplificazione del disegno.
H.J. Kantor, A Bronze Plaque with Relief Decoration from Tell Tainat: J.N.E.S., XXI, 1962, p. 101 ss.,
figg. 8-9. Molti altri esempi del cosidetto knielauf nelle arti vicino-orientali del II e I millennio sono illustrati alle figg. 10-42, 15, 18-19 A - B.
BONSOR, Colonies, p. 242, fig. 43; BELLIDO, Fenicios, p. 231, fig. 9;ID., Colonizaciones, p. 484, fig. 435;
BLANCO, Orientalia, p. 16, figg. 6 C, 21.
C. DENSMORE CURTIS, The Bernardini Tomb (= Extractfrom the Memoirs ofthe American Academy in Rom,
III, 1919), tavv. XIV, XXXVI-XXXVII. Il BLANCO, Orientalia, p. 16, avvicina il cavaliere della placca di
Bencarron, oltre a quello della coppa di Palestrina, alle analoghe figure egittizzanti a cavallo sugli avori della
stessa tomba Bernardini e sulla patera di Idalion.
P. MARCONI, La cultura orientalizzante nel Piceno : M.A.L., XXXV, 1935, tav. xxv b (avorio scolpito del
VII / VI secolo dalla necropoli picena di Castelbellino).
BLANCO, Orientalia, p. 17, fig. 8.
28
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGTNE
Benché l'ultimo studioso che si è occupato del pezzo, il Blanco, l'annoveri fra le
placche in avorio, pur riconoscendo che la figura rappresenta Isis o Nephtys con
in mano il fiore di loto77, noi saremmo inclini a vedervi un frammento di pettine
identico quindi nel motivo figurato agli esemplari cartaginesi del Bardo.
Date le misere condizioni dell'oggetto, tuttavia, preferiamo trattarne in questa
sede piuttosto che includerlo nell'elenco dei pettini spagnoli.
Infine, esistono alcune placche con scene di lotte ferine che segnano il passaggio
ai pettini incisi. Si tratta sempre dei soliti animali, grifoni, tori e leoni, che in genere
contendono fra loro per il possesso di una gazzella78, ma il viluppo inestricabile di
membra delle scene di lotta sulla placca giblita dalla tomba di Ahïràm e sugli altri
avori del Tardo Bronzo siriani e micenei79 si è frantumato qui in coppie antitetiche o
in triadi di figure zoomorfe alquanto rigide e convenzionali.
La stessa incipiente stilizzazione, seppur in una veste iconografica più sontuosa
ed accurata, appare in altre due placche con animali dall'Andalusia (Mairena
d'Alcor)80. Fra due listelli ornati da palmette di tipo cipriota sono rappresentati,
rispettivamente, uno stambecco81 con la testa abbassata fra due leoni, e due sfingi o
grifoni (manca sfortunatamente il capo) passanti in direzione opposta, l'uno con l'ala
aperta, l'altro con l'ala ripiegata lungo il fïanco e con un uccello sul dorso, riguardante
verso un ornamento floreale a ventaglio. La muscolatura del primo animale ricorda
quella di alcune fiere sugli avori siro-palestinesi, ad esempio quella di un toro
assalito da un grifone da Megiddo82 (fig. 3 a), mentre la pelle maculata è trattata con
lo stesso procedimento di quella del cerbiatto sul pettine di Amatunte
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Ibidem, p. 17.
BONSOR, Colonies, pp. 242-43, n. Iv (senza riproduz.), figg. 44-47; BELLIDO, Fenicios, pp. 227, fig. 7;229,
fig. 8; ID., Colonizaciones, pp. 484, fig. 434; 485, fig. 436; Blanco, Orientalia, pp. 19-21, figg. 6 D, 14-15.
Per la placca dalla tomba di Ahiram cfr. C. Decamps, Inventaire, cit., tav. LXV, n. 704. Sugli avori micenei
cfr. La nota 46. Le scene di lotta fra due o più animali sono particolarmente frequenti sugli avori di Megiddo,
che
per la loro più antica origine meglio serbano il ricordo delle analoghe rappresentazioni egee C. Decamps,
Inventaire, cit., tavv. xxIv, n. 389; n. 315; xxvIII, nn. 390, 393; xxxv, nn. 305 c-d). Nel I millennio, invece, è
preferita la scena di lotta fra un eroe e un grifone o un leone, che già trovava addentellati nella produzione
eburnea del Tardo Bronzo (cfr. soprattutto alcuni avori di Enkomi : ibidem, tavv. LXXII, n. 799; IXXII, n.
798).
F. CHICARRO, Actividades arquelógicas en Andalucia: A.E.A., XXV, 1952, p. 190, figg. 69-70; BLANCO,
Orientalia, fig. 4.
Si noti tuttavia che le maculature della pelle si addicono di più a uno stambecco, mentre d'altro canto il
collo tozzo e possente, segnato da fitte pieghe parallele, somiglia a quello di un toro.
C. DECAMPS, Inventaire, cit., tav. XXVII, n. 315.
29
AFRICA
sopra menzionato. Tuttavia il fregio a grandi palmette e soprattutto k rigida
disposizione antitetica, completamente scissa dalla realtà, dei due animali fantastici
sull'altra placca, mostrano un'ispirazione più prossima agli avori siriani del I
millennio. I pettini della Spagna meridionale sono di tre tipi principali :
quadrangolari con piccoli incavi nella parte superiore dei lati corti; trapezoidali con
una sok fik di denti; rettangolari, assai allungati, pure con una fascia semplice di denti.
Essi corrispondono cioè al primo, secondo e quarto gruppo della nostra
classificazione dei pettini cartaginesi, secondo il seguente schema :
Cartagine Spagna
SiriaPalestina
Cipro
Sono per lo più incisi su entrambi i lati e presentano, con qualche eccezione, la stessa
incorniciatura a denti di lupo che già osservammo a Cartagine.
Possiamo raggruppare i numerosi pettini andalusi in tre gruppi, a seconda che
provengano da La Cruz del Negro, dall'Acebuchal (Carmona) e da Osuna83.
83
Si considerano in quest'elenco gli esemplari che ci sono stati accessibili con le loro riproduzioni nelle varie
biblioteche italiane. Ci è stato impossible invece consultare l'opera di G. BONSOR, Early Engraved Ivories, NewYork 1928.
30
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
A.
La Cruz del Negro
n. 184 (fig. 4 g-h). Su un lato è un leone accovacciato, con la lingua pendula e il
vello della criniera reso da un disegno a reticolato. Un uccello è sul suo dorso, volto
in senso contrario, mentre un altro, riguardante nella stessa direzione della fiera, si
libra fra le zampe anteriori. Sull'altro lato è una lepre85 con un uccello sul dorso volto
in direzione contraria rispetto ad essa.
n. 286. Pettine inciso su un solo lato. Le linee zigzagate sono raddoppiate nel
listello del lato lungo superiore mentre sono assenti su quello che funge da base a
due gazzelle retrospicienti, coricate fra steli di papiro che spuntano accanto ad esse e
dietro il loro dorso.
n. 3 87 (fig. 4 a-b). Questo pettine è quello che più si avvicina nella forma e nelle
dimensioni, se non nella decorazione figurata, all'esemplare cartaginese della collina
di Giunone. La stessa scena - particolare non infrequente su questi pettini spagnoli
(cfr. i nn. 6, 8-9) - si ripete sui due lati : un leone con la lingua pendula (questo
espediente vuole forse ingenuamente mostrare la ferocia dell'assalto, che le membra
rigide, stizzate della bestia non riescono più ad esprimere) pone la zampa sinistra sul
dorso di una lepre, o coniglio, coricata88, la quale sembra insensibile all'attacco
dell'awersario. Le due scene variano per alcuni piccoli particolari : su un lato accanto
al flore di loto che spunta dal dorso della vittima se ne pone infatti un secondo di tipo
diverso, col calice più espanso; sull'altro lato è assente il flore ma ricompare il
consueto uccello, accovacciato sul dorso del leone e volto in direzione contraria
rispetto ad esso.
n. 489 (fig. 4 e-f). Pettine con tracce di color rosa sul fondo. Assai frammentario.
Varia la decorazione della cornice che non reca più il solito motivo dei denti di lupo,
bensi un fregio a spirali, analogo a quello che appare già sugli avori siriani del
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BONSOR, Colonies, pp. 280, 281, figg. 102-103; BELLIDO, Fenicios, p. 235, fig. 11; id., Colonizaciones,
p.477, fig. 415 (la foto mostra che il disegno dato dal BONSOR è alquanto diverso dall’originale);
BLANCO, Orientalia, p. 18, fig. 25.
Il BONSOR considéra l'animale una gazzella. In realtà le due lunghe appendici sinuose sul muso hanno più
l'aspetto di orecchie di coniglio o di lèpre che di corna di gazzella. Nello stesso senso cfr. BLANCO,
Orientalia, pp. 20-21.
BONSOR, Colonies, pp. 280, 281, fig. 104; Bellido, Fenicios, p. 239, fig. 13; id., Colonizaciones, p. 476,
fig. 414.
BONSOR, Colonies, pp. 282-83, figg. 115-16; BELLIDO, Fenicios, p. 233, fig. 10; id., Colonizaciones,
p.476, fig. 412; D. HARDEN, I Fenici, cit., p. 229, fig. 67; BLANCO, Orientalia, pp. 18, 20, fig. 28.
Cfr. quanto si è osservato sulla natura dell'animale alla nota 85.
BONSOR, Colonies, pp. 283-84, figg. 117418; BELLIDO, Fenicios, p. 245, fig. 16; id., Colonizaciones,
p.476, fig. 413.
31
AFRICA
Il millennio (fig. 3 b). Su un lato è un cavallo accanto ad una pianta quasi
interamente perduta; sull'altro appaiono un animale (di cui resta solo una della zampe
anteriori terminante con uno zoccolo) e un uccello svolazzante nel campo, in alto a
destra, mentre due steli sormontati da due palmette cipriote sorgono dall'angolo
inferiore di sinistra.
n. 590. Pettine con la rappresentazione di un leone di profilo a destra, il quale
occupa tutta la superficie del campo, circondata dalla consueta cornice con motivo a
zigzag. Il leone dovette essere stato concepito all'origine corne balzante su una preda
immaginaria ma l'inesperienza dell'artigiano non ha reso che molto imperfettamente
l'atteggiamento impetuoso, si che le zampe anteriori della fiera si tendono in avanti
senza vita e quasi si afflosciano a terra, mentre quelle posteriori rimangono rigide ed
erette in modo del tutto innaturale. La stessa caratteristica appare, sebbene meno
accentuata, nel pettine del Louvre sopra citato (cfr. la nota 38) con il leone che
assale il cerbiatto.
B.
Acebuchal
n. 691. Pettine rettangolare allungato recante sui due lati lo stesso motivo : due
gazzelle accosciate e antitetiche accanto a una grande palmetta cipriota, cioè con le
corolle di sepali che si aprono a ventaglio dal centro di una grande voluta avente le
estremità piegate all'indentro. Sopra i dorsi degli animali sono sospesi due boccioli
che spuntano da uno stelo obliquo sporgente dalla parte superiore del campo, mentre
altri due boccioli compaiono accanto alla grande palmetta centrale solo in una delle
due scene similari.
n. 792 (fig. 4 c-d). Su un lato appare una sfinge alata di tipo egiziano, con klaft e
grembiale fra le zampe anteriori93, incedente verso destra; dietro l'animale spunta un
elemento vegetale palmiforme. Sull'altro lato un personaggio a cavallo è seguito da
un uomo a piedi con corto gonnellino e lunghi capelli. Il cavaliere (quasi del tutto
cancellato da una rottura dell'oggetto in questo punto) sembra impugnare un frustino
o un altro oggetto col braccio teso.
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BELLIDO, Colonizaciones, p. 477, fig. 416.
BONSOR, Colonies, pp. 289, 290, figg. 132-133; BELLIDO, Fenicios, p. 241, fig. 14; ID., Colonizaciones, p.
481, fig. 424.
BONSOR, Colonies, p. 290, figg. 134-135; BELLIDO, Fenicios, p. 243, fig. 15; ID., Colonizacionesp.481,
fig.425.
Si tratta quindi del secondo esemplare di provenienza siriana, stante il particolare del panno fra le zampe,
secondo quanto afferma il BLANCO, Orientalia, p. 18, che tuttavia ricorda soltanto la placca frammentaria
da Santa Lucia (fig. 3 A) con questo motivo.
32
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
n. 894. Come il precedente, questo pettine, di forma rettangolare allungatissima,
reca i listelli della cornice senza decorazione alcuna. Su un lato un grifone e un leone
attaccano dalle due estremità della scena tre gazzelle accosciate, tutte retrospicienti e
poste l'una accanto all'altra sulla stessa fila. Sul retro la scena è di poco différente : due
grifoni nell'atteggiamento standardizzato dell'assalto, gradienti di profïlo, con una
delle zampe anteriori sollevata, artigliano due gazzelle accosciate retrospicienti,
mentre un fiore di loto in cima a uno stelo funge da elemento di separazione dei due
animali coricati. Si nota in questo pettine, più che negli altri esemplari, la cura di
simmetria che ricerca i ben equilibrati accostamenti di figure anche a scapito della
realtà naturale dell'immagine e con il rischio di ingenerare una certa monotonia.
C.
Osuna
n. 9 95. Pettine di forma rettangolare allungata su cui ricompaiono i fregi a dente
di lupo. Su entrambe le facce sono due gazzelle coricate, dietro al dorso delle quali
sporgono dei fiori di loto sorgenti su un massiccio stelo. A differenza degli altri due
pettini de La Cruz del Negro, in cui le proporzioni raccorciate e gonfle dei corpi e le
enormi orecchie carnose evocano piuttosto l'immagine di una lèpre o di un coniglio,
qui le silhouettes snelle e allungatissime degli animali serbano abbastanza ben
riconoscibile la loro natura.
Û
Dalla semplice elencazione dei motivi che appaiono sugli avori spagnoli risulta
come sotto certi aspetti questi ultimi si differenzino dai pettini cartaginesi. In linea di
massima possiamo affermare che il repertorio figurativo è più variato (diretta
conseguenza della loro maggioranza numerica rispetto ai pezzi cartaginesi), più
fenido che assiro.
94
95
BELLIDO, Fenicios, p. 237, fig. 12; ID., Colonizaciones, p. 480, fig. 422; W. CULICAN, The First Merchant
Venturers, cit., p. 149, fig. 34. II BLANCO (Orientalia, p. 20 figg. 26-27, dà come luogo di provenienza La
Cruz del Negro.
A. ENGEL- P. Paris, Une forteresse ibérique à Osuna (fouilles de 1903J : Nouvelles archives des missions
scientifiques, XIII, 1906, pp. 479-84, tav. XXXIX A-B; B ELLIDO , Fenicios, p. 253, fig. 20; ID.,
Colonizaciones, p. 486, fig. 440.
33
AFRICA
I cavalieri egittizzanti con il frustino in pugno, i personaggi inginocchiati in
atto di cacciare un animale, sono diffusi sulle patere metalliche del I millennio e
sugli altri prodotti dell'artigianato fenido96. Del pari, le lotte ferine, gli animali
antitetici o fiancheggianti una palmetta, sono ben radicati nel repertorio siriano del
IX-VIII secolo a. C, come lo erano in quello del millennio precedente. Per converso,
esistono altri elementi che non possono ricondursi ai modelli della madrepatria
fenicia e che perció, nella loro diversa attestazione nei due territori punici, assumono
ben altro peso.
L'elmo di foggia greca del guerriero sulla placca di Carmona costituisce il primo
punto di differenziazione dagli avori cartaginesi, giacché ogni influsso greco è assente
in questi ultimi97. Gli uccelli sul dorso degli animali pacificamente passanti sembrano
del pari estranei al repertorio vicino-orientale propriamente detto, e da ricondursi ad
una influenza della ceramica greca arcaica, proto-corinzia e rodio-milesia98. Per il
resto, tuttavia, esistono stringenti analogie fra pettini spagnoli e cartaginesi, sia nella
forma dei pettini, sia nella tematica, includente molti motivi identici, i quali mostrano
di discendere da una stessa fonte, che è stata con buone ragioni riconosciuta di
origine siro-palestinese. In conclusione, anche dopo un'analisi più dettagliata
rimane ferma la stretta parentela, già asserita dai primi commentatori, fra pettini
cartaginesi e spagnoli, onde questi ultimi avranno gran peso in sede di un esame
comparativo generale.
V.
Gli avori orientalizzanti etruschi
Nel suo recente studio sugli avori di Carmona il Blanco Freijeiro ha additato i
numerosi paralleli esistenti fra alcuni motivi degli avori spagnoli e quelli che appaiono
sugli avori, le patere e gli altri oggetti metallici orientalizzanti rinvenuti nelle tombe
etrusche. Il cavaliere egittizzante, seduto all'indietro sul cavallo e con il
96
97
98
C. DENSMORE CURTIS, The Bernardini Tomb, cit., tavv. XIV, XVIII, XXXVI-XXXVII ; F. Poulsen, Der Orient,
cit., figg. 13, 15, 17-19; C. PERROT-CH. CHIPIER, Histoire de Art, cit., figg. 305, 444, 544, 548; R. L.
ALEXANDER, The Royal Hunt, cit., figg. 2-6; E. GJERSTAD, Decorated Metal Bowls from Cyprus, cit.,
tavv.IV,VIII-IX; R. REBUFFAT, Une pyxis d'ivoire perdue de la tombe Regolini-Galassi : M.E. F., LXXIV,
1962; figg. alle pp. 371-74.
Su quest'elmo che sembra di origine urartea, seppure è adottato a partire dall' VIIl secolo in Grecia, cfr.
BLANCO, Orientalia, p. 15; A. M. SNODGRASS, Carian Armourers. The Growth of a Tradition : J. H. S., LXXXIV, 1964,pp. 114-16;ID., Early Greek Armours and Weapons from the End ofthe Bronze Age to 600 b. c,
Edinburgh 1964, pp. 20-28.
Uno degli esempi piu famosi in quest'ultima classe vascolare greca è l’oinochoe Lévy del Louvre, del VII
secolo a. C. : C. V. A., Paris, Musée du Louvre, II Dc, tavv. VI, 2 ; vu ; F. MATZ, Geschichte der Griechischen Kunst, I, Frankfurt am Main 1950, p. 278, tav. CLXXXIV.
34
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
frustino sollevato sulla testa, appare ad esempio sulla patera d'argento della tomba
Regolini Galassi e su alcuni avori della tomba Bernardini di Preneste (cfr. la nota
74). Il leone con le mascelle digrignanti della placca di Mairena de Alcor è assai vicino
a quello del supporto di lebete della tomba Regolini-Galassi99. Sfingi e grifoni sono
frequenti sugli avori orientalizzanti provenienti dalle tombe di Marsiliana d'Albegna,
di Preneste, di Caere100. Poiché sono testimoniati, a partire dalla metà del VI secolo,
rapporti fra l'Etruria e la Spagna101, e rapporti strettissimi esistono pure, sebbene in un
periodo alquanto posteriore, fra Cartagine e l'Etruria102, potremmo anche postulare
una influenza o un intervento diretto delle scuole italiane nella fabbricazione dei
nostri pettini. In realtà due esempi, scelti a caso, mostrano quali profonde divergenze
iconografiche e stilistiche esistano fra avori spagnoli ed avori etruschi, e come dei
temi comuni alia produzione tirrenica e a quella iberica si spieghino inquadrandoli
nello stesso fenomeno culturale «orientalizzante» che tocca la Grecia, l'Etruria e la
Spagna meridionale apportando in tutte queste regioni mediterranee gli stessi
motivi ripresi dal repertorio siro-palestinese e cipriota del I millennio103.
Un avambraccio della tomba Barberini di Preneste, databile al 600 a. C.104 (tav. VI,
1), présenta palmette di tipo cipriota identiche a quelle che appaiono sui pettini
spagnoli, composte come sono da un'unica grande voluta nell'interno della quale
99
100
101
102
Il paragone è del Blanco, Orientalia, p. 18.
Huls, Ivoires, tavv. III, 6; VII, 1-2; VIII, 2;XIIIXV, ecc.
A. Garcia y Bellido, Las relaciones entre el arts etruscoy el ibero : A. E. A., VII, 1931, pp. 119-48.
Et. Colozier, les Étrusques et Carthage: M.É.F., I.XV, 1953, pp. 63-98; Ét. Boucher, Céramique archaïque
dimportation au Musée Lavigerie de Carthage : Cahiers de Byrsa, III, 1953, pp. 11-38, in particolare pp.
29ss., 34 ss. I rapporti fra Cartagine e l'Etruria hanno ricevuto una clamorosa conferma dalla scoperta,
avvenuta nell'estate del 1964, di una lamina con iscrizione punica, consacrata ad Astarte, nel santuario di
Pyrgi
e risalente allo inizio del V secolo a. C. : M. Pallottino e altri, Scavi nel santuario etrusco di Pyrgi.
Relazione preliminare della settima campagna 1964, e scoperta di tre lamine d'an inscritte in etrusco e in
punico : Estratto da Archeologia Classica, XVI, 1964, pp. 49-117. Tutta laquestione è ora riassunta. con
nuovi argomenti a favore deglistretti rapport : intercorrenti fra l'Etruria e Cartaginegià nel VII secolo a-c.
da J. Ferron, Les relations de Carthage avec l'Etrurie : Latornus, XXV, 1966, pp. 689-709, tavv.XVIIIXXVI.
103
104
Dell'iscrizione punica hanno dato una traduzione, discordante in alcuni particolan, i proff. G. LEVI DELLA
VIDA e G. GARBINI (ibidem, pp. 66- 76). II lavoro di deciframento e di interpretazione da parte di altri
studioti è, puó dire, appena agli inizi e siamo certi che nuovi ed interessanti elementi si trarranno dalla
dedica di Pyrgi, atti a ricostruire la penetrazione punica sul litorale tirrenico.
Cfr. da ultimo M. PALLOTTINO s. v. Orientalizzante : Enciclopedia Universale dell'Arte, X, Roma 1963,
coll. 223-237.
Huls, Ivoires, p. 44 ss., n. 25, tav. xv, 3.
35
AFRICA
spunta la corolla raggiata di petali. Ma appena osserviamo i motivi teriomorfi,
notiamo profonde divergenze rispetto ai pettini di Carmona. II grifone dell'avorio
etrusco si ispira infatti ai mostri elaborati su modelli tardo-hittiti nella Ionia del VII
secolo e le cui caratteristiche distintive sono date dalla grande protuberanza frontale a
bottone, dal becco aperto e dall'ala falcata; quelli sui pettini spagnoli, invece, sono
una copia fedele dei prototipi siro-palestinesi del I millennio (fig. 3 e). Lo stesso tipo
di grifone ionico appare sulle lastre in nenfro, di carattere funerario, provenienti dalla
regione di Tarquinia e datate al VI secolo a. C.105 (tav. VI, 2). Anche gli altri animali
che decorano i quattro registri in cui è suddiviso l'avambraccio Barberini hanno una
maggior vivezza di atteggiamento rispetto agli esemplari fenici, e mostrano di tener
presenti modelli ionici, come indica anche la figura di un centauro che appare su
questo gruppo di avori e che è evidentemente ripreso dall'arte greco-orientale106.
Anche la sfinge femminile degli avori etruschi è, tranne qualche rara
eccezione107, del tipo ellenico arcaico, ripreso dai modelli protoattici, con il ricciolo
pendente dalla nuca e, in epoca posteriore, l'Etagenperücke, mentre non è attestata
quella di tipo egiziano, col klaft e l'ala tesa rigidamente sul fianco, quale appare su
alcuni degli avori spagnoli, ricollegandosi ai prototipi siriani di Arslân Tas,
yorsâbâd, Nimrûd e Samaria108 (fig. 3 d).
Infine, è da notare che animali accosciati, con tutte e quattro le zampe poste
sulla linea di terra e i corpi dalle proporzioni elegantissime e dal rendimento
sommario delle membra, appaiono solo in placche d'osso e d'avorio dell'Etruria
centrale e settentrionale di epoca più tarda109 e non possono quindi esser presi in
considerazione in un esame comparativo.
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107
108
109
G. Q. GIGLIOLI, L'arte etrusca, Milano 1935, tavv. LXXI, 1-2; LXXIII, 3;LXXIX, 1-4; G. COLONNA - C. ANTONACCI, I lastroni di pietra arcaici di tipo tarquiniese (di prossima pubblicazione negli Studi e Materiali
Dell Istituto di Etruscologia e Antichità Italiche dell'Università di Roma).
HULS, Ivoires, p. 152.
Ibidem, pp. 31-32, n. 1, tav. II, 2. (pisside dalla tomba Regolini-Galassi, ciclo orientalizzante antico, 750,
725 (?)-675/650 a.C). E' da notare che la HULS considéra questa pisside (p. 139) un'opera impoftata in Etruria, fabbricata da un artista straniero che risentiva della tradizione délie botteghe cipriote. Secondo R. REBUFFAT. Une pyxis d'ivoire perdue, cit., pp. 407-08, è più probabile pensare alla Siria come luogo di origine.
C. DECAMPS, Inventaire, cit., tavv.IX, nn. 94, 95 a; x, n. 96;XI, nn. 111, 112 (Samaria); LXXVIII-LXXIX (Arslân
Tas); C-CV (Horsâbâd); CX, nn. 1027-1029 (Nimrûd).
Huls, Ivoires, tavv.XLI, 2-3;XLII, 2-3; XLIII, 1-4;XLIV, 1-4;XLV, 1-4 (ciclo classico antico : 475/450 (?) 425/400 a. C. ). E' da notare che placchette rettangolari in osso con animali accovacciati provengono da
una tomba di Nora (G. PATRONI, Nora colonia fenicia in Sardegna : M.A.L., XIV, 1904, coll. 202-204, fig.
19. Alla seconda fase della tomba (fine del V - IV secolo a. C.) il Patroni attribuisce le placche con animali,
e questa datazione coincide con quella assegnata agli avori etruschi.
36
I PETTTNI D'AVORIO DI CARTAGINE
Da quanto si è osservato, deriva che un'influenza etrusca sui pettini spagnoli e
su quelli cartaginesi è da escludersi. Motivi quali gli animali fantastici, le palmette di
tipo cipriota, i personaggi egittizzanti o assirizzanti in piedi sul carro (si noti a questo
proposito come il carattere assiro dell'auriga del pettine del Bardo sia andato perduto
nel sovrano eretto sotto il parasole nel fregio più esterno della coppa Bernardini, il
quale reca per giunta sulla spalla un'ascia lunata a duplice occhiale, di tipo siriano !)
derivano sia all'Etruria, sia a Cartagine e alla Spagna dal repertorio siro-palestinese,
che costituisce una delle correnti principali di ispirazione del movimento artistico
orientalizzante di diffusione panmediterranea.
VI.
Lo stile e la decorazione dei pettini cartaginesi e spagnoli
Esclusa l'origine o la mediazione etrusca, la teoria che si presenta più facile e
spontanea, data l'innegabile analogia di tematica, è quella dell'origine fenicia dei
pettini e, in genere, degli avori nord-africani e spagnoli. Sulla scia del Barnett, che
circa venticinque anni addietro postulava una migrazione verso l'Occidente di
artigiani fenici in seguito all'annessione del territorio costiero siriano all'impero
assiro nel primo trentennio del VII secolo110, il Blanco Freijeiro suppone che una
scuola di incisori di avorio si sia insediata a Tartesso o a Cadice, cosi come altre si
insediavano a Cartagine e in Etruria, dando inizio a una fiorente produzione nel
territorio andaluso, continuata poi da maestranze locali. Non altrimenti, infatti, si
spiegherebbero il pregressivo allontanamento degli avori spagnoli dal repertorio
fenicio e la decadenza stilistica, visibile soprattutto nelle placche di Bencarron e degli
«inumati» dell'Acebuchal (650-600 ? a. C.) e, più ancora, nelle placche a traforo
dell'Alcantarilla e dell'Acebuchal (600-450? a. C.)111.
La classificazione tipologica e cronologica del Blanco ci sembra a tutt'oggi valida, anche se discordiamo dall'autore in qualche punto secondario112. Occorre dire
110
111
112
R. D. BARNETT, Early Greek and Oriental Ivories : J.H.S., LVIII, 1948, p. 6.
BLANCO, Orientalia, pp. 22-25; ID.,Die klassischen Wurzeln der Iberischen Kunst : MadriderMitteilungen,
I, I960, pp. 104-10.
Tanto per fare un esempio, l'autore non si è accorto (ibidem, p. 15) che il guerriero che lotta contro un leone
sulla scatola di Enkomi - la quale, fra parentesi, non è del IX secolo ma del XII - non ha elmo di tipo urarteo,
ma l'acconciatura in forma di corona di piume tipica dei Filistei, quali sono rappresentati sui bassorilievi
egiziani del Nuovo Regno, a Karnak e a Medïnet Habû : H. TH. BOSSERT, Altsyrien, Tübingen 1951, nn.
954-955.
37
AFRICA
tuttavia che nel suó studio non si accenna mai, se non di sfuggita, ai pettini cartaginesi,
alcuni dei quali l'autore non sembra neppure conoscere. L'aver riunito per la prima
volta gli esemplari cartaginesi in un elenco il più possibile completeo, basato sui pezzi
noti e su una ricognizione diretta nei Musei di Tunisi e di Cartagine, puó portare a
sensibili modifiche delle teorie già stabilité. Alla luce dei nuovi dati acquisiti riteniamo
infatti molto probabile che sia i pettini spagnoli sia quelli cartaginesi siano il prodotto
di una bottega nord-africana.
Con ció non vogliamo escludere l'indubitato carattere fenicio del loro repertorio,
del resto già da gran tempo generalmente riconosciuto, e il fatto, giustamente posto in
luce dal Blanco, che queste scuole si impiantano sulle coste del Mediterraneo
occidentale ad opera di maestranze fenicie. Che gli intagliatori d'avorio venissero poi
dalla Fenicia soggetta all'Assiria in qualità di transfughi politici, è un'idea abbastanza
credibile, anche se si puó supporre con altrettanta verosimiglianza che essi
giungessero in Occidente sulla via dei pacifici traffici e scambi commerciali attivi già
alla fine del II millennio, ricalcando le vie seguite dall'espansione transmarina dell'età
micenea, che sfociano poi nella fondazione di insediamenti stabili, vere e proprie
colonie, quali ad esempio Utica, Cartagine e Gades.
Qualunque siano stati i motivi che spinsero un cospicuo numéro di artigiani
fenici ad emigrare verso il lontano Occidente (quelli sopra esposti non sono
inconciliabili l'uno con l'altro e possono aver coesistito), quel che importa rilevare è
il fatto che i numerosi pettini rinvenuti a Cartagine attestano una scuola di incisori
d'avorio, analoga a quella spagnola, altrettanto ben stabilita su basi fenicie e la cui
produzione dovette abbracciare un ampio arco temporale, come mostra
Fevolu-zione (o sarebbe meglio chiamark involuzione) stilistica e tipologica che nel
suo ambito si riscontra. In quale posizione queste botteghe cartaginesi si trovino
rispet-to a quelle fiorenti nella Penisola Iberica, diremo appresso. Per ora limitiamoci a
un'accurata analisi iconografica e stilistica del materiale nord-africano sullo sfondo
comparativo della produzione vicino-orientale.
La tematica dei pettini cartaginesi si inquadra per la maggior parte nel repertorio
siro-palestinese del II e del I millennio. La comparsa di alcuni motivi e l'assenza di altri
(quali la parakyptousa, la donna nuda prementesi i seni, la vacca allattante il vitello),
già rilevata dal Blanco113, non sono a nostro giudizio determinanti, giacché è ovvio che
se si mettono di fronte da un lato l'amplissima produzione dell'Asia Anteriore antica,
dall'altro gli scarsi documenti spagnoli e cartaginesi, per giunta
113
BLANCO, Orientalia, p. 22.
38
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
ridotti a uno stato miserando, risulteranno la varietà e ricchezza di motivi dei
primi, che hanno le loro ragioni di essere nella schiacciante maggioranza numerica.
Piuttosto, quel che è più significativo e più interessante da rilevare, è la preferenza,
pur nella ristretta serie di esemplari occidentali noti, data ad alcuni motivi, rispetto
ad altri, che pure sono ben attestati nel repertorio siro-palestinese : gli animali
antitetici e le lotte di animali fra loro, in cui è raro il protagonista umano, le figure
profilattiche dalle ali allargate di tipo prettamente egiziano (Isis e Nephtys).
La forma del pettine con incavi laterali non ha diretti paralleli nel Vicino Oriente, se si eccettuano i pettini di Megiddo e quelli di Cipro, i cui lati hanno una
sensibile curvatura, che si estende peró su tutta la verticale della fascia istoriata. Si noti
inoltre, come già faceva rilevare il Bonsor114, il carattere eminentemente funerario di
questi pettini, che sembra più spiccato nel mondo punico che non nella Fenicia
propria. Si potrebbe facilmente obiettare che le più antiche testimonianze dell'arte
cartaginese provengono tutte da tombe perché fino ad oggi non si è individuato alcun
resto di costruzioni civili che risalgano al VII, VI secolo a. C. Tuttavia alcuni dei
pettini spagnoli hanno le file di denti semplicemente incise115, onde doveva trattarsi di
oggetti non adoperati nella vita quotidiana, ma creati per un esclusivo uso funerario,
forse come garanti e testimoni della continuazione dell'esistenza del defunto nel
mondo ultraterreno116.
Un carattere profilattico dovevano avere anche le sfingi e i grifoni che appaiono
su questi pettini, come pure le due dèe dalle ali allargate (in un caso sostituite da due
genî assiri), riprese dall'iconografia egiziana di Isis e Nephtys proteggenti Horo
fanciullo. Che questi motivi conservino nel mondo punico un significato magico e
religioso, mentre al contrario sembrano essere spesso scaduti a una mera funzione
ornamentale nella madrepatria fenicia, ci sembra non sia stato fin qui sufficientemente
poste in evidenza. Ció è confermato dal fatto che alcuni dei motivi dei pettini
cartaginesi compaiono su altri oggetti dell'artigianato punico aventi un indubbio
significato cultuale e votivo. Sui rasoi rituali nei quali si attarda, fino in piena età
ellenistica (IV-III sec. a. C), il repertorio di tradizioni figurative vicino-orien-tali
sempre più contaminate da influenze greche, appaiono le figure egittizzanti,
114
115
116
BONSOR, Colonies, p.281.
Ibidem, p. 292.
Sulle credenze puniche dell'oltretomba nulla sappiamo dalle fonti. Qualche lume sulle tradizioni funerarie
ci danno pochi documenti figurati, fra i quali emerge una stela dal tophet di Salammbô a Cartagine, con una
sacerdotessa che versa una libagione sopra un tumulo : G. CH. PICARD, Les religions de l'Afrique antique, Paris
1954, p. 34, fig. 2. Cfr. anche, della scrivente, La religione punica nelle rappresentazioni figurate delle stele votive:
S.M.S.R., xxxvI, 1965, p. 115.
39
AFRICA
fra le quali Isis con le ali allargate proteggente il giovane Horo117, fiori di loto118 e, in un
caso, anche un uccello posto sul dorso di un leone119. Figure di cavalli e di
cavalieri120 , palmette cipriote121 e fiori di loto122 sono attestati, anche se assai più
raramente, sulle stele rinvenute nel tophet di Salammbô e commemoranti il sacrifico
dei fanciulli a Tanit e a Bacal Hammon.
Che anche i pettini cartaginesi non possano ricondursi, sic et simpliciter, alla
produzione fenicia, che cioè non possano considerarsi oggetti importati, risulta
chiaro da vari elementi di carattere tipologico e stilistico.
Abbiamo detto che le scene di lotta ferina hanno parte preponderante nella
tematica dei pettini spagnoli. Anche in quelli cartaginesi sono attestate con lievi
varianti. Ma sugli avori vicino-orientali da cui i nostri visibilmente derivano, il
combattimento fra due animali si configura in modo del tutto diverso : abbiamo o gli
animali attorti in un viluppo spasmodico di membra, in cui è presente un forte
influsso cretese-miceneo, o l'assalto della bestia feroce (leone, grifone) che si
precipita sul dorso della vittima, rappresentata passante o nell'atto di piegare le
ginocchia sotto il peso dell'assalitore, mai coricata sulle quattro zampe in
atteggiamento tranquillo, come sui pettini cartaginesi e spagnoli. Si aggiunga
l'eccessiva semplificazione stilistica di cui molti di questi avori danno pro va; in
particolare, il segno M che il Bonsor ingenuamente riteneva la lettera fenicia šin,123 è
una sciatta e frettolosa imitazione della stilizzazione «a fiamme» della groppa e dei
glutei degli animali sugli avori siro-palestinesi124. Talora questa estrema sommarietà
delle notazioni organiche si accoppia ad una vera e propria sciattezza d'esecuzione : si
vedano ad esempio il torace esageratamente gonfio e la balaustra del carro che
giunge
117
118
119
120
121
122
123
124
GAUCKLER, Nécropoles, I, tav. cxcv, 1 ; J. VERCOUTTER, Les objets égyptiens et égyptisants du mobilier funuéraire
carthaginois, cit., p. 307, fig. 23.
J. VERCOUTTER, op. cit., taw. xxvII, nn. 900-902, 904-907; xxvIII, n. 909.
Ibidem, p. 309, fig. 27. E'tuttavia da notare che questo uccello, che è eretto sul dorso dell'animale e non coricato come gli altri uccelli che appaiono sui pettini spagnoli e cartaginesi, sembra tenere per il becco un
serpente, onde l'iconografia deriva, più che dai modelli vascolari greci, dalle scene magiche di ispirazione
egiziana, presenti nella stessa Cartagine nei rotoli di laminette auree conservate in astucci a testa di falco e
recanti figure apotropaiche riprese dai testi magici egiziani (ibidem, pp. 311-37). Anchç il grifone che appare nell'esergo di un altro rasoio (ibidem, p. 309, fig. 26) mostra di essere stato ripreso dai tipo del grifone
egiziano ch h anziché da quello che appare nell'arte siro-palestinese.
G. CH. PICARD, Les religions de l'Afrique antique, cit., pp. 52-55, fig. 5; M. HOURS-MIEDAN, Les représenta
tions figurées sur les stèles de Carthage : Cahiers de Byrsa, I, 1951, tav. xxv.
CI.S., I, n. 1781.
M. HOURS-MIEDAN, Les représentations figurées, cit., tavv. Ix a, f, k, o; xI e; xIx e; xxI b-c, e-f.
BONSOR, Colonies, p. 284; cfr. anche A. ENGEL-P. PARIS, Une forteresse ibérique à Osuna, cit., p. 482.
Nello stesso senso cfr. già il BLANCO, Orientalia, p. 18.
40
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
fino al petto del cavaliere sul pettine del Bardo, o i due grifoni fiancheggianti una
palmetta su un altro pettine del Museo di Tunisi, ridotti al solo avancorpo,
evidentemente per mancanza di spazio e di un ben calcolato disegno preliminare,
mancanza che risulta anche dalle linee incerte e semicancellate della palmetta centrale
che sembra aver ricoperto, nella forma in cui l'abbiamo, un motivo in origine
progettato diverso.
Come accennammo sopra, il repertorio dei pettini cartaginesi è più vicino di
quello spagnolo alle sorgenti orientali. Sembrano infatti assenti nell'Andalusia i
particolari di origine assira, quali i genî dalla lunga veste frangiata che lascia scoperta
una gamba e l'adorazione dell'albero sacro da parte di due figure egittizzanti, una
delle quali riprende la tipologia di Isis e Nephtys, attestata da un pettine cartaginese.
D'altra parte, mancano fra gli avori fenici alcuni motivi presenti sugli avori cartaginesi.
Se le dèe egiziane con le ali spiegate, che sono con tutta probabilità una delle fonti di
ispirazione della concezione biblica dei kerub/m, sono ampiamente attestate sugli avori
siro-palestinesi, oltre che sulle patere metalliche «fenicio-cipriote», nella stessa veste
figurativa e, si noti, già con la sostituzione dell'albero sacro formato da palmette
cipriote sovrapposte a Horo sul loto125, non esistono diretti precedenti per l'avorio
pubblicato dal Saumagne con i due personaggi adoranti l'albero sacro. Figure
egittizzanti con un ginocchio alzato e poggianti su una palmetta appaiono su alcuni
avori di Nimrûd e ArslânTâs126, mentre un personaggio inginocchiato e alato, pure da
Nimrûd, è sfortunatamente acefalo127.
Nella ricca congerie di scene animalistiche degli avori vicino-orientali, i leoni, i
tori e le gazzelle mostrano maggiore scioltezza e realismo di atteggiamenti e più
accurato rendimento dei particolari organici. Solo pochi pezzi con gazzelle
antitetiche da Ninive128 o con un toro assalito da un altro animale e con tori antitetici,
da Nimrûd129, mostrano un certo impaccio e faticosità di movimenti (onde l'azione
violenta si raggela in una espressione statica senza trovare adeguata resa figurativa) e
appaiono perció i più diretti antecedenti dei pettini cartaginesi e spagnoli.
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129
Cfr. le referenze alle note 17-18.
C. DECAMPS, Inventaire, cit., tav. LxxxvI, nn. 836-837; R. D. BARNETT, Ivories, cit., tav.III, n. C
10: «stile fenicio ».
R. D. BARNETTE, Ivories, cit., tav. LIV, n. S 119: «.stile siriano».
Ibidem, tav. XIII, n. H 2 : «stile assiro».
Ibidem, tav. xxvI, nn. S 5 a-f; XL, nn. S 63 a-b, S 129: «stile siriano».
41
AFRICA
Fedelmente ripresi dai modelli siro-palestinesi sono invece gli elementi vegetali,
che fungono da riempimento delle scene già negli avori orientali130 (fig. 2 c, 3 c-d).
In base all'iconografia e al rendimento stilistico possiamo isolare tre gruppi
nei pettini cartaginesi. Il primo è costituito da due pettini del Bardo (quello con i
personaggi fiancheggianti l'albero sacro (tav. IV, 1) e quello con i due genî assiri
(fig. 1 d) e dal pettine del Museo di Cartagine (tav. IV, 2-3). II disegno fluido ed elegante, l'incisione curata nei minimi particolari, le proporzioni snelle del cavallo e
delle figure egiziane, la forza latente nel toro ritratto in atteggiamento di carica, sono
tutti elementi che mostrano una stretta aderenza alle scene degli avori fenici prese a
modello dagli artigiani cartaginesi.
II secondo gruppo è rappresentato dal pettine del Bardo con il personaggio sul
carro (fig. 1 e-f; tav. I, 1-2) e da quelli con la sfinge e il toro, Isis e Nephtys e gli altri
animali frammentari (fig. 2 a-c; tav. II, 2; III, 1-2; V, 1-2), in cui appaiono già alcune
alterazioni dei prototipi siro-palestinesi, visibili soprattutto nella comparsa degli
uccelli - elemento non orientale - sul dorso delle fiere, nei disegno sommario delle ali
delle due dèe e nel largo spazio esistente fra di esse, si che tutta la composizione risulta
slegata, quasi un'imbarbarita versione delle analoghe scene fenicie. La stessa
mancanza di sintassi compositiva si nota nel personaggio sul carro, dalla silhouette
goffa e sproporzionata, dalla fisionomia tipologicamente ibrida, priva di caratteri
somatici che possano ricondursi agevolmente a un dato elemento etnico o a una
specifica influenza artistica.
La sfinge col klaft egiziano e il toro dalla schiena inarcata mostrano tuttavia
che la scuola cartaginese ha ancora come sorgente principale di ispirazione gli avori
fenici del IX e dell'VIII secolo a. C.
II terzo gruppo è costituito fino ad oggi da un solo esemplare, quello del Museo
del Bardo con i due grifoni fiancheggianti una palmetta di tipo cipriota (tav. II, 1). II
deterioramento ormai pienamente in atto del patrimonio figurativo di tradizione
vicino-orientale risulta evidente sia nelle linee grossolane e sommariamente imprecise
del disegno, sia nell'iconografia degli animali. Per una mal calcolata suddivisione della
superficie da decorare, i grifoni risultano privi di tutta la parte posteriore del corpo,
schiacciati sulla linea di terra dalla quale sollevano gottamente
130
Cfr. la nota 61. Si osservi tuttavia che gli arbusti ad estremità piriforme non appaiono nei modelli orientali e
probabilmente derivano, nell’aspetto con cui sono rappresentati sulla patere «fenicio-cipriote» e sugli avori
spagnoli, da un'alterazione del bocciolo di loto chiuso, frequente sugli avori siro-palestinesi; cfr. ad esempio
R. D. BARNETT, Ivories, cit., tav. xv, n. G 11 (fig. 2 e).
42
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
verso la pianta una delle zampe anteriori. Dei prototipi siro-micenei del II e del I
millennio essi serbano il becco d'aquila chiuso e l'occhio amigdaloide, mentre è
scomparso il lungo ricciolo pendente della tempia sul collo, sostituito da tratti
sinuosi che sembrano suggerire il rendimento di una criniera o di un piumaggio
d'uccello. Anche le aigrettes a stecche di ventaglio o ad antenne arricciate dei modelli
vicino-orientali sono divenute due insignificanti ciuffetti, l'uno uncinato, l'altro
triangolare come una punta di lancia, eretti sulla sommità della testa.
VII.
Orientamenti cronologici
I tre gruppi in cui abbiamo riunito i pettini cartaginesi sono stati enumerati
sulla base di una progressione cronologica, chiaramente visibile nell'evoluzione (o
involuzione) stilistica e nei mutamenti iconografïci. Poiché si tratta sostanzialmente
degli stessi criteri sui quali il Blanco ha fondato la sua classificazione degli avori
spagnoli, potremmo anche avanzare, a titolo ipotetico e con la riserva che scoperte
successive possano inficiare l'ordine cosi stabilito, una cronologia comparativa degli
avori africani e di quelli spagnoli :
SPAGNA CARTAGINE
….. Gruppo I
Gruppo A (700P-650?) )
(..... Gruppo II
Gruppo B
Gruppo C
(750-700)
(700-550)
(
(650-600?) )
(600-450?) ...... Gruppo III (550-470)
Come si vede, fissiamo a una data abbastanza alta la comparsa dei pettini a
Cartagine giacché siamo convinti, anche per le ragioni esposte più sopra, che la
produzione degli incisori nord-africani inizi poco dopo la fondazione della città (814
a. C), essendo aile origini strettamente collegata cogli ateliers della madrepatria.
Il pettine della collina di Giunone fu trovato in una tomba che conteneva fra
l'altro una statuetta in avorio rappresentante una donna dall'acconciatura egittiz-
43
AFRICA
zante e dalla lunga veste colonniforme, prementesi i seni131. Questa figura è identica a
quella che appare in un'altra tomba del VII sec. a Duimès132; entrambe derivano, come
abbiamo recentemente dimostrato in un nostro studio, dagli women-alabastra
provenienti da vari luoghi della regione siro-palestinese e datati all'VIII-VII sec. a.
C.133, e attestano la presenza a Cartagine di una fiorente scuola d'incisori in avorio
lavoranti, almeno nei primi tempi, con assoluta fedeltà sugli schemi fenici. Alla luce
dei nuovi dati offerti dall'esame dei pettini cartaginesi, potremmo considerare con
tutta sicurezza opere locali le due statuette di donne prementisi i seni; le affinità
strettissime che esse presentano con i modelli siro-palestinesi del IX secolo (avori di
Nimrûd) e dell'VIII (alabastra a forma di figura femminile da Nimrùd e da Ninive)
sono assai indicative per un'assegnazione alla meta circa dell'VIII secole, o al
massimo alla fine dello stesso secolo, dei primi prodotti delle botteghe d'avorio
cartaginesi, fra i quali si annoverano anche i pettini del nostro primo gruppo.
La seconda classe di pettini spagnoli è stabilita dal Blanco essenzialmente sulla
base di paralleli iconografici con le patere metalliche «fenicio-cipriote» e con gli
avori etruschi. Per quel che concerne invece il secondo gruppo cartaginese, solo il
motivo delle due dèe egiziane è attestato anche sulle coppe metalliche, come quella di
Amatunte, che il Gjerstad attribuisce allo stile cipro-fenicio I (800-700 circa a. C.)134. Per
il resto, il personaggio sul carro, tranne la generica identità del soggetto, è assai
diverso da quelli delle coppe, cosi come gli animali elegantemente disegnati che
compaiono sugli altri pettini frammentari di Cartagine mostrano ancora assai sensibile
l'eco dei modelli siro-palestinesi. In definitiva, abbiamo l'impressione che il secondo
gruppo cartaginese, a causa dei più marcati caratteri d'origine orientale, si collochi
un cinquantennio prima di quello spagnolo.
II pettine del Bardo che costituisce la terza fase della produzione cartaginese ci fa
assistere a un decadimento che sembra più sensibile e più rapido che non in Spagna.
Questo fenomeno puô trovare la sua spiegazione nelle condizioni storiche.
131
132
133
134
A. MERLIN, Fouilles de tombeaux puniques à Carthage : B.A.C. 1918, pp. 290-92, fig. 2; A. M. BISI,
Une figurine phénicienne trouvée à Carthage et quelques monuments apparentés : Mélanges de Carthage
Cahiers de Byrsa XI, (1964-65), Paris 1966, pp. 43-53.
Ph. BERGER, Musée Lavigerie de Saint-Louis de Carthage, I, cit., pp. 77-78, tav.XI, nn. 2-3; A. M. Bisi,
Une figurine phénicienne, cit. pp. 44-45, rav. III.
R. D. BARNETT, Ivories, cit., pp. 94-95, 224, tav. cxxIII, n. T 6 (con la bibliografia anteriore); D. HARDEN,
I Fenici, cit., taw. lxiii, lxv; A. M. Bisi, Une figurine phénicienne, cit., pp. 49-53, figg. 3-4, tav. v, 1-2.
nel primo lavoro secondo cui queste fibule erano di provenienza siciliana, e ne afferma l'origine cipriota).
E. GJERSTAD, Decorated Metal Bowls from Cyprus, cit., tav.VI.
44
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
IIV secolo vede la fine ingloriosa della dinastia di Magon, sulla quale si ripercuotono
la sconfitta di Himera e gli altri insuccessi che ad essa seguirono nello scacchiere
punico135. Le tombe cartaginesi del V e dell'inizio del IV secolo mostrano la sparizione
pressoché completa degli oggetti d'importazione, segno del voluto isolamento e della
reazione in senso nazionalistico dello stato dopo il 480 a. C. Durante la «riforma» che
in quest'epoca si attua nella politica e nella religione cartaginese, vengono rimessi in
vigore simboli cultuali ed iconografie del repertorio siro-pales-tinese; perció potrebbe
anche stupire l'incomprensione di cui danno prova gli incisori delnostro pettine
rispetto agli esemplari di tradizione vicino-orientale presi a modello. Ma se si
considera che probabilmente in questo stesso periodo dovettero aver corso anche
delle norme limitanti il lusso, sul tipo delle leggi sumptuarie, regolanti il fasto delle
nozze, di cui parla Giustino136, si spiegherà facilmente il rapido decadere delle botteghe
d'avorio installate nella metropoli, che vengono forse soppresse o comunque perdono
definitivamente i contatti con la madrepatria fenicia. Inclineremo perció a porre
l'ultimo pettine cartaginese negli anni intorno al 470-460 a. C, e cioè nel periodo di
crisi dell'eparchia della città successivo alla sconfitta di Himera.
VIII.
Ipettini d'avorio nel quadro dell'espansione fenicio-punica nelMediterraneo occidentale
Gli avori siro-palestinesi da cui sia quelli spagnoli sia quelli cartaginesi derivano,
si pongono generalmente fra il IX e l'VIII secolo. La stretta affinità con i modelli
vicino-orientali che presentano il primo gruppo di pettini iberici e il primo di quelli
cartaginesi mostra il breve intervallo di tempo esistente fra i prodotti originali della
Fenicia e le imitazioni del mondo punico. Ció ha ingenerato anche l'equivoco dei
primi commentatori che, senza notare le divergenze pur notevoli di tematica e di stile
dai modelli, consideravano gli avori spagnoli e cartaginesi opera dell'artigianato
fenicio.
Crediamo di aver indicato quali sono le ragioni che ci fanno postulare
l'attribuzione dei pettini di Cartagine a una scuola locale (cfr. sopra). Qui basti
135
136
G. PICARD, Le monde de Carthage, Paris 1956, p. 42 ss.; B. H. Warmington, Carthage, London 1960,
pp.48-52.
G. Picard, Le monde de Carthage, cit., p. 45.
45
AFRICA
aggiungere che la forte affinità con opere fenicie del IX secolo mostrata dal primo
gruppo cartaginese conferma ancora una volta la cronologia alta assegnata dagli
autori classici alla fondazione della metropoli nord-africana. Un più lungo discorso
meritano i pettini spagnoli, sia perché altre teorie, che non mancano di validi
argomenti a loro favore, ne hanno spiegato diversamente l'origine, sia perché il
fenomeno dell'irradiazione fenicia e della colonizzazione punica nella Penisola
Iberica era stato finora, anche da punicologi accreditati, piuttosto assunto sulla base
delle informazioni fornite dalle fonti che esaminato direttamente nelle sue
testimonianze archeologiche.
I Fenici giunsero in Spagna probabilmente alla fine del II millennio, continuando
quella tradizione di scambi culturali fra Oriente e Occidente di cui la Spagna sembra
aver costituito uno dei punti terminali fin dall'età del Bronzo137. I primi documenti
archeologici sembrano risalire tuttavia solo al IX secolo138; essi si fanno più
frequenti nei tempi posteriori e gli ultimi studi hanno mostrato che probabilmente
non furono solo i Fenici ad irradiarsi nella Spagna mridionale, ma anche i Ciprioti
presero parte attivissima al moto espansionistico verso l'Estremo Occidente.
Una derivazione cipriota viene postulata oggi da molti studiosi spagnoli per lo
scudo del tipo detto Herzsprung139, per alcune forme ceramiche140, per un tipo di
fibula ad arco rappresentato dai trovamenti di Huelva141, e per alcuni motivi
iconografici, come la sfinge rampante accanto ad un albero composto da palmette
137
138
139
140
141
P. Bosch-Gimpera, Le relazioni Mediterranee postmicenee ed ilproblema etrusco : Studi Etruschi, III,
1929, pp. 9-41; A. Garcia y Bellido, Las primeras navegaciones griegas a Iberia (s. IX-VIII A. de J. C.)
: A.E.A.,XL, 1940, pp. 97-127;ID.,Fenicios, pp. 230-32.
Di scavi inediti condotti dal prof. Mazar nella Spagna meridionale dà notizia S. Moscati, La questione
fenicia : Rendiconti dell'Accademia Nationale dei Lincei, serie VIII, XVIII, 1963, p. 495, citandone la
fonte (W. F. Albright ), Gli altri ritrovamenti precedentemente noti non vanno oltre il VIII secolo a. C.
: cfr. Bellido, Fenicios, p. 232 ss.; P. Bosch-Gimpera, Problemas de la historia fenicia en el Extremo
Occidente : Zephyrus, III, 1952, p. 20;id., Etnologia de la peninsula iberica, Barcelona 1932, pp. 26668.
H. Hencenk, Herzsprung Shields and Greek Trade : A.J. A. ; LIV, 1950, pp. 295-309.
M. Tarradel, El impacto colonial de lospueblos semitas: Symposium, pp. 257-72; J. Maluquer de
Motes Nicolau, Nuevas orientaciones en el problema de Tartessos : ibidem, pp. 273-97, in particolare
pp. 284-87.
M. Almagro, El hallazgo de la ria de Huelva y el final de la Edad del Bronce en el Occidente de
Europa : Ampurias, II, 1940, pp. 138-41;id., Las fibulas de codo de la ria de Huelva. Su origen y
cronologia : Cuadernos de Trabajos de la Escuela Española de Historia y Arquelogia en Roma, IX,
1957, pp. 9-46 (rettifica l'opinione espressa nel primo lavoro secondo cui queste fibule erano di
provenienza siviliana, e ne afferma l'origine cipriota). Il più deciso assertore della provenienza cipriota
delle fibule di Huelva è H. Hencken, The Fibulae of Huelva: Proceedings of the Prehistoric Society,
N. S., XXII, 1956, pp. 213-15;id., Carp's Tongue Swords in Spain, France andItaly : Zephyrus, VII,
1956, pp. 132-34.
46
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
sovrapposte, quale appare sul pinax di Ibiza142. Con quest'ultimo documente
scendiamo tuttavia alla seconda metà del VII secolo. Poiché la colonizzazione
punica della Penisola Iberica si inizia ufficialmente con la fondazione di Ebysos
(Ibiza) nel 654 a. C, vien naturale di domandarsi se nelle sue ultime manifestazioni
questa influenza cipriota sia il riflesso di una diretta partecipazione delle genti
dell'isola agli scambi con la Spagna, o non piuttosto una componente cipriota
confluita nella civiltà cartaginese.
Un'indagine la quale voglia approfondire la veridicità di ciascuna di queste
due ipotesi urta contro ostacoli pressoché insormontabili, costituiti da un lato dallo
stato ancora frammentario e lacunoso delle nostre conoscenze sull'archeologia
spagnola dell'inizio del I millennio, dall'altro dalla sostanziale identità di caratteri
fra la cultura fenicio-cipriota della prima Cartagine e quella delle genti fenicie e
cipriote che approdavano in Andalusia per i loro traffïci, onde spesso è impossibile
distinguere fra oggetti punici arcaici e fenici importati.
Un po'di luce sulla complessa questione viene oggi proprio dai nostri pettini, i
quali, apparendo con caratteri pressoché identici in Spagna e a Cartagine, ma non
nella Fenicia propria, fanno ritenere assai probabile che la loro importazione nella
regione del basso Guadalquivir sia dovuta piuttosto agli scambi con la metropoli
africana che non con la Fenicia. Mal nota è la storia dei primi momenti di espansione
dello stato cartaginese143; la fondazione di Ibiza è l'unico dato sicuro in un processo di
colonizzazione che dovette iniziare molto tempo prima (intorno al 700, se si prende
come base la cronologia assegnata dal Blanco al primo gruppo di avori spagnoli), con
episodi di cui oggi si sono perdute le tracce perché non sorretti ed illustrati da
un'adeguata documentazione archeologica. La colpa di ció va. probabilmente ricercata
anche nel carattere intrinseco della produzione artigianale fenicia, ereditato da quella
cartaginese, che dà vita a paccottiglie ed oggetti d'uso corrente privi di elementi
peculiari e tali che si possa rintracciare in essi un'evoluzione cronologica e stilistica.
Che si tratti, nel caso dei pettini, di una produzione punica che si diffonde in
Spagna, anziché di una spagnola irradiantesi in Africa, è mostrato - ripetiamo - dal
fatto che questi sono gli unici documenti in avorio rinvenuti in una ristretta zona
del territorio iberico in epoca arcaica, onde è impensabile che esistesse in loco una
142
143
J.M.BLAZQUEZ, Pinax fenicio con esfinge y arbol sagrado : Zephyrus, VII, 1956, pp. 217-28. Su
questo motivo e in genere sull'influenza cipriota in Spagna cfr. ora A. M. Bisi, KYTIPIAKA, Roma
1966, pp. 43-55.
Bellido, Fenicios, p. 30 ss.
47
AFRICA
produzione artigianale, mentre i numerosi oggetti in avorio restituiti dalle necropoli
cartaginesi arcaiche indicano come nella città africana fosse sviluppata, almeno fin
dalla metà dell'VIII secolo, un'industria dell'avorio di ispirazione fenicia ma che
traeva probabilmente la materia prima dall'entroterra africano.
I pettini più antichi del basso Guadalquivir sarebbero un raro, e perció preziosissimo, documento delle prime fasi della penetrazione cartaginese in Spagna al
meno fin dall'inizio del VII secolo a. C, penetrazione di cui sono testimoni, per
un periodo di poco posteriore, le statuette in terracotta dell'Isla Plana in Ibiza.
Prima di concludere, dobbiamo esporre qualche considerazione sull'ipotesi
che è stata recentemente affacciata da studiosi spagnoli, secondo cui gli avori del
basso Guadalquivir sarebbero il prodotto dell'artigianato tartessio (cfr. sopra, e
referenze alla nota 58).
II riconosciuto carattere vicino-orientale e, più specificatamente, siro-palestinese e cipriota di molti oggetti rinvenuti nell'Andaluzia (oionochai di bronzo144, gioielli145, fibbie di cinturoni146, ha fatto ricercare nella zona del basso Guadalquivir e
intorno all'importante città fenicia di Cadice (Gades) il centra manifatturiero di tut
ti questi prodotti, nei più tardi dei quali, accanto alle fortissime persistenze orientali, è presente l'influsso celtico. Si tratta di opere singolarissime e di alta perfezione
tecnica, che mostrano l'interpretazione e la modificazione cui vanno soggetti i motivi iconografici orientali nel territorio degli Iberi. Due delle opere più note dell'ar
tigianato tartessio sono, per giudizio unanime, il bronzo Carriazo147, probabilmente
originario della regione fra Carmona, Siviglia e Huelva e la fibbia di cinturone da
Sanchorreja, in provincia di Avila148. Ebbene, ad un esame comparativo esse non
144
145
146
147
148
A. BLANCO, Orientalia. Estudio de objetos fenicios y orientalizantes en la Peninsula, cit., pp. 3-11; A. GARCIA y
BELLIDO, Materiales de arquelogia hispano-punica. Jarrosde bronce : ibidem, pp. 85-104;ID., Inventario de los
jarros punico-tartessicos : ibidem, XXXIII, 1960, pp. 44-63.
J. R. MÉLIDA, Tesoro de Aliseda, Madrid 1921 ; A. BLANCO, Orientalia. Estudios de objetosfeniciosy orientalizantes en la Peninsula, cit., pp. 11-46; A. GARCIA y BELLIDO, Inventario de los jarros punico-tartessicos, cit., p.
57,nota 3, segnala le altre opere di oreficeria che possono attribuiri all'artigianato tartessio (con bibliografia).
J. MALUQUER de MOTES, Un interesante lote de bromes, hallado en el Castro de Sanchorreja (Avila) : Zephyrus,
VIII, 1957, pp. 243-46.
B. OSABA, De metalurgia tartesia : el bronce Carriazo : Zephyrus, VIII, 1957, pp. 157-68; A. ARRIBAS, The
Iberians, cit.,P. 133,tav.-XXVII.
J. MALUQUER de MOTES, Un interesante lote de bronces, cit., pp. 241-56; A. GARCIA y BELLIDO, Inventario de
los jarros punico-tartessicos, cit., pp. 57 nota 3, 58, dà una ricostruzione diversa dell’oggetto, che risulterebbe
composto non da un grifone gradiente ma da due protomi dello stesso mostro volte per il dorso, in senso
contrario l'una all'altra.
48
I PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
mostrano alcun carattere in comune con i pettini andalusi, tranne una forte impronta
orientale die deriva aile une e agli altri dall'essere più o meno direttamente connessi
col patrimonio figurativo fenicio.
II bronzo Carriazo (650-500 a. C.) rappresenta una dea della fecondità fra due
protomi d'oca in atteggiamento di volo. La dea ha un'acconciatura hathorica assai
fedelmente imitante quella che appare sugli avori siriani e le placche metalliche
fenicie e cipriote del I millennio, nonché un collare di fiori di loto. Ma, come è stato
giustamente riconosciuto149, l'iconografia di tipo vicino-orientale è alterata da elementi
di diversa origine (le onde di capelli incisi sopra la fronte sono un particolare indigeno
attestato anche nelle sculture del Cerro de los Santos, la simbologia della barca solare
con protomi di uccello è prettamente celtica), i quali differenziano quest'opera di
artigianato celto-ispanico da quelle direttamente ispirantisi ai modelli dell'Asia
anteriore antica, siano esse fabbricate in situ dagli indigeni o importate dai Punici
di Cartagine, quali i pettini e le altre placche d'avorio.
La fibbia di cinturone da Sanchorreja è un'altra opera di artigianato tartessio
importata nella regione di Avila nell'avanzato VI secolo a. C. Raffigura la parte anteriore di un grifone alato incedente sopra una grande palmetta cipriota accanto alla
quale è un arbusto da cui spuntano tre fiori di loto. Il pezzo puô idealmente completarsi
con l'altra meta della fibbia recante la parte posteriore del corpo del grifone ovvero,
secondo un'altra ricostruzione, una seconda protome antitetica alla prima. Grifoni
incedenti su fiori di loto appaiono anche nel cinturone aureo dal tesoro di Aliseda,
datato al VI secolo, mostrando in questo atteggiamento innaturale il riflesso dei
modelli fenici e fenicizzati d'Oriente150. E'tuttavia da osservare che questo grifone dal
corpo slanciato, dalla testa di natura indeterminata (con un muso d'ovino anziché
con un becco d'aquila) e un oggetto oblungo sul capo, che deve probabilmente
interpretarsi come una mal riuscita imitazione di una doppia corona egizia, è di un tipo
completamente diverso dai grifoni incisi sui pettini andalusi. Mentre quelli si
ricollegano direttamente ai modelli siro-palestinesi del II e del I millennio, questo di
Sanchorreja si rivela il prodotto di un ambiente culturale diverso, ricettivo al
massimo grado alle influenze orientali, ma che modifica e altera queste
149
150
B. OSABA, De metalurgia tartesia, cit., passim, in particolare pp. 160; A. BLANCO, El cilindro-sello de VelezMalaga : Zephyrus, XI, 1960, pp. 154-56, tav.IV, paragona la dea del bronzo Carriazo a quella che esce fuori con
il busto da un disco solare alato su alcuni avori assiri da Nimrûd della seconda metà dell'VIII secolo a. C.
Cfr. un avorio da Nimrûd : R. D. BARNETT, Ivories, cit., tav. LV, n. S 118 («stile siriano») e una lastra da
Karatepe : P. MATTHIAE, Studi sui rilievi di Karatepe, Roma 1963, tav. XXIII, n. NE-SE-9.
49
AFRICA
stesse influenze sotto l'azione di impulsi locali, si da dare a tutte le creazioni
artistiche il crisma di una notevole individualité. Queste creazioni artistiche che
potremmo anche continuare a chiamare col termine convenzionale di tartessie, non
hanno quindi nulla in comune, tranne una generica affinità di tematica, con i pettini
spagnoli i quali sono, almeno per quel che concerne gli esemplari del primo gruppo,
il prodotto e, insieme, il documente della più antica penetrazione cartaginese in
Spagna
IX.
Conclusione
I pettini d'avorio di Cartagine trovano stretti parallel i, sia per quel che concerne
la forma, sia per quel che riguarda l'iconografia, negli analoghi oggetti prodotti dagli
ateliers siropalestinesi e ciprioti dal XII all'VIII secolo a. C. Tuttavia le differenze
assai notevoli nello stile e nel rendimento di alcuni particolari figurativi fanno
postulare una loro origine nelle botteghe della città nord-africana. I pettini e gli avori
rinvenuti nel Sud della Spagna presentano con quelli cartaginesi una strettissima
somiglianza che è, oltre e prima ancora che analogia di temi, identità di stile. Perció sia
i pettini cartaginesi sia quelli spagnoli devono essere opera di una stessa fonte, che
abbiamo individuato in Cartagine, dal momento che molte importanti ragioni
escludono una sua collocazione nel territorio spagnolo.
L'importazione da Cartagine avviene tuttavia solo nel caso degli esemplari più
antichi. Più tardi assistiamo a un'evoluzione tipologica e stilistica che mostra il
sorgere di scuole locali in Andalusia, nella zona intorno a Cadice, cioè nel territorio di
cultura e di artigianato tartessi. Un'analoga evoluzione e differenziazione di botteghe si verifica a Cartagine, con un certo sfasamento, tuttavia, rispetto alla Spagna,
come è naturale nel caso di zone provinciali di produzione che risentono con una
sensibilità diversa e, se si vuole, anche con un certo attardamento, dei mutamenti in
atto nei centri principali di creazione artistica, Gli stessi caratteri stilistici che
differenziano i pettini punici della Spagna e di Cartagine da quelli fenici propriamente
detti, sembrano isolarli e differenziarli dalla produzione di Tartesso, onde perde di
molta verosimiglianza l'ipotesi che attribuisce i pettini andalusi all'artigianato di
quel popolo.
Se al problema della più antica penetrazione fenicia in Spagna i pettini punici,
una volta caduta la teoria che li attribuiva agli invasori fenici, non apportano - com'è
ovvio - alcuna luce, essi costituiscono per altro verso una preziosa testimonianza
dei primi tempi della colonizzazione punica nella Penisola Iberica, su cui finora nulla
sapevamo dalle fonti scritte, essendo rari e mal datati i documenti archeologici.
50
T PETTINI D'AVORIO DI CARTAGINE
Possiamo ora intravedere, proprio sulla base dei nostri avori, che il moto cartaginese
verso la Spagna sorse per impulsi economici, per acquistare i metalli che avevano già
costituito la materia prima di scambio al tempo dei Fenici e, anteriormente, dei
Micenei, e si configuro, fin dai primissimi tempi, sotto l'aspetto di intensi rapporti
commerciali e artistici, prima ancora che di annessione in senso politico ed
egemonico. I Cartaginesi importarono in Spagna i loro culti151, i loro dèi, i loro motivi
artistici, e trovarono un ambiente ricettivo e pronto ad accoglierli, già semitizzato
negli aspetti più importanti della sua civiltà per merito delle genti fenicie e cipriote
che sin dalla fine del II millennio avevano preso arditamente le vie dell'Iberia e del
lontano Occidente.
Anna Maria BISI
SOPRINTENDENZA ALLE ANTICHITA
151
DI
PALERMO
J. M. SOLA SOLÉ, Miscelánea punico-hispana, 1,3, HGD, əRŠF y el pantéon fenicio-punico de España :
Sefarad, XVI, 1956, pp. 341-55; ID., La plaquette en bronze d'Ibiza: Selitica, IV, pp. 25-31 ; ID., Inscripciones
fenicias de la Peninsula Ibérica : Sefarad, XV, 1955, pp. 41-53; ID., La inscription pûnica Hispania 10 :
ibidem, XXI, 1961, pp. 251 -56. L'iscrizione più antica menzionante una divinità punica è quella della fine del
V - inizio del IV secolo a. C. dalla grotta d'Es Cuyram, in Ibiza, (Hispania 2), con la consacrazione di un
santuario a Rešef-Melqart. U culto di Tanit a Ibiza è testimoniato da molte statuette fittili con l'immagine della
dea : A. GARCIA y BELLIDO, El culto a dea Caelestis en la peninsula ibérica, Madrid 1 957; ID., Fenicios, pp.
253-56, tavv.VIII, fig. 2; xx, fig. 1; ID., Colonizaciones, pp. 439-42.
51
AFRICA
Résumé
Les peignes en ivoire du Musée Alaoui de Tunis et du Musée National de Carthage
n'avaient encore fait l'objet d'aucune analyse d'ensemble. Leur examen est pourtant fort
utile pour la solution du problème de la colonisation phénicienne et de l'expansion de
Carthage dans le bassin occidental de la Méditerranée.
L'étude du répertoire iconographique, qui substitue pour la première fois des
documents photographiques aux anciennes gravures, montre qu'il s'agit de produits
puniques, c'est-à-dire d'ouvrages fabriqués et gravés dans les ateliers de Carthage à partir
du milieu du VIIIème siècle, ou, en tout cas, pour ce qui regarde les premiers
exemplaires, vers le début de l'artisanat dans cette ville. Les ressemblances frappantes
que présente la thématique de ces ivoires avec celle des objets syro-palestiniens de
même matière du IIème et surtout du Ier millénaire av. J.-C, vont de pair avec des
différences de style et de composition, comme il ressort d'une étude plus poussée du
décor.
Très semblables à ceux de Carthage, les spécimens trouvés dans les tombes
d'Andalousie (Carmona) peuvent projeter quelque lumière sur le problème de l'origine
des exemplaires africains. A. Blanco Freijeiro et d'autres auteurs espagnols pensent
qu'il s'agit de produits de Tartessos, c'est-à-dire d'objets fabriqués dans la région de
Gadès, carrefour des influences celtiques et orientales (phéniciennes et chypriotes) aux
premiers siècles de l'âge du Fer. Mais l'analyse de quelques pièces incontestablement
attribuables à l'artisanat de Tartessos montre qu'il existe de notables différences dans les
mêmes sujets traités sur les peignes andalous.
Nous pensons qu'il s'agit, même dans le cas des peignes ibériques, de produits de
l'artisanat carthaginois, c'est-à-dire d'objets faits et gravés par les manufacturiers de la
métropole africaine installés dans le Sud de l'Espagne à la suite du mouvement de
colonisation qui aboutit à la fondation d'Ibiza (654-653 av. J.-C). Ce qui n'empêche pas
qu'après une période que l'on peut évaluer à une cinquantaine d'années, les ateliers
espagnols aient commencé une production locale, imitant de très près les prototypes
carthaginois.
A Carthage, la production des peignes s'échelonne de 750 av. J.-C. jusqu'au premier
quart du Vème siècle. Nous avons isolé trois groupes, à peu près contemporains de ceux
d'Andalousie. Les pièces carthaginoises les plus tardives trahissent une décadence dans le
décor et le style, conséquence peut-être du régime d'austérité postérieur à la défaite
d'Himère (480 av. J. - C), où la prohibition des objets de luxe provoqua sans doute la
fermeture même des ateliers d'ivoiriers.
52
Tavola I
I, 1-2
Pettine da Cartagine. Dritto e rovescio
(Foto Museo del Bardo).
Tavola II
II, 1 Pettine da Cartagine
(idem).
II, 2 Pettine da Cartagine
(idem).
Tavola III
III, 1-2
Pettine da Cartagine. Dritto e rovescio
(idem).
Tavola IV
IV, 1
Cartagine
Pettine da
(idem).
IV, 2-3
Pettine da Cartagine nel Museo Nazionale di Cartagine. Dritto e rovescio
(foto J. Deneauve).
Tavola VII
VII
Particolare di una coppa bronzea dalla tomba Bernardini di Preneste
(Foto Museo di Villa Giulia).
1a
Pannello eburneo da Arslan Tas
(da DECAMPS, Inventaire, tav. LXXXIII, n. 822).
1 b Pettine in avorio da Amatunte
(ibidem, tav. LXXIV, n. 769).
1 c-d Pettine frammentario da Cartagine. Dritto e rovescio.
(da GAUCKLER, Nécropoles, I, fig. a p. 419).
1 e-f Pettine da Cartagine. Dritto e rovescio.
(da P. GAUCKLER, Catalogue du Musée Alaoui, Supplément I, tav. CVI, 1-2).
2 a-b
2c
2d
2e
2f
2g
2h
Pettine frammentario da Cartagine
(da GAUCKLER, Nécropoles, II, tav. CXLIII).
Particolare di un pettine frammentario da Cartagine
(ibidem, tav. CXLIII).
Frammento di placca eburnea da Carmona
(da A. E. A., XX, 1947, p. 222, fig. 2).
Avorio frammentario da Nimrûd
(da BARNETT, Ivories, tav. XV, n. G 11).
Pettine da Osuna
(da BELLIDO, ColoniAaciones, p. 486, fig. 440).
Placca in avorio da Samaria
(da DECAMPS, Inventaire, tav. VIII, nn. 39-40).
Pettine da Cartagine
(daB. A. C, 1932-1933, fig. alla p. 86).
3a
3b
3c
3d
3e
3f
3g
3h
Particolare di una placca in avorio da Megiddo (da DECAMPS, Inventaire,
tav.XXVII, n. 315).
Avorio frammentario da Megiddo
(ibidem, tav. XXXII, n. 332).
Pettine da Megiddo
(ibidem, tav. XL, n. 360).
Particolare di un avorio da Nimrûd
(da BARNETT, Ivories, tav. XLI, n. 368 a).
Placca in avorio da Nimrûd
(ibidem, p. 184, fig. 79).
Impronta di sigillo antico-babilonese
(da J.N.E.S., XXI, 1962, p. 105, fig. 10 A).
Particolare di uno scarabeo cipriota.
(da BARNETT, Ivories, p. 74, fig. 23).
Placca in avorio da Carmona
(da BELLIDO, Colonizaciones, p. 484, fig. 433).
4 a-b
Pettine da Carmona. Dritto e rovesci
(ibidem, p. 476, fig. 412).
4 c-d
Pettine da Carmona. Dritto e rovescio
(ibidem, p. 481, fig. 425).
4 e-f
Pettine da Carmona. Dritto e rovescio
(ibidem, p. 476, fig. 413).
4 g-h
Pettine da Carmona. Dritto e rovescio
(da BONSOR, Colonies, figg. 102-103).
Adon - Baal, Esculape,
Cybèle à Carthage
Dans la deuxième quinzaine de mai 1958, au cours des travaux de grande voirie
poursuivis pour l'établissement de la route en corniche destinée à relier, à travers
dunes, les plages de Gammarth et de Raouâd, un certain nombre de monuments
archéologiques furent arrachés aux sables par le bull-dozer1. L'endroit de la
trouvaille se situe à environ cent mètres du sommet de la longue montée qui suit la
direction du promontoire limitant vers l'Ouest le léger renfoncement de la Marsa
(pl. I-III).
1
II s'agit de la route que l'on dénomme aujourd'hui Basse Corniche, la plus rapprochée du rivage.
Nous devons à l'amabilité de M. Mohamed Y ACOUB , Directeur des Musées Nationaux de Tunisie, et
de M. Amar MAHJOUBI, Directeur de la Recherche à l'Institut d'Archéologie, de pouvoir publier ici les
objets de la trouvaille. Au début de 1964, M. Abdelaziz DRISS, qui assumait alors les responsabilités
muséographiques, avait bien voulu également répondre favorablement à l'intention que nous lui avions
exprimée d'associer l'Académie des Inscriptions et Belles Lettres à la divulgation du document principal. La
communication, longtemps retardée, a été faite en notre nom par le professeur A. PIGANIOL dans la Séance
du 28 janvier 1966, et a paru dans les Comptes-Rendus (Ch. SAUMAGNE et J. FERRON, Une inscription
commemorative de la Consecratio de Carthage: Adon-Baal, C.R.A.I., 1966, p. 61-76). M. Mohamed F ENDRI ,
actuellement Conservateur des Monuments Historiques, a bien voulu nous conduire sur les lieux de
la découverte, nous fournir de vive voix les explications relatives aux conditions de cette mise au
jour et nous communiquer ensuite le dossier où il avait pris soin de consigner tous les renseignements
qu'il avait pu recueillir sur les circonstances dans lesquelles les monuments avaient été exhumés. M.
Hassine FANTAR, professeur d'Histoire à la Faculté de Théologie de l'Université de Tunis, nous a été aussi
d'un précieux secours pour nous obtenir les indications et l'assistance dont nous avions besoin. Qu'ils
veuillent bien trouver tous ici l'expression de notre sincère gratitude et de notre grand attachement !
Les photographies que nous reproduisons planches IV-XI, et planche xIII sont dues à M. Mustapha
Bouchoucha du Service photographique du Secrétariat d'Etat aux Affaires Culturelles et à l'Information,
celles des planches I-III, XII et XIV, à M. Gilbert Van Raepenbusch. Le cliché du document essentiel (pl.
XII) a été tiré par ce dernier à la lumière monochromatique. Nous les remercions tous de cette précieuse
collaboration technique, ainsi que Mme Jeanson, qui était alors responsable du Service photographique du
Ministère.
Les sculptures sont reproduites au 1/4 et les monuments inscrits en 1/2 grandeur.
75
AFRICA
Sept objets, comprenant des sculptures et des inscriptions, furent ainsi exhumés.
Aucun vestige de constructions anciennes, auxquelles ils auraient pu appartenir, ne
fut constaté sur le lieu de la découverte. Et il ne pouvait guère en être autrement; car
l'étude que nous entreprenons montrera que l'ensemble de ces monuments n'étaient
plus in situ et qu'ils proviennent tous, semble-t-il, de Carthage, peut-être même pour la
plupart de la colline dite de Byrsa. Il s'agit manifestement d'antiques, qui ont été
transportés et réunis à l'endroit d'où ils ont été extraits à des fins de conservation, de
collection ou de vente.
Au milieu du siècle dernier, le terrain sur lequel ont été rencontrées toutes
ces pièces appartenait précisément à un haut personnage tunisien, homme d'affaires et
antiquaire très connu, Sidi ben Ayed, dont le palais aujourd'hui en ruines (Atlas
archéologique de la Tunisie : feuille n.XIV, La Marsa) (pl.II) occupait le point culminant
du promontoire de Gammarth1bis. Ce lot d'antiquités lapidaires était-il conservé
dans un pavillon des jardins de cette riche demeure et, après son abandon, aurait-il
été très vite enfoui par la dune vive, dont l'envahissement n'a pu être arrêté que par
les plantations d'arbres toutes récentes? Ou fut-il enseveli à dessein par ses
propriétaires en difficultés, espérant récupérer tout ce trésor dans des temps
meilleurs? C'est ce que nous ignorons1 ter.
1
bis Sur Ben Ayed, cf. Jean GANIAGE, Les Origines du Protectorat français en Tunisie (1861-1881), Paris, 1959, p.
181-183, et A.-L. DELATTRE, Gamart ou la Nécropole juive, de Carthage, Lyon, 1895, p. 5-9, dans lequel se
trouve aussi page 6 un bon plan du Djebel Gammarth reproduit planche XIV. Ce dernier révèle l'existence d'un
atelier important de fabrique de poteries autrefois installé là par le Ministre tunisien en question et qui est
situé juste en contre-bas du Palais en ruines vers la plage. Evidemment il est un peu inquiétant de rencontrer
une fabrique moderne de poteries au service de cette personnalité vers l'endroit où, d'après les
descriptions données, semble se situer le lieu de la découverte de terres cuites romaines par M. P. CINTAS
dont on parlera dans la note suivante. S'agit-il d'antiques ou de copies d'antiques ? Peut-être l'analyse de
l'argile des monuments par le carbone 14 permettrait-elle d'acquérir une certitude à ce sujet.
1
ter Un autre lot important d'antiques, formé de statues brisées en terre cuite, et découvert sur le même site, vient
d'être publié par M. Hubert ZEHNACKER, les Statues du Sanctuaire de Kamart (Tunisie) dans Collection Latomus,
vol. LXXVII, Bruxelles- Berchem, 1965, 86 pages et 17 planches. Il est dommage que les circonstances de la
trouvaille n'aient pas pu être précisées davantage. L'auteur de la publication n'a été renseigné ni sur la date ni
sur les coordonnées de l'endroit de la découverte, si bien que munis de son texte nous avons cherché en vain à
localiser sur le terrain au moins approximativement le gisement de ces fragments statuaires. Nous aurions
aimé également voir les objets eux-mêmes; mais ils ne semblent avoir été entreposés dans aucun des Musées
nationaux de Tunisie ni dans les locaux du siège de l'ancienne Mission archéologique française. C'est
pourquoi jusqu'à plus ample informé nous pensons qu'il est encore prématuré d'envisager l'existence d'un
sanctuaire romain à Gammarth sur de si faibles indices et qu'il paraît plus raisonnable d'attribuer à l'esthète
Ben Ayed le rassemblement des statues que «M. P. CINTAS a eu la bonne fortune de découvrir par hasard».
D'après les calculs très minutieux de M. ZEHNACKER, c'est à une trentaine
76
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
Tous les objets découverts furent d'abord transportés à l'Institut National
d'Archéologie et d'Art de Tunis (Dar Hussein). Si Hassen Hosni Abd ul-Wahab,
alors son président, eut la très heureuse inspiration de faire transférer tous ces monuments à Carthage et de leur donner une place de choix dans le petit Antiquarium qu'il
venait d'y aménager sur la colline de l'Odéon. C'est là qu'ils sont conservés et mis en
valeur actuellement (pl.IV-V).
de monuments que correspondent les débris épars, c'est-à-dire à un ensemble de grandes sculptures de terre
cuite romaines «sans doute le plus important en quantité et un des plus remarquables par sa qualité artistique
de tous ceux du même genre qu'on a mis au jour jusqu'à présent en Afrique». Avec beaucoup de méthode, de
science et d'érudition, le professeur ZEHNACKER dressé le catalogue des statues complètes, des fragments
importants, des socles, des pieds et jambes, des torses, des bras, des têtes, des morceaux de draperies, des
animaux, des végétaux, des attributs et autres objets, en rangeant le tout par dimensions ou formats. Il réussit
à identifier une statuette d'Esculape (pl. I), une statue presque entière de Pluton (pl.II et XVII), un Cerbère à
peu près complet (pl. III et VIII), et avec plus ou moins de certitude un petit Saturne (pl. XIV), une Minerve
(pl. V), une Junon (pl. V et VI), une seconde statue de Pluton (pl. III et XVIII), un Mercure (pl. XI), une Hygie
(pl. IX et X), un Jupiter (pl. XIII), peut-être deux (pl. XII). L'auteur consacre une brève étude à l'ensemble, en
considérant successivement la technique, la polychromie, le réalisme vestimentaire, la question
chronologique et le problème religieux. Du point de vue de la fabrication, il constate que la face antérieure
des statues est moulée et le dos, plat, inorganique et schématique, façonné à la main ; ce qui montre que les
sculptures étaient faites pour être placées contre des murs ou dans des niches. Certaines pièces ont été
rapportées avant ou après cuisson. La finition des statues a été parfaite par des incisions et des rectifications de
tout genre. Des trous d'évent et d'allégement ont été ménagés dans les endroits les plus divers. Plusieurs
figures ont été consolidées par un appui en forme de tronc d'arbre ou de palmier ou d'un quelconque
parallélépipède, et sont munies d'un socle. La plupart sont creuses intérieurement. Elles sont en général dans
le meilleur art impérial. L'auteur examine ensuite leur polychromie plus ou moins bien conservée. Sur deux
ou plusieurs couches préparatoires blanches ou blanchâtres ont été appliquées des couleurs nombreuses et
variées : blanc, jaune, brun, minium, lie de vin, bleuclair, bleu-noir, rarement du vert. Dans un certain nombre
de cas, surtout sur un dessous jaune, on a superposé une dorure à la poudre d'or. Etant donné la fraîcheur de
certains tons, il est légitime de penser qu'ils n'ont guère souffert depuis l'antiquité. Dans l'emploi des nuances,
on distingue un «double courant de réalisme et d'idéalisation». En ce qui concerne les costumes et les types de
coiffures, l'inspiration est empruntée aussi souvent à la réalité quotidienne qu'à la tradition mythologique. Les
cheveux sont traités le plus souvent en boucles calamistrées, mais aussi en côtes de melon avec parfois des
prolongements en accroche-cœur, ou encore en courtes mèches, quand ils ne gardent pas leur forme naturelle.
On constate une grande variété dans la consistance des étoffes, dans la forme des ceintures, des pompons, des
franges et des chaussures. Une particularité vestimentaire : l'apparition d'une sorte de pantalon nordique,
généralement décoré d'un galon orné de boutons ». Le style des terres cuites de Gammarth conduit à les dater
de la première moitié du IIIème siècle. D'après les divinités dont M. ZEHNACKER a pu déceler la présence
dans le lot de Gammarth, il s'agit exactement du panthéon de l'Afrique romaine où sont assimilées les
anciennes divinités puniques avec les dieux gréco-romains. S'agit-il d'ex-voto ou de statues de culte, se
demande l'auteur en terminant? Il pense qu'on «peut très bien concevoir que des statues qui ornent le
pourtour d'un péribole ou les niches d'une chapelle soient à la fois le témoignage concret de la piété des
fidèles et l'objet de leur vénération».
77
AFRICA
Les sculptures comprennent un pied de table, deux bustes et deux bas-reliefs.
n. 1 (pl. VI)
Trapézophore en marbre pyrénéen ou alpin, dont le fut infléchi représentait une jambe de lion,
couronnée par la tête du fauve et décorée de larges feuilles d'acanthe : Manque la partie inférieure,
qui devait comporter les griffes de l'animal et un support mouluré.
Hauteur actuelle : 73 cm environ.
n. 2 (pl. VII)
Buste viril colossal en marbre statuaire de Carrare2, constitué de quatre fragments réajustés et
figurant un dieu ou un héros nu, probalement Hercule. Comme en témoigne une disproportion
avec le torse tout-à-fait inhabituelle et choquante, jointe au fait que le matériau de la partie retravaillée est dépourvu de la patine due au vieillissement, la tête a été l'objet, à une époque relativement
récente, d'une réfection totale à partir de ce qui subsistait du chef antérieur usé ou mutilé3.
Le buste repose sur deux socles, l'un rectangulaire et l'autre circulaire, tous deux d'origine. Le
premier a été taillé dans le même bloc que la figure et en est inséparable; sur le devant, ont été
sculptées en léger relief deux moulures curvilignes en forme de C très rentré, avec une petite
palme en fine saillie sur le champ à l'intérieur de la lettre. Le second, amovible, a été creusé en son
centre d'une cavité où vient se loger un tenon en pierre découpé dans celui du dessus.
Hauteur actuelle du buste, socles compris : 71 cm.
La carrure du personnage fait penser au torse des statues d'Antinous4. Les pièces de comparaison
pour le double socle se trouvent dans ceux qui soutiennent les bustes de Lucius Verus et de
Commode5. Il ne nous est pas possible de préciser davantage. Nous ne savons sur quel modèle s'est
basé le sculpteur de la partie refaite; la tête d'Héraclès qu'il a essayé de copier est en tout cas
postérieure au début de la dynastie des Sévères, puisqu'il a indiqué en creux l'iris de l'œil.
2
Les provenances géologiques du matériau ont été étudiées par les Prof. Pierie NICOLINI et Jean-Pierre DEla Faculté des Sciences de l'Université de Tunis. Nous les remercions bien vivement de leur ami
cale collaboration. Les marbres de Carrare comprennent trois grandes variétés :
a) le marbre dit statuaire d'un blanc de neige;
b) le bardiglio, saccharoïde, gris et bitumineux (sent mauvais quand on le frappe);
c) le paonozzo, jaune pâle, à grains très fins et à veines noires ou violet foncé de micas ferrugineux (d'où
son aspect bréchoïde) : F. RINNE, La Science des Roches, trad. Léon Bertrand, Paris, 1928, p. 487-490. -Le
Carrare se différencie également du Paros et du Pentélique par son degré de transparence; il laisse passer
la lumière jusqu'à 25 mm; le Paros, à 35 mm et le Pentélique à 15 mm (procédé de Lepsius) : F. RINNE, op.
iam laud., p. 488.
Le Prof. BECATTI de l'Université de Milan, chargé des fouilles d'Ostie, auquel nous avons montré la pièce
lors d'un de ses passages en Tunisie, croit également à une réfection totale du chef.
A. HEKLER, Protraits antiques, Paris, s. d., pl. 250-254.
Ibid., pl. 269-270.
VIGNE de
3
4
5
78
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
n. 2 (pl VIII)
Buste de Saturne en marbre statuaire de Carrare, reposant sur un socle rectangulaire inamovible
sur le devant duquel a été sculptée une serpette dans un cartouche de même forme. Le dieu est
reconnaissable grâce à cet attribut, mais aussi à son voile, à sa chevelure et à sa barbe. Le nez a
beaucoup souffert.
Hauteur, socle compris : 59,5 cm.
L'utilisation du trépan pour les perforations des boucles de la barbe et des cheveux autorise
l'assignation de cette sculpture à une date postérieure à la première moitié du siècle des Antonins.
L'artisan s'est servi de l'instrument beaucoup plus discrètement que l'auteur de la tête d'une statue du
même dieu trouvée à Dougga par Cl. POINSSOT et que celui-ci date du règne de Septime Sévère6. Il
paraît donc sage d'attribuer l'exécution du buste au temps d'Antonin ou de Marc-Aurèle.
n. 3 et 4 (pl. IX)
Bas-reliefs en marbre blanc fortement veiné de gris originaire d'Italie. Sur chacun d'entre eux
est représenté un homme adulte à taille de nain. Celui de la figure 1 est léontocéphale; le second
devait l'être également; mais il ne subsiste rien de la tête. Les deux personnages sont vêtus d'une
chlamyde, dont la retombée sert de champ à la figure et encadre largement le corps de part et d'autre,
ainsi que d'une tunique plissée, à manches courtes, formant à la ceinture un faible kolpos et s'arrêtant
au-dessus du genou. L'un et l'autre tiennent dans la main gauche une double corne d'abondance, dont
il ne reste que la partie inférieure jusqu'au dessus des doigts porteurs et dont la forme courbe apparaît
très nettement dans la figure 2, à l'endroit de la cassure. Les pieds sont chaussés de bottines montantes.
Un coq a été sculpté en premier plan à l'extrémité gauche inférieure du bas-relief de la figure 1. Le
personnage, qui le domine, tient dans la main droite le marteau des sacrifices sanglants, tandis que
l'autre penche une œnochoé, comme s'il versait une libation. Les chla-mydes portent encore les
traces du rouge dont elles étaient peintes.
Hauteur des monuments : 63 cm pour le personnage entièrement conservé, et 53 cm pour
celui qui est fragmentaire.
Les figures sculptées sur ces bas-reliefs nous ont paru pouvoir être identifiées avec les
Dioscures-Kabires jouant le rôle d'assesseurs d'une divinité, soit d'un dieu, comme sur de nombreuses
stèles africaines à Saturne7, soit d'une déesse, conformément à la tradition originelle de la Triade8.
6
7
8
Cl. POINSSOT, Statues du Temple de Saturne (Tbugga), dans Karthago, vI, 1955, p. 32-47 et pl. I-IV.
Ch. SAUMAGNE, Zama Regia, dans Revue Tunisienne, 1941, p. 261-263 et les figures des pages 259-260; G.
PICARD, les religions de l'Afrique antique, Paris, 1954, p. 119 et fig. 11 de la p. 121 (Stèle Boglio).
F. CHAPOUTHIER, Les Dioscures au service d'une Déesse (Bibliothèque des Ecoles françaises d'Athènes et de
Rome, fasc. 137), Paris, 1935.
79
AFRICA
Nous retrouvons dans cette image bon nombre des caractéristiques des jumeaux divins nés de Léda,
assimilés aux Dieux pélasgiques et aux Kabirim phéniciens : la tunique courte et la chlamyde9, le coq à
la partie inférieure du monument10, la corne d'abondance11, les bottines montantes12, les symboles des
sacrifices qu'on leur offre13. L'absence des chevaux, du bonnet conique et des étoiles ne s'oppose pas à
cette identification14. Sur de nombreux monuments, leur chlamyde est teinte en rouge pour en
exprimer la couleur pourpre15. La composition des deux bas-reliefs est asymétrique, comme souvent
dans les figurations des Dioscures-servants16 ; ce qui renforce encore le bien-fondé de notre
interprétation.
Le thème symbolique des lions accompagne aussi la représentation des deux Kabires17. Mais il
semble que ce soit la première fois qu'on les rencontre figurés en divinités léontocéphales. Il est clair
que nous nous trouvons là en présence d'un emprunt à l'art et aux traditions puniques égyptisantes18.
Ainsi métamorphosés, les Dioscures-Kabires évoquent les lions et les sphinx que l'on voit accostant
Bacal-Hammon - Saturne19. Mais ils ont leur place encore plus indiquée aux côtés d'Astarté-Tanit et de
Cybèle-Coelestis20, surtout lorsqu'ils sont porteurs de la corne d'abondance21.
Se rattachant à la religion punique d'époque romaine et probablement au culte de Cybèle, ces
deux bas-reliefs nous ramènent eux aussi vers l'époque des Antonins et des Sévères. La chose est
d'autant plus convaincante que l'on sait la fortune que connut ce thème des Dioscures-Kabires sous
ces deux dynasties22.
9
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20
21
22
Ibid., p. 27, 29, 110, 299, etc.
Ibid., p. 4, 29, 112.
Ibid., p. 78-79, 81-84,110,263, 319. -Double comme sur notre figure, elle devait être l'équivalent des
les deux planches verticales réunies qui symbolisent leur attachement fraternel. Sur l'emploi des
cornucopiae jumelées comme symboles des Dioscures-Cabires, cf. Ch. PICARD, Un monument rhodien
du culte princier des Lagides, dans B. C. H., LXXXIII, 1959, II , p. 415 et note 1,p. 424, note .
F. CHAPOUTHIER, p. 63.
Ibid, p. 113 - Pour l'oenochoé, cf. ibid., p. 173.
Ibid., p. 107-108, 112, 72 et 76; G. PICARD et Ch. SAUMAGNE, loc. supra laud.
DAREMBERG et SAGLIO, II, s. v., Dioscuri, coll. 254 et 261.
F. CHAPOUTHIER, p. 105-108.
Ibid., p. 72, p. 247 et fig. 38.
cf. par ex. les images léontocéphales du sanctuaire punique de Siagu : A. MERLIN, Le sanctuaire de Baal
et de Tanit près de Siagu (notes et documents, IV), Paris, 1910, pl. III.
Pour ce qui regarde Saturne, cf. St. GSELL, Musée de Tébessa, Paris, 1902, p. 15 et note 3, pl. I, fig.2 et 4 et
A. Merlin, opus iam laudat., p. 46 et note 6. - En ce qui concerne Baal-Hammon, cf. St Gsell H.A.A.N., IV,
Paris, 1920, p. 358, note 7.
F. CHAPOUTHIER, fig. 30 de la p. 216 et fig. 38 de la p. 247 et n. 64 de la p. 72. - Voir à ce sujet St. Gsell,
H.A.A.N., IV, p. 273-274 et Henri Graillot, Le culte de Cybèle, Mère des dieux, à Rome et dans
l'Empire romain, Paris, 1912, p. 531-532.
F. CHAPOUTHIER, p. 262-268. Il n'est pas impossible non plus que le motif puisse être interprété comme
une double torche, symbole de l'Etoile du matin et de celle du soir : ibid., p. 273 et fig. 47. - Ce qui conviendrait aussi parfaitement à des servants d'Astarté.
Ibid., p. 99.
80
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
Deux inscriptions complétaient le lot de ces antiquités lapidaires. C'est à elles
principalement que nous avons voulu consacrer notre étude. Il s'agit de deux dédicaces, l'une à Esculape, l'autre au dieu principal de la Carthage punique, qui apportent une contribution intéressante à l'histoire de l'Afrique romaine. Après avoir
décrit l'un et l'autre monument, nous essaierons d'établir le sens de chaque texte et de
résoudre, en un bref commentaire, les problèmes posés par le contenu des documents.
Un premier monument inscrit (pl. X-XI) porte la graphie suivante :
AESCVLAPIO
ABEPIDAVRO
PRO.SALVTE
AVG
C.FONTEIVS
DORYPHORVS
SAC.M.D.M.I
ETATTIS.D.D
AESCVLAPIO
ABEPIDAVRO
Cette dédicace à Esculape22 bis est gravée sur trois faces juxtaposées d'un petit dé
parallélépipédique légèrement gauchi, en marbre statuaire de Carrare, qui faisait
partie d'un piédestal ou d'un autel brûle-parfums et que prolongent en haut et en
bas deux fortes saillies moulurées comportant, celle du sommet, un cavet couronné, et
celle de la base, une doucine renversée, un tore et une plinthe. Le pourtour du
plateau supérieur a été entièrement détruit; du filet qui en constituait le bord, il ne
reste qu'un petit témoin sur la face inscrite gauche; le cavet a été fortement écorné.
Sous le texte le plus dense, un éclat a fait disparaître le trièdre gauche terminant la
plinthe. La face non gravée devait être destinée à être adossée à une paroi. Comme
pour recevoir un clou à large tête, un trou conique a été creusé à l'aide d'un poinçon
approximativement au centre et immédiatement contre la saillie
22
bis M. Cl. POINSSOT, Saturnus Achaiae, dans Hommages à Albert Grenier (coll. Latomus, LVIII) p. 1276, note 1, fait
allusion à cette inscription, et se pose à son sujet la question de l'existence d'un culte d'Esculape distinct de
celui du successeur d'Eschmoun à Carthage. Nous ne pensons pas que la métropole africaine -d'où sort
l'épigraphe - ait honoré cette divinité sous deux vocables différents, étant donné que sur les marbres de Byrsa
qui mentionnent le dieu romain de la médecine vénéré en ce lieu, son nom est évoqué comme ici à côté de
ceux de la Mère des dieux et d'Attis.
81
AFRICA
supérieure de la face inscrite droite. La taille de la pierre étant quelque peu irrégulière, nous ne donnerons que des dimensions moyennes. La hauteur totale du support
est de : 29,2 cm, soit sensiblement un pied; celle du dé de : 14,6 cm environ. La base
forme un carré d'environ 18,5 cm de côté.
Avec beaucoup de métier, le lapicide a distribué son texte en deux parties et a
répété, en outre, l'adresse à la divinité sur deux faces du cube, de part et d'autre
d'une troisième réservée à l'objet de la consécration.
Le nom du dieu et son ethnique sont répartis sur deux lignes qui prennent toute la
largeur du dé et qui sont très aérées, séparées qu'elles sont par un grand intervalle,
une marge ayant été ménagée verticalement, plus petite vers le haut et très grande
vers le bas. La hauteur moyenne des lettres est de 1,5 cm. Un certain relâchement dans
le travail se sent sur la face droite.
Le texte médian se développe sur six lignes disposées de la même façon en
largeur, mais qui, dans le sens de la verticale, occupent tout l'espace disponible, à
part une faible marge en haut et en bas. On sent que l'artisan n'avait pas suffisamment
calculé ses intervalles, puisqu'il a été obligé de serrer davantage le dernier interligne.
Pour mettre en valeur le motif de la dédicace, Salus Augusti, il l'a traité à la manière
d'un titre, en aérant un peu plus les caractères, en les étirant très légèrement dans le
sens de la hauteur et en réservant à l'abréviation A V G toute la ligne 2 au centre de
laquelle elle s'étale. De la deuxième à la sixième ligne, la hauteur des lettres varie entre
1,4 cm et 1,3 cm, alors qu'elle est de 1,5 cm à la première. La ponctuation est indiquée
par des points triangulaires. Celui qui manque après le I terminant la cinquième ligne
eût davantage équilibré la mise en page.
Ce n'est pas la seule négligence que l'on remarque dans la gravure de cette
inscription. Après finition du travail, l'ouvrier a dû gratter le marbre là où se trouve le
mot ATTIS. Peut-être avait-il d'abord tracé ATTIDIS conformément au sens, mais
qui donnait à la dernière ligne un texte trop serré et donc peu esthétique ? Il lui a
préféré une forme ATTIS du génitif, qui devait être admise, puisqu'il semble qu'à
Carthage ait existé un datif ATTI23. Une autre trace de correction après achèvement
de l'œuvre se voit à la place du deuxième A dans le nom d'Esculape, et sur les deux
faces où il se trouve mentionné; elle est probablement due à une faute d'orthographe
provoquée par la manière dont ce mot d'origine grecque était prononcé par le peuple
de Carthage et que les responsables de la commande ou de l'exécution n'ont pas voulu
maintenir.
23
C.I.L., VIII, 24. 521.
82
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
Les formes épigraphiques correspondent à celles que l'on rencontre sur les
inscriptions monumentales d'Afrique à l'époque des Antonins. Toutes les lettres sont
encore bien proportionnées. Mais les barres horizontales ont une légère tendance à
s'infléchir. La courbe qui termine le bas du G est caractéristique. La barre
transversale de 1' A fait une fois défaut. Les B et les R sont rarement
fermés au centre sur le jambage.
Le texte ne présente aucune difficulté d'interprétation et se lit ainsi :
Aesculapio/ab Epidauro. Pro Salute/Aug (usti)/, C(aius) Fonteius/Doryphorus/, Sac
(erdos) M(atris) D (eum) M(agnae) I(daeae)/et Attis d(edit) d(edicavitque).
Aesculapio/ab Epidauro.
Sur l'existence en Afrique, depuis le deuxième siècle de notre ère, d'un culte
rendu à Esculape d'Epidaure, les témoignages littéraires, épigraphiques et figuratifs
ne manquent pas. Les passages d'Apulée et de Tertullien, relevés par A. AUDOLLENT24,
nous parlent d'un temple carthaginois dédié au dieu de la médecine et bâti sur
l'emplacement de l'ancienne acropole. Une inscription fragmentaire, recueillie par
A. L. DELATTRE sur le versant oriental de la colline dite de Byrsa et où il est question
d'un édifice d'Esculape25, favoriserait l'hypothèse de l'emplacement en ce lieu du
Sanctuaire mentionné par la littérature, d'autant plus qu'on y a trouvé aussi d'autres
fragments de textes avec le nom du dieu 26 et des débris de reliefs qui semblent avoir
appartenu à des représentations de cette divinité 27. Tout près de l'endroit de ces
trouvailles, à l'intérieur de l'ancienne propriété Saumagne, a été mise au jour par la
suite une dédicace à la Mère des dieux où Esculape se trouve mis en rapport avec la
Grande Déesse de l'Ida, sans que la nature de cette association, à cause des lacunes
du texte, puisse être précisée 28. Le simulacre actuellement conservé au Musée
National de Carthage et qui a été exhumé en quatre fragments sur la colline de Sainte
Monique (aujourd'hui Sayda)29, avait peut-être sa place quelque
24
25
26
27
28
29
A. AUDOLLENT, Carthage romaine, Paris, 1901, p. 400-402.
A. L. DELATTRE, La colline de Saint Louis de Carthage, dans Revue Tunisienne, 1901, p. 285. Voir aussi la
p.283 § 1 et tout Partic le passim.
Du même, Inscriptions païennes, latines et grecques trouvées à Carthage dans les années 1886, 1887 et
1888 (Hippone 1888 ?), p. 4; Inscriptions de Carthage (épigraphie païenne) 1889-1890, dans Mélanges de
l'Ecole de Rome, X, 1890, p. 317-318 (p. 3-4 du tiré à part); XII, 1892, p. 241-242 (p. 9-10 du tiré à part).
Du même, Bulletin épigraphique, V, 1885, p. 90.
Ch. SAUMAGNE, Notes de topographie carthaginoise. La colline de Saint Louis, dans Bull, du Comité, 1924,
p.189; A. MERLIN, Inscriptions latines de Tunisie, Paris, 1944, n. 1047.
A. L. DELATTRE, Les fouilles de la nécropole punique de Carthage, dans C.R.A.I., 1898, p. 215-216.
83
AFRICA
part dans le temple des Cereres 30. A la même époque, Esculape était aussi honoré
dans les petites villes de l'intérieur 31. A Maxula (Radès), le fronton d'un édicule
portait une dédicace à cette divinité, qui fut ensuite modifiée en une seconde où
Panthée lui était associé ou assimilé 32. Sous Antonin le Pieux, un sufète de Thibica
(Henchir bîr Magra) dédie, au nom de sa cité, un monument au divin guérisseur33.
A Thuburbo Majus (Henchir Kasbat), on avait remployé dans les thermae
aestivales un montant en pierre appartenant au podium d'un Sanctuaire
d'Esculape et sur lequel était gravé un rituel d'abstinences 34. Plusieurs textes
mentionnent l'existence de ce culte à Dougga 35. La fonction de prêtre de Cérès et
d'Esculape a été lue sur une inscription exhumée à Henchir Bîr el-Afû, à 30
kilomètres au nord de Béjà 36. Une autre commémore l'érection à Vazita Sarra,
cité de Byzacène au pied du Djebel Bargou, d'un temple qui avait été promis à
la même divinité pour le « salut» de Septime Sévère 37. Il semble qu'un des
édifices sacrés mis au jour à Bou-Ghara (Gigthis) sur la côte de la petite Syrte
lui ait été dédié37 bis. Dans la région de Lambèse et de Thimgad, les dévots
associent presque toujours le dieu à Hygie ou à Salus38. A part un temple à
Lambèse, les dédicaces sont gravées sur des dés d'autel. La dévotion au divin
Médecin ne semble pas, dans l'état actuel de nos connaissances, avoir franchi les
frontières de la Maurétanie Sitifienne; elle ne paraît même pas avoir atteint la
Numidie septentrionale.
Le texte que nous étudions est particulièrement laconique en ce qui concerne
la personne de l'Auguste en faveur de qui est faite la dédicace. La seule chose
que
30
31
32
33
34
35
36
37
37
38
Du même, Sur Remplacement du temple de Cérès à Carthage, dans Mémoires... des Antiquaires..., LVIII,
1897, Paris, 1899, p. 3-4 et pl. II.
Jules Toutain, Les cités romaines de la Tunisie. Essai sur l'histoire de la colonisation romaine dans l’Afrique
du Nord, Paris, 1896, p. 215-216.
Louis POINSSOT, Inscriptions de Suo et de Maxula, dans C.R.A.I. 1936, p. 284-287; A. Merlin, opus iam laud. p.
159, et n. 868, a et b.
C.I.L., VIII, 765 = suppl. 12228.
A. MERLIN, Une nouvelle inscription découverte à Thuburbo Maius, dans C.R.A.I, 1916, p. 262-267; René
CAGNAT, Inscriptions latines d’Afrique, Paris, 1923, p. 65, n. 225.
L.POINSSOT, dans Nouvelles archives des Missions scientifiques, XXI, 1913, fasc. 8, p. 4, 193 et 224;
R.CAGNAT, op. iam laud., p. 156, n. 535 et p. 158, n. 545 et 546.
C.I.L., VIII, suppl. 14.447.
Ibid, suppl. 12. 006.
bis L. A. CONSTANS, Gigthis: étude d'histoire et d'archéologie sur un emporium de la petite Syrte (Nouvelles
archives des Missions scientifiques, 14ème fasc), Paris, 1916, p. 66-67.
Léon RENIER, Inscriptions romaines de l’Algérie, Paris, 1855-1886, n. 28, 81, 145, 152, 1533.
84
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
nous croyons pouvoir affirmer, c'est qu'il s'agit d'un empereur de la famille des
Antonins.
Le prêtre métroaque auteur de l'ex-voto est inconnu par ailleurs. Le gentilice
romain qu'il porte 39 se rencontre très fréquemment en Afrique 40. Son cognomen,
utilisé à Rome également, apparaît pour la troisième fois à Carthage, et pour la quatrième en Proconsulaire41.
L'épigraphe le qualifie de prêtre de Cybèle et d'Attis. Nous sommes bien renseignés sur l'importance du culte de la Mère des dieux en Afrique depuis les études
capitales de M. H. GRAILLOT 42 et de St. GSELL 43. Cinq inscriptions recueillies presque
au même endroit sur le versant oriental de la colline dite de Byrsa sont venues
témoigner de l'existence et du crédit de cette dévotion à Carthage. L'une d'entre elles,
dédiée également à Attis, nous renseigne sur la consécration en ce lieu, non pas
seulement d'autels tauroboliques, mais d'un véritable temple, qui fut restauré au
IVème siècle 44. probablement à la suite de la destruction de tout le quartier par la
guerre entre Maxence et Alexandre 45. Ce Sanctuaire devait être déjà implanté là, non
loin de celui d'Esculape comme à Lambèse, à l'époque de Septime Sévère comme le
confirment les dédicaces que l'un d'entre nous exhuma en cet endroit et qui ont permis
d'identifier comme un Métroon les vestiges encore imposants d'un édifice sacré
trouvé tout près de là, mais dont la publication, pour des raisons indépendantes de sa
volonté, n'a pas encore été faite 46. Deux des documents attestent l'offrande du
sacrifice spécial offert à l'Idéenne, le taurobolium 47; un autre, l'existence d'une confrérie
de dendrophores48. La dédicace inscrite sur le dé-autel que nous publions aujourd'hui
et qui mentionne à la fois Esculape et les Omnipotents nous semble, à
39
40
41
42
43
44
45
46
47
48
Voir à son sujet Cic. Fontei, XVII, 37.
C.I.L, VIII, suppl. partie V, fasc. 1 : Indices, p. 29, s. v. Fonteius.
Ibid., p. 85, s. v. Doryphorus (4139 ; Numidie 12711 et 12729) : Carthage, .25.943 : Thignica-Aïn el Djemala).
Sur cette dernière inscription, cf : Tablettes Albertini, Paris, 1952, p. 100 et ss.
H. GRAILLOT, Le culte de Cybèle iam laud., p. 520-533.
St GSELL, Autel romain de Zana (Algérie) dans C.R.A.I., 1931, p. 251-269.
A. L. DELATTRE, dans Rev. Tun. 1901, p. 283-284 et C.I.L. VIII, suppl. 24.521.
Voir les constatations qui ont été faites à ce sujet lors des fouilles systématiques sur le versant Sud-Ouest de la
colline de Byrsa: Jean FERRON et Maurice PINARD, Les fouilles de Byrsa (suite), dans Cahiers de Byrsa, IX,
1960-61, p. 77.
A. MERLIN, Dédicace à la Mère des dieux trouvée à Carthage, dans B.A.C, 1917, p. 85-93, du même, dans
B.A.C, p.ccxxxIII - ccxxxvI; R. CAGNAT, Inscriptions latines d'Afrique, n. 355 et 356, p. 104-105; A. MERLIN,
Inscriptions latines..., n. 1047 et 1048, Ch. SAUMAGNE, Notes de topographie carthaginoise... p. 188-190.
A. L. DELATTRE, dans Rev. Tun., 1901, p. 285, n. 4; A. MERLIN, Inscriptions... p. 180, n. 1048.
C.I.L., VIII, suppl. 12.570.
85
AFRICA
cause de sa teneur même, ne pouvoir guère provenir que de Carthage et de ces lieux de
culte en particulier. La proximité de Gammarth favorise encore cette attribution.
Nous aurions ainsi en cette inscription un témoin un peu plus ancien de l'existence en
cette ville de la religion taurobolique.
Cette découverte nous remet une fois de plus en pensée le problème controversé des agents de l'introduction de cette dévotion dans le premier port d'Afrique.
St. GSELL l'attribuait aux colonisateurs romains 49. Mais l'implantation de ce temple
de la Grande Mère au cœur de la cité favorise l'opinion de ceux qui estiment que
Cybèle avait été assimilée à la Coelestis de Carthage par la population elle-même,
héritière des traditions puniques 50. On assisterait au même phénomène que celui qui
se passait vers le même temps en Syrie, où Atargatis, identifiée à Rhéa, avait été
substituée à la phénicienne Astarté 51.
Le support de la seconde épigraphe est constitué par une plaque
parallélépipédique taillée dans un marbre blanc d'Italie à veines grises en
arrangements désordonnés. L'angle supérieur gauche a été brisé, mais sans
inconvénient pour l'identification des caractères qui formaient, à notre avis, le début
de la gravure. Les dimensions sont les suivantes :
— longueur : 35 cm;
— plus grande largeur : 27,5 cm.
— épaisseur : 2 cm environ car la dalle a été retirée depuis.
Une première lecture de l'inscription suffit à nous assurer que la pierre portait
deux textes, distribués en registres superposés et nettement distingués l'un de l'autre
par la graphie, - et que la teneur de celui qui vient en second a été conçue en fonction
de l'autre, en même temps que pour définir l'ensemble du document. Il est donc
logique de s'y arrêter en premier lieu.
49
50
51
St GSELL, Autel romain de Zana iam laud. p. 259-260.
A. AUDOLLENT, Carthage romaine, p. 376, note 3; G. Picard, Les religions de l’Afrique antique, p. 221, 223.
L UCIEN
15.
86
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
Les lettres qui le composent sont de petites dimensions, 12 mm en principe. La
gravure en est régulière et les traits en sont sobres. On serait tenté de les dater au
plus tard de la première moitié du IIIème siècle de l'ère chrétienne52.
Le texte est inscrit dans un registre que ne définit aucun encadrement linéaire, et
dont les dimensions sont seulement suggérées par la gravure, aux quatre angles, d'un
signe en forme de fleur minuscule, à deux pétales filiformes et volutes en opposition;
ces signes sont disposés homontalement; ils mesurent 3 cm de longueur sur 2 cm de
hauteur au droit des volutes.
On y lit sans difficulté :
HVNC . TITVLVM . VETVSTATE . COR
RVPTVM . SEX . CLASSICIVS . SECVN DINVS .
PROC . AVG AT FORMAM TITVLI (sic)
VETERIS . ET . LITTERARVM . RESTITVIT
Hunc titulum vetustate cor/ruptum Sex (tus) Classicius Secun/dinus, proc(urator) Aug
(usti) at forman tituli /veteris et litterarum restituit.
Il est apparent que ce texte est ambigu. Si la traduction cursive qu'on en peut
donner va de soi, il n'en est pas de même de l'intelligence exacte qu'on peut en
avoir. En effet, il peut signifier que le procurateur Classicius s'est satisfait de «restaurer» et de «remettre en état» une plaque de pierre apprêtée, en même temps que
l'épigraphe qui s'y trouvait gravée. Mais peut-être aussi le texte pourrait-il vouloir
dire seulement que le procurateur ne s'était proposé que de réaliser une «reproduction» aussi fidèle que possible, une sorte de double formel et de «copie figurée»
d'un original rendu indéchiffrable par la vetustas et sur le point d'être mis au rebut.
Nous retiendrons ici que Classicius s'est bien flatté de «rafraîchir» et de nous
«restituer» un original dans son identité physique. En effet, si le mot titulus a bien
pour objet principal et de sens commun de désigner à la fois une «graphie» et son
support matériel, et d'associer indissolublement à l'idée exprimée par l'épigraphe la
figure du matériau qui la porte, nous sommes justifiés à présumer que le procurateur,
en engageant son apostille certificative par un vigoureux démonstratif: hune
titulum corruptum, a voulu lier la notion intellectuelle du texte regravé à celle, plus
concrète, du monument restauré, - attestant ainsi que le «document que voici»
= hune titulum, est l'original dont il certifie l'authenticité matérielle.
52
cf. une graphie toute semblable dans une inscription découverte en Tunisie et qui a pu être datée du début du
IIème siècle de notre ère, dans Cahiers De Byrsa, III, 1953, p. 113-118 et planche.
87
AFRICA
Le hic titulus vetustate corruptus serait donc le même que le titulus vetus que la
phrase évoquera plus loin. Ainsi l'articulation logique de la proposition serait la
suivante : Classicius restituit hunc titulum, corruptum vetustate, ad formam tituli veteris. Le
verbe restituere serait alors reçu avec le sens qu'il a, principalement et concurremment,
en latin et en français, celui de «remettre en état», de «rétablir», de «réparer» un objet
détérioré, sans que cette action porte atteinte à l'identité tant substantielle que
formelle de cet objet.
Le certificat d'authentification établi par le procurateur nous paraît donc pouvoir
être traduit ainsi : «La pierre épigraphique que voici (hunc titulum), que la vétusté
avait détériorée, Sex. Classicius Secundinus, procurateur impérial, l'a remise en état
(restituit), en se conformant à la forme d'ensemble que revêtait la vieille pierre
(adformam tituli veteris) et (à la forme) des lettres (de l'épigraphe qu'elle porte)».
Nous admettons donc que l'inscription incontestablement restaurée par le procurateur est un document très ancien et original, - ou tout au moins, qu'elle est un
document dans lequel ce procurateur a vu, non sans quelque raison et certainement de
bonne foi, un monument original et authentique, digne d'être retransmis comme tel à
la postérité.
Cette seconde inscription, - le «titulus restitutus ad formam veteris tituli et
litterarum», - couvre le registre supérieur de la pierre. Celui-ci occupe une surface
de 35 cm sur 13 cm de hauteur. Il porte cinq lignes de caractères archaïques,
nettement et fermement gravés, hauts en moyenne de 18 mm. Chaque ligne compte
respectivement : 21, 19, 20, 20,18 lettres.
Dans ce registre, on déchiffre sans peine le texte suivant :
DIRVTIS PERVSQVEQVAQVE
ET ATSOLATIS MOENIBVS
INSTAR REBELLIS IMPERI
SOLIVM POTITVS HOC TVVM
HOC ADNIBALI
SCIPIO
qu'on lit ainsi: dirutis perusquequaque / et atsolatis moenibus / instar rebellis imperi / solium
potitus hoc tuum/hoc adnibali scipio.
Ce texte archaïque est constitué par une seule phrase, elle-même decomposable
en quatre propositions, qui se suivent dans l'ordre suivant :
1. dirutis per usquequaque/ et adsolatis moenibus,
2. instar rebellis imperi/,
3. solium potitus hoc tuum/,
4. hoc adnibali Scipio....
88
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
II ressort jusqu'à l'évidence que, de ces quatre propositions, la dernière est la
principale; mais il n'est pas moins constant que, dans celle-ci, Scipio représentant
le sujet, hoc, le complément direct et adnibali le complément indirect, il y manque le
verbe.
Hoc désigne incontestablement un objet, et il appartient à quel qu'autre élément
de la phrase de nous en révéler la nature. Mais Scipio est un être humain; et on ne
s'aventurera pas, si on lui donne comme correspondant un autre être animé, désigné
ici par le nom propre au datif Adnibali. Cet Adnibal étant tel, il vient naturellement à
l'esprit que le verbe défaillant a dû exprimer l'idée d' «affectation», d' «attribution», de
«dévolution», en un mot de «donation»; on supposerait à bon droit qu'il puisse être un
des verbes rituels impliquant l'idée de «don», comme vovit, ou devovit ou dedicavit ou
consecravit.
Or, il apparaît que ce verbe, que la logique et la grammaire à elles seules s'accordent à suppléer, est précisément inscrit sur notre pierre : consecra(vit). Il y figure
même précédé de la conjonction et, qui impose de penser que consecra(vit) était
associé à un autre verbe, de sens voisin et complémentaire, de l'ordre de dédit, vovit,
devovit, dedicavit.
Les mots et consecra(vit), parfaitement lisibles, se présentent sous un aspect
singulier. Le lapicide les a rejetés dans la marge demeurée libre entre la dernière
ligne du texte procuratorien et le bord inférieur de la pierre. Il en a gravé les lettres en
forme cursive, comme si son ciseau n'avait pu que s'appliquer à suivre servilement
les contours d'une écriture courante, dont le dessin aurait été projeté sur la plaque
par une main hâtive, qu'on imaginerait volontiers nerveuse et irritée. Cette main
directrice, dans sa précipitation, a même visiblement négligé de ménager une place
pour y loger la syllabe finale... vit.
Il n'est peut-être pas surabondant d'observer que si le procurateur n'avait été
inspiré que par le souci de terminer la phrase par l'adjonction plus ou moins hypothétique d'un verbe vraisemblable, il se serait épargné d'inscrire la conjonction...
et. S'il l'a mise là, c'est qu'il s'est fait une obligation de probité de ne «rafraîchir» que
ce que laissait visiblement subsister l'effacement de l'original. De même, s'il a laissé
en blanc le verbe qui précédait... et, ainsi que la dernière syllabe du verbe
consecra(vit), c'est que sa conscience de «témoin certificateur» lui interdisait même
les vraisemblances d'une heureuse interpolation.
On présumera que le praticien commis à la restauration matérielle du texte
n'a pas trouvé, sur la pierre trop usée, d'indications assez apparentes à ses yeux,
l'autorisant à regraver une sixième ligne que la vetustas lui aurait rendue imperceptible.
Il se peut, du même coup, que le procurateur, s'avisant d'une lacune qui laissait
89
AFRICA
la phrase béante sur le vide de son verbe essentiel, alors que, grâce à une certaine
intelligence du texte, il avait réussi, à un moment quelconque, à discerner sur la
pierre un «et consecra..., évanide sans doute, mais déchiffrable, qui devait clore nécessairement la phrase restaurée, en ait, une fois le travail achevé par le praticien,
reporté hâtivement la mention, au charbon ou à la craie, en marge et au bas de la
plaque, confiant au lapicide le seul soin de la graver comme hors texte dans la forme
tronquée qu'il lui avait donnée.
De quelque manière qu'on suppose que le verbe consecra (vit) ait été annexé au
texte, et sans qu'il soit tout de suite nécessaire de restituer le verbe disparu auquel le
liait la conjonction et, il n'est guère douteux que la proposition principale était ainsi
conçue : hoc Adnibali Scipio /.... et consecra (vit).
C'est dans le contexte des propositions circonstancielles qui précèdent et introduisent cette proposition principale que nous tenterons plus loin de découvrir le
contenu du pronom hoc, c'est-à-dire l'objet avec lequel il est en corrélation, et qui
est l'objet «consacré».
Mais il paraîtra plus pressant de dégager l'identité de «l'être» que masque le
datif Adnibali, puisque ce nom s'impose de lui-même comme étant celui qui désigne
l'entité bénéficiaire de la consecratio.
Cette contiguité des noms de «Scipio» et de «Adnibal» a induit les premiers
lecteurs du texte à penser que celui-ci associait les deux grands héros de la seconde
guerre punique. La difficulté d'introduire la lettre d dans le nom d'Annibal n'a pas
fait tout de suite obstacle à cette hâtive interprétation. Cependant la plus rapide
lecture de l'ensemble du document suffit à l'entourer de l'image offerte par les ruines
de Carthage : dirutis... et adsolatis moenibm. Ainsi est évoquée une action qui n'a été
accomplie que par Scipion Emilien autour de l'année - 146 et est exclue toute rencontre ou relation entre le Premier Africain et le vaincu de Zama.
Enfin, et surtout, il nous a tout de suite paru que le fait même que Scipio avait
procédé à une consecratio comportait l'existence et appelait, par conséquent, la mention
d'une entité divine bénéficiaire de cette consecratio. Aussi est-ce avec la plus prompte
assurance que celui de nous deux à qui les antiquités puniques sont le plus
particulièrement familières a reconnu dans l'énigmatique Adnibal, la personnalité
du «Seigneur Bacal», de l'«əAd(o)n Bacal», dieu suprême du panthéon carthaginois,
Bacal-Yammon, dont la prépondérance, en dehors de la dévotion populaire, sur
Tanit, sa parèdre, ressort nettement encore.
La restauration qui a été faite du texte primitif est certainement irréprochable.
Mais la compréhension de ce dernier eût été plus aisée, si son auteur avait clairement
séparé les deux substantifs puniques latinisés dont Adnibali est composé,
90
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
c'est-à-dire A D N I B A L I, qui doit être interprété: «à əAdon, à Ba cal», «à
ə
Adon-Bacal», «au Seigneur Bacal». Gravé comme il l'est, on risque de le confondre,
non pas avec Hannibal, mais avec un autre nom théophore de personne, Adnibali, qui a
été rencontré sous la forme «Idnibali» sur une inscription latine de Thubursicu
Numidarum (aujourd'hui Khamissa) en Algérie (cf. St. GSELL, Inscriptions latines de
l’Algérie, I, Paris, 1922, p. 119, n. 1234).
Dans ADNI BALI, nous reconnaissons la transcription purement consonantique de
la formule dédicatoire traditionnelle des inscriptions votives de la Carthage punique:
LəD N
LBcL
où la désinence (i) du datif latin est substituée à la particule d'attribution (L) de
l'idiome cananéen:
(L) əDN (L) BcL = ADN ( i ) BAL ( i )
II est certain que habituellement, lorsque les Phéniciens ou les Puniques
transcrivent leur langue en grec ou en latin, ils n'omettent pas de rendre les voyelles,
surtout les longues, comme le o que comporte le mot əD N. Il suffira de rappeler à
ce sujet le graffito de la grotte de Wasta (M. SZNYCER, Remarques sur le graffito
phénicien en caractères grecs de la grotte de Wasta, dans Semitica, VIII, 1958, p. 5-10) et
c
l'exvoto découvert au printemps 1950 à El-Ḫofra dans le tophet constantinois de Ba al
Hammon (A. BERTHIER et R. CHARLIER, Le Sanctuaire punique d’El-Hofra à Constantine,
Paris, 1955, p. 167, pl. XXVIII, A); Transcription vocalique53.
Mais nous constatons également que, pour des raisons spéciales, les
Phéniciens Puniques font usage d'une transcription purement consonantique de leur
langue en latin. L'exemple le plus typique est apporté par la bilingue latinopunique du CIS.,I,149:
Texte latin :
HIMILCONI . IDNIBALI ..........
QVEI . HANC . AEDEM . EX . S . C . FAC iundam
COERAVIT . HIMILCO . F . STATVAM dédit
Texte néopunique : [LH] MLKT BNəDNBcL BN ḪMLKT
HPRT cL MY TBəRŠə H....L
K............
LBN'T T HMQDŠ
..T
LHRBT LəLT
TYNə T HMəŠ
..T BNə
ḪMLKT
53
Nous avons essayé de reconstituer ce système de transcription vocalique du phénicien-punique en grec dans
une étude récente : J. FERRON, l'Inscription dite bilingue des disques en plomb de Carthage, dans Mélanges de
Carthage, Paris, 1964-1965, p. 78.
91
AFRICA
Dans le patronyme IDNIBALI, qui transcrit əDNBcL (Bacal est mon maître), on
remarque que le mot ne comporte que des consonnes, à part la terminaison casuelle
latine indispensable pour le sens, et que la longue o est bien omise. Le premier I
correspond à l’aleph, coloré ici i à cause de la prononciation du moment (é devenu
i). Le deuxième I tient la place du yod, pronom suffixe.
Il est probable que pour tout nom, dont l'équivalent latin n'existait pas encore,
on se contentait de transcrire les consonnes à cause de la vertu qui s'attachait à l'expression théophore employée pour désigner une personne.
C'est pourquoi il ne peut paraître étrange que dans notre inscription le collège
sacerdotal carthaginois auteur du texte ait respecté l'orthographe consonantique
des innombrables dédicaces puniques à Bacal-Ḫammon, à l'exception de la seule
flexion casuelle du datif, la particule d'attribution L n'ayant pas de correspondant
en latin (en ce qui regarde les ex-voto carthaginois, porteurs de la formule dédicatoire,
cf. C.I.S.,I, pl. xxvI et suivantes). Dans ADNI BALI en effet, le premier A correspond à l'aleph des stèles votives et le second à l'ayin des mêmes pierres inscrites.
En transcrivant autrement, on aurait sans doute cru porter atteinte à la vertu rituelle
renfermée dans l'orthographe du nom divin, tel qu'il avait été écrit par des générations
de Carthaginois dans le temple de Bacal-Ḫammon, et nuire ainsi à l'efficacité de l'exvoto rappelant le geste de Scipion.
A elle seule, cette particularité nous garantit déjà l'antiquité, et une antiquité
relativement haute, d'une épigraphe, en face de laquelle on éprouve tout d'abord
instinctivement un sentiment de grande méfiance.
Cette manière de latiniser le nom de Bacal-Ḫammon allonge la liste de celles
que nous connaissions déjà. On a rencontré la forme BALAMONI sur une
inscription africaine du début du IIème siècle de notre ère54. On a relevé aussi Adon,
qui donne au génitif Adonis et au datif Adoni, comme dans l'épitaphe d'un Punique
romanisé de Bou-Chater55 ou sur un ex-voto du Khanguet el-Hajaj56. Cette appellation
n'a rien à voir, comme le pensait avec raison Jules TOUTAIN57, avec le nom de la
divinité syrienne Adonis. Après un certain nombre d'années de romanisation de
l'Afrique punique la dédicace des stèles sera rendue par un équivalent latin, Domino
Augusto ou Domino Saturno.
54
55
56
57
Cahiers à Byrsa, III, 1953, p. 113-118.
C.I.L., VIII, 1211.
Année épigraphique, 1905, n. 13.
J. TOUTAIN, Bulletin de la Société des Antiquaires, 1915, p. 296-299, du même Les cultes païens
dans l'Empire romain, 1ère partie, III, 1 fasc, Paris 1917, p. 26; du même B.A.C., 1918, p. CLXX-CLXXII.
92
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
Pour parfaire la proposition principale, où ne survit que le verbe consecravit,
nous sommes amenés à restreindre le choix entre devovit et dedicavit.
Les considérations tirées de la rectitude des procédures rituelles nous ont inclinés d'abord à opter pour dedicavit.
Nous obtiendrions ainsi la restitution: hoc Ad(o)ni Bali Scipio/ [dedicavit] et
consecra [vit].
En effet, dans l'ordre de succession des actes rituels, la consecratio succède à la
dedicatio ; et les deux actes sont précédés d'un votum, d'une promesse qui a exprimé religieusement et solennellement l'engagement de les accomplir : (Titius quod vovit,
dedicavit et consecravit).
La consecratio, à elle seule, est un rite fragmentaire; elle n'emporte pas une plénitude d'efficience. Cicéron, qui, dans le pro domo, a longuement exploré le sens et
mesuré la portée de ces rites, a donné un relief eminent à celui de la dedicatio dans son
rapport avec la consecratio; il professe que «consecratio nullum habet ius;
dedicatio est religiosa; dedicatio habet magnam religionem». La consecratio, quand
elle est prononcée «par un particulier» (ajoutons : par un magistrat que n'assisterait
pas un pontife) n'a pas d'autorité légale; par contre, la dedicatio «suppose l'accord
réciproque de la personne civile et du pouvoir religieux (niagistratus per pontificeni
dedicat)»58.
Nous nous sentons d'autant mieux justifiés à restituer la sixième ligne du texte
archaïque dans la forme [dedicavit] et consecra [vit], que la proposition initiale de ce
même texte a dressé, au seuil même de notre commentaire, l'image dramatique d'une
Carthage démantelée et «rasée au niveau du sol»; nous voulons dire par là qu'au
moment où ont été conçus les termes de notre inscription, Carthage avait déjà subi,
dans toute sa rigueur, le sort auquel l'avait vouée une loi émanant du Peuple
Romain, la lex Livia, peut-être elle-même intervenue ex auctoritate Senatus. Cette loi
avait ménagé au Sénat le pouvoir de composer et d'envoyer en Afrique une
Commission de dix membres ; ils étaient en particulier chargés de tenir la main à
l'exécution de la décision arrêtée à Rome, et qui était «de détruire entièrement ce qui
restait de Carthage et d'interdire aux hommes l'accès de son sol», c'est-à-dire,
pratiquement, de «dédier» ce sol à la divinité et de le «consacrer», de le rendre sacer59.
58
59
Cic, Dom, 40, 45-54.
Digest., 1, 8, 9, 1 (Ulpien,68 ad edicttim).
93
AFRICA
Mais il n'est pas téméraire de présumer que Scipion n'a pas été homme à se
laisser prévenir dans ses résolutions par les injonctions des politiciens de la Curie
ou du Forum. Ceux-ci ont dû se borner à entériner ses propositions, en fait ses décisions, et, plus précisément, à légaliser les vota par lesquels il avait engagé ses responsabilités d'imperator.
Emilien était de la lignée des hommes publics qui respectaient les lois. Et il ne
pouvait méconnaître qu'il lui fallait observer une certaine lex Papiria de l'année
450,304, dont Tite-Live rapporte en ces termes l'une des dispositions : ne quis templum
aramve iniussu Senatus aut tribunorum plebei partis maioris dedicaret60. Scipion devait même
vraisemblablement connaître une meilleure relation de cet article, que nous croyons
être celle que rapporte précisément un Carthaginois, Tertullien : ne qui im-perator
fanum quod in hello vovissetprius dedicasset quan Senatus probarett, «qu'aucun général en
chef qui aurait fait vœu d'attribuer à un lieu un caractère sacré (fanum vovere) ne
procède à la dedicatio de ce lieu, avant que le Sénat ne l'ait approuvé».61
Scipion devait se sentir d'autant plus étroitement tenu de se couvrir d'un assentiment populaire et d'une probatio Senatus, que la loi à laquelle il était soumis
60
61
Liv., IX, 46.
Ad Nat., 1, 10; Apol., V, I, Cf. Euseb., Hist, eccl., II, 2,5 (éd. Bardy).
Le verbe ADSOLARE apporte en outre à ce texte, si suspect, une nouvelle garantie d'antiquité. C'est tout de
même cette inscription qui est venue nous prouver que le mot adsolare a bien existé dans la langue latine, alors
qu'il est encore aujourd'hui concevable qu'un philologue hypercritique et résolument négateur puisse
soutenir, sans paradoxe ou absurdité, qu'un tel vocable est rigoureusement étranger au vocabulaire latin.
Supposons un moment, par hypothèse, que, antérieurement à l'année 1625, un innocent amateur de curiosités
lapidaires ait soumis notre texte de Carthage à l'appréciation de quelque docte société d'humanistes, cette
compagnie savante n'eût pas manqué de proprement le convaincre d'être un faussaire, ou le complice ou la
dupe d'un faussaire, motif tiré de ce qu'on y lisait un mot dérivé du verbe adsolare, alors qu'il était notoire et
constant que ce mot n'était pas latin.
Ce n'est, en effet, qu'en 1625 que le vocable en question, jusqu'alors perdu depuis longtemps dans un oubli
absolu, a recouvré une place, et encore y est-elle infiniment discrète et exiguë - dans le vocabulaire latin. Il y
a été réintroduit par Jacques GODEFROY, qui venait d'en découvrir l'unique mention dans un manuscrit, luimême unique (Parisinus 1622) et demeuré jusqu'alors ignoré, de l 'ad Nationes de Tertullien, dont il a ainsi
procuré l'éditionprinceps. Ce mot adsolare y était discrètement enfoui et oublié dans une proposition incidente
du chapitre iv, in fine, ainsi conçue : «... « maiestatis fastigium adsolant». Et peut-être GODEFROY eût-il hésité à
le débusquer de cette sorte de cache, s'il ne l'avait retrouvé une fois encore dans une autre proposition du même
chapitre IV: «. . . saepe censores inconsultopopulo adsolaventnt (deos)... ».
Le piquant est que la proposition: «...si maiestatis fastigium...» se retrouve dans l’Apologétique du même
Tertullien, dont toutes les éditions tirées, depuis la première en 1492, de la tradition manuscrite dite
«commune» portent obsoletant, alors que, depuis 1625, au moins, elles auraient dû faire état de la lecture de
GODEFROY. Mais cette lecture, les innombrables rééditions de l'Apologétique qui se sont succédées au cours
des XVIIème, XVIIIème et XIXème siècles en ont ignoré la leçon, comme si le mot adsolare provoquait
chez leurs auteurs un réflexe de répulsion. Si bien que Freund et Theil, en 1882, ne savent encore justifier le
mot adsolare que par l'unique référence à l'Ad Nationes.
94
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
avait été conçue, aux rapports de Tertullien et de Tite-Live lui-même, pour réagir
contre la tendance qu'avaient les imperatores in bello à adresser des vota aux divinités
ennemies pour en confisquer les faveurs ; car ils se trouvaient ainsi introduire celles-ci
dans le vieux panthéon romain par le détour frauduleux d'une superstition.
Que le Sénat soit intervenu dans cette consecratio, Cicéron le confirme : (Karthago)
quam... P. Africanus de consilii sententia consecravit; et parmi les mobiles qui lui paraissent
avoir inspiré cet acte, il note : oblata aliqua religione, formule qui fait une allusion
évidente au scrupule de réaliser un vœu religieux62.
Or, nous savons par une des plus précieuses sources littéraires, les Saturnales de
Macrobe, que Scipion avait effectivement fait un votum in bello. Il nous aurait suffi
pour en être assurés de rappeler les termes dans lesquels Macrobe nous rapporte qu'il
a formulé ce vœu au grand dieu des Carthaginois, si l'inscription que nous
commentons ici ne nous dévoilait l'identité et le nom même du dieu auquel il l'avait
adressé63.
Nous serons donc venus à la dedicatio par le biais de la consecratio, et au votum, par
celui de la dedicatio. Nous pouvons nous sentir ainsi en mesure de remonter à
l'accomplissement d'un autre rite préalable et préparatoire, qui a été celui de l'évocatio
initiale du «Seigneur Baal» dans le panthéon romain, evocatio dont notre inscription
nous montre les effets retardés.
Et il a fallu attendre que, dans le premier quart du présent siècle, vers 1920, Waltzing rétablît le crédit du
Codex Fuldensis, demeuré privé et inexploité depuis le XVIème siècle et celui de la version de l'Apologétique
qu'il contenait, d'où il n'a pas hésité à tirer ce verbe adsolare dans son édition magistrale de l'Apologeticus,
pour que fût acquise la certitude que le mot adsolare appartient bien à la langue latine, et qu'en .Apol. XV, 6,
on devait lire, comme avait fait trois cents auparavant GODEFROY dans l’Ad Nationes « . . . maies-tatis
fastigium adsolant» et non «... maiestatis fastigium obsoletant...»
62
63
N'est-ce pas encore l'étrangeté du vocable qui, dans certains Mss. de la Vulgate, a fait corriger en «desolati
sunt», seule leçon reçue actuellement le verbe «assolati sunt» de Nahum 1,5 qui convient mieux au contexte et
qui doit rendre le mot hébreu HTMGGW «ont été liquéfiées» ? Nous devons le relevé de cette variante qui
semble bien être la traduction originale de Saint Jérôme à Du Cange qui en 1678 signale cet autre témoin de
l'usage du mot «Adsolare, assolare» dans l'antiquité, après la redécouverte de GODEFROY (DU Cange, I, Paris,
1840, p. 94, s.v.).
Que si ces trois références, si tardivement et presque confidentiellement récupérées par le vocabulaire latin,
nous avaient fait défaut, le terme ATSOLATIS serait venu ajouter sa singularité aberrante à celles que nous
offrent, d'autre part, le gentilice Classicius dans le texte plus récent, et les formes des lettres BetR dans
l'inscription archaïque. La découverte presque contemporaine du verbe adsolare encourage à ne pas désespérer
d'une concevable réintégration de Classicius et des lettres
.
dans leur droit de cité romaine.
Cic. Agr., or. I, 2, 5; or. II, 19, 51. Cf. Appien, Pun., 135; Bel. civ., I, 24, 2 (14).
Macrobe, Saturn., III, 9.
95
AFRICA
De cette evocatio par laquelle Scipion inaugure les actes rituels que dénouera sa
consecratio, Macrobe, au IVème siècle de notre ère, nous a conservé le formulaire. Il
dit l'avoir extrait d'un ouvrage de la fin du IIème siècle, Rerum reconditarum, composé
par un antiquaire du nom de Sammonius Seranus.
«S'il est un dieu, rapporte-t-il, s'il est une déesse sous la protection de qui est la
ville de Carthage (et) toi, (dieu) suprême ! (on reconnaîtra ici notre Adon-Baal) qui
as assumé la protection de ce peuple (de Carthage), je vous supplie, vous conjure,
vous demande en grâce que vous abandonniez le peuple et la ville de Carthage ! Que
vous quittiez leurs lieux, temples, emplacements consacrés et ville et que vous vous
éloigniez d'eux, et que, vous transférant à Rome, vous veniez vers moi et les miens; et qu'à ce peuple et à cette ville (de Carthage) vous inspiriez la panique, la terreur et la
perte de conscience; - et que nos lieux, temples, emplacements consacrés et ville
soient agréés et préférés par vous ; - et que vous soyez des chefs pour le peuple romain
et pour mes armées, de telle sorte que si nous avons preuve et conviction que vous
aurez agi ainsi, je fasse pour vous des temples et des jeux !»
Ce maximus Me qui Urbis et Populi Carthaginiensis in tutelam recepit est, à n'en pas
douter, Y Adon-Baal qu'identifie notre inscription. Ce Dominus Saturnus a compté,
aux yeux des Romains et, dès avant la disparition de la communauté politique des
Carthaginois, au rang des praepositi populo militibusque romanis. Baal-Saturne a été,
dès ce moment qui a précédé l'attaque de la ville de Carthage, un dieu virtuellement
entré, par «évocation», dans le panthéon civique des Romains; il est demeuré le
dieu ethnique et, dans une certaine mesure, national des populations sujettes.
«Il est constant», observe à ce propos Macrobe, «que toutes les villes sont sous
la protection d'un dieu particulier, et que ce fut une coutume des Romains, secrète et
ignorée de beaucoup, que, lorsqu'ils assiégeaient la ville des ennemis et qu'ils
avaient conscience de vouloir la prendre, ils en évoquaient les dieux tutélaires; ils
pensaient qu'agissant autrement, ils ne pouvaient prendre la ville; ou bien, s'il leur
était possible de le faire, ils estimaient qu'il leur était interdit de capturer les dieux».
Cependant il pourrait paraître aussi probable que c'est l'accomplissement du
rite de la devotio que commémore notre texte. Cette préférence ne s'inspire guère, à la
vérité, que d'une considération morphologique, qui ne peut cependant pas être
négligée. Ce n'est pas sans une intention soutenue que chacune des lignes de l'inscription compte rigoureusement huit syllabes ; et, en outre, que chacune de ces lignes
se développe régulièrement suivant un rythme ternaire tiré de l'accentuation;
dedicavit rompt ce rythme que respecte devovit. Nous obtenons ainsi : hoc Ad(o) ni Bali
Scipio/ [devovit] et consecra [vit].
96
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
En effet, après qu'il a été ainsi procédé à l'evocatio, intervient la devotio, dont le
formulaire regroupe et associe tout ce qui peut exister en fait de personnalisation
des puissances divines, y compris, bien entendu, les «dieux évoqués». Cette devotio
comporte la promesse d'une finale consecratio.
Scipion lui-même a dit : «Que ces villes, ces champs et les êtres vivants qui s'y
trouvent vous soient dévoués et consacrés selon les règles en vigueur qui s'appliquent
aux ennemis qui vous sont dévoués ! ».
C'est dans cette circonstance qu'intervient le votum que réalisera le rite de la
devotio. Il est la promesse faite aux «dieux évoqués» de leur «dédier» et de leur «consacrer» tels ou tels «objets» d'ores et déjà définis et dénommés, en contre partie de
l'assistance efficiente qu'ils auraient apportée à les conquérir. «Si tout cela (qui vous est
demandé) vous l'accomplissez (comme cela vous est demandé), de telle sorte que
j'aie pleine science, conscience et intelligence (que vous l'avez accompli), alors qui
que ce soit qui ait fait ce votum, en quelque lieu qu'il l'ait fait, et dès l'instant qu'il l'a
fait, que ce votum soit tenu pour valable !»
Mais on n'aura pénétré plus avant le sens de cette proposition principale qu'autant qu'on aura dégagé le contenu réel du complément représenté par le pronom
démonstratif neutre, hoc, en même temps qu'on aura pu déterminer la nature du
pouvoir en vertu duquel Scipion Emilien aura été en mesure de «dédier» et de «consacrer» l'objet impliqué par ce complément.
Il est hors de doute que nous ne saurions dégager d'éclaircissements plus directs
que ceux que peut dispenser la ligne 4. Il en émerge à première lecture le participe
nominatif potitus qui en relie le contenu à Scipio; et aussi le substantif neutre solium,
qui répond au pronom hoc, lequel désigne la chose consacrée par Scipio.
Mais il nous a paru qu'une mise en relation immédiate et passivement scripturaire
de la proposition principale : hoc Ad (o) ni... consecravit, avec la circonstancielle solium
potitus... etc., heurtait des obstacles, dont le principal était représenté par une évidente
absurdité à la fois intellectuelle et syntaxique.
Aussi nous a-t-il paru que notre investigation procéderait d'une meilleure méthode, si elle s'appliquait d'abord à rechercher dans les deux premières propositions
circonstancielles de la phrase, quelques lumières qui, projetées sur l'objet énigmatique
de notre ligne 4, en éclaireraient mieux le sens, dont nous oserons dire, d'ores et déjà,
qu'il nous paraît avoir été faussé par une lecture erronée que le restaurateur s'est cru
autorisé à faire de l'original «corrompu».
Pour commenter l'ablatif absolu dirutis... moenibus qui ouvre le texte et en introduit la phrase unique, il n'y a, évidemment, rien à ajouter à tout ce que tant de
97
AFRICA
minutieux et sagaces érudits modernes ont réuni de témoignages et d'observations
qui concourent à dénoncer la férocité du traitement que Rome a infligé à la ville de
Carthage vaincue.
Il est bon cependant de relever qu'un souci d'exceptionnelle vigueur expressive a
inspiré ici le choix des mots : «les moenia», (c'est-à-dire, pensons-nous, les constructions dont l'ensemble constituait la ville enclose par ses remparts), «ayant été
démolis (diruta) partout où il s'en trouvait (perusquequaque) et arasés au niveau du sol
(et adsolatis)64. Ce verbe adsolare, dont la lecture est certaine, est extraordinairement
fort ; il est aussi extraordinairement rare ; et ce n'est peut-être pas le seul hasard qui,
dans toute la littérature connue de nous, le met seulement, et par deux fois, sous la
plume du Carthaginois Tertullien65.
Que Tertullien, habitant Carthage, soit le seul auteur, semble-t-il, qui ait usé
du verbe adsolare et qu'il ait pu l'emprunter à l'archaïsme de notre texte, s'il lui est
venu sous les yeux, c'est une rencontre bien faite pour piquer et flatter l'imagination.
Ne le trouve-t-on pas singulièrement familier avec l'idée que Rome a systématiquement recherché et pratiquement trouvé auprès des dieux ennemis ses protecteurs les plus efficaces? «Les dieux, en effet», observe-t-il, «admettent d'être adorés
par leurs ennemis (romains); à ceux-ci, c'est un imperium sans fin qu'ils accordent,
alors qu'ils auraient dû les punir de leurs outrages plutôt que les récompenser de
leurs adulations» (Apol., xxv, 16).
Il ne pense pas, à la vérité, que ces «dieux pérégrins» aient ainsi agi par goût
pour les Romains. Il présume que, par disposition naturelle, «ils n'ont pas voulu
plus de bien à une nation étrangère qu'à la leur, et qu'ils n'ont pas consenti à livrer à
des gens d'au-delà des mers le sol de leur patrie...». Mais il n'en est pas moins de fait
qu'ils trahissent leur patrie. Et parmi les plus marquantes de ces divinités félones,
c'est Junon qu'il cite, non pas une Junon impersonnelle, mais celle «de qui Carthage
a été la bien-aimée», c'est-à-dire Tanit, la parèdre de notre «Seigneur-Baal», qui est
«son Jupiter» dans l'ordre de la théogonie punique. «C'est là (à Carthage) que furent
ses armes, que fut son char». Il pense, avec Virgile, «qu'elle voulait faire (de
Carthage) la reine des nations : c'était le but de ses efforts et son vœu ardent». Et
Junon-Tanit n'en a pas moins livré Carthage aux Romains.
64
65
Cic.,Agr., or, I,2,5 : nudatam tectis atque moenibus; P. Orose, IV, 23, 5-6 : diruta... Carthago, murali lapide
inpulverem comminuto; Strabon, XVII, 3,15; Zonaras, Epit... 1X,3O. Lex agraria de 643/111 in C.I.L. 1,200,
lig.30: (ager) ubei oppodum Chartago fuit quondam...
Apol, XV,6: Ad Nat., 1,10 et ad finem.
98
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
Un concitoyen de Tertullien, païen cultivé, instruit par les traditions locales,
sinon peut-être par notre inscription même, aurait pensé que Junon-Tanit avait été
impuissante à se soustraire aux sortilèges de 1' «évocation», que Scipion avait faite
jadis de la «dea cui populus civitasque Karthaginiensis est in tutela». En fait, c'est par le
recours à cette sorte de fatalité magique que Tertullien explique la défaillance de la
Junon phénicienne; c'est de Virgile qu'il tient la justification de la déesse: «Elle n'a
pu rien faire contre les Destins». Et, qui plus est le comportement de Jupiter-Baal,
que Scipion a évoqué en même temps qu'elle, n'a pas été différent du sien ; car «Jupiter
lui-même se soumet au Destin».
Est-il rigoureusement impensable que notre texte, ou quelque autre texte parallèle, commémorant une consécration du solum de Carthage à Tanit-Pené-Baal,
ait suggéré à Tertullien de tirer un argument apologétique de la trahison de ses dieux
nationaux et d'user du mot adsolare ?
Ainsi, ce dont tient à nous avertir dès l'abord le rédacteur de notre texte, c'est
que l'imperator, dont il va nous dire qu'il a accompli l'acte de consecratio que ce texte
commémore, avait été un moment en si pleine et discrétionnaire disposition de la
ville «dévouée» par lui, qu'il avait agi de telle sorte qu'il ne conservait plus en son
pouvoir, en vue de cette consecratio, que le «sol» qui l'avait portée. Et déjà, pour désigner l'objet qui sera «consacré», se présente à l'esprit le mot:solum, le «sol des
ennemis», solum hostium; retenons-le au passage.
On ne peut détacher l'examen de la troisième ligne ainsi rédigée : instar rebellis
imperi, de celui des deux premières. Cette proposition incidente est mise là pour
amortir dans l'esprit du lecteur la sévérité du choc que lui ont donné les deux assertions précédentes; elle avance tout de suite une justification à la fois morale et juridique, .par référence à une règle qu'elle articule comme étant de droit public : instar
rebellis imperi (i). A la vérité, la formule est d'une structure qui pourra donner à
penser au philologue. Nous l'entendons ainsi : «..., conformément (à ce qui doit être
fait à l'égard) d'une puissance rebelle». Si le lapicide n'a pas trahi le texte qu'il restituait, instar, pris adverbialement, gouverne bien le génitif imperi (i), que qualifie
l'adjectif rebellis. Imperium ne pouvant s'appliquer à l'autorité romaine, le mot désigne «le pouvoir» in abstracto, tel qu'il régit toute communauté politique, ici le
pouvoir carthaginois.
Avec quelque réserve que l'on accueille l'interprétation syntaxique à laquelle
nous nous arrêtons ici, en admettant que la proposition nous ait été transmise en sa
forme authentique, le sens que nous lui attribuons répond très évidemment à l'intention qui en a inspiré la rédaction. La proposition en son entier serait donc : «Les
bâtisses de la Ville ayant été démolies partout où il s'en trouvait et rasées au niveau
99
AFRICA
du sol, conformément à la règle dont est justiciable toute puissance politique rebelle...»
Cet imperium rebelle, c'est ici celui que l'on doit attribuer à ce qu'il est admis
d'appeler 1' «Etat carthaginois», l'imperium rival de Rome, celui qui, comme le note au
passage Cicéron66, fut l'enjeu de la troisième guerre livrée par Rome à Carthage,
«lorsque les Romains disputèrent l'imperium les armes à la main».
On pourra retenir, nous semble-t-il, que cette proposition nous révèle l'existence, dans le corps des institutions du droit pénal romain, d'un crimen bien défini,
que les romanistes paraissent avoir négligé d'inscrire dans leurs inventaires, encore
que Tite-Live le dénomme explicitement : crimen rebellionis67 .
La rebellio n'apparaît pas comme le simple fait de ranimer une guerre qu'une
paix a terminée. Il faut, en outre, que cette paix ait placé l'imperium de la communauté
politique qui l'a souscrite, dans une position de soumission matérielle et de
subordination juridique rigoureuses par rapport à l'imperium de qui l'a imposée,
dans la dicio, dans lapotestas de celui-ci.
Il est relativement aisé de démêler les justifications par lesquelles la doctrine
des Romains a soutenu le grief qu'elle faisait à l'imperium carthaginois de s'être
«rebellé»; elles nous sont données copieusement par Polybe.
Retenons seulement ici que, pour des motifs qui ont été analysés ailleurs, Rome
avait décidé d'abolir l'existence d'un port libre à Carthage. Intervenant en arbitre,
d'ailleurs sollicité, entre Massinissa et la vieille cité irrémédiablement affaiblie, Rome
avait imposé à Carthage un certain nombre d'astreintes exténuantes, parmi lesquelles
celle de se livrer à la discrétion du Sénat romain, et d'accomplir ainsi une redditio in
potestate. Mettant à profit cette capitulation, Rome avait dicté un certain nombre de
conditions, dont le monde pensait (et Polybe le premier) qu'elles avaient épuisé ses
exigences.
Mais le Sénat s'était réservé d'en exprimer plus tard la plus dure, qui devait
être la moins attendue, lorsque ses armées seraient rassemblées devant Utique, aux
portes d'une Carthage rassurée et devenue sans défense. C'est à ce moment et en un
tel lieu que les Consuls enjoignirent à l'imperium punique d'avoir à abandonner les
murs de la ville, à désarmer et déserter son port et à transférer sa capitale au loin
66
67
Cic.Agr.,or. II, 19, 51.
Liv., VIII, 4, 13, 14, 37; IX, 26; Pline; Nat. hist. VII, 136 (44).
100
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
à l'intérieur des terres. C'était là un ordre émané de l'imperium romain. Carthage
refusa d'y plier son imperium. Celui-ci devenait «rebelle»; et Carthage se rendait, du
point de vue du droit public, coupable du crimen rebellionis.
Les éléments constitutifs de ce crimen ont été clairement dégagés par Polybe
qui ne doute pas qu'il a été commis68 : «Ceux qui se sont soumis à l'épitropè des Romains», explique-t-il, «leur abandonnent tout leur territoire, leurs villes, les biens
qu'ils y possèdent, hommes et femmes, les cours d'eau, les ports, les temples, les
tombes, de telle sorte que les Romains en deviennent les maîtres ; ceux qui ont donné
ne conservent absolument rien... (Envers Carthage), les Romains ont agi, en usant
du droit qu'ils avaient d'ordonner ce qu'il leur plairait d'ordonner... Lorsque les
Carthaginois s'en furent remis à l'épitropè des Romains et qu'ils n'eurent pas voulu
exécuter ce qu'on leur ordonnait, ce sont les Carthaginois eux-mêmes qui ont placé
les Romains dans la nécessité inéluctable de les contraindre à obéir»; ils ont alors
commis le crimen rebellionis.
D'autres circonstances historiques, dans lesquelles avait été le plus notoirement commis et sanctionné le crime collectif de «rébellion» sont décrites, avec
une grande surabondance de précisions techniques, par Tite-Live, au VIIIème
livre, chapitres 13 et 14, sous les années 417/337 : ces circonstances sont celles où se
produisait la grande levée des populations latines contre les sujétions imposées par
l'hégémonie romaine.
«Les Latins», dit Tite-Live, «entrèrent en rébellion pour le motif qu'ils avaient
été privés de leurs champs... le dictateur reçut l'ordre de faire face aux Latins entrés en
rébellion...» La résistance des rebelles s'étant concentrée dans la ville de Pedum, le
Sénat prononça contre elle la sanction que nous verrons appliquée à Carthage : «Le
Sénat, dans un grand mouvement d'indignation, ordonna que Pedum fût forcée par les
armes... et par toutes les ressources de la force, et qu'elle fût détruite...». Lorsque la
«rébellion» eût été réprimée, la question se posa du traitement dont ses auteurs étaient
passibles : «Toutes les villes latines et Antium chez les Volsques étaient alors
emportées par la force ou avaient été reçues en deditio...; considérant qu'elles avaient à
maintes reprises contrecarré Rome par leurs rébellions, la question posée était de
rechercher par quels moyens on s'assurerait à jamais de leur quiétude».
68
Polybe, XXXVI, 3-5.
101
AFRICA
La solution, jurisprudentielle si on peut dire, fut appliquée au cas de Vélitres :
«... à l'égard des Véliterniens... qui étaient entrés en rébellion si souvent, on sévit le
plus rigoureusement : leurs remparts (muri) furent renversés ; leur Sénat fut emmené; il leur fut ordonné d'aller habiter au-delà du Tibre».
Le traitement réservé aux Tusculans est bien caractéristique; pour eux, «le
crimen rebellionis (ainsi le dénomme Tite-Live) fut transféré du chef de la Communauté coupable à celui d'un petit nombre de délinquants responsables : crimen rebellionis apublicafraude inpaucos auctores ver sum». Le «crimen rebellionis» mettait en cause la
responsabilité collective de la communauté, comme l'apprirent à cette occasion les
Tiburtins et les Prénestins collectivement châtiés... ob rebellionis commune cum Latinis
crimen. L'universalité de la responsabilité et celle de la sanction sont bien attestées à
l'égard des Tusculans, dont nous avons vu qu'ils avaient eu le bénéfice d'un transfert
de la délinquance commune sur la tête de quelques-uns. Mais cette restriction ne
correspondait pas à une notion rigoureuse du crimen, si bien que, peu d'années plus
tard, il se trouva un tribun pour présenter une rogatio aux termes de laquelle serait
engagé un iudicium populi ad crimen (s. e. rebellionis) purgandum, crime qui était celui
dont les Tusculans avaient été exonérés en tant que collectivité. Une seule tribu, à la
vérité, s'affirma réfractaire à tout sentiment d'indulgence; mais elle se conformait aux
exigences du droit, lorsqu'elle opinait que «les pubères fussent tués et les femmes et
les enfants vendus lege belli».
Nous dirons que toutes ces mesures violentes, ruines de villes, déplacements
de populations, réductions en esclavage, ont été conçues instar rebellis imperi (i).
C'est à la proposition incidente, énoncée en dernier lieu, immédiatement avant
la principale qui nous a fourni à la fois la désignation du sujet, Scipio, et celle de l'objet,
hoc, - que revient la fonction de qualifier à la fois le pouvoir dont a disposé le sujet
pour agir et l'objet sur lequel s'est exercé ce pouvoir.
Malheureusement, cette proposition ne se présente pas sous une forme très
rassurante; elle dresse l'obstacle d'une énigme à l'endroit où l'on attendrait qu'elle
portât une lumière décisive. On lit, en effet :
SOLIVM
POTITVS
solium
potitus
hoc
H O C
T V V M
tuum.
Potitus définit incontestablement le «pouvoir» qu'a acquis Scipion de disposer
à son gré de l'objet de la consecratio. Cet objet doit nous être nécessairement donné par le
complément direct de potitus. Mais ce n'est certainement pas sans surprise que nous
apprenons que cet objet a pu être un solium, c'est-à-dire un «siège élevé», ou
102
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
bien encore un «trône», un «lit de parade», et. Cette manière symbolique et figurative de désigner l'objet du pouvoir, bien physique et concret, en vertu duquel il
vient de nous être dit que Scipion a anéanti une ville considérable, ne peut être appréciée sans défiance. Il est naturel que l'invraisemblance de cette interprétation
exagérément métaphorique incline l'esprit à hasarder une rectification de lecture,
et, partant, à lire S O L V M : solum potitus..., hoc Scipio... consecra [vit]. Bien plus
surprenante apparaîtra l'interpellation en style direct : hoc tuum, d'où surgit, à
l'improviste, un pronom personnel possessif que rien n'a mis en relation avec une personne dont une incidente, même simplement allusive, aurait précédemment évoqué
l'existence.
Nous nous sentons donc autorisés, par la singularité de ces anomalies, à supposer que le lapicide a cru lire HOC TVVM là où la pierre, avant que la «vétusté»
n'en eût rendu désespéré le déchiffrement, portait H O «s» T «i» V M , hostium.
On se rappellera peut-être que l'examen que nous avons fait plus haut des deux
premières lignes du texte nous avait amenés à observer que la destruction radicale
de la ville n'avait guère pu laisser subsister au «pouvoir» du vainqueur que le «sol»
qui l'avait portée. L'effacement de la gravure en cet endroit, coïncidant avec quelque
imperfection de la pierre, excusera le lapicide d'avoir lu solium là où le bon sens eût
suffi à lui faire restituer solum.
Nous proposerons donc de lire: sol «i» um potitus ho «c» = «s» t «u» = «i»
um... Ce que confirment encore les exigences du rythme signalées plus haut.
En conclusion, nous donnerons de l'inscription archaïque découverte à
Gammarth la lecture suivante :
Dirutis per usquequaque / et adsolatis moenibus / instar rebellis imperi (i) /sol «i» um potitus
ho «s» t «i» um / , hoc Ad(o)ni Bali Scipio / [devovit] et consecra [vit].
Nous ne nous sommes pas hasardés à commenter ce monument épigraphique
sans nous être préoccupés d'abord d'apprécier les éléments susceptibles de le rendre
suspect d'inauthenticité matérielle et formelle; et, dans l'hypothèse où son authenticité serait admise, de prendre la mesure de sa sincérité, c'est-à-dire de la crédibilité
des énonciations qu'il porte.
Disons tout de suite que nous n'avons eu aucune bonne raison de douter que
nous étions en possession d'un document élaboré par une main ancienne, et que
nous tenons pour certain que cette main est celle d'un nommé Sextus Classicius
Secundinus, procurateur impérial, très probablement au service de Trajan ou d'Hadrien.
103
AFRICA
II aurait été gratuitement systématique de tenir pour acquis que ce fonctionnaire
de qualité, présumé honnête homme, avait articulé le plus impudent des mensonges,
lorsqu'il n'avait fait graver dans la pierre, et avec une solennité très apparemment
intentionnelle, que ce qu'il s'était proposé de faire, c'était de «restituer» dans sa
forme et teneur originelles un document lapidaire que le temps avait très gravement
outragé. Nous avons même admis, faute d'objections péremptoires, de nous laisser
persuader que c'était là un monument considéré par lui de bonne foi comme original,
qu'il avait ainsi «rafraîchi» et «rajeuni».
Nous n'avons pas manqué, évidemment, d'éprouver le sentiment de circonspection, et même de défiance, qu'inspire une première vue de ce document.
Par bonheur, la prompte substitution que, dès l'abord, l'un de nous a su faire du
positif et substantiel Adon-Baal à l'imaginaire Annibal, a ranimé tout de suite en
nous une confiance à laquelle il ne nous semble pas qu'une étude plus poussée ait
infligé de graves déceptions.
Il reste cependant que certaines graphies, en paraissant accuser exagérément
l'archaïsme de l'alphabet, y introduisent de troublantes singularités. Celles-ci, tout
compte fait, sont au nombre de deux, qui procèdent d'une même intention stylistique
: les b et les r présentent une boucle supérieure arrondie sur la gauche de la
haste : ,
formes dont les inventaires arrêtés à ce jour ne paraissent
pas fournir d'autres exemples. Mais il n'en est pas moins vrai que toutes les autres
lettres revêtent les plus apparentes exigences de la véridicité : s et c anguleux
:
; a , dont aucune ligne horizontale ne relie les jambages, que sépare par
contre un trait vertical du style le plus authentique : ; o en forme de losange
:
; q en for me de koppa :
; n inversé : . On admettra qu'il est
tout-à-fait improbable que le restaurateur se soit laissé porter à imposer aux b et
aux r les périlleux raffinements d'une invention frauduleuse, alors qu'il les a
épargnées à toutes les autres lettres; il n'aurait pas agi avec une plus maladroite
agressivité, s'il avait prémédité de trahir lui-même son imposture.
Et de l'hypothèse radicale selon laquelle notre document serait un faux, on
devrait déduire que le scrupule avec lequel le faussaire érudit n'a pu manquer de
s'appliquer à le parfaire, lui a précisément fait choisir, dans la gamme des alphabets
notoirement et typiquement archaïques, les formes les mieux faites pour séduire la
confiance et authentifier la contrefaçon.
Nous n'hésiterons donc pas à inscrire au nombre des nouveautés qu'apporte
notre texte, celle des formes, jusqu'à ce jour inconnues, qu'ont revêtues les lettres b
et r de l'alphabet romain ancien69.
Et ce n'est pas la seule du point de vue paléographique, puisque la plupart de
104
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
ces tracés que nous venons de signaler étaient considérés, en fonction des inscriptions
datées avec certitude, comme déjà disparus au VIème siècle de Rome. Et voici qu'une
épigraphe du début du VIIème (en principe) remet toute cette position en question.
Nous attribuerions volontiers le fait au conservatisme d'un quelconque collège
sacerdotal70.
Lorsque nous nous arrêtons à l'opinion que l'original: du texte dont les termes
ont été regravés sur notre pierre est bien, évidemment, postérieur à la ruine de Carthage, mais qu'il est aussi contemporain de la période ancienne où était encore employé dans certains organismes l'alphabet dont il use, nous ne voulons pas donner à
entendre que cet original est celui du procès-verbal officiel relatant l'accomplissement
de la consecratio que Scipion Emilien a faite du sol de Carthage. Nous reconnaîtrions
seulement en lui une stèle privément, encore que pieusement et solennellement
commemorative de l'événement qu'elle célèbre.
Nous supposerions volontiers qu'elle a été dressée en des temps encore très
proches de ceux de la consecratio, par quelque confrérie religieuse, vraisemblablement indigène, à la manière des Arvales, Lupergnes ou Saliens, vouée, sinon même
affectée par l'autorité romaine, au service rituel .du Seigneur-Baal, le Saturnuspunicus.
La teneur du texte et sa présentation figurée procèdent de deux artificielles
préoccupations, Tune littéraire, l'autre esthétique.
En effet, d'abord, la phrase unique se développe, en son entier, suivant un rythme
suffisamment sensible pour être remarqué, avant toutes choses, par le lecteur
69
70
Même si ces formes n'ont jamais encore été rencontrées, il faut bien admettre qu'elles sont dans la logique
de la dérivation de l'écriture latine de l'alphabet étrusque et un résultat à la fois de la disposition boustrophédon des textes d'Etrurie et des libertés qu'engendre toute cursive : nos
sont des témoins
du passage de à B et de
à R : cf. James G. FEVRIER, Histoire de l'écriture, Paris, 1948, p. 437 et ss.
Oserons-nous suggérer une autre hypothèse ? Les auteurs de ce texte étant probablement un collège sacer
dotal, soit entièrement carthaginois, soit mixte, c'est-à-dire, composé de Romains et de cohenim, il n'est pas
invraisemblable que des Puniques, ayant à rédiger ce texte latin, aient mêlé le tracé des b et des r de leur alphabet maternel, qui comportaient une bouche supérieure à gauche, à celui des b et des r de leur langue d'adoption, en achevant la lettre par l'élément inférieur droite différenciant les deux signes latins.
Une graphie comme celle que nous publions paraît d'autant moins étrange à Carthage qu'à l'époque vers
laquelle fut rédigé le texte archaïsant du carmen, des stèles qui portent une écriture italiote dérivée de l'é
trusque et très voisine de l'alphabet osque, étaient plantées, probablement par les colons de Caius Grac
chus, au bord des champs de la vallée inférieure de l'Oued Miliane (région de Thuburbo Maius) : Jules
Renault, Cahiers d'Archéologie tunisienne, II, Tunis, 1909, p. 109-111 (l'inscription est qualifiée à tort de
libyque et est reproduite à l'envers) ; A. MERLIN, Inscriptions étrusques d’apparence, relevées sur trois
pierres provenant de la vallée inférieure de l'Oued Miliane, B.A.C., 1915, p. CCXXXII-CCXXXVI, fig. 13; 1919, p. CCXXXVI-CCXXXVII; St. GSELL, H.A.A.N., IV, p. 176, note 3; Catalogue du Musée Alaoui,
suppl. II, Paris, 1921, p. 109 :D. 1349 et 1350.
105
AFRICA
tant soit peu initié à la prosodie latine. Le mouvement semble être basé sur le retour
régulier dans chaque proposition de huit syllabes et de trois temps forts ou accentués.
Peut-être les connaisseurs que nous avons consultés permettront-ils de préciser
davantage ?71.
D'autre part, le nombre des signes réunis pour composer chacun de ces membres
de phrase a été arrêté à 21, 19, 20, 20, 18, 20, de manière à couvrir avec exactitude
une ligne disposée harmonieusement par rapport à l'ensemble et pleine quant au sens,
sans rejet, enjambement ou chevauchement.
Et peut-être sont-ce les exigences combinées du souci de la rythmique et de
celui de la composition formelle qui expliquent la surprenante sobriété avec laquelle
P. Cornelius Scipio Aemilianus est familièrement dénommé Scipio ?
71
La scansion dû texte archaïque ne paraît pas douteuse à un métricien comme le professeur Louis NOUGARET,
que nous remercions vivement d'avoir bien voulu nous apporter son aide précieuse (Lettre du 31 mars
1965). La dédicace, selon lui, est rédigée en vers d'un type tout-à-fait courant, le septénaire trochaïque,
abondamment employé par Plaute et Térence, mais qu'en raison des dimensions réduites de la pierre, le
lapicide, de lui-même ou sur ordre de son patron, a coupés en deux à la césure :
1er vers, lignes 1 et 2 :
- U |- U | - U|U|-U|--|-U|dirutis per usquequaqu (e)
et
atsolatis moenibus
2ème vers, ligne 3 et 4
- -| UUU |- U|U|- U |- U |- U |instar rebellis Imperi
solum
potitus bostium
3ème vers,lignes 5 et 6
UU- | - - | - U| U|-U|--|-U| U
hoc adni bali scipo
Remarquons dans le 1er et le 2ème vers la substitution banale du spondée au trochée; et, au 2ème vers, une
scansion archaïque ou archaïsante du mot rebellis, qui, par suite du fait connu sous le nom de loi des mots
ïambiquts, se scande autrement qu'en prosodie classique. Banal aussi le dactyle du 2ème vers qui est substitué
au trochée.
Le premier hémistiche du troisième vers va très bien. Hoc adni est une nouvelle application de la loi des
mots iambiques. L'anapeste n'est pas exceptionnel à cette place dans les trochaïques. Cette scansion vient
à l'appui de ceux qui voient ici le dieu Baal, puisque les deux aa de la graphie habituelle ne peuvent se résoudre qu'en un a.
La fin du 3ème vers ne comportant qu'un élément attesté, et consecra, le professeur Nougaret se contente Je
suggérer qu'il finirait très bien le septénaire trochaïque (catalectique) sous la forme ] et consecra [t ,
qui peut être soit un présent avec consecrat, soit un parfait syncopé avec consecrat pour consecravit, et de restituer la scansion de ce second hémistiche en fonction de cette hypothèse, tout en objectant que ce schéma
métrique n'est pas aisé à remplir avec un verbe comme devovit ou, au présent, devovet ou toute autre finale
verbale en -t.
Peut-être ne faut-il pas pousser trop loin les exigences relatives à la prosodie d'un tel morceau ?
106
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
Ne serait-il pas permis de faire état, à cette occasion et une fois de plus, d'une
indication que fournit Tertullien, lorsqu'il nous révèle l'existence à Carthage, encore
au IIème siècle, d'un corps sacerdotal, de composition autochtone, qui, pour pratiquer le culte du «Saturne punique», c'est-à-dire de notre Adon-Baal, disposait,
non seulement d'un temple, mais aussi d'un terrain attenant où s'élevait un bois72?
Nous ne pouvons manquer de reconnaître, dans ce sanctuaire et dans ses dépendances foncières, un locus sacer, dans lequel on peut sans témérité identifier un témoin
résiduel du vaste solum jadis «consacré» par Scipion, en fait par k Peuple romain luimême. A un important quartier, probablement proche de notre fanum
d'Adon-Baal, était attaché le toponyme de vicus Saturni, dit également vicus Senis73.
Nous ne suivrons pas, sans réticence, l'apologiste carthaginois, lorsqu'il nous narre
qu'en un temps encore peu éloigné du sien, ces sacerdoces Saturni sacrifiaient
clandestinement des enfants, et qu'ils en avaient été châtiés. Mais si on considère que
l'exploration du sol atteste que les terrains affectés aux «tophets» puniques ont
couvert de vastes superficies, qui n'ont pas reçu d'édifices avant les Illème et IVème
siècles de notre ère, il est permis de croire que ces terrains sont demeurés dans la
catégorie des res sacrae, pour avoir été jadis diis superis consecratae ; et aussi que des
piétistes rigoureusement traditionalistes sont parvenus parfois, de connivence avec les
sacerdotes, à y faire ensevelir leurs premiers-nés décédés, rite mal interprété par une
malignité populaire dont la polémique de Tertullien se fait l'écho.
Mais l'intérêt de l'incident est, pour nous, qu'il rend légitime et, de ce fait, explicable que ce corps sacerdotal ait conservé jalousement quelques-uns des titres
monumentaux les plus probants par leur teneur et leur ancienneté, établissant les droits de
propriété de leur dieu, et attestant, en outre, que ce dieu appartenait, religieusement et
politiquement au panthéon des Romains. Le collège aurait à cet effet obtenu du
procurateur Classicius une «restitution» authentifiée par son apostille de l'antique
carmen, demeuré vivant dans les traditions psalmodiques et dans les archives documentaires de la confrérie.
. Ce n'est pas d'ailleurs la seule circonstance de l'histoire de Carthage où peut
être envisagée une intervention de ce genre. La chose aurait eu lieu tout aussi bien à
l'occasion des empiétements sacrilèges de Caius Gracchus, ou de la fondation de la
cité romaine, soit lorsqu'elle fut conçue par César, soit lorsque Auguste la réalisa, ou
encore de la suppression officielle du paganisme par Honorius en 399.
72
73
Apol, IX,2.
Caecilii Cypriani acta proconsulari, 2; Aug., De consensu Evang., I, 36.
107
AFRICA
Si le carmen utilisé pour cette légitimation a été fabriqué de toutes pièces pour
les besoins de la cause et doit par conséquent être regardé comme un faux antique, il
garde un grand intérêt, puisqu'il éclaire un moment de l'histoire de Carthage; mais
il s'explique d'autant mieux que sa composition remonte à une époque plus éloignée
des événements sur lesquels il est bâti.
Si au contraire les faits dont il se réclame sont authentiques, c'est-à-dire s'il y a
bien eu une consécration du sol de Carthage à Bacal-Hammon par le vainqueur romain, l'inscription la plus ancienne a été gravée à une date suffisamment éloignée de
146, pour qu'on ne relève plus dans la langue aucune trace d'archaïsme, ce qui élimine
la période de la colonie gracchienne, et que la légende ait eu le temps d'auréoler P.
Cornelius Scipio Aemilianus Africanus minor au point qu'il concentre en lui toute la
gloire de son illustre famille. Nous pensons que la seconde moitié du 1er
siècle avant notre ère semble bien réaliser ces conditions, et que le carmen a dû être
composé au moment où sur l'ordre de Cesar ou d'Auguste il commençait à être
question d'exécrer un sol antérieurement consacré en entier au Grand Dieu punique
pour restreindre le sacrum à la superficie d'un temple et de ses dépendances.
Entre ces deux hypothèses, nous avons opté résolument pour la seconde, parce
qu'elle nous paraît rendre mieux compte aussi bien de nos deux textes que de ce que
nous relevons dans Tertullien et dans Macrobe.
L'appartenance à la Carthage dévote et polythéiste des premiers siècles de notre
ère de tous les monuments retrouvés rassemblés à Gammarth ressort, semble t-il, de la longue étude que nous venons de leur consacrer. L'esprit du lecteur n'a
pas pu ne pas être instinctivement frappé par les liens qui les rattachent à la religion
punique; il n'a pas manqué de sentir profondément, comme nous, à quel point la citéphénix, ressuscitée de ses cendres grâce à l'œuvre audacieuse et téméraire de Caius
Gracchus qui devait infailliblement provoquer le statut augustéen, a su, en vraie
fille des Sémites, maintenir envers et contre tout, à travers son apparente
romanisation, une fidélité inviolable, surtout dans le domaine du sacré, à toutes les
traditions de Canaan et de Chypre. Le buste d'Antinoüs, si peu conforme qu'il soit au
canon de l'art phénicien, ramène tout de suite la pensée vers l'Héraclès-Melqart des
origines. Celui, très romain également, de Saturne, évoque quand même le BacalHammon, l'Adon-Baal du carmen. Les bas-reliefs des Dioscures-Kabires, assesseurs
de la Grande Déesse, qui se présentent si nettement comme apparentés au style
égyptisant de la Carthage punique, forcent par leur seul aspect la vision dans le sens
que nous indiquons. Ils permettent de comprendre encore mieux que la Cybèle
108
ADON-BAAL, ESCULAPE, CYBÈLE
qu'ils étaient probablement chargés d'encadrer, ne peut être qu'un déguisement
gréco-romain de la Tanit-Pené-Baal, l'héritière occidentale de l'Ishtar-Astarté de la
terre natale. Quant à cet Esculape si vénéré, on a beau insister sur son ethnique
épidaurien ; ce n'est pas à la Grèce que pensent ses dévots de Carthage, mais bien à celui
qui dominait de son temple imposant le sommet de l'imprenable Byrsa, à cet
Eshmoun-Asklépios, à ce «démon des Carthaginois» du Serment d'Hannibal, à ce
dernier refuge de la Ville Nouvelle en péril extrême. Et ainsi, sans que nous l'ayons
cherché, se trouve reconstituée dans cette trouvaille de Gammarth, la célèbre triade
du panthéon carthaginois, Bacal- Hammon, Tanit et Eshmoun sous les traits romains
ou romanisés de Saturne, Cybèle et Esculape. C'est pourquoi nous ne serions pas
étonnés que l'ensemble de ces monuments aient été recueillis sur l'emplacement de
l'ancienne acropole, là où continuait d'être honorés par les Puniques vêtus à la romaine les trois Grands Dieux de la Tyr éternelle.
Jean FERRONet Charles SAUMAGNE
Û
NOTE SUR L'EXAMEN GÉOLOGIQUE DU SUPPORT DE L'INSCRIPTION RELATIVE À LA CONSÉCRATION DU SOL DE
CARTHAGE PAR SCIPION .
M. Pierre NICOLINI, antérieurement professeur et directeur du laboratoire de géologie de la Faculté des
Sciences de Tunis et actuellement titulaire d'une chaire de la même spécialité à l'Université de Heidelberg, a
bien voulu examiner à la binoculaire le support de l'inscription que nous avons définie dans cet article
comme comportant :
dans un registre supérieur : un carmen composé par un collège sacerdotal punique et évoquant la consécration
du sol de Carthage à Baal-Hammon par Scipion;
dans un registre inférieur : l'authentification de la restauration (vraie ou feinte) à la fin du II ème siècle de notre
ère par le Procurateur d'Auguste, Sex. Classicius Secundinus, de l'inscription archaïque en voie d'être
détruite par la vétusté.
Voici les résultats de cette analyse de la surface du matériau :
«L'examen à la binoculaire met en évidence des taches brunes ferrugineuses affectant la patine du marbre
(marbre blanc veiné pouvant avoir été importé d'Italie). On observe aussi des traces nettes d'encroûtement
dans le creux des lettres, notamment dans celui de la lettre S de la troisième ligne qui occupe la troisième
place dans la rangée, avec grains de quartz éolisés et produits ferrugineux. Ces grains et produits semblent
s'être fixés sur la plaque lors de son séjour dans les sables dunaires de Gammarth.
109
AFRICA
La surface de la plaque présente une patine «ancienne», sans qu'il soit possible de préciser l'âge de cette
patine. On observe également des ébréchures anciennes, patinées, et des ébréchures récentes, sans patine. Le
coin supérieur gauche de la plaque a été usé intentionnellement; le bord arrondi de ce coin recoupe les
premières lettres de l'inscription (accident ou souci de recopier fidèlement une autre inscription). La partie
usée est également patinée.
Dans le creux des lettres, on observe des parties dépolies (ou n'ayant jamais subi de poli) et des parties
patinées. La patine du creux des lettres semble sensiblement de la même époque que la patine du creux des
lettres semble sensiblement de la même époque que la patine de la surface de la plaque. Il est difficile cependant de préciser si la partie dépolie du creux des lettres correspond au tracé initial du graveur ou s'il
s'agit d'une gravure plus récente reprenant des tracés plus anciens.
Dans l'ensemble, on peut affirmer qu'à défaut de preuve d'antiquité de cette inscription, aucun indice ne
permet d'infirmer son authenticité».
Û
ADDENDUM
Cet article était déjà sous presse, lorsque nous avons appris par Cl. POINSSOT
qu'un autre monument, conservé actuellement dans la cour de PAntiquarium de
Carthage, avait fait partie de la trouvaille de Gammarth (pl. XIII). Nous le décrirons ici brièvement; il ne modifie en rien nos conclusions.
Petite statue virile en marbre de Carrare, restaurée de six fragments. Personnage
à l'aspect d'un vieillard, debout, genou gauche porté vers l'avant. Sur le corps nu,
himation drapé en écharpe et ramené en voile sur la tête, dont il ne subsiste que la
partie postérieure. Bras gauche rapporté, totalement disparu par suite d'un éclat qui a
endommagé légèrement le manteau. Bras droit plié; la dextre, rapportée et soutenue
par une saillie encore visible de la pierre, devait tenir un attribut; elle n'a pas été
retrouvée. Pieds presque entièrement détruits. Jambe droite appuyée jusqu'à
mi cuisse à un tronc de palmier stylisé.
Hauteur : 57 cm.
Rien ne permet d'identifier avec certitude cette effigie; mais il est permis de
supposer qu'il s'agit d'une image de Saturne (Baal-Hammon) : chef voilé, apparence sénile, tronc de palmier.
110
I Vue aérienne du promontoire de Gammarth où furent exhumés les objets. La flèche indique le
lieu précis de la trouvaille.
II
Vue d'ensemble du site et de la côte vers le haut de laquelle les monuments furent mis au jour.
III
III
Vue de l'espace de route correspondant à l'endroit de la découverte.
IV
Vue générale de l'Antiquarium où sont conservés les monuments.
V
Salle où sont exposés la plupart d'entre eux.
VI
Trapézophore.
VII
Etat actuel du buste d'Hercule.
VIII
Buste de Saturne.
IX
Bas-reliefs des Dioscures-Kabires
X
Dé-autel d'Esculape : vue d'ensemble.
XI
Inscription médiane et face droite du dé-autel.
XII
Plaque d'Adon-Baal.
XIII
Statue de Saturne.
XIV
Plan de Gammarth d'après A. L. Delattre.
Recherches sur le costume
dans l’Afrique romaine - le pantalon
Le port du pantalon1 était général chez les Barbares d'au-delà du Rhin et du
Danube2. Depuis longtemps aussi des Orientaux l'avaient adopté3 et nous le retrouvons dans les régions de l'Empire où prédomine le peuplement parthe, et hors
du monde romain en Mésopotamie et en Iran4. Quelques images que nous pouvons
emprunter à des documents africains nous donnent une idée du pantalon nordique :
les «barbares» de Méninx5 au musée du Bardo (fig. 1) et les prisonniers figurés sur
1
2
3
4
5
Sur le problème du pantalon antique, cf. L. WILSON, The Clothing ofthe ancient Romans, Baltimore, 1938, p.
73-75 étude indigente, tout comme les articles bracae du Dict. des ant. grée, et rom. (Saglio) et du Dict, d'arch,
chrét. et de lit. (Leclercq); on trouvera par contre d'utiles remarques chez M. L. Rinaldi, Il costume romano e
imosaici di Piazza Armerina, Riv. dell'Istit. naz. d'arch. e Storia dell'arte, 1964-1965 (XII-XIV), p. 253-257; les
Romains disaient bracae pour désigner toutes sortes de pantalon, même si originellement le mot a seulement
désigné les «braies» barbares et spécialement gauloises.
Le pantalon a été un élément du costume national : des Gaulois sont pour les Romains les bracati (cf. JUVÉNAL,
VIII, 234.); les Très Galliae, parce que médiocrement intégrée,sont la Gallia bracata; pour les barbares
septentrionaux il suffira de se reporter à l'abondante documentation que constituent les colonnes trajane
(C. CICHORIUS,Die Reliefs des Trajanssaüle, Berlin, 1896-1900, pl. XV, XIX, XX, etc..) et aurélienne (C.
CAPRINO,A. M. COLINI, G. GATTI, M. PALLOTTINO, P. ROMANELLI, La colonna di Marco Aurelio, Rome,
1955, pl. VII, XIII, XIV, etc..)
Ce pantalon oriental revêt des formes très diverses : pour nous limiter à quelques exemples d'accès facile, on
verra une mosaïque funéraire d'Edesse, A. GRABAR, Le Premier art chrétien, Paris, 1966, p. 63, fig. 49; cf.
encore à Doura Europos, le Zoroastre du Mithraeum, ibid; p. 73, fig. 65, etc.. ; on pourra voir aussi les pantalons
que portent les nobles et les souverains sassanides en se reportant aux nombreux plats d'argent : R. Girschman,
Parthes et Sassanides, Paris, 1962, fig. 247-248; 250,252, etc.. ; cf. aussi J. ORBELLI et C. TREVER, Orfèvrerie
sasanide, Moscou-Leningrad, 1935, pl. 4-19, etc..
Le pantalon oriental se rapproche parfois du pantalon nordique - ainsi sur tel relief de Palmyre, M.
ROSTOVZEFF, Dura and the problem of the Parthian Art, Yale classical Studies, V, p. 157-304, fig. 51a;
toutefois la présence d'un décor distingue ce pantalon des formes nordiques dont le tissu est toujours uni; on
trouve toutefois des pantalons orientaux sans décor - tel l'Orphée de la basilique souterraine de la Porte
Majeure (M. L. RINALDI, op. cit., fig. 9); il en va de même de l'image du Dieu Mithra - même au
Mithraeum de Doura (cf. A. GRABAR, op. cit., p. 79, fig. 73); cependant il pourrait s'agir dans le premier cas
d'une contamination inconographique.
Cat. Alaoui, C (Sculpture), n. 37-38, pl. XIII; le catalogue ne signale que deux de ces «barbares» alors
qu'une demi-douzaine de statues de ce type et de même provenance peuvent être vues à l'entrée du musée.
139
AFRICA
les reliefs de l'arc «quadrifons» de Lepcis Magna6; nous retrouvons les bracae
tradinelles, formant des plis obliques autour des jambes et serrées à hauteur de la
cheville. Quant au pantalon oriental, on pouvait s'attendre à le rencontrer, comme
ailleurs, sur des images païennes ou paléochrétiennes où il caractérise parfois des
Orientaux, tels Orphée, les Rois Mages ou Daniel; mais nous verrons que le document où nous aurions pu le rencontrer-la mosaïque au Daniel de Gafsa-a curieusement romani sé le pantalon du prophète.
Ce sont les militaires qui ont adopté les premiers le pantalon à Rome, sans doute à
l'extrême fin du IIème siècle : absent de la colonne aurélienne où les soldats portent
une sorte de culotte «à la française» qui descend jusqu'au dessous du genou7, le
pantalon apparaît sur le quadrifons de Lepcis Magna, porté par des soldats romains que
R. BARTOCCINI considère - apparemment pour cette raison seule - comme des
auxiliaires8. Il est porté aussi à la fin du IIe siècle ou au début du IIIè siècle par un
officier supérieur figuré à cheval (fig. 2) sur l'un des grands tombeaux du cimetière
des officiales de Carthage9. Sous Alexandre Sévère, nous savons qu'il est devenu une
pièce normale du costume militaire (S.H.A., Al Sev., XL, 5 : donavit... bracas...
inter vestimenta militaria) et l'empereur le porte lui-même occasionnellement (ibid., 11 :
bracas albas habuit...). A quelques exceptions près, il demeure dans l'armée romaine et
jusqu'à la fin de l'empire un élément obligé de la tenue militaire10. Nous le retrouvons
sur trois mosaïques d'Afrique et de Sicile, à fin du IIIème siècle et dans la première
moitié du IVème siècle porté par des soldats.
Sur la mosaïque achilléenne de Tipaza11, un jeune homme à l'extrême droite du
registre supérieur (fig. 3), assiste, sans y participer, à une scène énigmatique qui
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11
R. BARTOCCINI, L'arco quadrifonte dei Severi a Lepcis, Africa italiana, 1931 (IV), fig. 78,105.
On se reportera à l'iconographie de la colonne, passim, (cf. n. 2)
R. BARTOCCINI, op. cit., fig. 92.
Ces tombeaux ont été brièvement commentés par P. VEYNE, Bul. de la Soc. nat. des Ant. de France, 1961,
p. 34-36. Le pantalon est très visiblement porté par l'un des «légats» à cheval; je ne saurais dire pour les
porte-enseigne; nous devons nous trouver à la fin du IIème siècle au moment où ce pantalon fait son en
trée dans l'armée romaine.
Nous le retrouvons à la fin du IVème siècle porté par Stilichon sur un diptyque d'ivoire qui le figure en
uniforme militaire (R. DELBRUECK, Die Consulardiptychen, Berlin, 1929, n. 63; W. F. VOLBACH, ElfenbeiNarbeiten der Spatantike und des fruchen Mittelalters, Mayence, 1952, n. 63 (2ème éd.; une 3ème éd. est
parue, non vidi,) et encore les protectores de Justinien à Saint Vital de Ravenne (A. GRABAR, L'Age d'Or
de Justinien, Paris, 1966, fig. 171)
L. LESCHI, Une mosaïque achilléenne de Tipaza, MEFR, 1937, p. 25-41, pl. I, dont nous n'acceptons ni
l'interprétation, ni la date; pour celle-ci, I. LAVIN Dumb. Oaks Papers, 1963 (XVII), p. 226-227, fig. 66,
nous paraît plus proche de la vérité (vers 300) ; cette datation pourrait toutefois être rabaissée de quelques
années ;
140
LE COSTUME DANS L'AFRIQUE ROMAINE
ne peut être que la présentation d'Achille au centaure Chiron par Thétis; ce jeune
homme armé d'un bouclier ovale et qui semble servir de protector à la Déesse, est
revêtu de la tenue des soldats romains que l'on rencontre dès le IIIème siècle12; il
porte un pantalon de couleur sombre.
Sur la mosaïque de la Grande Chasse de Piazza Armérina13, nous retrouvons,
représenté par une abondante série d'images, ce pantalon d'uniforme (fig. 4 a. b) ;
dans un article à paraître, nous montrerons que la capture et l'acheminement des
bêtes sont assurés par des soldats en tenue avec une partie des armes dont ils sont
dotés ; leurs officiers les dirigent et ils sont assistés de serviteurs : ces derniers portent
autour des jambes desfasciae crurales, alors que les premiers ont tous un pantalon; le
mosaïste les a figurés, à quelques exceptions près et qui sont explicables, dans des
teintes vertes, beiges, marron; ce sont peut-être des approximations pour figurer une
couleur uniforme qui s'apparenterait à notre kaki (?).
Un docum ent parallèle - la grande chasse d'Hippone14-figure également quelques
militaires en uniforme (fig. 5) (mais moins nettement caractérisés) occupés aussi à
la capture des fauves d'amphithéâtre.
Si nous considérons la Grande Chasse de Piazza Armerina et la confrontons
avec les premiers documents cités, nous nous apercevons que d'importantes modifications sont intervenues dans la forme du pantalon : les plis obliques sur les jambes
ont disparu et les braies barbares sont devenues de véritables collants, même si ce
12
13
14
on remarque en particulier que le bouclier du «soldat» a la forme ovale traditionnelle et n'est pas encore le
bouclier circulaire que nous avons par exemple au tout début du siècle sur l'arc de Galère à Salonique (cf.
K. F. KINCH, L'arc de triomphe de Salonique, Paris, 1890, pl. IV); on ne saurait, il est vrai, attribuer une valeur
décisive à ce détail.
Les anachronismes isolés ne sont pas rares; cf. à ce propos quelques remarques dans un CR, à paraître dans
la R.A., de l'ouvrage de N. A. BRODSKY, L'iconographie oubliée de l'arc éphésien de Sainte Marie
Majeure à Rome, Bruxelles, 1966, à propos de la figuration du roi Aphrodisios en empereur romanobyzantin, dans le tableau de l'arrivée en Egypte de la Sainte Famille.
G. V. GENTILI, La Villa Erculia di Piazza Armerina, I mosaici figurati, Rome, 1959, pl. XXV-XXVIII,XXX-XXXI, XXXIII-XXXIV; pour la date, nous admettrons le début de la fourchette la plus
couramment admise - vers 320-330.
Inv. Mos. Gaul. Afriq., III, 45 ; F. de PACHTERE, MEFR, 1911, p. 333-339 ; I. LAVIN, op. cit., p. 234-235. Sans
vouloir entrer dans un débat qui sortirait du cadre de cet article, nous suivrons pour la date F. de PACHTERE,
I. LAVIN, et J. W. SALOMONSON, La mosaïque aux chevaux de l'antiquarium de Carthage, La Haye,
1965, p. 25, n. 4; contra : G. PICARD, R. A., 1960, II p. 38 et A. CARANDINI, Ricerche sullo stile e la
cronologia des mosaici della villa di Piazza Armerina, Rome, 1964, p. 54 (troisième quart du IVème siècle) ;
de toute manière, le pavement d'Hippone me paraît légèrement antérieur à la grande Chasse de Piazza
Armerina; on trouvera une bonne photographie de cette mosaïque dans E. MAREC, Hippone la Royale,
Alger, 1950, fig. 55, et une remarquable reproduction en couleurs, malheureusement inversée, dans M.
HADAS, Imperial Rome, New York, 1965, fig. p. 46-47.
141
AFRICA
nouveau pantalon porte toujours à Rome le nom de bracae; en outre, son bas n'est
plus serré autour des chevilles, et s'est développé au point d'envelopper tout le pied :
ceci apparaît parfaitement à Piazza Armerina grâce aux sandales à lanières étroites
dont sont chaussés les soldats : image qui trouve une remarquable confirmation sur
une peinture de la tombe de Silistra en Bulgarie, où un serviteur tient dans ses mains le
pantalon de son maître qu'il faut supposer être un officier15. J'ajoute que la couleur de
ces collants est toujours unie et qu'ils ne reçoivent jamais de ces segmenta dont on est
prodigue à ce moment pour les autres parties du Costume, tant civil que militaire.
On pourrait penser que nous avons déjà des collants sur la mosaïque de Tipaza,
mais il est préférable de ne pas faire fond sur cette image unique ; à Hippone,
semble-t-il, nous trouvons encore les braies traditionnelles (ainsi les deux
personnages en haut, à gauche), et peut-être déjà les collants (le cavalier en bas, à
gauche); mais c'est à Piazza Armerina que la nouveauté apparaît avec la plus grande
netteté ; comme nous avons toujours le type ancien sur les reliefs de l'arc de Galère à
Salonique et sur la frise de l'arc de Constantin à Rome16, la postériorité qu'on peut
déduire pour la Grande Chasse apparaît en concordance avec la datation la plus
couramment admise à son propos; mais il serait risqué d'argumenter à partir de
détails qui ne sont pas toujours figurés avec la netteté qu'on attendrait.
Ce pantalon militaire fut adopté par les civils; déjà les chasseurs qui apparaissent
dans les tondi de l'arc de Constantin avaient emprunté à l'armée romaine la commode
culotte contemporaine17; ce sont aussi les chasseurs qui, en Afrique, ont surtout porté
le pantalon - compte tenu, il est vrai, de la nature particulière de nos sources qui
privilégient, comme on sait, le thème cynégétique. Nous le trouvons vers 300 dans la
mosaïque de Chasse de la maison des Chevaux à Carthage18, où il a
15
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18
Ce rapprochement a été fait par M. L. RINALDI, op. cit. p. 255-256 qui reproduit cette image, fig. 46. Pour
la date de cette peinture, cf. D. P. DIMITROV, Cah. arch., 1962 (XII), p. 36-52
A Salonique, K. F. KINCH, op. cit., pl. V; à Rome, H. P. L'ORANGE, A. VON GERKAN, Der spatantike
Bildschmuck des Konstantinsbogens, Berlin, 1939, aux planches qui concernent la partie militaire du décor.
A. GIULIANO, Arco di Constantino, Milan, 1955, fig. 10-16.
G. PICARD, La Carthage de Saint Augustin, Paris, 1965, p. 61-68, fig. 63; G. V. SALOMONSON, op. cit., p. 26-28,
pl. XIII; les braies sont portées, me semble-t-il, par l'un des cavaliers qui se trouve au sommet du champ,
au centre; je n'ai toutefois pu apprécier ce point que sur une photographie; pour la chronologie, nous
nous en tenons à la date communément admise : vers 300 ou au début du IVème siècle. Hors d'Afrique
nous trouvons ces braies portées par un chasseur dès le IIIème siècle - tel le chasseur de lion d'un sarco
phage du donore qui remonte au milieu du siècle : J. CHARBONNEAUX, LA Sculpture grecque et romaine au musée
du Louvre Paris, 1963, p. 237-238 (n. 346, fig. à la p. 239).
142
LE COSTUME DANS L'AFRIQUE ROMAINE
encore l'apparence des braies traditionnelles (fig. 6), et à une date plus tardive dans la
Chasse au lion de Lepcis Magna19 (seconde moitié du IVè siècle?) : ce pantalon (fig.7)
est, semble-t-il, un collant, bien qu'on ne puisse plus s'assurer à cause d'une
chaussure montante, qu'il recouvre la totalité du pied; je me demande si le mosaïste qui l'a figuré avec des pâtes de verre vertes et bleues, a voulu seulement reproduire un coloris vif ou suggérer une étoffe précieuse et peut-être décorée. C'est un
pantalon de forme semblable aussi que nous voyons porté (fig. 8) par un paysan de la
mosaïque du Seigneur Julius à Carthage20: dans l'angle supérieur gauche en effet, le
personnage qui s'avance avec deux canards a revêtu un collant que décorent deux
lignes de points juxtaposés, lesquelles font songer à des boutons - mais il serait
surprenant qu'il s'agisse de guêtres ; on a remarqué par ailleurs que l'épisode figuré
dans cette partie de la mosaïque se passait l'hiver.
Vers la même époque, nous voyons apparaître un nouveau type de pantalon
(fig. 9) - celui que portent quelques-uns des chasseurs de la mosaïque de l'Offrande de
la Grue21 de Carthage : le cavalier qui mène la marche sur le registre supérieur, les
deux cavaliers du second registre et le chasseur à gauche du socle de l’édicule; ce
pantalon semble caractériser les maîtres par rapport aux serviteurs qui ont toujours
les traditionnellesfasciae crurales. Il est plus ample que le collant précédent et l'on
peut voir en considérant le dernier chasseur cité, qu'il peut former des plis assez
caractérisés ; sa coupe l'apparente au pantalon moderne : en particulier les deux côtés
sont parallèles ; toutefois le bas n'est pas coupé droit, mais obliquement, selon une
ligne qui joint l'avant du cou de pied à la base du talon; ces pantalons sont figurés
avec des cubes gris-clair qui reproduisent sans aucun doute une teinte blanche : le
mosaïste a dû foncer son coloris pour que l'étoffe ne se confonde pas avec
19
20
21
S. Aurigemma, L'Italia inAfrica, Le scoperte archeologiche, 1911-1943, Tripolitania; I, Imonumenti d'arte
decorativa, 1, Imosaici, p. 47, pl. 78.
A. Merlin, La mosaïque du Seigneur Julius à Carthage, BAC, 1921, p. 95-114, pl. XII; I. Lavin, op. cit., p.
238-239, fig. 95; G. Picard, op. cit. p. 146-155, fig. aux p. 149, 152-153; pour la chronologie, je ne vois pas
encore de moyen de préciser une date qui doit se situer, en comptant large, à la fin du IV ou au début du Vè
siècle.
Inv. Mos. Gaul. Afriq, II, 607; I. Lavin, op. cit. p. 239, fig. 94; G. Picard, op. cit., p. 121-124 et fig. à la p.
123. Je m'en tiendrai pour la date, à la fourchette indiquée à la note précédente à propos de la mosaïque du
Seigneur Julius et ne saurais dire laquelle est la plus ancienne; tout en reconnaissant la signification que
possède la représentation, au centre du pavement, d'un acte cultuel païen, je me demande si l'on peut en tirer
des conclusions aussi assurées que celles qu'a indiquées G. Picard, loc. cit. ; je reviendrai sur quel ques
problèmes posés par cette mosaïque dans un article à paraître dans les Mel. M. Renard (in coll. Lato-mus.).
143
AFRICA
le fond. C'est ce pantalon (contemporain ou très postérieur?) que le mosaïste de
Gafsa a prêté à son Daniel (fig. 10), au lieu du pantalon oriental attendu, mais il l'a
figuré vert22.
On peut se demander si ce pantalon ne reproduit pas, comme précédemment
une pièce de l'uniforme militaire : car c'est à peu de choses près le pantalon que portent
sur le diptyque Carrand23 les trois soldats des registres médian et inférieur (fig. 11),
la figuration de militaires de l'époque apostolique avec le costume de soldats
contemporains est un anachronisme qui n'est pas sans exemple; ce diptyque remonte
probablement à la seconde moitié du IVème siècle (Volbach) et proviendrait
peut-être de Constantinople, en tout cas d'une province orientale; si cela était, ce
serait la preuve que ce pantalon a été porté dans tout l'Empire - ce à quoi on pouvait
s'attendre. Nous savons toutefois qu'il n'a pas été généralisé24.
C'est apparemment une forme à peine évoluée que nous donne une mosaïque
de Carthage, dite parfois du Chasseur Vandale25, appellation qui tient essentiellement
à la forme du pantalon et qu'il serait préférable de ne pas maintenir (fig. 12) ; ce
pantalon a gardé la couleur et la coupe du précédent, sauf qu'il s'est évasé à la base et
a pris la forme dite aujourd'hui «à patte d'éléphant»; ce pantalon se retrouve encore
sur un fragment d'une mosaïque (fig. 13) qui provient aussi de Carthage26 (aujourd'hui
au Musée du Louvre) : il y est aussi porté par un chasseur. Il serait intéressant de
connaître la date de ces deux documents : il me paraît raisonnable de les placer dans
la seconde moitié du Vème siècle mais ce n'est qu'une impression -même pas une
approximation, si grande est notre ignorance des pavements de Tunisie après la fin du
IVe siècle, une seule chose est probable : ces pavements sont postérieurs à l'Offrande
de la Grue, sans doute pas de beaucoup.
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25
26
G. CAPUTO, A. DRISS, Tunisie, Mosaïques anciennes, Paris s. d., XXXII.
R. DELBRUECK, op. cit., n. 69; F. VOLBACH, n. 108, qui situe l'origine de l'ivoire en Orient, «peut-être à
Constantinople» et le date de la fin du IVème siècle; il est tentant d'utiliser le rapprochement de ce diptyque
avec la mosaïque de l'Offrande de la Grue, pour dater cette dernière, mais prudent de s'abstenir d'une
conclusion hâtive.
C'est ainsi que vers 400, c'est-à-dire à la même époque, Stilichon (cf. n. 10) est figuré avec le strict collant,
tout comme les protectores de Justinien à Ravenne (ibid.).
G. PICARD, op. cit., fig. à la p. 26-27, pl. 78-79.
A. ROUSSEAU, R.A., VII, 1 (1850), p. 260 sq. et pl. 143 Inv. II, 598. (dessin qui est pour la plus grande
partie du pavement notre seule source); ce dessin est reproduit par P. GAUCKLER, Mem. Soc. nat. ant. de
France, 1904 (LXIII). Je reprendrai l'étude de ce pavement dans mon catalogue en préparation des
mosaïques du Louvre; cette mosaïque de Carthage est visiblement proche de la chasse précédente;
j'envisagerai pour le moment une datation dans la première moitié du Vème siècle.
144
LE COSTUME DANS L'AFRIQUE ROMAINE
C'est un type de pantalon très proche que nous rencontrons en Afrique, probablement plus tard, sur deux fragments d'une autre mosaïque de chasse, trouvée
elle aussi à Carthage27 (aujourd'hui au British Museum) (fig. 14, a-b) ; ce pantalon pourrait
même être assimilé, si l'on ne considérait que sa forme, au pantalon des documents
précités, et plus particulièrement à celui de la mosaïque de l'Offrande de la grue;
mais il comporte un détail dont nous pourrons bientôt apprécier l'importance : le
bas des jambes n'est pas uni, mais décoré d'une bande en «pied de poule» qui semble
typique de certains décors vestimentaires tardifs dans l'Afrique romaine; en outre
sur l'un d'entre eux la ligne inférieure n'est pas oblique, mais droite et parallèle à la
semelle.
Nous avons vu que le pantalon des deux mosaïques de Carthage avait probablement une origine militaire; il est plus difficile de dire à qui les soldats l'ont emprunté : j'avais d'abord songé à un modèle oriental : c'est ainsi que sur un plat
sassanide de la Bibliothèque Nationale (Paris) est figuré un souverain à la chasse (fig.
15) vêtu d'un pantalon dont le bas offre les mêmes pattes d'éléphant28 : mais il s'agit
dans l'iconographie sassanide d'un type rare; en outre le type à pattes d'éléphant
dérive d'une forme droite, et de toute manière, il manque sur le pantalon sassanide
susdit, la coupe oblique du bas29; il est possible qu'il s'agisse d'une mode romaine30.
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Ces fragments qui se trouvent au British Museum, appartiennent à une mosaïque trouvée à Carthage : Inv.
Mos. Gaul. Afriq., II, 886 = R. P. HINKS, Catalogue ofthe Greek, Etruscan and Roman Paintings and
Mosaics in the British Museum, Londre, 1933, n. 57 a (le chasseur au lasso); Inv. 763 = Hinks 57 b (le
chasseur suivi par un chien); un troisième chasseur est figuré sur un autre fragment; cf. I. LAVIN, op. cit., p.
240-241 ; une datation vandale est probable, sans être certaine.
Une bonne reproduction in R. GHIRSHMAN, op. cit., p. 212, fig. 253.
Plus souvent ce pantalon est fermé sur la cheville; il est surtout pourvu d'une épaisse frange tout
le long de sa partie postérieure et n'a pas la large bordure inférieure remarquable sur le plat de
Paris : cf. R. GHIRSHMAN, op. cit., fig. 247-248, 250, 252, etc..
Toutefois le pantalon est senti à Rome comme un costume barbare encore à la fin du IVème
siècle, soit deux cents ans après son adoption par des Romains : on connaît les deux mesures
d'Honorius, de 397 et 399 (C. th., XIV, 10, 2-3), qui le proscrivent à Rome : Infra urbem Roman nemo
vel bracis, vel tzangis utatur (début de la seconde mesure; on ne saurait dire ce qu'étaient ces
tzangae - sans doute une forme d'emprunt barbare récent); il est intéressant de comparer, pour en
voir la tonalité, l'une des deux mesures contre le pantalon - la première, avec une mesure
postérieure (ibid., XIV, 10, 4) qui interdit à Rome le port des cheveux longs (!) et des vêtements
de peau : l'épithète accolée à Roma donne chaque fois l'explication implicite de l'interdit à
venerabilem (premier cas) répond sacratissimam : chaque fois le prince veut protéger Rome de la
profanation d'un habitus barbare (on ne pensera pas que la proscription du pantalon doive être
mise sur le même plan que celle de la chlamyde interdite en 382 à Rome (ibid, XIV, 10, 1) par
une mesure qui vise à combattre le port illégal de l'uniforme militaire : car dans ce cas le sens de
la mesure est clairement explicité : ... nullus senatorum babitum sibi vindicel militarem, sed chlamydis
terrors deposito..
145
AFRICA
Quant au pantalon des chasseurs de la mosaïque du British Museum, nous disposons pour lui d'un parallèle assez remarquable (fig. 16 a-b) : sur l'ivoire Barberini31, à
la fois le «roi» qui se tient derrière l'empereur, sur le tableau central et les deux
barbares sur le registre inférieur à gauche qui apportent des cadeaux, ont revêtu le
même pantalon, au bas ouvert, aux jambes droites avec la large bande inférieure
décorée; à quoi s'ajoute - si l'on considère le chasseur du fragment de mosaïque au
chien.un décor de tunique qui offre une extrême et surprenante ressemblance avec
les tuniques Barberini : une bande médiane qui descend verticalement sur le devant
depuis sans doute l'encolure, jusqu'au dessous de la ceinture (alors qu'habituellement
les tuniques sont décorées de deux bandes - clavi, latérales et parallèles), et une bande
similaire pare la manche depuis l'épaule jusqu'au coude.
On tient habituellement que les barbares de l'Ivoire sont des Scythes : appellation intéressante : nous savons par Procope que des Constantinopolitains portaient sous le règne de Justinien le pantalon scythe32; il serait tentant d'expliquer le
costume de nos chasseurs à la lumière de cette remarque; malheureusement le
caractère scythique des barbares de l'ivoire Barberini est beaucoup plus traditionnel
qu'assuré : en effet la comparaison avec les Scythes que nous connaissons à travers les
images très antérieures de l'art gréco-scythe33, ne permet guère de maintenir cette
affirmation. Les Scythes (fig. 17) en particulier y portent un pantalon serré autour de la
cheville (ou emprisonné dans la tige d'un botillon) qui est apparenté aux bracae des
barbares du Centre et du Nord de l'Europe (fig. 18) et leur tunique est aussi très
différente; d'autre part, les Scythes Barberini reparaissent sur un document à peu près
contemporain (fig. 19), la cathèdre d'ivoire de Ravenne34; or ils y servent de gardes
du corps au Pharaon et à Joseph; Joseph lui-même y porte une fois leur costume;
d'autre part, les «Scythes» Barberini offrent au souverain un lion apprivoisé, ce qui est
bien surprenant : dire comme R. DELBRUECK que ces «Scythes» ont amené leur animal
du Caucase n'est guère satisfaisant.
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34
R. DELBRUECK, op. cit., n. 48; W. F. VOLBACH,n. 48; A. Grabar, L'âge d'or de Justinien,
Paris 1966, fig. 19 ; le diptyque selon les opinions les plus courantes, représenterait Anastase
ou Justinien et aurait été produit à Constantinople.
A. GRABAR, op. cit., p. 291. Procope, Hist, arc, VII, 3 (qui parle de pantalon hunnique et
non scythique !); cf. encore, id., ibid. XIV, 1.
Nous donnons d'après M. I. ARTAMANOV, Trésors des Kourganes Scythes au Musée de
l'Ermitage (en russe), Prague - Moscou, 1966, n. 154, 196, deux images de pantalon scythe,
qui permettent de voir combien les deux formes typiques différent du pantalon de la mosaïque de
Carthage et des ivoires qui nous occupent.
G. BOVINI, La Cattedra eburnea del Vescovo Alassimiano di Ravenna, Faenza, 1957, fig. aux
p. 25, 28-29.
146
LE COSTUME DANS L'AFRIQUE ROMAINE
On peut formuler deux hypothèses : ou considérer le pantalon de la mosaïque du
British Museum comme un pantalon barbare, d'origine indéterminée, ou bien
envisager, à cause de sa présence sur la cathèdre de Maximien pour caractériser des
Egyptiens, une spécificité africaine dont il est difficile de cerner la nature : certes il
serait séduisant de voir sur le registre inférieur de l'ivoire Barberini, face aux «Indiens» qui viennent à droite avec un éléphant, des «Africains» à gauche qui arriveraient en tenant un lion en laisse ; ils figureraient la soumission symbolique des deux
continents au souverain; toutefois on ne peut proposer pour les Africains une exégèse
trop générique, car la présence du «roi», derrière l'empereur à cheval, semble donner à
la représentation une portée historique précise. Dès lors une idée vient à l'esprit : ces
«barbares» qui portent le même costume que des seigneurs africains du Ve siècle et
qui apparaissent en vaincus sur un document byzantin que l'on fait remonter le plus
souvent au règne de Justinien, ne seraient-ils pas des Vandales? A priori ce n'est pas
impossible35; mais mieux vaut s'en tenir à l'hypothèse plus générale d'un pantalon en
usage en Afrique aux V-VIè siècle : d'autant que nous retrouvons un pantalon et une
tunique semblables en Egypte sur une peinture contemporaine de Baouit36.
Ces pantalons n'ont pas été généralisés en Afrique; sur de nombreuses images
tardives, même dans des contextes cynégétiques, leur usage reste limité : nous avons
vu que sur la mosaïque de l'Offrande de la grue, seuls les maîtres le portaient et sur la
mosaïque du seigneur Julius, l'un des paysans au moment de l'hiver; sur la mosaïque
du British Museum, un troisième chasseur s'est contenté des fasciae crurales
traditionnelles (cf. n. 27); de même les chasseurs du pavement de Thuburbo Majus37, de
Cherchel38, d'El Asnam (Orléansville)39, de Djémila40, etc. sont toujours figurés les
cuisses nues; mais on ne saurait dire à quoi tiennent les différences.
35
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39
40
H. GRAWEN, J.D.A.I, 1900, p. 213 et n. 84, avait déjà proposé de voir des Arabes dans ces
«barbares», et non point des Scythes.. Sans doute peut-on observer que les rois vandales
étaient représentés imberbes sur leurs monnaies : cf. C. Courtois, les Vandales et l'Afrique,
Paris, 1955 pl.VII; mais les monnaies ne visent qu'à donner un portrait générique du
souverain. Cette hypothèse peut être maintenue même si l'on suppose que le costume en
question a été généralisé en Afrique.
A. GRABAR, op. cit., p. 178, fig. 192.
L. POINSSOT, Rev. Tun., 1940, p. 218 sq., pl. I.
Inv. Mos. Gaul. Afriq. III, 422; I. LAVIN, op. cit., p. 237-238, fig. 89.
Inv. Mos. Gaul. Afriq. III, 450; I. LAVIN, op. cit. p. 237-238, fig. 88.
L. LESCHI, L'Algérie antique, Paris, 1952, fig. à la p. 149; I. LAVIN, op. cit., p. 237, fig. 87; A. CARANDINI,
Dialoghi d'archeologhia, 1967 (I, 1), fig. 44-45,47.
147
AFRICA
Appendice
Les collants portés par des bestiaires et des cochers
Nous trouvons un collant dans un autre contexte et à une toute autre époque :
l'un des bestiaires de la mosaïque d'amphithéâtre de Zliten41 porte en effet un costume
de cette sorte qui est unique sur ce pavement et dont je ne connais pas d'exemple
ailleurs. On ne le confondra pas avec les bandes que les venatores, hors d'Afrique, au
Ier et au début du IIe siècle de notre ère, s'enroulent autour des cuisses; au reste j'ai eu
le tort dans une étude consacrée à l'iconographie de cette mosaïque d'assimiler le
costume des premiers bestiaires de Zliten au costume non-africain de l'époque susdite
(lequel comporte une tunique beaucoup moins ample pourvue, à la différence des
premiers, de courtes manches ajustées, mais ne présente pas les bandes de protection),
ce qui rend caduques les conclusions que j'ai tirées de ce rapprochement inconsistant.
A date tardive, les venatores africains ont desfasciae serrées autour des chevilles ou des
genoux : il est curieux de constater sur la mosaïque de Khanguet-el-Hadjaj42 que
l'hypertrophie de celles-ci a fini par reconstituer un véritable collant (fig. 20) - dont je
ne connais pas non plus d'autre exemple.
Aux bestiaires, il convient, pour compléter notre série, d'ajouter les auriges :
eux aussi portent un collant particulièrement visible sur les deux mosaïques de
Piazza Armérina43, et qui se devine sur la mosaïque de l'Aurige à pied de Dougga44 où
son décor lui donne l'apparence de bandes parallèles.
Georges VILLE
*
Nous utilisons aussi pour cette recherche des images procurées par les
mosaïques de Piazza Armérina : non pas tant à cause d'une communauté de culture
que parce que les mosaïstes de Sicile étaient, comme on l'a vu depuis quelques
années, des Africains qui travaillaient sur des cartons africains; j'ajoute que mon
propos n'est pas ici de découvrir à tout prix une spécificité africaine que de mettre
en lumière quelques aspects de la civilisation matérielle à l'époque
romanobyzantine, que ceux-ci soient particuliers ou propres à la civilisation de
tout le monde romain.
41
42
43
44
S. Aurigemma, I Mosaici di Zliten, Rome-Milan, 1926, p. 79 (pompose brache verdine); id., I mosaici,
pl.151. Sur le costume des bestiaires de Zliten, G. Ville, dans La Mosaïque gréco-romaine, Paris, 1965,
p.148-150.
Inv. Mos. Gaul. Afriq., II, Supp., 465 a; I. LAVIN, op. cit., p. 240, fig. 99.
G. V. GENTILI, op. cit., pl. VII-VIII; XII-XIII.
A. MERLIN et L. POINSSOT, Factions dit cirque et saisons sur des mosaïques de Tunisie, Mél. Ch. Picard,
Paris, 1949, p. 732-745, fig. 1.
148
Barbares de Meninx
_
■
2 «légat» du cimetière des officiales
3
Mosaïque de Tipaza
4a
4b
un soldat de la Grande Chasse de Piazza Armerina
un serviteur de la Grande Chasse de Piazza Armerina
5
Mosaïque d'Hippone (détail)
6
Mosaïque de Chasse de la Maison des Chevaux à Carthage (détail)
7 Mosaïque de Lepcis Magna
8 Mosaïque du Seigneur Julius de Carthage (détail)
9
Mosaïque de l'Offrande de la grue de Carthage (détail)
10
Mosaïque au Daniel de Gafsa
11
Diptyque Carrand
12
Mosaïque de Carthage dite du Chasseur Vandale (détail)
13 Mosaïque de Carthage au Musée du Louvre (détail)
14 a-b
a.
chasseur au lasso
b.
chasseur au chien
Mosaïque de Carthage au British Museum (deux détails)
15
Plat sassanide de la Bibliothèque nationale (VIè siècle)
175
16 Diptyque Barberini
17
18
Le pantalon scythe serré autour de la cheville
Le pantalon scythe enfermé dans un botillon
19
Le Cathèdre de Ravenne; détail : Joseph recevant ses frères.
20
Mosaïque de Khanguet-el-Hajjaj.
Découvertes fortuites à Sousse
Quartier Bon Hassina
La nécropole romaine du quartier Bou Hassina, de part et d'autre de la piste de
l'Oued Laya, a été fouillée au début du siècle1 et s'est révélée intéressante par la
variété de ses tombeaux (mausolées, hypogées, tombes en caissons, chambres funéraires, «catacombes») et l'importance de son mobilier: monnaies, statuettes en terre
cuite, tabellae devotionis. H est cependant parfois difficile de retrouver sur le terrain l'emplacement des sépultures déjà explorées car les repères ont été indiqués par rapport à
une ligne de chemin de fer et à des arbres aujourd'hui disparus, et que les croquis
publiés manquent de précision. Il est regrettable par exemple que les hypogées contenant des peintures comme l'épitaphe du cabaretier ou le déchargement des olives2
aient été comblés sans être exactement localisés : les méthodes modernes auraient
sans doute permis de sauver ces pièces d'un grand intérêt qui sont sans doute maintenant sous des constructions édifiées depuis 1935 environ.
Le sol n'avait cependant pas été exploré complètement lors des fouilles : non
seulement on avait laissé de côté l'emplacement occupé par la ligne de chemin de fer
et la piste, qui correspondent sensiblement à la route actuelle, mais encore l'emplacement des arbres, assez nombreux dans cette région et dont les racines, le plus
souvent, allaient chercher leur nourriture dans des chambres funéraires. Des travaux
divers ayant nécessité l'arrachage d'arbres ont été l'occasion de découvertes nouvelles
: A. TRUILLOT a fait entrer au Musée une mosaïque chrétienne en 19453 et, dans le
jardin Maury, devenu depuis propriété de la commune, nous avons pu fouiller
1
2
3
Voir les références dans notre Hadrumetum, Publications de la Faculté des Lettres et Sciences Humaines de Tunis,
P.U.F., 1964, p. 191-201, 267-305.
L. FOUCHER, ibid. pl. XXXIII. Nous avons cherché à plusieurs reprises à identifier l'emplacement de ces
peintures, qui sont encore en place, mais nos recherches n'ont pas été couronnées de succès : il est possible que
l'on ait construit au-dessus.
L. FOUCHER, Inventaire des mosaïques, feuille de Sousse, Tunis 1960, n. 57.210.
183
AFRICA
en 1952 un hypogée décoré de stucs4 et les tombes de la famille d'Eustorgius l'épicurien5. A l'occasion de travaux récents, nous avons pu, ayant été avisé assez tôt,
constater l'existence de deux nouveaux hypogées.
Le premier est situé dans le terrain acquis par M. Tahar Driss qui avait en grande
partie été fouillé au début du siècle et dont le secteur Sud est parcouru par les galeries
de la «Catacombe d'Hermès» dégagée plus tard. En faisant aménager des caves et des
citernes lors de la construction de sa maison, (nov. 1964) M. Tahar Driss a rencontré
un hypogée, à 25 mètres environ de celui que nous avions déjà fouillé dans le
terrain Maury, et sur la même ligne. Il avait été violé depuis longtemps et, les
tombes ayant été éventrées, nous n'avons trouvé aucun objet; nous avons surtout
cherché des tabellae devotionis qui, en raison de leur petitesse, auraient pu échapper aux
maraudeurs, mais notre attente a été déçue.
On y accédait par un escalier dont seule subsistait la marche inférieure et qui
ouvrait sur une porte de 0,90 m limitée par deux piliers carrés de 0,30 m de côté. On
entrait alors dans une chambre de 5,10 m x 2,20 m et de 2,05 m de haut. Le sol,
situé à 3,20 m du niveau actuel est un simple béton et sur les murs il ne reste que des
traces d'enduit; les peintures ou les stucs, s'ils ont existé, ont disparu. Face à l'escalier,
le long du mur de fond, est posé un sarcophage de pierre avec un couvercle et ne
comportant aucun décor; il mesure 2,05 m de long sur 0,68 m de large, et, intérieurement, 1,88 m x 0,5 1m; une entretoise avait été laissée au niveau du cou du
mort. Nous n'avons trouvé aucun objet dans ce sarcophage, mais on avait manifestement déjà essayé de soulever le couvercle et il n'est pas impossible qu'on ait
réussi à prendre ce qu'il pouvait contenir.
A l'autre bout de la chambre, sur toute la largeur, du côté Est, étaient construites
deux tombes parallèles de 0,72 m et 0,68 m séparées et limitées par des murs de 0,38m
de large; elles avaient été éventrées; les parois étaient recouvertes d'un enduit bien
lissé, mais sans décor. L'absence de tout objet rend difficile la datation, mais, si l'on
compare cet hypogée avec ceux du voisinage, on peut constater l'absence d'arcosolia
en cul-de-four et de décors peints ou stuqués; les tombes de la partie Est, assez frustes,
rappellent les plus récentes qui ont été aménagées dans celui dont le plafond
représentait Dionysos et les Saisons; moins somptueux que ce dernier, il peut dater
de la deuxième moitié du IIIème siècle ap. J.-C.
4
5
L. FOUCHER, Un hypogée romain à Sousse, Kartbago IV, p. 85-96
L. FOUCHER, B.A.C., 1955-56, p. 4o-46 et pl. I.
184
DÉCOUVERTES A SOUSSE
A quelques mètres de là, en déblayant la terre, les ouvriers ont trouvé un morceau de marbre portant une inscription :
ISIDOR. F
En creusant les fondations du mur Est, on a décelé la présence d'une mosaïque à
0,40m au-dessous du niveau du sol; elle est très nettement postérieure (fig. 1). La
bande conservée mesure 3,02 m x 1,25 m; le reste avait été brisé au cours de plantations
et le mur limitant la salle détruit par les chercheurs de pierres. Le champ est divisé en
carrés, pas toujours réguliers, ayant en moyenne 0,33 m de côté et limités par un filet
alternativement rouge ou jaune; ces carrés sont occupés par des oiseaux, perdrix,
canards, grives, merle, ibis (?) d'un dessin assez grossier. Entre les carrés, des
torsades polychromes de 0,12 m de large se recoupent perpendiculairement. Le long
du mur Ouest, l'espace restant entre les deux dernières torsades est occupé par des
rectangles de 0,16m de large; ceux-ci sont ornés de motifs géométriques divers d'un
dessin médiocre : deux séries de rectangles emboités, l'une dans un sens, l'autre dans
l'autre sens, deux solides en perspective cavalière, deux fuseaux dont les pointes vont
l'une vers l'autre sur le côté extérieur6, deux éléments de grecques, un triangle aplati
aux couleurs disparates, quatre petits triangles.
Les couleurs sont très vives et violemment contrastées; les formes sont maladroites et les détails du plumage marqués par des lignes de cubes de teintes différentes. La plupart des matériaux employés ne sont pas ceux que l'on rencontre d'ordinaire sur les pavements des IIème, IIIème et IVème siècles, ni même sur la mosaïque signée par un certain Théodule que nous datons du VIème siècle. Nous noterons,
en particulier, un calcaire gris noir et un calcaire grenat qui paraît insolite à
Hadru-mète. Faute d'autres éléments, il nous est difficile de proposer une date pour ce
pavement : II ne nous paraît pas antérieur au Vème siècle ; peut-être date-t-il de
l'époque Vandale.
Au-dessous de ce pavement, nous n'avons rien trouvé, mais, sur le côté Nord, la
terre était mêlée d'ossements divers manifestement bouleversés : on ne peut dire s'ils
provenaient de tombes antérieures ou si l'édifice auquel appartenait la mosaïque était
de caractère funéraire.
6
Nous avons déjà trouvé un motif du même genre dans le troisième état de la maison qui occupait l'emplacement de l'internat du Lycée; bien que les matériaux soient différents et que les deux fuseaux reposent sur
un fond arc-en-ciel, ce pavement doit être de peu antérieur à notre mosaïque (L. FOUCHER, Inv., n. 57.059).
185
AFRICA
Le deuxième hypogée est encore plus délabré et c'est fort dommage car il était
plus somptueux; il a été rencontré lorsqu'on a creusé les fondations de l'école du
quartier, (janvier 1963) à droite de la piste de l'Oued Laya, en face des tombeaux en
caissons de la nécropole. Les chercheurs de pierres avaient commencé par démolir
l'escalier puis s'étaient attaqués à la croûte de tuf sous laquelle la chambre funéraire
était aménagée et avaient provoqué des éboulements; un arbre avait ensuite été
planté dans cette excavation; ses racines et l'humidité qu'il entretenait avaient poursuivi les ravages.
Malgré cette destruction, il en restait suffisamment pour se rendre compte que
les tombeaux étaient disposés sur le mur du fond, face à l'entrée; le mort était placé
entre ce mur et une murette de 0,80 m à 1 m au-dessus de laquelle était un arcosolium.
Les enduits étaient tombés mais quelques fragments portaient des traces de peinture
rouge délavée. Le plafond était revêtu d'un décor stuqué qui, en tombant, avait été
presque complètement réduit en miettes. Nous avons pu retirer de ces décombres un
fragment appartenant à un corps drapé, un morceau de jambe et un autre fragment
plus important, de 0,39 m x 0,34m, en ronde bosse (fig. 2). Il s'agit d'un adolescent
ailé, nu, vu de face, brisé. Le bras gauche est replié et remonte vers le visage; la main
ne semble pas pouvoir passer sous la joue gauche : il ne s'agit donc pas d'un Hypnos. A
droite descend un vêtement contre lequel est collé un long tube cylindrique brisé à la
partie supérieure que nous identifierions volontiers à une corne d'abondance; à la base,
celle-ci est brisée à l'endroit où la tenait la main droite. Ce personnage peut être un
Harpocrate dont l'attribut habituel est la corne d'abondance et dont la main est placée
devant la bouche; il est souvent ailé7 et porte parfois, comme sur un autel d'Isis du
Palais des Conservateurs à Rome8, un vêtement qui repose sur l'épaule et pend le long
de son flanc; la corne d'abondance est parfois, comme ici, collée au corps. La
difficulté provient du fait que sur presque toutes les représentations, c'est la main
droite qui est devant la bouche et la gauche qui tient la corne d'abondance; quelques
exemples paraissent cependant justifier cette identification : ainsi sur une statue du
Caire9, c'est le bras gauche qui, comme ici, remonte vers le visage.
7
8
9
Les ailes se rencontrent plus souvent sur les statues que sur les basreliefs.
S. REINACH, R.R.G.R., III, 191,2.
EDGAR, n. 27687; S. REINACH, Répertoire de la Statuaire, vol. p. 298, n. 7. On pourrait citer encore S. REINACH, ibid. V, 229,3 et 230,4.
186
DÉCOUVERTES A SOUS SE
Si cette interprétation est exacte, il faudrait admettre que les autres motifs de
cet hypogée représentaient des personnages du culte isiaque, comme l'Anubis à
tête de chacal. On les rencontre parfois dans l'iconographie funéraire comme sur ia
pierre tombale de M. Aemilius Crescens sur la voie Flaminienne10. Il est donc fort
regrettable que ce monument ait été trouvé en si mauvais état car il aurait peut-être pu
nous apporter des indications sur l'existence d'une communauté isiaque à Hadrumète.
Il était, par ailleurs assez somptueux puisque le sol était pavé d'une mosaïque,
en grande partie détruite, représentant des carrés noirs disposés à l'oblique et ornés
au centre d'une croisette rouge.
Malgré leur médiocrité, ces découvertes méritaient d'être signalées car elles
posent des problèmes : les cimetières d'époque vandale dont nous avons relevé des
traces sous le Lycée Technique11 ont-ils parfois recouvert des nécropoles plus anciennes ? En subsiste-t-il des vestiges ? Dans quelle mesure, d'autre part, le culte
d'Isis s'est-il développé à Hadrumète au IIIème siècle ? Des documents, encore enfouis, permettront-ils de résoudre ces problèmes ? L'état de délabrement dans lequel
se trouvent les monuments non fouillés de la nécropole située dans le quartier Bou
Hassina montre que l'archéologue ne devra pas se faire trop d'illusions sur les
possibilités et l'intérêt des découvertes. Il reste cependant encore d'assez nombreux
arbres dont certains ont bien poussé dans ce sol rocheux parce que leurs racines ont
plongé dans des tombes; ils y ont certes provoqué de nombreux dégâts mais il est
indispensable qu'un archéologue soit présent lorsqu'on les arrachera. Peut-être ne
sera-t-il pas toujours déçu, car, même si les peintures et les stucs ont beaucoup souffert, les inscriptions sur marbre seront toujours récupérables et on doit espérer encore
découvrir des tabellae devotionis en plomb.
10
11
Armait, 1879, pl. I, C.I.L., VI, 11062; S. REINACH, R.R.G.R., III, 229, 3.
Quelques tombes mises au jour en 1951 paraissent appartenir à cette époque ainsi qu'une mosaïque funé
raire chrétienne.
187
AFRICA
Près dit cimetière musulman
En avril 1964, la Municipalité de Sousse fit procéder à des travaux de nivellement
dans un terrain destiné à l'agrandissement du cimetière. Au cours des travaux, sous
une couche de terre variant de 0,10 m à 0,25 m, apparurent des mosaïques romaines
que nous avons fait dégager, nettoyer, poncer, déposer et transporter au Musée. Cet
emplacement était occupé par une maison dont les pièces étaient réparties autour d'une
cour intérieure de 12,40 m x 11,15 m dotée de six absides demi-circulaires dont l'une
était installée au-dessus d'une citerne. En raison de la faible épaisseur de terre qui les
protégeait, les mosaïques ne sont conservées que sur trois faces de la cour et dans
l'oecus, puis, partiellement du côté Sud Ouest, dans une partie, très délabrée, qui avait
été réservée aux bains et où subsistent quelques briques d'hypo-caustes. La maison
avait subi des restaurations puis la cour, après l'abandon, avait été utilisée comme
cimetière : cette découverte présente donc un intérêt au point de vue de la datation des
pavements.
Nous considérons que la construction de la maison remonte à 180 environ: de
cet état, il ne subsiste que les mosaïques du couloir longeant la cour intérieure et la
séparant de l'oecus; elles avaient été recouvertes par d'autres pavements lors de la
restauration. Ce couloir est décoré par un réseau de filets noirs dessinant des hexagones
opposés par le sommet et dont les centres sont placés en quinconces; les intervalles
sont meublés par des carrés flanqués chacun de quatre triangles constituant une étoile à
quatre branches ornée au centre d'une croisette rouge ou d'une croix noire sur fond à
dominante rouge. En face de la fontaine, les hexagones sont occupés par des sujets
(fïg. 3), des oiseaux dessinés entre deux branches et des masques de Bacchants : deux
de ceux-ci, ayant sans doute subi des dommages avaient été refaits à l'atelier et les
traces de restauration sont très nettes. Il est possible qu'une mosaïque à décor
géométrique noir sur fond blanc, conservée dans la partie Sud Ouest appartienne à
ce premier état.
A la suite d'une destruction, peut-être imputable aux représailles exercées par
Capellien en 238, les pavements ont été refaits vers 250. La mosaïque du péristyle
représente des hexagones en nids d'abeilles meublés par une croisette-, l'abside de la
fontaine, en grande partie détruite, est ornée de feuillage et devant celle-ci, c'est-à-dire
au dessus du pavement figurant les oiseaux et les masques, le vestibule de Yoecus est
pavé par une mosaïque sur laquelle on voit des amazones courant à côté de leur
cheval (fig. 4).
Par un pas de porte dont il ne subsiste plus que l'arrière-train d'un ours, on
entre dans l'oecus dans lequel est figurée une venatio occupant un T de 7,21 m de
188
DÉCOUVERTES A SOUSSE
long sur 2,40 m dans la petite largeur et 5,30 m dans la grande correspondant à la
barre du T. Quatre autruches, quatre onagres, quatre cerfs, quatre antilopes bubales,
deux oryx et deux addax superposés courent en tous sens,et sous leurs pattes sont
jete's sur le sol des poignards et des couteaux divers (fig. 6). A l'autre extrémité du
pavement, quatre venatores, au coude à coude (fig. 5), les excitent et, brandissant leurs
armes, se préparent au combat-, l'un d'eux porte sur la poitrine un cercle de cuir
protecteur cousu sur son vêtement sur lequel est dessiné un lion, celui de gauche tient
à la main un chiffon destiné à effrayer les bêtes. Les bandes latérales, qui n'existent que
le long de la haste du T, représentent des quatrefeuilles dont les fuseaux sont blancs
et les carrés à côtés curvilignes alternativement rouges et jaunes.
En face de l'oecus, et après un seuil en très mauvais état ou l'on distingue seulement des têtes de venatores et des têtes d'autruches, le couloir porte en son milieu
un motif dont il ne subsiste que les deux tiers (fig. 7) : un bestiaire, du nom de
Néotérius vient de tuer deux ours qui s'affaissent en agonisant. Ailleurs, on distingue
seulement quelques fragments de mosaïques à décor géométrique.
La partie la plus intéressante de cette découverte a été la fouille de la cour intérieure dont l'étude stratigraphique permet de fixer quelques dates. Au-dessus du
sol vierge, et souvent mêlés à des cendres, des tessons de poterie «campanienne» A,
à vernis noir métallisé et à pâte rouge assez friable et farineuse qui paraît provenir des
ateliers sardes du 1er siècle ap. J.-C.12; quelques autres fragments, d'une pâte
grisâtre à vernis plus mat peuvent appartenir à la «campanienne» C13. Il est possible
que, bien avant la construction de la maison, des nomades aient installé leurs tentes
dans cette région assez éloignée du centre de la cité.
Au-dessus de ce niveau dans la terre de remblai, nous avons relevé des tessons
divers, le plus souvent minuscules, appartenant à des types de céramique utilisés au
cours des deux premiers siècles et dans la première moitié du troisième; il y avait
également une monnaie de Commode14 brisée en deux, et des fragments de crépis,
peints ou non, provenant des murs détruits»
12
13
14
La pâte est moins rose et moins résistante que celle de la poterie «campanienne» A trouvée dans
les tombeaux puniques de Sousse (Hadrumetum, p. 61-62, p. IV) : le vernis est moins brillant et
peu vernissé; cf J. P. MOREL, Note sur la céramique étrusco-campanienne, M.E.F.R., 1963; p. 21.
La pâte est plus fine et moins farineuse.
Cohen III, p. 279, n. 388.
189
AFRICA
Peu après l'abandon de la maison, que nous situerons, au plus tard, vers
270-280, des tombeaux ont été aménagés dans la partie Est de la cour et disposés
parallèlement aux murs : ils ont été comblés avec la terre qu'on en avait sortie si bien
que tous les tessons sont mélangés dans les déblais. Le mort est, en général protégé
par des tuiles, assez grossières et anépigraphes, disposées en toit, il est recouvert d'une
couche de terre, et, à la partie supérieure, est construit un caisson en maçonnerie de la
dimension du tombeau dans lequel une bouteille de voûte joue le rôle de tube à
libations.
Le mobilier funéraire est assez pauvre : nous n'avons trouvé qu'un bracelet en
pâte de verre et un vase pansu sans anses dont la surface piquetée avant cuisson est
ornée d'un grenetis. Cinq monnaies placées au pied de l'un des cadavres apportent un
élément de datation intéressant : 2 pièces à l'effigie de Claude le Gothique l'une portant
au revers Laetitia, debout, à gauche, tenant une couronne et l'ancre (Rome, RIC, 56,
C. 140; poids 2 gr) et l'autre la Liberté, debout, à gauche, tenant un bonnet et un
sceptre (Rome, RIC, 61; C. 150; poids: 1,32 gr). Une de Victorinus; au revers, la
Piété, debout, à gauche, devant un autel (Trêves, 7ème émission, 269, Elmer, 741,
poids : 2,61 gr). Deux de Tétricus, l'une avec la Victoire, à gauche, tenant une
couronne et une palme (Cologne, 270-272, Elmer, 765. Poids: 1,91 gr), l'autre avec la
Paix, debout, à gauche, tenant un sceptre (Cologne, 273, Elmer, 775 ; poids : 1,49 gr.).
On remarquera que ces pièces sont bien groupées dans le temps et que celles de
Claude le Gothique n'évoquent pas la consecratio et n'appartiennent pas à ces séries,
très abondantes, frappées au début du règne d'Aurélien et utilisées plus longtemps. Il ne
nous semble donc pas que l'on puisse reculer l'installation des tombeaux au-delà de
285-290 : les tessons relevés nous démontrent également qu'ils ne peuvent être plus
récents. C'est donc en partant de ce terminus ante quem et en nous fondant sur le style
des mosaïques que nous avons cru pouvoir proposer les dates de construction, de
destruction, de reconstruction et d'abandon. Il est bien évident cependant que les
premières mosaïques ont aussi pu être recouvertes non à la suite d'une destruction,
mais parce qu'elles ne plaisaient plus aux propriétaires.
Louis FOUCHER
Sousse, le 15 mars 1965
190
1
Mosaïque du Vème siècle.
2 Fragment de stuc.
3
Masques et oiseaux (mosaïque du niveau inférieur).
4 Amazones.
5 Venatores: partie supérieure du pavement de l 'oecus,
6
Animaux : détail de l’oecus.
7
Bestiaire et deux ours.
Musée archéologique de Sousse
Acquisitions de 1949 à 1964
L'expérience a prouvé, dans bien des circonstances, qu'il était utile de publier
périodiquement les acquisitions des musées : les chercheurs y ont toujours à glaner.
La découverte la plus insignifiante peut présenter un intérêt, qui, parfois même,
échappe à l'inventeur, et il n'est pas souhaitable de laisser dans l'oubli complet les
plus modestes pièces. On voit souvent les archéologues procéder à des recherches
dans les réserves et dans les caves des musées et regretter l'absence d'indications
précises sur l'origine de ces objets et éventuellement sur leur contexte archéologique. En publiant cet inventaire des vestiges entrés au Musée de Sousse alors que
nous en assumions la direction, nous rappelons ceux qui ont déjà été publiés et qui
auraient pu échapper à l'attention et nous nous tenons à la disposition de tous ceux qui
désireraient des précisions supplémentaires sur les inédits, qui, seuls, sont reproduits
sur les planches.
A. — MOSAIQUES
Le premier chiffre mentionné est celui de l'inventaire du Musée, le second celui de l'Inventaire des
Mosaïques, feuille n. 57 de l'A. A., Sousse, publié par L. FOUCHER, Institut National d'Archéologie et Arts,
Tunis, 1960. Sauf indication spéciale, ces pavements proviennent de Sousse.
10.458 = 57.089
Partie d'une mosaïque représentant les têtes des Mois de l'Année entourés de feuillage, l'infulae et
de cratères.
FESTCHRIFT FRITZ FREMERSDORF, Analecta archaeologica, Cologne 1960, p. 109 sqq; B. A. C, 1953,
p. 98-107.
10.459
Provenance, Souani El Adhari, région de Chott Maria (Themettra). Galatée, sur le dos d'un dauphin,
voit apparaître devant elle son amant, Acis, métamorphosé en fleuve par la jalousie de Polyphème.
L. FOUCHER, Thermes romains des environs d'Hadrumète, N. et D. nouvelle série I, pl. xIv.
205
AFRICA
10. 460
Même provenance, Amour ailé sur dauphin.
L. FOUCHER, id. p. 27-28, pl. xv, c.
10.467 = 57.234
Cinq fragments de la mosaïque du frigidarium des thermes de «Bir el Caïd». Semis de branchages
entourant des motifs divers, Agôn attrapant une sauterelle, lézard, chouette, gazelle, paon, ibis,
Psyché.
L. FOUCHER, Actes du 79ème Congrès des sociétés savantes à Alger en 1954, p. 170; Thermes
romains... p. 6 sqq. pl. II, III, b, c.
10.468 = 57.235, 57.236, 57.237, 57.240
Mosaïques à décor géométrique provenant des mêmes thermes.
10.485
Provenance, El Jem. Pièce voisine de la mosaïque Isaona; des rectangulaires disposés en chevrons.
10.493 = 57.084
Cercles et croix.
10. 494 = 57.085
Seuil décoré de deux peltes séparées par un carré à bords concaves.
10.506 = 57.058
Octogones, peltes, entrelacs.
10.507 = 57.059
Seuil décoré d'un demi cercle coupé par deux fuseaux obliques.
10.510
Provenance, Uzitta. 2,20m x 1,72 m. (Pl I.2).La mosaïque est bordée par une chaîne de boucles en guillochis. Le champ est divisé par des
octogones dont les centres sont disposées en quinconces. Correspondant à chaque côté des octogones, huit peltes s'incurvent vers un cercle inscrit occupé par quatre feuilles lancéolées en croix et
séparées par des vrilles de vigne, une pelte sur deux est rouge, les autres alternativement vertes et
noires, les feuilles, noires et rouges, les vrilles, noires et vertes. Entre les octogones, sont ménagés
des carrés décorés d'entrelacs polychromes. Dans le coin gauche, cette disposition a été rompue par un
médaillon carré plus grand qui suit le bord de deux demi-octogones et empiète sur les deux voisins. Il
mesure 0,625 m de côté et un motif figuré, assez fin, le décore : deux palefreniers essaient de maîtriser
un cheval fougueux dressé sur ses pattes postérieures; manquent le corps du cheval et celui de l'un
des personnages. Le premier palefrenier, placé à gauche de l'animal, est vêtu d'une tunique blanche à
clavi, sans manches, rayée de plis verdâtres; il ne porte pas de fasciae crurales et est chaussé de
brodequins noirs. Il tient les naseaux de l'animal auquel il vient sans doute de passer
206
MUSÉE DE SOUSSE (1949-1964)
le mors. Le second, à droite et plus en retrait, devait s'apprêter à tirer les rênes. Rien ne nous indique
qu'il s'agit d'un cheval de course : son nom n'est pas inscrit et le personnage visible n'a rien de ces
garçons d'écurie en tenue, presque en livrée, que les propriétaires faisaient représenter sur leurs
mosaïques figurant des bêtes de cirque ou des départs de chasse. Le sujet nous semble plutôt extrait
d'une de ces scènes de la vie rustique qu'affectionnaient les peintres hellénistiques et dont certaines
mosaïques de Zliten nous donnent une idée : le mosaïste local a simplifié en éliminant les éléments de
paysage. En tenant compte de la façon dont est traité le visage, la sobriété précise du dessin, la finesse
des cubes, la simplicité du décor géométrique divisant nettement le sol et ménageant largement le
fond blanc nous amènent à dater ce pavement de la fin du IIème siècle.
10.511
Même provenance. Seuil de la salle décorée par la mosaïque précédente. 0,60 m x 0,60 m. Dans un
carré, fleur cruciforme dont les pétales dirigés dans l'axe des diagonales, sont séparés par des hederae
surmontées de vrilles.
10.512
Provenance, Uzitta. Inscription sur le bord d'une mosaïque décorée de quatre feuilles noires sur
fond blanc.
MAXI. MVS. VERCVNI F. ZVRMET (inus)
ADVMBR (avit) ET ALB (icavit) F (eliciter) L.
FOUCHER, Note sur deux signatures de mosaïstes, Kartbago IX, p. 135-136.
10.516 = 57.196
Epitaphe de l'épicurien Eustorgius.
10.517 = 57.195
Epitaphe de Concordia Exuperantia, épouse d'Eustorgius.
10.518 = 57.197
Epitaphe de Cotbuldeus.
L. FOUCHER, B. A. C, 1955-56, p. 41 sqq.
10.519 = 57.061
Centre d'une mosaïque à décor géométrique, gazelle broutant une branche d'olivier.
10.530 = 57.084
Cercles et croix.
10.531
Provenance, El Jem. Carrés curvilignes à bords concaves flanqués d'ovales.
J. W. SALOMONSON, B A Besch, xxxv, p. 25-55.
207
AFRICA
10.532 = 57.215
Guirlandes et cercles imitant le marbre.
A. TRUILLOT, B. A. C, 1949, p. 337.
10.533
Décor en blanc et noir trouvé au dessous de la mosaïque du frigidarium des Thermes de
Themetra.
L. FOUCHER, Thermes romains, p. 18, pl. vII, a. G. Ch. PICARD, R. A., 1961; p. 26.
10.535
Provenance, Enfldaville. Seuil.
L. FOUCHER, Actes du 79ème congrès, des soc. sav. d’Alger en 1954, p. 178, fig. 14.
10.556= 57.232
Cercles sécants et hexagones.
10.557 = 57.233
Seuil.
10.558 = 57.086
Carrés et peltes.
10.559 = 57.062
Carré curviligne dont les pointes sont prolongées par des peltes et flanqué de roues solaires;
ovales aux couleurs des quatre saisons dans les angles.
10.560= 57.064
Seuil fait de motifs curvilignes.
10.561 = 57.065
Hexagones et losanges.
10.562 =57.066
Seuil, losanges et triangles.
10.563= 57.068
Seuil, deux peltes encadrant un carré curviligne.
10.564 = 57.069
Seuil, même motif.
10.565 = 57.070
Quatre feuilles.
208
MUSÉE DE SOUSSE (1949-1964)
10.566 = 57.071
Seuil, vrilles
10.567 = 57.056
Vrilles et hederae.
10.568 = 57.237
Losange.
10.569 = 57.232
Hexagones et cercles.
10.571
Provenance, Sidi Bou Ali. Phallus et coq; signature de mosaïste.
L. FOUCHER, Karthago IX, p. 132.
10.572 = 57.001
Cratère dionysiaque d'où sortent des sarments de vigne. (PL I.1).
10.573
Provenance, Salakta (Sullecthum). Lion.
L. FOUCHER, Actes du 84ème congrès des soc. sav. de Dijon en 1959, p. 215. sqq., B. A. C,
1959-60, p. 116.
10.574
Même provenance. Fragments de bâteaux.
10.575
Provenance El Jem. Néréïdes chevauchant des monstres marins. (Pl. II.3.4.5.6).
10.576
Provenance, El Jem. Carrés curvilignes quadrilobés flanqués d'ovales.
L. FOUCHER, La maison de la procession dionysiaque à El Jem, 1963, p. 31, pl. vI.
10.577
Provenance, El Jem. Composition géométrique.
L. FOUCHER, Découvertes archéologiques à Thysdrus en 1960, p. 46, pl. xIx, b.
10.578
Provenance El Jem. Compartiments carrés contenant des motifs divers.
L. FOUCHER, ibid. p. 20, pl. vII, b.
10.579
Provenance, El Jem. Saisons et Mois de l'Année.
L. FOUCHER, Découvertes archéologiques à Thysdrus en 1961, p. 30-50, pl. xxxII à xxxIv.
209
AFRICA
10.580
Provenance, El Jem. Mosaïque de triclinium, asarôtos oikos et xenia.
L. FOUCHER, Latomus, 1961, II, p. 291-297, Thysdrus 1961, p. 50, pl. xxxv, W. DEONNA et M.
RENARD, Croyance et superstitions de table dans la Rome antique, Latomus, Bruxelles, 1961, p.
113 sqq.
10.581
Provenance, El Jem. Étoiles à huit branches, carrés de nœuds de Salomon, xenia.
L. FOUCHER, Thysdrus 1961, p. 10, pl. xIII.
10.582
Provenance, El Jem. Chien attrapant un lièvre.
L. FOUCHER, Thysdrus 1961, p. II; pl. xIv, b.
10.583
Provenance, El Jem. Achille à Skyros.
L. FOUCHER, Thysdrus 1961, p. 61. pl. XLVI.
10.584
Provenance, Sousse. Mosaïque funéraire avec épitaphe du Vème siècle.
10.585
Provenance, Sousse. Plumes de paon sortant de cratères.
B. — ARCHITECTURE
1. Calcaire
Fragments de la façade d'un ciborium à Diane, trouvés au Nord de Kairouan. Corniche et architrave
(Pl. III. 9).
Trouvé près du pont où la route G.P.3. franchit l'Oued Nebhena (A. A. XL III Djebibina n. 49)
ancienne route romaine d'Abthugni à Vicus Augusti. (G. Ch. PICARD, B. A. C, 1954, p. 118). Sur
l'inscription voir D. Epigraphie 8.
2. Stuc
Voûte d'hypogée datant de la fin du IIème siècle (Sousse, propriété Maury, quartier Bou Hassina).
a.
Triomphe de Dionysos ; le dieu est debout dans un char traîné par deux panthères ; de part et
d'autre du cercle de 1,20 m entourant ce motif, une rosace à douze pétales et une tête de Méduse
évoquant Sol et Luna.
Autour de ce grand cercle étaient disposés quatre cercles plus petits contenant chacun le génie d'une
Saison ; restent :
b. Le génie du printemps,
c. Le génie de l'été
d. Une partie du génie de l'automne.
210
MUSÉE DE SOUS SE (1949-1964)
Les arcosolia de l'hypogée étaient décorés de motifs, des roses et des vignes. Un fragment représentant une grappe de raisin et une feuille à été conservé. L. FOUCHER, Un hypogée romain à Sousse,
Karthago IV, p. 84-96, pl. I à Iv.
3.
Peinture murale
Aïn Garci, à une centaine de mètres de la source actuellement exploitée, le mur d'une maison romaine
située tout près des canalisations anciennes, était décoré de peintures dont un fragment a pu être
enlevé.
Dans un cercle de feuillage bleu et rouge inscrit dans un carré dont les angles sont ornés de motifs
floraux est représenté un second cercle, perlé, dans lequel apparaît la moitié du corps d'un Amour nu
tenant un panier à la main. Ses pieds et son bras sont munis de bracelets. (Pl. III.7).
C. — SCULPTURE
1. Marbre
Statue d'homme drapé de la toge; la tête manque; tient un voiumen de la main gauche qui est ramenée
sur la poitrine (basse-époque). 1,87 m.
Don de Mr Clément; provient des environs de Kairouan.
2. Grès rose
Fragment de tête grotesque brisée à la partie supérieure; déesse à tête de la lionne (?).
Provient du jardin de l'école Saint-Joseph de l'Apparition à Sousse.
3. Calcaire
Statue d'un Priape ithyphallique portant dans son giron relevé au dessus du phallus des fruits divers
sur lesquels est posée une sauterelle. Hauteur 1,65 m.
Provient d'Aïn Djelloula.
L. FOUCHER, Priape ithyphallique, Karthago VII, p. 173 sqq.
4. Calcaire
Tête d'homme 0,20 m (pl. III. c. d) IIIème siècle.
Provenance inconnue; avait été transportée à Monastir (PI. Iv. 10. 11).
5. Calcaire
Stèle punique (0,29 m X 0,14 m) IIème siècle av. J. C.
Croissant lunaire à la partie supérieure; signe «de Tanit», motif en forme de caducée.
Provient d'un petit sanctuaire punique que nous avons découvert à Menzel Harb.
6. Calcaire
Stèle punique (0,28m x 0,15m). Même provenance de Menzel Harb. Signe dit «des bétyles» à la
partie supérieure.
7. Calcaire
Stèle punique (0,28m x 0,18m). Même provenance.
211
AFRICA
8. Stèle avec représentations figurées se rapportant au culte de Saturne (Pl Iv. 13). Provient des
environs d'Ousseltia.
9. Marbre blanc veiné
Vase funéraire à godrons et petites anses (h : 0,37 m diam. 0,29 m) provient d'un tombeau découvert
piste de l'Oued Laya à 2 km de Sousse.
10. Marbre
Fragment de sarcophage avec une tête (mauvais état) prov. Beni Hassen.
11. Calcaire
Une poulie de pierre (même provenance).
12. Calcaire
7 stèles à Saturne; prov. Aïn Gassa, près de la Sebkha Kelbia. M.
LEGLAY, Cahiers de Tunisie, n. 44, 1963, p. 63-68.
13. Calcaire sahélien
3 stèles néo-puniques provenant d'un sanctuaire non fouillé situé en bordure de la Sebkha de Sidi el
Hani.
D. — EPIGRAPHIE
1. Marbre blanc
Dans des terres de déblai rapportées au Nord de Sousse et provenant sans doute de la petite nécropole située en bordure de l'ancienne voie d'Hadrumète à Carthage.
DIS. MAN. SACR. M.
CAELIVS. SATVR.
NINVS. PIVS. VIX.
ANNIS. XVIIII. H. S.
2. Calcaire
Plaque funéraire (0,26m X 0,21m); hauteur des lettres : 0,04m (2ème ligne), 0,03m (3ème ligne).
Même provenance.
DIIS. MANIBVS.
SACRVM
P. SEXTILIVS LIBYCVS
H. S. VIX. P. ANN. V
3. Marbre
Fragment de plaque funéraire. Même provenance.
////
vI
FORTVNATVS
//// IMAE
212
MUSÉE DE SOUS SE (1949-1964)
4.
Calcaire
Plaque funéraire (0,20 m X 0,16 m). Même provenance.
M. SEIVS. IANVArius
VIX. ANN. V//
SEIVS IANVARIVs//
MIA FORTVNATA
FILIO. PIISSImo
5. Calcaire
Plaque funéraire (0,21m X 0,17 m). Trouvée sur la piste de l'Oued Laya 0,31m x 0,325 m.
D. m s
L. LICINIVs vi
XIT ANN. XX
FAVSTVS PAT.
FECIT
6. Marbre blanc
Plaque funéraire. Trouvée tout près de l'hypogée dionysiaque, quartier Bou Hassina (Sousse)
7. Marbre
Plaque funéraire (0,24 m x 0,23 m) hauteur des lettres : 0,025 m. Provenance, Leptis Minor (Lemta)
DISMANIB. SACR.
L. LABINIVS. MAXIMVS
VIX. ANN. XL. H. S. FVALE
RIA FELICITAS VXOR CVM
LABINIO MAXIMO FRATRI
FECERVNT êedera
8. Calcaire
Cippe funéraire ; godrons en creux et motif curviligne à la partie supérieure ; guirlande de feuillage au
dessus de l'inscription, et tout le tour du cippe. (Pl III. 8). (1,10 m x 0,50 m X 0,50 m). Provenance,
près du pont sur l'Oued Nebhana.
D. M. S.
P MINVCIVS SATVR
NINVS VIX ANN. L
HIC SITVS EST
9. Marbre
Fragment de plaque funéraire (0,12 m X 0,10 m). Provenance, Moureddine.
///////IR/
AEMILIA ////
LAMAT///////
213
AFRICA
10. Calcaire
Fragments appartenant à un ciborium abritant une statue de Diane (voir B. architecture 1).
1. a....DIANAE AVG. SACR.
b....LVCIEFERAEAVG. SACR.
2. AGN
VMMAE
3. //ANIANIO
PREFLAMAED
ISSEOBLATAE ALD
11. Calcaire
Stèle à Saturne (Ousseltia) cf G 8 pl.
G. LIVTI SILV///
12. Calcaire
Base honorifique remployée dans une huilerie trouvée à 3 km de Sousse sur la route de Kalâa Srira
1,25 m X 0,56 m. Martelée, lecture difficile. (2 lignes lisibles).
PER AFRICAM MAGISTRO
PMNIUM VIRTVTVM VIRO
13. Marbre
Base honorifique trouvée à El Jem (1,65m x 0,70m x 0,78m) hauteur des lettres: 0,07m.
Mutilée à une époque récente : (BAC, 1951, p. 217). Date de l'année 156.
IMP. CAESARI DIVI
HADRIANI FIL. DIVI
traiani PARTH. NEP.
diVI NERVAE PRONEP
t aELIO HADRIANO
antonio aug. pio
PONTIFICI MAXIMO
tribuni potestate
XX COS IIII
D. D. P. P.
14. Marbre
Plaque portant une dédicace, mutilée à la partie supérieure (1,09 m X 0,91 m) trouvée sur une colline
dominant l'Oued Laya, à l'Ouest de Kalâa Srira. Date de l'année 200
IV ssu imperatoris/////
C ////////////////////////
RVM IMP CAESL.
SEPTIMI SEVERI INVICTI
PII PERTINACIS AVG. ARAB
ADIAB PART MAXIMI TRIB
POTEST VIII IMP. XII COSII P. P.
D. D.
P.P.
214
MUSÉE DE SOUSSE (1949-1964)
15. Calcaire
Cippe (0,12m) au sommet arrondi (milliaire) provenant de Kroussia date de 6-5 av. J.-C; hauteur
des lettres: 0,06m. B.A.C. 1951-52, p. 105
AFRICANVS
FABIVS Q. F.
MAXIMVS
COS VIIVIR
EPVLONVM
PRO COS
XXCVII
16. Inscriptions grecques provenant d'une basilique cimétériale à Sousse.
L. FOUCHER, Hadrumetum, p. 345-347.
17. Os
Parallélipipède rectangle de 0,046 m x 0,006 m dont une des extrémités a été travaillée : une ligne en
creux, une gorge, un petit renflement aux coins limés; un trou pour passer un fil. Trouvé au pied de
la Qasba de Sousse; côté Sud; chaque face porte une inscription : il s'agit d'une tessera numularia (66).
DIORVS
TREBONI
SP. K. DEC.
C. FVRN. C. SILA
Caius Furnius et Caius Silanus ont été Consuls en 17 av. J.-C. L'usage de ces tessères, d'après les
dates indiquées sur celles qui ont été trouvées jusqu'à ce jour est limité entre 96 av. J. - C. et 88 ap.
J.-C. Elle n'ont pas trait, comme on l'avait cru, à la carrière des gladiateurs, mais sont des fiches de
contrôle posées sur des sacs d'espèces contrêlées par le nummularius (ici Diorus) représentant un
argentarius (Trebonus) ; d'où le mot Spec(tavit) et la date.
R. HERZOG, Tesserae nummulariae, aus dem Geschichte des Bankwesens im Altertum, Giessen, 1919.
18. cf. 1. 2.
19. Poterie arétine : nombreuses marques de fabrique.
L. FOUCHER, Hadrumetum, p. 48.
E. — OBJETS EN OR OU EN ARGENT
néant
215
AFRICA
F. — OBJETS EN BRONZE
1. Fragment de statuette en bronze doré (0,185m) trouvée à El Jem; la tête et les jambes, man
quent. Personnage marchant à gauche (pl. IV. 12).
2.
Fragment de miroir (nécropole romaine de Leptis Minor).
3.
Fragments de chaînette (nécropole romaine de Leptis Minor).
G. — OBJETS DE FER
Clous ronds.
H. — OBJETS EN PLOMB
1.
Tablette opisthographe de plomb (0,076 m X 0,098 m) en deux morceaux (don de M.
MARCHALL, provient d'un cimetière romain situé au Sud de la ville). Signes caballistiques.
A
ANNIBONIA
CONCISVS LAVREN
TIVS PIQVARIVS
FELIX COBBO
SALVVS
A
ORO BOS EX ANC
DIE VT TACEANT
MVTI MVTVLI SI n T
DAMMAMENEUS
L'Hadrumétin qui a déposé cette plaquette dans la tombe de ses ancêtres souhaitait donc que ses
adversaires, nommément désignés au recto, ne puissent plus parler à partir de ce jour, qu'ils restent
muets. Cette plaquette ne se rapporte donc pas, comme celles qui ont été découvertes à Sousse jusqu'à
ce jour à des courses de char ou à des affaires de cœur; il s'agit plutôt d'une judicaria : un plaideur,
voulant nuire à son adversaire, cherche à l'empêcher de se faire entendre au tribunal. Damnameneus
est un mot magique très connu.
I. — CERAMIQUE FIGURÉE
1.
Vase en forme de chien (0,11 m x 0,11m) Provient de la nécropole néo-punique qui
s'étend dans la caserne, à l'ouest de la Qasba.
L. FOUCHER, Hadrumetum, p. ; 67 p. 1.
216
MUSÉE DE SOUSSE (1949-1964)
2. Fragment de statuette en terre cuite noirâtre provenant de Leptis Minor. Il s'agit d'une Tanit.
La divinité est assise sur un fauteuil à large dossier rectangulaire. Elle porte -une coiffure en forme
de polos, plus large que celle des divinités similaires de Bir Bou Rekba3 ou de Soliman4. Seule sub
siste la partie gauche du buste. Le dos, convenablement lissé, est décoré de deux dessins et porte
une inscription : au milieu, en haut, apparaît un «signe de Tanit», un petit triangle coupé aux deux
tiers de la hauteur par une barre verticale munie de deux bâtonnets dirigés l'un vers le haut, l'autre
vers le bas. Sur le côté s'allonge une palme. On peut lire :
M. AEMILVs
RVSTICVS Mago
GONIANVs
B(onis) B (ene)
L. FOUCHER, Hadrumetum, p. 47, pl. vII.
3. Tête d'homme; très réaliste; traits ravinés (0,068m). Trouvée dans des terres rapportées au
pied de la Qasba de Sousse, côté Sud. (pl. vI. 17).
4. Hermès assis; tient une bourse de la main droite (0,14m). Provient d'un tombeau du IIIème
siècle découvert dans la cour du Collège technique à Sousse.
5. Boukolos tenant unpedum de la main gauche et portant la main droite à la tête; peut-être fait-il
le geste de se couronner après une victoire dans des jeux rustiques. Seulement vêtu d'une nébride
en bandoulière; à ses pieds à gauche, un chien et, le long de sa jambe droite, un arbre où pend une
syrinx (pl. v. 14).
6. Chameau et cavalier assis sur l'arrière-train et tenant une bride qui passe sous l'encolure de
l'animal (pl. v. 16). Nécropole romaine, quartier Bou Hassina. Pour toutes ces statuettes ; L. FOUCHER,
Hadrumetum. p. 267 sqq. pl. xxxvI.
7. Héraclès barbu, complètement nu, tenant sa massue dans la main droite désarçonne l'amazone
Hippolyté en la tirant par les cheveux. Celle-ci, vêtue d'une robe agraffée sur l'épaule gauche et
laissant à nu le sein droit, retient de la main droite son cheval qui se cabre1 (pl. v. 15).
Le même sujet est représenté sur une peinture de Pompéi; S. R EINACH , R. P. G. R. 187, 7
Provenance, El Jem.
8. Lion s'élançant sur un animal (10,14 m x 0,097 m). Nécropole romaine en bordure de la
route de Kalâa Srira.
9.
Jeune faon (0,095m X 0,115m). Même provenance.
10. Tête de Vénus; assez rongée. Trouvée au pied de la Qasba de Sousse, côté Sud (0,033m).
11. Tête de Vénus. Même provenance.
217
AFRICA
13. Tête de femme portant une sorte de capuchon pointu sous lequel dépasse une chevelure bou
clée qui encadre le visage (0,037 m). Même provenance.
14. Grotesque; tête simiesque (0,035m). Même provenance.
15. Enfant joufflu; (0,04m). Même provenance.
16. Masque de vieillard (0,042 m). Même provenance.
17. Buste d'homme nu à l'allure énergique (0,088 m). Provenance, El Jem.
18. Tête de Vénus; chevelure ondulée, en bandeaux; 0,05m. Même provenance.
19. Moule en terre cuite : arrière train d'un griffon ailé. Fouilles de l'Arsenal.
20. Moitié de moule d'une lampe; sans doute un Dionysos avec son thyrse. Même Provenance.
21. Statuette de vieille femme pressant une pyxis sur son ventre. Provenance, El Knissia.
J. — LAMPES
I
LAMPES D'EPOQUE PUNIQUE
1. Lampes néo-puniques à trois becs pinces et à pied. Sanctuaire de Menzel-Harb, nécropole punique
de Sousse (caserne).
2. Lampes type rhodien avec aileron saillant, couverte noire ou engobe rouge. Tombeaux punique
de Leptis Minor (Bou Hadjar).
II.
LAMPES ROMAINES
1. Lampe du 1er siècle, sans queue, bec d'enclume (0,07 m) : taureau bondissant. Nécropole punique
de Sousse (caserne).
2.
Même type (0,01 m). Buste de Mercure. Provenance, Hammam-Sousse.
3. Lampe du IIème siècle, queue perforée; simple cercle autour du motif (masques et vase à godrons;
poterie grisée (0,08 m). Bir el Caïd.
4.
Même type; deux dauphins et trident (0,08m). Poste de Sousse.
5.
Même type ; croissant (0,07 m) ; Leptis Minor, pourtour : laurier.
6. Lampe du IIIème siècle; gazelle couchée; (0,095m). Sousse, internat du Lycée.
Nombreux fragments de lampes du même type avec des signatures connues L MADIEC Nov
(ius) IVS (tus), CLOSVC.
218
MUSÉE DE SOUSSE (1949-1964)
7. Lampe grosse poterie rouge, queue pleine avec motif chrétien : monogramme constantinien.
Provenance, Sousse.
8.
Même type; poisson.
9.
Même type; croix. Provenance, Sousse.
l0
Même type; fragments divers.
K. — CARREAUX DE REVETEMENT
néant
L. —POTERIE
I.
POTERIE D'EPOQUE PUNIQUE
1. Grandes jarres ; poterie gris vert assez grossière (0,75 m) Leptis Minor.
L'une d'elles porte deux inscriptions (pl. vIII. Provenance, 24.25).
2.
Amphore, poterie grise (0,37 m). Même provenance.
3.
Bol; poterie rouge grossière (0,14m X 0,62m). Même provenance (pl. vIII. 26 a).
4.
Vase «chardon»; poterie rouge; surface lissée; Même provenance (Pl. vIII. 26b).
5.
Brûle-parfums (hauteur variable: 0,135m, 0,115m 0,093m).
6. Vase à pied rouge décoré de motifs floraux blancs de type hellénistique; Même provenance
(0,09 m x 0,153 m).
7. Vase à pied. Même type mais avec deux anses constituées par un petit boudin d'argile replié
vers le flanc; (0,185m x 0,153m). (Pl. vII. 22).
8.
Même type, sans anses, couverte brune; (pl. vII. 18).
9.
Assiette décorée de cercles bruns, spirale au centre (diam. 0,185 m) (Pl. vII. 21).
10. Patères à couverte brune ou grise (diam. de 0,09 m à 0,142 m). Même provenance (Pl. vII. 19).
11. Vase à anses; poterie noire fine (importation) (Pl. vII. 23), (0,105m).
12. Vase sans anses; poterie très fine (importation) (Pl. vII. 20) (0,105m).
219
AFRICA
13. Vase à base renflée; poterie rouge (0,10m). Sanctuaire punique de Menzel Harb.
14. Vases à anses; poterie rouge (0,15m). Même provenance.
15. Vases sans anses; poterie rouge ou grise (de 0,08m à 0,13m). Urnes votives avec ossements
d'animaux. Même provenance.
16. Deux couvercles superposés qui contenaient des ossements d'animaux. Même provenance.
17. Fioles à parfums allongées et pointues.
18. Urne funéraire avec une anse (0,40 m). Nécropole néo-punique de Sousse.
19. Urne funéraire pointue avec deux petites anses (0,18 m). Même provenance.
20. Petit vase sans anses portant trois filets bistres (0,19 m). Même provenance.
21. Patères (diam. de 0,06 m à 0,08 m).
22. Oenochoés pansues. Même provenance.
23. Aiguières à bec (0,12 m). Même provenance.
24. Grand plat rectangulaire (posé sur un autre de même dimension
ments incinérés. Même provenance.
0,45 m) contenant des osse
25. Mobilier funéraire des tombeaux de la Qasba. L. FOUCHER, Hadrumetum (p. 59-61, pl. Iv).
26. Grandes jarres provenant de la nécropole de Medjez Aïssa (non fouillée.).
II.
POTERIE D'EPOQUE ROMAINE
27. Urne funéraire avec trous dans le fond; nécropole romaine de Sousse, quartier Bou Hassina
(0,22 m).
28. Amphore pansue contenant des ossements; (0,38m). Même provenance.
29. Petits plats à pied et à deux anses (diam. 0,12 m). Provenance, Leptis Monor.
30. Oenochoés avec anses portant des rainures. Même provenance.
31. Plat avec couvercle (0,18 m x 0,07 m). Nécropole romaine à Sousse, côté sud.
220
MUSÉE DE SOUS SE (1949-1964)
32. Vase ayant la forme d'un alabastre conique avec une anse (0,125 m) sur l'anse, palme en
pastillage, sur la panse, palme demi-couronne, chasseur portant un sanglier sur son épaule (pl. Ix.
30).
33. Même type (don de M. Brouillard).
34. Même type; sur la panse: colonne, sanglier, (pl. IX. 29) (0,135m). Provenance, El jem.
35. Même type de poterie; vase à long col avec une anse; palme sur la queue, plusieur palmes sur
la panse. Apollon saurochtone ou Dionysos tenant un lézard qui grimpe le long de son thyrse, lion
dévorant un sanglier (0,185 m) (pl. IX. 27). Nécropole romaine au Sud de la Quasba. Avec ce vase
a été trouvée une monnaie de Julia Mammaea.
36. Même type, sans décor; (pl. IX. 28). Provenance, Moureddinev
37. Filtre trouvé en place à Bou Hadjar et reconstitué sur la terrasse du Musée de Sousse. Un
grand vase de 1,05 m X 0,45 m adossé à un mur est surmonté d'un recipient en maçonnerie dont la
base est percée de cinq trous et qui communique avec un petit bassin de décantation dont le niveau du
fond est plus bas. Plus lin une grande jarre qui devait être pourvue d'un dispositif analogue (restes de
mortier) (0,88 m x 0,98 m).
M. — OBJETS EN MATIÈRES DIVERSES
1. Os ; manche représentant une main qui tient une colombe (facture byzantine) ; Ribat de Sousse.
A. LÉZINE, Le Ribat de Sousse p. 9 pl. xI. d.
2. Collier composé de perles de verre et d'objets (phallus, pommes de pin) en pâte siliceuse; nécropole
néo-punique de Sousse.
3.
Divers fragments de récipients en verre.
Louis FOUCHER
221
Planche I
1
2
Planche II
3333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333333
3
4
5
6
Planche III
7
8
9
Planche IV
11
1
13
12
Planche V
14
15
16
Planche VI
17
Planche VII
19
18
20
21
22
23
Planche VIII
26
a
24
b
25
Planche IX
27
29
28
30
à la mémoire de
Ernst Kûbnel
Un vêtement islamique ancien
au Musée du Bardo
Introduction
La pièce qui retient aujourd'hui notre attention1, provient des collections de
textiles copto-islamiques exposées au Musée du Bardo. Elle a été acquise en Egypte
par M. H. H. Abdul-WAHAB qui en fit don au Musée, en 1952.
Ce document présente un intérêt tout particulier qui tient à trois raisons essentielles : il s'agit d'un vêtement presque complet; il se rattache encore, par le style du
décor et la technique, à la période de transition entre les productions textiles coptes2 et
celles de l'époque islamique; il porte une inscription arabe dont l'épigraphie mérite
une mention spéciale3.
1
2
3
Cet article est extrait d'une étude exhaustive, en cours de préparation, concernant l'ensemble des tissus
copto-islamiques exposés dans les divers musées islamiques de Tunisie et dont les fragments
s'échelonnent du IVème siècle de l'ère chrétienne à la période mamelouk.
Pris dans son sens le plus large, le mot «copte» signifie, en fait, le vieux fond égyptien autochtone. Il vient
de la déformation du mot «Aeguptyos». Sur ce point, cf. Grohmann, Encyclopédie de l'Islam, Leyden 1934,
au vocable Kibt.
Pour la description détaillée de la pièce, on se reportera à la fiche de présentation jointe aux photographies.
241
AFRICA
Tous les spécialistes qui se sont penchés sur l'étude des tissus anciens acquis en
Egypte par divers musées européens, ou faisant partie des riches collections du Musée
Arabe du Caire, se sont heurtés aux mêmes difficultés. Le contexte archéologique,
indispensable pour préciser la datation ou l'origine des documents soumis à leurs
investigations, était pratiquement inexistant. Une bonne partie des tissus, tant
coptes qu'arabes, ne sont que des fragments vendus par des antiquaires incapables
d'apporter une précision quelconque sur leur provenance et qui, parfois même,
n'hésitèrent pas à découper en plusieurs morceaux les étoffes dont les collée donneurs
se partageaient les dépouilles (sans le savoir).
En dehors des lots recueillis par les antiquaires, les archéologues disposaient
cependant d'un matériel considérable : nous voulons parler des innombrables fragments de vêtements ou de tissus d'ameublement, découverts en majeure partie dans les
sépultures de Haute-Egypte, dont les fouilles furent exécutées à la fin du siècle dernier
et au début de XXème siècle, par MASPÉRO au Fayoum et à Akhmîm, par GAYET4 à
Antinoë et Bawit. Malheureusement, la plupart des trouvailles faites à Akhmîm furent
dispersées chez les marchands, et les rapports de fouilles se révélèrent trop imprécis
ou subjectifs pour être d'une réelle utilité scientifique.
Quant aux informations fournies par les récits des historiens, et sauf cas exceptionnels, elles sont de portée très limitée. Enfin, jusqu'à une époque assez avancée
de l'ère islamique (essentiellement vers la deuxième moitié du IXème siècle qui vit
se généraliser la coutume du tiraz5), on peut dire que les tissus datés avec certitude
sont excessivement rares.
4
5
Signalons que le Musée du Bardo possède dans les réserves une importante collection de tissus provenant
des fouilles de A. GAYET et offerte par celui-ci, lors d'un passage en Tunisie.
D'après JAWALIKI, le mot tiraz ou tarz serait d'origine persane et aurait été adopté par les musulmans dès le
temps du Prophète. Il désigne, dans son sens le plus large, toute inscription, quel que soit l'objet sur le quel
elle se trouve : mosaïque, pierre, bois ou étoffe. Mais, la plupart des auteurs arabes anciens et les noms
breux savants qui étudièrent les arts textiles de l'Islam ont fini par s'approprier l'expression qui ne s'appli
que pratiquement aujourd'hui qu'aux tissus portant une inscription arabe. Jawaliki, Kitab al-Mucarrab, Ed.
Sachau, Leipzig 1867, p. 102.
Grohmann, Encyclopédie de l'Islam, IV, au vocable tiraz.
La série des tiraz abbassides datés, exposés dans les musées islamiques de Tunisie, a fait l'objet d'une publication de notre part (sous Presse au Secrétariat d'Etat aux Affaires Culturelles et à l'Information).
242
UN VÊTEMENT ISLAMIQUE ANCIEN
Les spécialistes ont donc été amenés à tenter d'établir des classifications approximatives à partir de critères stylistiques ou de renseignements tirés de l'examen
technologique ou de l'analyse chimique des colorants utilisés6.
Û
A la lumière des résultats ainsi obtenus, il a été possible de déterminer plusieurs
groupes composés de productions textiles proprement pre-islamiques, que l'on fait
généralement remonter au IVème siècle pour s'achever dans les débuts du VIIème
siècle.
Viennent ensuite les premiers tissus portant des inscriptions arabes (parfois
d'ailleurs conjointement à une ligne d'écriture copte) et qui se placent évidemment
après la conquête, sans qu'il soit possible de parvenir à une précision chronologique
très fine. En effet, bien souvent le texte se limite à des formules pieuses ou à quelques
caractères apparaissant comme complémentaires de l'ornementation qui, elle,
demeure dans la ligne décorative propre à la période ante-islamique7.
Plus ardus encore sont les problèmes de datation relatifs aux étoffes dépourvues
d'inscription, mais pour lesquelles le répertoire ornemental d'inspiration plus
typiquement orientale ou l'apparition de coloris nouveaux obligent à envisager une
origine postérieure à la conquête arabe.
6
7
Le plus grand spécialiste pour les recherches de cet ordre fut sans conteste R. PFISTER, chimiste expérimenté qui parvint à établir l'appartenance post-hégirienne de certains tissus de transition, grâce à la détermination de colorants nouveaux introduits en Egypte après la conquête. Ces produits importés,
notamment le Lac-dye (pour les teintes rouges) et le Mang-Koudou (pour les teintes oranges), venaient de
l'Inde et de Java, par la Mer Rouge et le Golfe persique. Or, la conquête arabe amena, on le sait, un
renversement dans les voies commerciales jusqu'ici suivies par les négociants égyptiens. Le trafic avec la
Méditerranée orientale (Byzance et l'Asie Mineure) fut brusquement interrompu, tandis que se
développaient les échanges avec les pays d'Orient depuis longtemps fréquentés par les marchands arabes.
Pour plus de détails, cf. R. PFISTER, Matériaux pour servir au classement des textiles égyptiens postérieurs à la conquête arabe, Revue des Arts Asiatiques, 1936, X, n. 1, p. 1 à 9.
Citons, à titre d'exemple, un fragment d'une bande d'épaule appartenant aux collections du Victoria et Albert Museum de Londres. Cette pièce, l'une des plus anciennes parmi les textiles de transition, est tissée
selon les principes purement coptes (cf. infra pl. V). Elle représente un personnage qui se rattache à la série
des «orants». Sur le fond du décor apparaissent déjà quelques caractères arabes, maladroitement tracés,
mentionnant à deux reprises ‫ اﻠﻠﻪ‬- Allah. En dernier lieu : J. BECKWITH, Tissus coptes, les Cahiers CIBA,
VII, n. 83, août 1959., p. 25.
243
AFRICA
Dans l'état actuel de nos connaissances, toute tentative pour établir une ligne de
démarcation nette entre les productions textiles pre-islamiques et post-hégiriennes
serait vouée à l'échec. Outre les difficultés matérielles de datation que nous avons
évoquées, une telle distinction serait en effet purement arbitraire, l'établissement de
l'Islam en Egypte comme dans les pays voisins du Proche-Orient n'ayant point provoqué une réelle rupture de tradition. «Dans cet art, moins encore que dans tout
autre, il n'y eut de changement brusque, les lois de l'évolution régissant toutes les
manifestations de l'activité humaine s'appliquent ici comme ailleurs...8».
De ce point de vue, la transition entre les arts textiles antiques et les arts textiles
musulmans a certainement été facilitée par le fait que, longtemps avant l'Hégire, les
tissus d'Egypte faisaient l'objet d'un commerce actif entre cette province byzantine
et le Hejaz. L'avènement de l'Islam ne modifia en rien ces échanges commerciaux :
dans les villes saintes, à La Mecque et à Médine, pénétraient les étoffes auxquelles
plusieurs auteurs arabes donnèrent le nom très significatif de «Kubati9». Azraki10 et
Makrisi11, en particulier, parlent longuement des célèbres Kiswa servant à recouvrir
la Kaaba et qui étaient des Kûbati venant de Shata, dans le delta du Nil. D'après une
légende le Prophète lui-même aurait reçu en cadeau plusieurs de ces étoffes, offertes
par un préfet d'Egypte avec lequel il était en relation12. D'abondants témoignages,
glanés à travers les textes de multiples historiens ou géographes arabes, donnent bien
l'impression qu'en effet « la tradition musulmane devait asseoir définitivement la
royauté des tissus égyptiens, la rendre incontestable»13.
Un autre élément qui facilita le passage d'un cycle à l'autre fut l'emploi massif,
par les maîtres arabes, d'une main-d'œuvre presqu'uniquement locale. Au moins
pendant tout le temps que dura la lente arabisation de l'Egypte, les artisans demeurèrent coptes, pour la plupart, sous un contrôle arabe fort léger. Les centres de tissage
dont les noms reviennent constamment dans la littérature arabe étaient ceux-là
même qui connurent une grande activité déjà à l'époque byzantine : Alexandrie,
Shata, Dabik, Tinnis, Damiette, Akhmim, Kaïs, Bahnasa, Le Fayoum... L'histoire
8
9
10
11
12
13
G. MIGEON, Manuel d'Art Musulman, 1927, II, p.279.
Encyclopédie de l'Islam, au vocable Kibt.
Die Chroniken des StadtMekka, Ed. Wustenfeld, Leipzig 1857, (Azraki) p. 182.
Khitat, Bulaq 1270 H (1853 J-C), II.
G. WIET, Tissus et tapisseries du Musée Arabe du Caire, Syria, XVI 1935, p. 278-290.
G. WIET, Tissus et tapisseries de l'Egypte Musulmane, Revue d'art ancien et moderne, 1935, n. 363-364,
p.3-14 et 61-68.
244
UN VÊTEMENT ISLAMIQUE ANCIEN
nous apprend qu'au cours du IVème siècle de l'Hégire, des ouvriers coptes de Basse-Egypte, tisserands réputés pour leur habileté, étaient encore sollicités par les
princes musulmans de Baghdad14.
La faveur dont ne cessèrent de jouir les tissus coptes dans les régions récemment
islamisées s'explique en grande partie par la transformation qu'en Egypte byzantine
les conceptions décoratives subissaient depuis un siècle au moins. De plus en plus
influencés par l'Orient, les artisans s'écartaient du naturalisme hellénistique pour
tendre vers une réprésentation plus abstraite, un décor plus ornemental, des couleurs
plus variées et plus riches : ils allaient ainsi dans le sens des conceptions artistiques de
l'Islam15. Aussi, leurs productions et leurs recherches n'éprouvèrent-elles
apparemment aucun dommage quand la conquête arabe eut soumis le pays à la
religion nouvelle; elles furent au contraire favorisées.
Ainsi donc, l'art copte apparaît comme le «trait d'union» entre les arts de l'Antiquité et l'art islamique primitif et son influence est restée sensible en Egypte pendant
toute la période archaïque musulmane, de la conquête arabe à la chute des
Toulounides.
C'est à cette époque, dite de transition, qu'il convient de rattacher la pièce qui
nous intéresse aujourd'hui.
Etude technologique du vêtement
L'examen du mode de confection utilisé pour ce vêtement, sans doute destiné à
un enfant si l'on en juge par les dimensions, amène certaines remarques.
Forme générale du vêtement
La forme générale de la robe ne diffère pas sensiblement de la tunique copte à
manches demi-longues. Ceci n'a rien d'étonnant puisque l'on sait que vêtements
coptes et vêtements arabes existèrent côte à côte, au moins pendant les premiers
14
15
G. WIET, L'Egypte arabe, Histoire de la nation égyptienne, publié par Hanotaux, IV, p. 173.
Sur l'évolution de l'art copte avant la conquête arabe, cf. G. DUTHUIT, La sculpture copte. Notamment : «Le
dessin s'est éloigné du modèle offert par les choses au point de ne plus évoquer en nous qu'un très vague
souvenir de l'univers visible... La ligne suit les premiers détours à la fois capricieux et savants qu'un phi
losophe appellera une «géométrie ouverte» et témoigne dans son interprétation de la nature, d'un esprit si libre
qu'on trouvera normal d'aboutir quelques siècles plus tard, avec l'Islam, aux dispositions décoratives connues
sous le nom d'arabesques et de polygonies». (p. 16).
245
AFRICA
siècles de l'Hégire. Baladhûri indique que, sous les Omeyyades, les Egyptiens
étaient taxés annuellement d'un certain nombre de produits parmi lesquels les vêtements tenaient une place importante: burnous, turbans, pantalons, jebbah de laine...
Mais, il est précisé qu'«à défaut de jebbah, la tunique copte serait acceptée», ce qui
permet de penser que certaines formes de vêtements pré-islamiques ne devaient
être assez étrangères pour choquer les traditions des musulmans de l'époque16.
C'est seulement au milieu du IXème siècle, sous le Khalife Al-Mūttawakil, que
les chrétiens ont été obligés de porter notamment un turban jaune et une ceinture les
différenciant des musulmans17. Encore ne s'agit-il là que de détails vestimentaires.
La robe que nous présentons fournit un des rares exemples de l'habit musulman à
l'époque de transition.
Mode de confection
La technique de confection et l'emplacement du décor offrent, par contre, des
différences sensibles par rapport aux usages vestimentaires pré-islamiques.
On rappellera que la tunique copte était tissée d'une seule pièce placée sur le
métier dans le sens de sa longueur totale, 1a chaîne courant perpendiculairement à la
largeur du vêtement. L'ouverture servant à passer 1a tête consistait en une fente
obtenue au cours du tissage par la simple séparation de deux fils de chaîne. Cette
disposition particulière exigeait un métier très -large, mais permettait par ailleurs de
faire passer les fils de trame, qui constituaient les parties unies du décor, d'un bout à
l'autre de la bande ornementale. Ceci explique du même coup la préférence accordée à
la décoration par longues et étroites bandes verticales (les paragaudes18), courant d'un
bout à l'autre de la tunique ou s'arrêtant à mi-hauteur, sans qu'il apparaisse utile de
pratiquer une interruption à hauteur des épaules19.
16
17
18
19
BALADHÛRI, Futuh al Buldan, Ed. M. J. de Goeje, Leyden 1866, p. 215, Trad. P. Ritté, New-York 1916, I,
p. 338. Cité en référence par R. B. SERJEANT, Material for a history of islamic textiles up to the Mongol
conquest, Ars islamica, 1951, chap, XVI, Egyptian textiles, p. 89.
G. WIET, Précis de l’Histoire de l'Egypte, II, 1932, p. 133.
Terminologie empruntée à H. d'HENNEZEI,, Pour comprendre les tissus d'Art, Paris 1930, p. 12.
Voir pl. I, 1. Pour illustrer cette description, nous présentons une mosaïque tombale d'époque chrétienne,
provenant des Buttes Mezghani à Sfax et exposée au Musée du Bardo, sous le numéro d'inventaire A 13. Le
défunt est vêtu d'une tunique à manches que l'on peut rapprocher de celle en usage dans l'Egypte CoptoByzantine. On remarquera en particulier les bandes ornementales ininterrompues qui courent du haut en bas
du vêtement et l'ouverture au ras du cou.
On pourrait aisément multiplier les exemples de mosaïques funéraires chrétiennes, provenant de Tunisie et sur
lesquelles les défunts portent tous ce type d'habit qui fut certainement en usage dans tout le monde
méditerranéen à l'époque paléo-chrétienne et byzantine.
246
UN VÊTEMENT ISLAMIQUE ANCIEN
Or, nous avons constaté que, contrairement aux usages antérieurs, la robe présentée ici est faite d'un assemblage de multiples pièces tissées séparément. Faut-il
voir là un changement dans la technique du tissage, dans le métier employé? Un
document archéologique (beaucoup plus tardif il est vrai) fournit un deuxième exemple
de ce genre de confection : il s'agit d'une robe publiée par E. KUHNEL20. Les coutures y
sont aussi nombreuses que sur notre vêtement et disposées à peu près de la même
manière. Précisons que, dans les deux cas, il s'agit d'une robe d'enfant. Les récits des
historiens semblent confirmer ces constatations, puisqu'ils précisent que certains
habits appartenant à la garde-robe en usage dans le monde musulman au Xème
siècle, étaient composés de neuf pièces soigneusement cousues21.
Emplacement des bandeaux décorés et technique d'exécution
Quant au décor du vêtement, il consiste toujours en bandes étroites, mais dont
l'emplacement est strictement limité au haut des manches22, la chaîne passant désormais perpendiculairement par rapport au sens général du dessin. Ce genre d'ornementation, relativement discrète, en conformité avec les principes de modestie
enseignés par la nouvelle religion musulmane, succédera, du moins pendant les
premiers siècles de l'Hégire, à l'éclatante décoration polychrome des derniers temps
de l'époque byzantine, qui offrait une profusion d'images d'une variété infinie.
20
21
22
Islamische stoffe aus ägyptischen gräbern, Berlin 1927, Pièce n. 1035, pl. 35, texte p. 59. Datation : XlVème
siècle (?).
Aly MAZAHERI, La vie quotidienne des musulmans au Moyen-Age, (Xème - XIIIème siècle), Hachette, Paris
1951, p. 70-71. Au cours d'une description détaillée des vêtements en usage dans le monde musulman au
Moyen-Age, l'auteur cite notamment: « la chemise en toile blanche soigneusement cousue, composée de neuf
pièces et se fermant sur l'épaule droite...» puis, une sorte de «tunique en drap de couleur, comportant également neuf pièces, doublée et brodée d'un galon de soie et qui descendait jusqu'au dessous des genoux». Si
l'on excepte les pièces ajoutées sous les bras et au long des manches, pour des raisons sans doute apparues
après coup, on dénombre finalement neuf pièces sur notre «robe». On peut d'ailleurs remarquer que les quatre
morceaux supplémentaires ont été découpés dans un lainage légèrement différent, plus fin et plus lâche.
Voir Pl. I, 2. A titre d'illustration, nous avons joint la photographie d'un bas-relief fatimide exposé au Musée
du Bardo. Il fut découvert à Mahdya et publié par G. Marçais, Manuel d'Art Musulman, I, p. 176. Cette
sculpture représente un personnage couronné tenant une coupe à la main droite ; à ses côté, une musicien ne
jouant de la flûte. On remarquera que tous deux portent des vêtements dépourvus de toute décoration à
l'exception d'un étroit bandeau (peut-être à inscriptions) placé en haut des manches, comme sur le vête ment
étudié.
Ce document est à joindre à ceux publiés par Nancy Pence BRITTON, Some early islamic textiles, Museum of
fine Arts, Boston 1938, fig. 96 à 100. Tous confirment les conceptions décoratives propres aux productions
textiles islamiques et qui marquent un changement radical par rapport à celles de l'époque antérieure.
247
AFRICA
Du point de vue technologique, le décor est toujours obtenu par l'antique procédé
de la «tapisserie sur métier», traditionnelle en Egypte et qui tient autant de la broderie
que du tissage23. L'artisan, se servant d'une navette volante ou peut-être d'une
aiguille, exécutera chacun des ilôts de couleur différente qui composent le motif
choisi, passant la trame tour à tour sous l'un ou l'autre fil de chaîne24 et l'arrêtant dès
qu'il atteint la limite de l'ilôt. Pour éviter que la chaîne soit visible, il emploiera des
fils de trame extrêmement fïn, tellement tassés par le peigne qu'ils s'imbriqueront les
uns dans les autres, enserrant les fils de chaîne (généralement plus gros ou groupés
par deux ou trois et préalablement tordus), d'une sorte de gaine qui les rend
parfaitement indiscernables aussi bien sur l'endroit que sur l'envers de l'étoffe qui, de
la sorte, seront identiques. L'aspect du tissu ainsi décoré est presque toujours côtelé.
On voit que la mécanique proprement dite n'intervient dans ce genre de tissage que
lorsqu'il s'agit de soulever alternativement l'une ou l'autre moitié des fils de chaîne
pour pouvoir passer cette trame partielle. Toutefois, une sérieuse difficulté se
présente dans ce genre de «tapisserie sur métier» : comment raccorder les divers ilôts
entre eux, surtout si les contours du dessin sont rectilignes, ce que l'on s'efforçait
avant tout d'éviter. Les artisans coptes ont surmonté cet obstacle avec plus ou moins
d'habileté et il arrive fréquemment que le tissu présente des fentes verticales, séparant
certains fils de chaîne sur une longueur parfois importante et donnant au fragment un
aspect assez délabré. Pour éviter cet inconvénient, on imagina de prolonger à
intervalles réguliers, la trame de couleur de l'un des ilôts, la faisant empiéter d'un ou
deux fils de chaîne sur l'ilôt voisin. Les liures en dents de scie ainsi obtenues étaient
souvent masquées par une couture surajoutée, plus ou moins apparente. Lorsque les
tisserands coptes eurent acquis la parfaite maîtrise de leur art, ils arrivèrent à
entrecroiser, tout au long de la limite verticale, les deux fils de trame voisins, sans que
la liure fût visible.
23
24
Sur les discussions qui opposèrent longtemps certains savants (notamment M. GERPACH et A. GAYET) à
propos de la technique de décoration copte (métier de haute et basse lisse, ou simple travail de broderie à
l'aiguille), voir : G. MIGEON, Les arts des tissus, 1909, chap. III, Les tissus coptes, p. 31-39.
Ce qui correspond exactement à la définition du «point de toile» ou de «tapisserie».
248
UN VÊTEMENT ISLAMIQUE ANCIEN
L'artisan qui a exécuté les bandes ornementales de notre vêtement n'a, à aucun
moment, su éviter les fentes qui apparaissent chaque fois que le contour du dessin
est vertical. Pour éviter de multiplier ces lignes de rupture, il s'est borné à remplacer,
chaque fois que cela lui était possible, le trait droit par des canelures en escalier ou des
obliques. Les motifs ornementaux se prêtaient à toutes les fantaisies de ce genre,
mais il n'en était pas de même pour les caractères koufiques. Nous pensons qu'on
peut trouver dans cette difficulté d'ordre technique, l'explication de l'aspect très
caractéristique de la calligraphie observée sur notre pièce, comme sur d'autres documents du même ordre précédemment publiés. L'achèvement en large «merlons»
des hampes notamment, pourrait répondre à des raisons technologiques plutôt qu'à
une mode calligraphique bien déterminée? C'est une façon de tourner l'obstacle,
d'adapter l'écriture koufïque à une matière que l'on ne savait pas travailler autrement
que par le tissage sur métier25.
Etude comparative
On signalera tout d'abord une interprétation d'une analogie frappante remarquée sur une petite série de tapis à poils ras, étudiée par E. KUHNEL26 : même proportion dans le corps des lettres, même usage généralisé des contours en escalier
aussi bien pour remplacer les courbes ou les parties en biseau que comme élément
décoratif. L'un des documents dont nous présentons la reconstitution graphique
exécutée par l'auteur27, portait une inscription précisant non seulement la date,
mais le lieu de fabrication: Akhmîm, 203 H./818 J-C.
Il serait évidemment hasardeux de tirer de ce rapprochement des conclusions
définitives, la nature même des documents comparatifs - des tapis - limiterait la
portée de l'argumentation.
25
26
27
L'application d'inscription en caractères arabes très souples ne présenta par contre aucune difficulté en Iraq,
par exemple, où la broderie, pratiquée depuis toujours par les artisans, permettait, elle, de résoudre sans peine
le problème des courbes.
Workshop Notes, The rug tiraz of Akhmîm, The Textile Museum, Washington, Paper n. 22, octobre 1960. Ce
tirage à part nous fut aimablement communiqué par l'auteur lui-même, lors d'une visite que nous lui rendîmes
à Berlin où il s'était retiré durant les dernières années de sa vie. Cet eminent savant partageait notre point de
vue quant à l'opportunité d'un rapprochemment à faire entre la calligraphie du texte accompagnant les bandes
ornementales de notre vêtement et celle qu'il avait lui-même observée sur les tapis d'Akmîm.
T. M. 73.726. Art. cit., pl,. Iv, Outline of the yellow sections of the pile.
249
AFRICA
II existe par ailleurs une similitude quasi-totale cette fois, entre les bandes
ornementales de notre vêtement et celles qui décoraient un certain nombre
d'«écharpes» publiées par R. PFISTER et considérées par cet auteur comme
spécifiquement «fayoumi»28.
Les caractéristiques communes à cette série de textiles et qui se retrouvent sur la
pièce du Musée du Bardo sont les suivantes. L'étoffe de fond est en laine assez
fine, le plus souvent teinte en noir29; la laine constitue, à l'exclusion de toute autre
matière, la trame du décor et de l'écriture.
Le répertoire ornemental semble pareillement inspiré : chaîne de médaillons
hexagonaux pour circonscrire le décor (C 18 b), frise d'animaux aux contours fortement géométrisés cernés par un filet foncé ou clair suivant la couleur du fond de la
bande30, compositions de chevrons bicolores à bords canelés utilisés comme
éléments de remplissage ou de séparation (C 18 b)...
Sur toutes les pièces on note de même une recherche minutieuse de la polychromie. A l'intérieur de chaque motif, si petit soit-il, l'artisan s'est plu à multiplier
les couleurs, à jouer avec les contrastes.
En outre, trois des fragments présentés par R. PFISTER portent des inscriptions
qui courent de part et d'autre du bandeau ornemental31. Elles sont comme les
nôtres exécutées en blanc sur fond noir et consistent en formules pieuses indéfiniment
répétées ou en lettres sans signification précise. Les caractères y sont interprétés de la
même façon que sur les inscriptions du vêtement. Le souci de la symétrie y est
également évident. Sur les deux bandes appartenant à la robe, ce souci est poussé à
l'extrême ; il a amené l'artisan à disposer les caractères de telle sorte que les même
lettres se trouvent opposées l'une à l'autre, le bandeau figuré formant axe
28
29
30
31
Revue des Arts Asiatiques, X, n.2, Paris 1936, Pl. XXVIII et XXIX.
En fait, il ne s'agit jamais d'un noir pur, mais d'une teinte foncée, se situant entre le rouge sombre et le bleunoir. Ceci s'explique par la nature des colorants : un mélange d'indigo et de garance. Cette dernière plante
était cultivée en Egypte même et permettait d'obtenir un rouge bon marché, mais de qualité très inférieure
à celle du Lac-dye, réservé aux travaux fins de décoration.
Dans le détail, on retrouve par exemple : les quadrupèdes à grosse tête, pattes obliques et queue retournée
(C 11) - les chameaux à grosse bosse, pattes raides et obliques, cou vertical surmonté d'une toute petite
tête - canard stylisé représenté accroupi (C 18 a) - oiseaux accouplés dos à dos (C 18 b).
Les puces dont les numéros sont donnés entre parenthèses ont été reproduites parmi les planches photographiques illustrant cet article. (Pl. V 1, 2 et 3).
C 11, C 12, C 13 de Pfister. Ce dernier fragment n'a pas été reproduit ici. On le trouvera au bas de la plan
che XXVIII, Revue des Arts Asiatiques, art. cit.
250
UN VÊTEMENT ISLAMIQUE ANCIEN
de symétrie. Pour déchiffrer la ligne inférieure, on est ainsi obligé de se servir d'un
miroir, car la calligraphie est totalement inversée32.
Il semble donc que l'inscription ait été considérée ici, ainsi d'ailleurs que sur les
fragments rassemblés par R. PFISTER, non pas uniquement pour la vertu bénéfique
de la formule choisie, mais aussi comme décor en soi, l'artisan ayant su tirer
habilement parti des possibilités ornementales des caractères koufiques. En outre, il
n'est pas certain que le tisserand ait compris la signification réelle de l'inscription dont
il avait reçu commande. Les erreurs de graphie ou les formules tronquées, fréquentes
sur les pièces comparatives de cette catégorie, confirment cette remarque. Durant la
période de transition, il paraît évident que la langue arabe n'était point encore d'une
pratique courante pour l'ensemble du peuple, surtout en province où la pénétration
musulmane fut beaucoup plus lente et se heurta aux tendances conservatrices des
autochtones coptes, aussi bien en Haute-Egypte qu'au Fayoum.
En tout état de cause, l'inscription, telle qu'elle apparaît sur notre robe, ne répond pas encore au but recherché par le tiraz proprement dit, dans lequel les formules
pieuses ou les phrases de bénédiction accompagnent des indications très précises
concernant le Khalife régnant, le Wazir qui a ordonné la confection du vêtement,
l'artisan qui l'a réalisé, l'atelier d'origine et la date de l'exécution.
Problèmes de datation et de provenance
La plupart des auteurs qui se sont intéressés aux productions textiles présentant
avec la pièce du Musée des points de ressemblance assez convaincants, pensent que la
série entière provient du Fayoum et fut exécutée dans le cours du Xème siècle. Leur
argumentation repose en fait sur quelques documents portant, outre les bandes
décorées, une inscription tissée mentionnant Al-Fayoum comme lieu d'origine,
conjointement à une date située vers la fin du Xème siècle33, c'est à dire à une
32
33
Se reporter à la fiche descriptive, et à la reconstitution du bandeau de droite, pl. IV, 1.
Voir entre autres : G. WIET, Tissus et tapisseries du Musée Arabe du Caire, Syria, 1935, p. 284-286. N. 62 du
catalogue de l'Exposition des Gobelins de 1935; n. 9061 Musée d'Art Islamique du Caire.
La pièce dont nous présentons une photographie (pl. VI,2) appartient au Musée d'Art de Cleveland; elle a été
publiée récemment par J. BECKWITH, art. cit., p. 25. L'auteur la date du Xème siècle, sans autre précision,
mais elle rentre sans contexte dans la catégorie des pièces les plus tardives de cette série. C. J. Lamm présente
lui aussi une pièce fayoumi datée entre 375 H (985 J. C. ) et 395 H. (1004 J. C.) : Some woolen tapestry
weavings from Egypt in Swedish Museum, Le Monde Oriental, XXX, 1936, n. 59.
251
AFRICA
époque où l'institution du tiraz était déjà bien installée dans les ateliers officiels du
Delta.
Or, au premier coup d'œil, on peut noter des différences très sensibles entre les
productions indéniablement Fayoumi (de part le texte même de l'inscription), et
celles du groupe auquel se rattache notre vêtement.
Le côté caricatural du décor, compliqué à l'extrême et incluant souvent des
figures humaines est fort éloigné de la schématisation observée sur les bandeaux
précédemment étudiés34. Cette même «dégénérescence» est encore plus évidente
pour la calligraphie qui apparaît très chargée, souvent illisible; les caractères sont
tourmentés; les éléments en merlons ne sont plus limités à l'extrémité des hampes,
mais envahissent le corps des lettres qui se présentent comme une série de triangles
effilés à bords fortement découpés ou festonnés. Les lettres circulaires sont allongées
en pointes et parfois surmontées d'un fleuron. Des motifs adjuvents purement
décoratifs (oiseaux - pointillés - fleurons) se mêlent à l'écriture dont ils renforcent
encore l'aspect empâté35. L'horreur du vide qui caractérise les tissus de ce genre se
retrouve ainsi dans le bandeau inscrit.
Nous pensons donc qu'il conviendrait de reconsidérer au moins la datation
d'ensemble anciennement proposée par M. PFISTER et confirmée par un certain nombre
de spécialistes qui tous se réfèrent aux pièces datées du deuxième type, et établir,
selon les données de l'épigraphie (beaucoup plus sûres, à notre avis, que les variations
du répertoire ornemental), une nette différenciation pour les productions de la
première série.
34
35
Voir notamment reproduction de la pièce présentée par J. Beckwith pl. VI 2.
Voir pièce C 18 a de Pfister, pl. VI 1 et Fragment du Musée de Cleveland, pl. VI 2.
On peut rapprocher de ces pièces le n. 721.3 du Textile Museum de Washington, présenté par E. Kuhnel,
Catalogue of dated tiraz fabrics, Washington 1952, p. 84, pl. XLIII (reproduite pl. VI 3). L'auteur attribue ce
textile en laine et lin au Xème siècle, mais ne peut être affirmatif quant à la provenance : « If not made in the
Faiyum, 721.3 may come from another center in Upper Egypt».
Cette hésitation d'un des plus grands spécialistes des textiles arabes anciens, souligne bien la difficulté que
l'on éprouve à départager les productions textiles de ces deux provinces.
252
UN VÊTEMENT ISLAMIQUE ANCIEN
Le groupe auquel se rattache le vêtement exposé au Musée du Bardo, nous
semble devoir être attribué à une période nettement antérieure. La sobriété de
l'épigraphie, la limitation du texte à des formules pieuses sans intention didactique, le
fait de traiter les caractères arabes comme des éléments susceptibles d'être utilisés à
des fins décoratives, l'embarras manifeste de l'artisan lorsqu'il s'est agi pour lui
d'adapter la technique du tissage à l'écriture koufïque, nous paraissent autant d'in
dices d'ancienneté par rapport aux tissus attribués au Xème siècle.
Toute étude de l'épigraphie arabe, quelle que soit la matière qui sert de support à l'inscription, conduit, nous avons eu maintes fois l'occasion de la remarquer36,
aux mêmes constatations : l'évolution se fait toujours du simple au complexe, du
caractère koufïque le plus pur à une calligraphie de plus en plus ornementale. A la
limite, le texte perd à nouveau toute signification et les lettres arabes redeviennent
de simples éléments intégrés à un décor dans lequel elles se dissolvent.
Enfin, en ce qui concerne le type d'écriture observé sur le vêtement du Musée, il
ne faut pas négliger le fait nouveau apporté par la communication de E. KUHNEL à
propos des tapis à poils ras d'Akhmîm : les documents qu'il présente offrent plusieurs
exemples d'une calligraphie très proche, pratiquée par des artisans coptes de
Haute-Egypte, au tout début du IXème siècle37. Or, au moins pour les tissus non
datés appartenant à la période de transition et ne spécifiant pas la provenance, il
nous apparaît très difficile d'établir une nette démarcation entre les productions
textiles proprement Fayoumi et celles exécutées en Haute-Egypte. Dans l'état actuel
de nos connaissances, l'étude technologique pas plus que les considérations stylistiques ou le recours aux sources historiques ne sauraient nous apporter d'éclaircissements définitifs à cet égard. En effet, au Fayoum comme en Haute-Egypte, on
sait seulement que les manufactures de tissage, déjà célèbres à l'époque ante-islamique,
continuèrent de fonctionner sans interruption à l'arrivée des arabes. Ibn Hawkal se
montre l'écrivain le mieux renseigné sur la variété des étoffes fabriquées et sur les
principaux centres de production dont Kaïs et Bahnasa (Haute-Egypte) paraissent
avoir été les plus renommés. Il semble que, dans les deux provinces, la laine, presque
toujours teinte en bleu foncé, ait été employée plus largement qu'ailleurs.
36
37
Aussi bien lorsque nous avons étudié l'évolution de l'épigraphie pour la série d'inscriptions funéraires
koufiques exposées dans une salles lapidaire du Musée du Bardo, que le style des tiraz abbassides et fatimides
appartenant aux collections de textiles égyptiens des musées islamiques de Tunisie.
Supra, note 26.
253
AFRICA
Quant au répertoire ornemental, il faudrait connaître davantage de pièces provenant avec certitude de Haute-Egypte pour pouvoir établir une comparaison valable avec celles attribuées au Fayoum. Le «provincialisme» qui, selon certains,
caractérise les conceptions décoratives Fayoumi, nous paraît surtout provenir de
l'héritage traditionnel copte qui ne saurait être limité à une région particulière, mais
bien à l'Egypte toute entière à l'exclusion des manufactures du Delta, soumises assez
rapidement au contrôle effectif du gouvernement officiel musulman.
Conclusion
II ressort de cette brève étude, dont nous ne nous dissimulons pas les lacunes,
que la robe exposée au Musée du Bardo, constitue un document exceptionnel puisqu'il s'agit cette fois d'un vêtement entier. Elle fut exécutée par des artisans égyptiens
autochtones de province, à une période que nous pensons pouvoir situer dans les
débuts du IXème siècle.
Cet article nous a donné l'occasion de souligner, une fois de plus, les problèmes
nombreux et délicats que pose l'étude des textiles de transition. C'est un domaine de
la recherche archéologique qui a fait couler beaucoup d'encre et engendré bien des
discussions, dont on est en droit d'espérer qu'elles prendront fin le jour où des fouilles
scientifiquement menées, en Haute et Moyenne-Egypte, permettront la mise au jour
de documents sûrement datés, offrant ainsi aux spécialistes de demain les jalons
authentiques qui nous manquent aujourd'hui.
Mohamed FENDRI
Nous avons tenu à dédier ce modeste travail à la mémoire de M. Ernst KUHNEL dont la disparition récente
a été cruellement ressentie par tous ceux qu 'intéresse l'histoire des arts musulmans appliqués.
M. KUHNEL fut l'un des plus grands spécialistes dans le domaine des études relatives aux productions textiles
islamiques anciennes. Les nombreux ouvrages ou articles qu 'il consacra, tout au long de sa vie, à ces recherches
font autorité. Nous-mêmes avons eu très souvent recours à ses travaux comme aussi aux précieux conseils qu 'il
voulut bien nous dispenser avec une bienveillance et une affabilité dont nous conservons un souvenir ému.
254
UN VÊTEMENT ISLAMIQUE ANCIEN
FICHE DESCRIPTIVE
Le vêtement (pl. II. 1).
Robe en laine de couleur bleu-noir, tissée, fil à fil.
Ch. : 20
Tr. : 17 au cm2
Torsion : gauche.
Dimensions
Largeur à la taille : 50 cm.
Hauteur : 65 cm.
Manches : 17 cm X 41 cm.
La confection
Elle se compose de 13 pièces assemblées solidement par des coutures rabattues exécutées en
grosse laine noire. Sur le dessin joint à la photographie, les lignes figurent l'emplacement des coutures
(pl. II. 2). Une pièce supplémentaire carrée a été posée sous les bras pour donner plus d'ampleur.
L'encolure, dans le dos, est semi-circulaire. Une fermeture, consolidée par un galon intérieur en laine
naturelle fixé à l'aide de gros points de chausson rouges et jaunes, se trouve sur l'épaule droite. On
peut aussi remarquer que les pièces qui portent le décor s'étant révélées trop étroites, l'ouvrier a été
obligé d'ajouter un morceau sur toute la longueur de la manche pour pouvoir lui donner une largeur
suffisante.
Le devant du vêtement a complètement disparu.
Le décor
Les deux bandes ornementales, bien que placées symétriquement à 12 cm des épaules ont un
décor différent. Les dimensions sont les mêmes : 4 cm X 27 cm. Toutes deux sont exécutées selon la
technique de la «tapisserie sur métier», les fils de trame étant beaucoup plus fins que ceux de la chaîne.
(Cf. texte p. 231).
Manche gauche
Le bandeau présente une chaîne de médaillons hexagonaux limités par un filet jaune doublé
intérieurement de rose (lie-de-vin) et reliés par un trait épais encadré de motifs en chevrons bicolores.
De gauche à droite, on rencontre : un chameau stylisé (grosse bosse, cou long et rigide, pattes
obliques) - deux fleurs différemment stylisées - deux échassiers opposés dos-à-dos (?) - un canard
accroupi - une fleur à six pétales - un motif en forme de H - un motif indéterminé partiellement
disparu - deux échassiers accolés dos-à-dos.
Le fond général du bandeau est de teinte lie-de-vin, tandis que celui des médaillons change
chaque fois de couleur.
Les tons utilisés pour varier les couleurs à l'intérieur de chaque motif, si petit soit-il, sont par
ordre d'importance : lie-de-vin, plusieurs nuances entre le bleu et le vert, noir, jaune (sans doute la
couleur de la laine naturelle).
Manche droite
Elle présente une frise de quadrupèdes aux contours très géométriques : grosse tête à œil énorme,
pattes obliques, queue relevée, cou encerclé d'un «ruban». Les détails du dessin sont donnés par un
filet noir. Le fond général du décor est jaunâtre (laine naturelle). Les animaux sont tour à tour
bleu-vert, lie-de-vin et jaune.
Les deux bandeaux sont limités par un triple filet jaune, lie-de-vin et chiné noir et jaune.
255
AFRICA
L'inscription
De part et d'autre des bandeaux court une inscription koufique exécutée également au point de
tapisserie sur métier. La trame est en laine de couleur naturelle sur fond noir, mais elle est en grande
partie disparue. La hauteur des hampes est de 9 mm. Un pointillé de remplissage unit les hampes des
lettres.
Texte
‫اﻠﻤﻠك ﻠﻠﻠﻪ‬
Traduction
Le Royaume est à Dieu (répété).
Commentaire
Pour les remarques concernant la technologie et la calligraphie, on voudra bien se reporter au
texte (p. 233).
La répartition des caractères est incorrecte. L'artisan, tout en respectant le nombre des lettres les
a groupées sans tenir compte des règles de la syntaxe. Ainsi, le de ‫ ﻠﻠﻠﻪ‬est détaché de son groupe
morphologique pour être joint à l'article IL du vocable ‫اﻠﻤﻠﻜ‬, ce qui donne une inscription
erronnée : (voir pl. IV. 1). … ‫ﻤاﻠﻤﻠﻜ ﺎﻠﻤاﻠﻤﻠﻜ‬.
Cette interprétation non conforme aux normes les plus élémentaires imposées par la grammaire
s'explique par l'ignorance du tisserand «copte» à l'égard de la langue arabe. Des erreurs de ce genre se
remarquent sur la plupart des productions textiles exécutées en Haute-Egypte ou au Fayoum, et
peuvent être considérées comme des indices certains d'ancienneté, (voir texte, supra, p. 235).
PIÈCES COMPARATIVES
R. PFISTER, Revue des Arts Asiatiques, 1936, X, n. 2, PI. XXVIII. Pièces C 10, C 11, C 12 et C 13. Les
deux premiers fragments sont reproduits Pl. V, 1 et 2.
DATATION PROPOSÉE
Fayoum ( ? ) début du IXème Siècle.
M.
256
F.
Planche I
1
2
Mosaïque tombale d'époque chrétienne
Bas-relief fatimide de Mahdya
Planche II
1
Le vêtement vu
2
de devant
Assemblage des pièces
Planche III
1 et 2
3
Bandeau ornemental de la manche gauche
Bandeau ornemental de la manche droite
Planche IV
1 Essai de restitution
2 Tapis inscrit de Akhmîm - 203 H. (818 J. C);
Restitution Kühnel
Planche V
1-2 et 3
Fragments d'écharpes «Fayoumi» étudiés par R. Pfister
Planche VI
1
1
Fragment d'écharpe «Fayoumi» étudié par R. Pfister
2
3
Pièce du musée de Cleveland (Xème siècle J. C. ?)
Tiraz du musée textile de Washington (Xème siècle J. C. ?).
FOUILLES ARCHÉOLOGIQUES (1965-1966)
Néapolis
Le site de Néapolis (Nabeul Kedim, à la limite du territoire communal de
Nabeul, en direction d'Hammamet) n'avait jusqu'à présent fait l'objet d'aucune
fouille systématique. Quelques trouvailles fortuites avaient permis à la fin du siècle
dernier et au début de ce siècle de recueillir un petit nombre d'inscriptions, publiées
par la suite dans le Corpus des Inscriptions Latines.
Les mentions non rares de ce site dans des textes parfois fort précieux (tel
Thucydide) et son long destin de ville entrée dans la domination romaine après
avoir durant au moins trois siècles appartenu à l'empire carthaginois, nous avaient
dès longtemps fait présumer qu'une fouille pourrait y conduire à des trouvailles
intéressantes et peut-être originales.
Lorsque nous demandâmes aux autorités de l'Institut d'Art et d'Archéologie de
bien vouloir nous accorder d'ouvrir un chantier sur ce site et nous en confier la
direction, nous ne pouvions espérer que quelques semaines plus tard de nombreux
sondages effectués en vue de la construction d'un hôtel en ce lieu allaient mettre au
jour suffisamment de restes antiques (notamment une mosaïque à décor géométrique)
pour que l'intervention immédiate de l'Institut d'Art fût rendue nécessaire.
C'est dans ces conditions qu'en Septembre 1965 nous nous vîmes confier par
M. Sebaï, directeur de l'Institut National d'Archéologie et Arts, et M. A. Mahjoubi,
directeur du Centre de la Recherche Archéologique et Historique au sein de ce même
Institut, auxquels nous tenons à exprimer ici notre gratitude, le soin de mener ces
premières fouilles jamais faites à Néapolis.
Nous nous réservons de réunir dans une prochaine publication l'ensemble des
données déjà connues concernant le site, de formuler une hypothèse concernant
son origine et de présenter de façon exhaustive l'ensemble des trouvailles faites au
cours des campagnes 1965-1966 et 1967. Nous nous bornerons ici à une rapide
évocation des étapes de notre recherche et des principales découvertes.
271
AFRICA
En Septembre 1965, nous avons commencé, avec l'efficace collaboration de
M. A. Medfaï, contremaître, et de M. Mouldi Hamdi, chef de chantier, la fouille en
deux points du site. D'une part nous sommes partis d'un sondage préalablement
effectué en vue de la construction de l'hôtel Néapolis, et qui avait fait apparaître en
son fond une mosaïque géométrique de fort belle apparence, polychrome, au décor
constitué de cercles sécants, et tout à fait bien conservée. D'autre part, à quelques
centaines de mètres plus au Sud-Ouest, en contre-bas de la nouvelle route joignant
la route nationale à la mer, nous avons commencé à dégager deux bassins dont les
bords, revêtus d'un enduit au tuileau étanche, affleuraient sur un côté, et aVâient
depuis notre première visite sur le site attiré notre attention.
De part et d'autre, le dégagement avança assez lentement, du fait que, du côté de
la mosaïque, le niveau antique à suivre se trouvait à deux mètres environ au dessous de
la surface actuelle du sol, tandis-que, du côté des bassins, si le niveau antique
affleurait presque, une grande quantité de remblais se trouvait à l'intérieur même
des bassins, fort profonds, qu'il fallait dégager.
Nous avons tout d'abord mis la moitié de notre équipe (soit dix ouvriers) sur
chacune des ces deux fouilles.
L'élargissement du sondage à la mosaïque fit aussitôt apparaître que celle-ci
pavait une chambre (ch. 1 du plan ci-joint) de dimensions moyennes (3,40 m x 3,70 m
environ) dont les murs étaient conservés de façon inégale, mais parfois sur une belle
hauteur, puisqu'en un point le mur atteignait presque le niveau du sol actuel, s'élevant
donc de près de deux mètres au dessus de la mosaïque. Que cette chambre donnait, par
delà un seuil orné d'une mosaïque figurant un fruit (peut-être un coing), sur une autre
pièce beaucoup plus petite (ch. 2 : 3,40m x 2m environ) située immédiatement à
l'Ouest1, elle même suivie à l'Ouest, au delà de ce qui semble être une cloison
complètement arasée, d'une enfilade de pièces pavées beaucoup plus simplement de
mosaïques noires et blanches infiniment moins bien conservées, selon des motifs
différents, ici des grecques entrelacées de façon à faire apparaître des swastikas, là de
simples liserés noirs entourant un espace entièrement blanc (ch. 3 : 3,5m x 3m; ch. 4:
3,5 m x 2,3m; ch. 5 : 3 , 5 m X 3m environ).
1
L'orientation générale des murs de la maison suit, grosso modo, les directions Est-Nord-Est,
Ouest-Sud-Ouest et Nord-Nord-Ouest, Sud-Sud-Est. Pour simplifier, nous dirons Est pour Est-Nord-Est,
Ouest pour Ouest-Sud-Ouest, Nord pour Nord-Nord-Ouest et Sud pour Sud-Sud-Est.
272
FOUILLES 1965-1966
II s'agissait manifestement là de l'aile d'une maison, d'apparence plutôt modeste.
La dernière de ces pièces (la cinquième vraisemblablement - le doute venant de ce
que les cloisons les séparant l'une de l'autre ont été complètement abolies) était barrée
à l'Ouest par un mur épais, constitué comme les autres en moellons assez
régulièrement disposés, liés par du mortier, et qui manifestement limitait la maison
dans cette direction. Nous fîmes alors poursuivre la fouille au delà du mur qui limitait
toutes ces pièces sur leur côté Sud; ce mur était percé en plusieurs endroits dont un (et
peut-être un autre) constituait certainement une porte donnant sur un espace que
nous dégageâmes sur une avancée d'un mètre environ, et qui nous apparut pavé d'une
mosaïque géométrique d'un type tout à fait semblable à la première découverte, mais
qui malheureusement ne subsistait que par lambeaux. A l'extrémité Est du couloir qui
se trouvait ainsi dégagé, la pioche mit à jour le rebord incurvé d'un bassin (B1) qui
bientôt fut entièrement exhumé. Il s'agit d'un bassin affectant la forme d'un carré à
bords concaves (forme fréquemment utilisée pour la décoration des mosaïques mais,
à notre connaissance, rarement affectée à un bassin), dont les parois épaisses sont
maçonnées dans un béton au tuileau, très cohérent2. Ce bassin se trouvait en face
d'une porte percée dans le prolongement du mur longeant au Sud les pièces 1 à 5,
mais qui donnait cette fois sur une pièce (C1) située immédiatement à l'Est de la
première fouillée, et séparée de celle ci par un mur encore debout jusqu'à une hauteur
d'un mètre environ. La fouille partielle de cette pièce (Cl) montra qu'elle avait été
pavée de mosaïques à décor figuré, polychrome; malheureusement elle était en
grande partie dénudée, et seule une tête féminine couronnée de ce qui nous sembla être
des feuilles de mil apparut, vers le milieu de l'espace dégagé, avec de nombreux
débris dont nous espérons peut-être un jour au moins partiellement reconstituer le
puzzle. Il est à noter que cette mosaïque utilise de nombreux cubes en pâte de verre.
Nous pensions à ce moment là que le nouvel espace oblong dégagé le long du
mur Sud des chambres était la moitié d'un côté du péristyle de la maison. Que le
bassin avait été construit au milieu de ce côté. Que par conséquent la maison pourrait
avoir d'assez grandes dimensions avec un peristyle de quinze à vingt mètres de
2
Les dimensions du bassin sont approximativement les suivantes (y compris l'épaisseur de la
maçonnerie) : médiatrice N. S : 1,60m. médiatrice E. W. : 1,70 m. - diagonales : 2,5 m.
Les bords du bassin s'élèvent au dessus du sol alentour de 80 cm environ. Le fond du bassin est
au dessus du niveau du sol.
273
AFRICA
côté. Et que le reste de l'aile de la maison se développerait vers l'Est, symétriquement
par rapport au bassin. Sauf pour l'importance des dimensions de la maison, nous
nous trompions tout à fait, ainsi que par la suite la pioche allait nous l'apprendre. Mais
nous restâmes longtemps sur cette erreur, car, arrivés là de nos recherches en ce point,
nous décidâmes de concentrer tous nos efforts sur l'autre point du site.
En l'autre point du site, la fouille fit rapidement apparaître que les bassins qui
affleuraient étaient de dimensions importantes, et n'étaient pas seuls. En fait, on
mit au jour et on vida entièrement une série de six vastes et profonds bassins de dimensions variables mais toujours de même profondeur (2 m. environ) disposés
eôte à côte selon la longueur3. Tous ces bassins sont entièrement revêtus d'un enduit
au tuileau étanche, le fond étant pavé de petits tessons posés sur la tranche et disposés
en damier, trois par trois, chaque groupe de trois const-ituant un petit carré dont les
éléments sont orientés perpendiculairement à ceux des quatre carrés adjacents. Ce
fond est réuni à la paroi par un chanfrein en quart de rond. Les remblais des bassins,
contenaient des fragments abondants d'un grand nombre d'amphores; l'une d'entre
elles fut retrouvée entièrement intacte. Dans les plus gros fragments d'amphores,
dans celle intacte, et également tapissant le fond d'un des bassins, se trouvait une
matière organique, jaunâtre, pulvérulente, constituée de minuscules arêtes et
fragments de vertèbres ou de minuscules têtes de menu fretin.
L'allure et la dimension des bassins, leur disposition, la présence de ces débris
organiques d'origine visiblement marine, nous fit très vite estimer que nous nous
trouvions en face d'un établissement tout à fait analogue à ceux publiés par exemple
par M. M. PONSICH et TARRADEL dans leur récent ouvrage sur l'industrie du garum
dans les régions côtières de l'Espagne méridionale et du Maroc septentrional, et
qu'il s'agissait très vraisemblablement ici aussi d'une fabrique de garum, ou tout au
moins de salaisons.
3
La file est disposée perpendiculairement au rivage, selon une orientation approximativement
Nord-Sud. Le bassin I, situé le plus au Sud, mesure 2,8 m sur 3,7 m. Les autres ont tous la même
longueur, 3 m, avec une largeur variable (B 2 : 1,5 m; B 3 : 1,35 m; B 4 : 1,40 m; B 5 : 1,40 m; B
6 : 3 m). Toutes ces dimensions sont une première approximation, comme toutes celles données
dans ce compte rendu. Les orientations sont simplifiées plus à l'Ouest B 7, le plus vaste bassin,
mesure 5,75 m sur 2,8 m avec 2 m environ de profondeur. B 8, de 3 m sur 3, n'a que 75 cm de
profondeur - B 9, 2,4 m x 1,20 m et 1,20 m de profondeur.
274
FOUILLES 1965-1966
L'intérêt de la découverte se faisait alors nettement plus grand, puisqu'on n'avait
pas encore à notre connaissance identifié de restes archéologiques témoignant de la
fabrication antique du garum ou des salaisons sur les côtes de Tunisie4. C'est cet
intérêt nouveau qui nous fit suspendre alors la fouille de la maison pour regrouper
tous nos ouvriers sur ce second point du site.
Du côté Nord, c'est à dire opposé à la mer, la série des grands bassins était limitée
par un mur dont la base subsiste, au delà duquel apparut ce qui pourrait être un four
circulaire (?), lui même creusé dans une pièce de dimensions moyennes dont le sol
porte des traces de revêtement en mosaïque. La fouille n'a pas progressé plus loin en
direction du Nord. Sur toute la longueur ainsi dégagée, la fouille progressa en
direction de l'Ouest. Elle mit au jour des surfaces pavées selon le même procédé que le
fond des bassins, d'autres bassins de types différents des premiers : peu profonds et
très oblongs, peu profonds et se développant sur une large surface à peu près carrée
(B8) (de façon semble-t-il à permettre un maximum d'évaporation), ou enfin très
peu profonds et de très petites dimensions. Egalement, enfin, deux bassins de
dimensions et de profondeur analogues à celles des premiers découverts (B7, B9).
Pour la description détaillée de la disposition de cet ensemble, nous renvoyons à
notre prochaine publication. Il nous semble que les différences de forme, de grandeur
et de profondeur des bassins doivent s'expliquer en fonction de différentes
manipulations dans le traitement des saumures, qu'il s'agit d'essayer de saisir et de
préciser5.
4
5
Nous nous demandons toutefois si ce n'est pas une fabrique du même type qui a été mise au jour
à Salacta, lors de fouilles qui n'ont encore donné lieu à aucune publication. L'interprétation qui
avait été avancée à l'époque de la découverte, et qui proposait de voir là des thermes, est à
abandonner tout à fait, quoi qu'il en soit.
De même, une série de bassins, moins profonds, qui se trouve tout près de la mer, à Béni Khiar, à
quelques kilomètres de Nabeul, ont pu avoir un usage semblable (??).
Dans son article de la Revue des Etudes Ligures, 1961, Garum et sauces de poisson dans
l'antiquité, Claude J ARDIN présente une carte des principaux centres de production
méditerranéens, qui laisse en blanc toutes les côtes du Constantinois et de la Tunisie actuelle.
Sans doute ce vide peut-il être désormais au moins partiellement comblé.
Dans le prolongement de B 6, vers l'Ouest, au delà d'une surface pavée selon le système décrit
ci-dessus (tessons posés sur la tranche groupés trois par trois), se trouve le plus grand bassin,
dont la longueur est également orientée approximativement Est-Ouest. Ce bassin (B 7) a 2,4 m
sur 5,75 m environ et 2 mètres de profondeur. Au delà, se trouve la série des petits bassins ayant
une vingtaine de centimètres de profondeur, de 1 à 1,40 mètre de long et de 40 à 70 centimètres
de large (quatre petits bassins en tout). Puis un grand bassin peu profond (75 cm) de 3 mètres sur
3, et un bassin de dimensions moyennes : 1,20 m de profondeur et 1,50 m sur 2,40 m environ (B8
et B9).
275
AFRICA
II faut noter enfin que deux sondages firent buter, à quelques dizaines de centimètres seulement au-dessous du niveau de l'établissement fouillé, sur un pavement
antérieur constitué d'un béton au tuileau, de couleur rougeâtre, parsemé de petits cubes
blancs, tout à fait analogue aux pavements des maisons mises au jour à Kerkouane ces
dernières années et qu'on est unanime à attribuer à l'époque punique.
Ainsi, lorsqu'au bout de deux mois de travail, se termina la première campagne
de fouilles, la preuve était faite que des restes cohérents de l'ancienne Néapolis
demeuraient à quelques dizaines de centimètres au dessous des champs nus bordés de
cactus, deux constructions très différentes l'une de l'autre étaient en partie dégagées;
elles étaient en outre identifiées, du moins quant à leur nature. En ce qui concerne les
datations, le matériel relevé au fur et à mesure (très nombreux fragments de lampes et
de céramique commune, monnaies etc.) n'ayant pas été étudié encore de façon
suffisamment exhaustive, nous ne voulons pas préjuger des conclusions définitives,
que nous proposerons dans notre publication. Mais dès la fin de cette première
campagne, notre sentiment était d'une part que la maison, selon toute vraisemblance,
ne pouvait guère être de beaucoup antérieure au troisième siècle de notre ère, qu'elle
était peut-être plus tardive, et qu'elle avait dû être occupée pendant un temps sans
doute très long, d'autre part que la fabrique de garum (ou du moins de l'établissement
d'usage industriel que j'appellerai ainsi pour plus de commodité) était certes elle aussi
dans son dernier état d'époque romaine, mais peut-être d'un temps antérieur à la
maison et abandonnée plus tôt; enfin que cette fabrique s'était installée sur une
construction d'époque punique vraisemblablement contemporaine des maisons de
Kerkouane (IIIème, IIème siècle av. J. C), l'importante occupation du site à
l'époque hellénistique étant en outre prouvée par l'abondance relative de tessons de
céramique campanienne noire à reflets métalliques (tant dans les remblais que dans les
sondages faits au-dessous du niveau romain). Nous avons même trouvé dans un
sondage fait en bordure de la fabrique de garum, du côté du Sud, un tesson de
céramique à figures rouges qui après discussions et consultations (notamment du
professeur P. LEVEQUE) a été attribué au IVème siècle italiote, et constitue le
document le plus ancien jusqu'à présent découvert sur le site.
Û
Les fouilles reprirent en Février 1966, à la faveur d'un hiver
exceptionnellement doux. Nous divisâmes de nouveau l'équipe de vingt ouvriers qui
nous étaient impartis en deux groupes. Quatorze d'entre eux furent employés à la
poursuite de la fouille de la maison. Six furent affectés à l'élargissement d'un autre
des anciens
276
FOUILLES 1965-1966
sondages effectués préalablement à la construction de l'hôtel, sondage situé à l'Est
de la maison, en bordure immédiate d'une zone qui, tandis que nous fouillions, se
couvrait de constructions constituant l'hôtel Néapolis dont l'implantation, légèrement déplacée, avait néanmoins été maintenue (Nous ne saurions trop déplorer la
construction en ce lieu de cet établissement qui non seulement a irrémédiablement
bouleversé le site sur un assez grand espace, heureusement d'une façon en général
superficielle, mais encore gênera considérablement le progrès de la fouille en direction du Sud et de l'Est. Du moins avons nous reçu la garantie, de la part de M. le
Gouverneur de Nabeul, que des fouilles pourraient éventuellement être menées en
toute liberté à l'intérieur même des limites de l'hôtel). Nous dûmes renoncer pour
l'instant à poursuivre la fouille de la fabrique de garum.
Le nouveau sondage auquel nous nous intéressions avait révélé l'existence en
ce point d'un dallage qui pouvait être celui d'une rue. Il l'était en effet, et le déblaiement, très lent à cause de l'épaisseur des remblais à dégager et du peu d'ouvriers
affectés à cette fouille, fit peu à peu apparaître une rue d'une bonne largeur (quatre
mètres environ), pavée de façon irrégulière (comme si le pavement primitif avait
connu de très nombreuses réfections du fait d'un très long usage), orientée approximativement Est-Nord Est, Ouest-Sud Ouest, et bordée sur ses deux côtés de constructions qui n'ont pas été dégagées ; le mur longeant la rue sur son côté Nord semble
être percé de nombreuses ouvertures tandis qu'au contraire le mur longeant la rue au
Sud est continu sur une assez grande longueur et limite une maison (ou tout autre
construction) probablement d'une notable importance (et sans doute des fouilles
ultérieures donneraient-elles, dans cette direction, des résultats fructueux).
Vers l'Est, nous ne pouvions poursuivre le dégagement de la rue à cause de la
présence des bungalows de l'hôtel Néapolis; vers l'Ouest, nous poursuivîmes ce
dégagement sur une vingtaine de mètres, recueillant de nombreux fragments de
lampes et de céramiques, quelques monnaies et les ossements de plusieurs corps ensevelis à quelques dizaines de centimètres au-dessus du pavement de la rue. Au moment où, au début de Juin, nous dûmes suspendre les travaux en ce point, il apparaissait en outre clairement que cette rue se prolongeait sans doute jusqu'à la hauteur
de la maison, dont elle longe presque certainement le mur extérieur Sud.
Si nous pouvions en juger ainsi, c'est que durant ces cinq mois, la fouille de la
maison avait fait de notables progrès. Et ce sont ces progrès et les résultats obtenus
que nous voudrions évoquer rapidement pour terminer ce rapport préliminaire.
La pioche montra vite que le bassin carré à bords concaves ne se trouvait pas
du tout au milieu d'un côté du péristyle de la maison, mais bien au centre d'une
277
AFRICA
sorte d’atrium (A 1) de 9,5 m sur 5,5 m environ. Le bassin était construit en maçonnerie sur un espace carré bien délimité par des dalles de pierre, aux quatre coins
duquel se trouvaient les soubassements de quatre colonnes (on retrouva même non
loin la base de l'une d'elles), l'ensemble suggérant parfaitement un dispositif
d'impluvium, sans qu'on puisse dire pour l'instant si le bassin à bords concaves faisait
partie de la conception primitive de l'ensemble, ou s'il avait été postérieurement
construit sur un bassin primitif, qui aurait été simplement creusé au centre de l'atrium,
à l'intérieur du carré central limité par les dalles. Tout autour, l'atrium est pavé d'une
mosaïque blanche, aux cubes soigneusement disposés en carrés enserrant des
losanges.
La pièce contigüe à la première fouillée, à l'Est de celle-ci, donnait donc non
sur le péristyle mais sur cet atrium. La fouille montra qu'elle bordait tout le côté
Nord de l'atrium et qu'elle était divisée en deux parties, à la manière d'un cubiculum,
la moitié Est de la pièce, à droite de la porte d'entrée, étant légèrement surélevée par
rapport au reste, et pavée d'une autre mosaïque, malheureusement dégradée dont une
partie laisse apercevoir un fond blanc aux cubes soigneusement disposés en écailles
(disposition identique par exemple à celle de la mosaïque blanche qui pave le
péristyle semi-circulaire du temple de Caelestis à Douggha), et une autre partie
représente un ichtyocentaure dont la tête manque ainsi qu'un autre personnage dont
nous n'avons que le bras (sans doute un autre ichtyocentaure symétriquement
affronté au premier). Des traces très éloquentes, tant sur les dalles qui au sol
marquaient la séparation que sur le stuc des murs, prouvaient que les deux parties de
cette pièce avaient été séparées par un chancel. (Cette pièce - C l - mesure au total
6,50m sur 3,30m environ).
Ce que nous avions cru être le côté Nord du péristyle, bordant au Sud l'enfilade
de pièces primitivement dégagées, était en réalité une autre pièce, fort grande, longue
de 8 m et d'une largeur moyenne de 5 m environ en forme de trapèze très allongé, qui
avait été pavée d'un mosaïque semblable à celle de la première pièce fouillée
(géométrique à cercles sécants, polychrome). Cette nouvelle pièce (ch. 6) ouvrait sur
le côté Ouest de l'atrium au bassin.
Le côté Est de l'atrium était fermé par un mur aveugle. Le quatrième côté
(Sud) s'ouvrait par une porte qui faisait descendre par deux marches vers un espace
nouveau pavé d'une mosaïque à décor géométrique.
Cet espace nouveau était cette fois le coin Nord-Ouest du véritable péristyle de
la maison. Cet espace fort vaste est maintenant entièrement dégagé. Il affecte
grossièrement la forme d'un rectangle de 26 mètres sur 18 environ. En réalité il
s'agit d'un trapèze, car le grand côté Nord fait avec le petit côté Ouest un angle
278
FOUILLES 1965-1966
légèrement aigu. Il enserre un espace central de 13,5 m sur 8 m environ qui a dû
constituer un viridarium, le reste de la superficie étant pavé d'une mosaïque à décor
géométrique qui se développe, la même, sur les quatres côtés du péristyle, et représente de grosses feuilles de lierre cordiformes rouges et noires ou jaunes et noires,
disposées dans des espaces polygonaux délimités par des filets noirs en lignes brisées. Entre le bord intérieur de cette mosaïque et le viridarium, un dallage qui dut
être continu borde celui-ci et porte les traces visibles, en plusieurs endroits, de bases
de colonnes. Deux colonnes de marbre, brisées, furent du reste trouvées gisantes le
long du rebord Sud du viridarium, et un fragment de chapiteau près du coin Nord-Est
du péristyle (très simple, du type à feuilles d'acanthe stylisées).
L'élément le plus intéressant du péristyle est sans aucun doute un bassin semicirculaire de 1,50 m de rayon environ, entièrement tapissé de mosaïques à
l'intérieur. Il est construit aux deux tiers environ du côté Nord du viridarium, plus
près du coin Nord-Est que du coin Nord-Ouest. Il s'applique au dallage qui borde le
viridarium et est entièrement maçonné à l'intérieur de l'espace réservé à celui-ci, son
fond est à un niveau inférieur à celui du pavement du péristyle; le bord semicirculaire, en épaisse maçonnerie revêtue à l'extérieur d'enduit au tuileau et dont le
faîte, en pente vers l'intérieur du bassin, dut être recouvert de marbre, s'élève à
plus d'un mètre au-dessus du fond; du côté du pavement du péristyle, une dalle,
posée verticalement sur la tranche selon la longueur, rattape la différence de niveau
entre ce pavement et le haut du bord semi-circulaire, constituant ainsi le bord
rectiligne du bassin. Le fond est décoré de motifs géométriques : petits carrés qui, en
se touchant par la pointe, dessinent des diagonales alternativement montantes et
descendantes de diverses couleurs, donnant l'aspect d'un ondoiement multicolore
géométrisé. La surface intérieure du bord semi-circulaire porte des motifs figurés : au
milieu, face au bord rectiligne du bassin, une fort belle tête du dieu Océan, au regard
très vif tourné de côté, en occupe presque toute la hauteur ; à sa droite et à sa gauche
sont représentés, sur deux registres superposés, différentes espèces de poissons et
autres animaux marins, notamment des petits dauphins bondissants, une langouste
etc. La réalisation en est de fort belle facture, et les couleurs, souvent vives (jaunes,
verts, bleus à très beaux reflets), sont notamment obtenues par l'emploi fréquent de
cubes en pâte de verre. Enfin, au-dessus de l'espace réservé aux représentations
figurées, court une inscription, toujours en mosaïque, ressortant en jaune sur le fond
sombre: NYMFARVM DOMVS, parfaitement lisible. Il s'agit bien selon nous du
nom que porte la maison que nous étions entrain de fouiller (et non une appellation
quelque peu précieuse du bassin lui-même), et ce nom même,
279
AFRICA
et l'originalité de cette découverte, ne firent alors qu'accroître l'intérêt que nous
prenions à cette recherche.
Il n'est pas indifférent de noter que l'orientation du visage du dieu Océan (sinon
de son regard) nous donne l'axe principal selon lequel est organisée toute la
disposition de la maison des Nymphes.
Le visage du dieu, en effet, fait face au milieu de l'entrée médiane et principale de
la plus importante pièce de la maison, un vaste oecus, qui ouvre donc sur le côté Nord
du péristyle, en face du bassin. Comme pour souligner encore l'importance de cet
axe, entre le milieu du bassin et la porte médiane de l'œcus, la mosaïque géométrique
qui décore partout ailleurs le péristyle s'interrompt pour entourer un encadrement
rectangulaire, à l'intérieur duquel sont figurés deux coqs affrontés de part et d'autre
d'une amphore qu'ils ont remplie, avec leur bec, de pièces d'or, dont l'amphore
déborde et dont plusieurs sont déjà tombées à terre (les petits objets ronds que nous
prîmes au début pour des grains de raisin et certains de nos collègues pour des
olives, ont été en définitive identifiés, consensu omnium, comme étant bien des
pièces d'or, toutes représentées de face).
L'oecus est une pièce à peu près carrée, d'environ 10m sur 9,50m. On y entre par
trois portes toutes donnant sur le côté Nord du péristyle : deux petites entrées latérales
de 1 m de large environ dont les seuils sont pavés de deux petites mosaïques à décor
géométrique (fleur lancéolée d'un côté, feuille de lierre cordifor-me stylisée de
l'autre), une entrée médiane beaucoup plus large (4m environ) dont le seuil est pavé
d'une élégante mosaïque en grande partie conservée, figurant des amours qui de
la main gauche portent un panier plein de roses, tandis que, de la main droite, ils
font le geste d'en cueillir de nouvelles aux rosiers qui les portent. Les autres murs de
l'oecus (le mur Ouest, contigu à la petite pièce au chancel et à l'atrium au bassin, le
mur Nord, qui ferme semble-t-il la maison de ce côté, et le mur Est, contigu au
groupe de pièces que nous allons décrire dans un instant) é-taient sans doute
aveugles, pour autant que la hauteur des murs conservés permette d'en juger, et en
tous cas n'avaient pas de porte. L'oecus, enfin, était pavé entièrement par deux
mosaïques, l'une en T, l'autre enserrant la haste du T de façon à paver le reste de la
pièce, selon le dispositif très fréquent. C'est du moins ce que certains détails suggèrent,
tout le pavement du centre de la pièce ayant été entièrement détruit; la mosaïque en T,
malheureusement très mutilée, est encadrée d'un épais laurier parsemé de roses,
d'autres fleurs, de fruits etc., mais il est désormais difficile de dire si le champ
comportait une représentation figurée ou seulement un fond blanc à cubes disposes en
écailles, comme il en subsiste en quelques endroits; la seconde mosaïque devait donc
affecter la forme d'un fer à cheval anguleux, et tout
280
FOUILLES 1965-1966
ce qui en reste présente un motif géométrique unique de peltes disposés de façon à
donner l'impression d'un entrelac (motif fréquent; cf. par ex. Foucher, Inventaire
des mosaïques de Sousse, n. 57. 160, PI. XXXVI c). Notons, pour terminer, qu'un
puits s'ouvre à l'intérieur de l'oecus, près de son mur Ouest.
A notre grande surprise, le long du mur Est de l'oecus, se trouvait un ensemble
presque exactement symétrique de celui qui borde son mur Ouest. On y accède par
une porte située près du coin Nord-Est du péristyle. De plain pied cette fois par
rapport au péristyle, se trouve d'abord ce qui est très probablement un second petit
atrium (A 2), tout à fait semblable au premier, au centre duquel se trouve un second
bassin carré (ou plutôt rectangulaire) à bords concaves, maçonné de la même façon,
de dimensions analogues (B 3), disposé dans un espace délimité aux quatre coins par
quatre soubassements de colonnes6. Le reste de la pièce, tout autour, est pavé de
mosaïques non plus blanches, cette fois, mais polychromes, à motifs géométriques. De
même, le second bassin était plus riche que le premier, car il est orné à l'extérieur de
peintures qui courent sur toutes ses faces et représentent toutes des paysages marins
évoqués avec une grande économie de moyens, en utilisant surtout le brun et le bleu,
où, d'un coup de pinceau très sûr, le peintre fait apparaître ici des pêcheurs sur des
barques, là une chasse à courre le cerf sur une falaise, ici un palmier devant la mer, là
enfin, (et ce sont les panneaux les mieux conservés) un port, avec des navires à
l'ancre, d'autres entrant au mouillage, et, des ensembles architecturaux (colonnade
semi-circulaire enveloppant le mouillage, palais) agrémentés de personnages (ou
plutôt statues), colonnes surmontées de statues, dans un goût à la fois classique et
gracieux, qu'on serait tenté de dire pompéien.
Au delà de ce nouvel atrium, dont la fouille n'est pas encore achevée sur son
côté Est, on entre dans une seconde pièce (C 2), elle aussi contigiie au même mur Est
de l'oecus, qui est tout à fait symétrique, par rapport à l'oecus, de la petite pièce au
chancel. On n'y a pas trouvé de traces d'un chancel, mais elle est comme l'autre divisée
en deux, avec une partie surélevée qui s'adosse au mur Est de l'oecus, comme la partie
surélevée de la pièce au chancel s'adossait à son mur Ouest. En entrant, la partie de
plain pied est pavée d'une mosaïque dont il ne reste qu'un fragment, mais de toute
beauté, qui fait apparaître le corps d'un satyre, nu sous un manteau
6
La fouille du second atrium ne fut achevée qu'après la rédaction de ces lignes. Il mesure 8,70 m
sur 5,50 m environ. Au centre, le bassin B 5 a les dimensions suivantes : médiatrice N. S. 1,50
m; médiatrice E. W : 2 m; diagonales : 2,30 m environ.
281
AFRICA
vert aux plis amples, et la jambe d'une nymphe, dont on distingue les formes derrière
la transparence d'un très fin voile blanc; le pied viril et le pied féminin représentés côte
à côte sont notamment d'un effet saisissant. Par bonheur la mosaïque pavant la partie
légèrement surélevée de la pièce a été presqu'intégralement préservée. A côté d'un
registre décoré de motifs géométriques (grands polygones très ornementés), elle
porte un magnifique tableau figurant trois nymphes et Pégase : à droite, une
nymphe, de face, tend derrière ses épaules un voile vert dont elle va sans doute se
revêtir; son corps extrêmement beau, élancé, est nu; à sa gauche, une nymphe se voit
de dos, soutenant de sa main gauche un drapé qui entoure ses cuisses, le reste du corps
étant nu, et de sa main droite aidant une troisième nymphe, nue et qui lui tend la main,
à sortir de l'eau, dont elle est déjà issue à mi-corps, de face ; à gauche de l'ensemble,
Pégase, représenté de profil, sur l'autre berge, s'avance vers la droite, vers les
nymphes, qu'il semble effrayer, son sabot droit déjà plongé dans l'eau.
Par tout ce que nous venons de décrire, on voit que l'aile Nord de la maison est
extrêmement complexe et constitue à coup sûr l'aile la plus importante de toute la
construction.
Sur le côté Ouest du péristyle donne d'abord, près du coin Nord-Ouest, une
grande pièce (ch. 7), de 8m sur 6,5m environ, pavée d'un mosaïque géométrique
polychrome fort bien conservée, qui isole dans des médaillons tantôt des fleurs à
pétales lancéolés, tantôt des fruits ou d'autres représentations (poisson, oenochoé).
Dans cette pièce, adossés à son mur Sud se trouvaient deux fours de potier(?) creusés
très postérieurement dans les décombres de la maison, que nous avons provisoirement
préservés. En allant vers le coin Sud-Ouest du péristyle s'ouvrent successivement
deux portes donnant sur deux pièces qui n'ont pas encore été dégagées (l'une très
partiellement fouillée a fait apparaître une mosaïque polychrome à motif de croix (?)
grecques s'entrecroisant pour former des swastikas).
La limite Sud du péristyle semble avoir été un mur continu qui n'est que très
approximativement rectiligne. Mais ce mur manque sur une assez grande largeur,
si bien qu'on ne peut pas encore affirmer qu'il n'y avait pas là une grande ouverture
donnant sur l'aide Sud de la maison (à moins qu'on n'ait eu accès à cette aile que
latéralement, ou que l'aile ait manqué tout à fait). Seule la poursuite de la fouille en
direction du Sud permettra de trancher.
Sur le côté Est du péristyle, enfin, donnent deux portes, l'une située près du
coin Nord-Est, l'autre près du coin Sud-Est. Elles donnent sur des pièces non encore
fouillées. Une avancée de quelques dizaines de centimètres au-delà du seuil de
282
FOUILLES 1965-1966
la porte située près du coin Sud-Est a fourni en quelques minutes plusieurs brouettes
de fragments de marbres de diverses natures, couleurs, tailles et dimensions, la plupart
visiblement taillés pour entrer dans la composition d'un opus sectile. Un certain
nombre de fragments furent exhumés par nous-mêmes dans leur disposition
originelle, qui figurait trois volutes de couleurs différentes, divergeant à partir d'un
centre commun (qui manquait), motif très simple, mais obtenu avec un si grand
nombre de petits éléments qu'il aurait été absolument impossible de le reconstituer si
nous l'avions trouvé disloqué.
Nous espérons pouvoir reprendre et achever la fouille de la maison des Nymphes
à l'Automne 1966. Alors nous pourrons en donner une publication définitive, qui
fera en outre l'inventaire des objets découverts en cours de fouille (très nombreux
fragments de lampes, lampes entières, tessons de diverses sortes, monnaies etc.) et
proposera un certain nombre de datations, qui ne sont pas encore suffisamment
établies pour que nous soyons déjà en mesure de nous prononcer ici. Bornons nous à
signaler pour l'instant qu'une très belle tête de divinité en marbre blanc, grandeur
nature, peut-être attribuable au second siècle de notre ère, a été trouvée dans les
remblais de l'aile Ouest de la maison, à une soixantaine de centimètres au dessous du
sol actuel. Egalement, il faut signaler deux tessons trouvés dans la dernière pièce
fouillée, près du coin Sud-Ouest du péristyle, au niveau du pavement antique, et qui
sont couverts d'une écriture cursive très serrée.
Il ne nous reste plus, en terminant ce trop rapide compte rendu, qu'à remercier
pour leur intérêt, leur collaboration et leur constant appui tant l'Institut National
d'Archéologie et Arts, que le Gouvernorat de Nabeul sans oublier la Municipalité
de Nabeul, dont l'enthousiasme ne le cédait pas au nôtre.
Montegiori. Juillet 1966.
Jean-Pierre DARMON
P. S. Depuis que ces lignes ont été écrites a eu lieu la campagne de fouilles de
l'Automne 1966. Elle n'a pas achevé le dégagement de la maison. Elle a déblayé
une grande partie de l'aile Ouest, formée de petites pièces d'apparence modeste et qui
semblent avoir été très remaniées. Surtout, elle a mis au jour une grande partie de
l'aile Est dont les pièces, de dimensions plutôt modestes, sont toutes pavées de
mosaïques à décor figuré, dont certaines par leur qualité, leur état de conservation et
l'originalité des scènes représentées, sont d'un haut intérêt.
Tunis, Février 1967.
283
Planche I
1 Fabrique de salaisons
Alignement des bassins Bl à B6 vu du Nord-Ouest.
2 Dispositif d'écoulement des eaux dans la fabrique de salaisons.
Maison des Nymphes
1
Le petit atrium A1
L'état de la fouille en mai 1966.
Au premier plan, la chambre 7.
Au fond, à gauche, la pièce C1.
A droite, l'angle Nord Ouest du péristyle.
2 Le péristyle vu du Nord Est. Au premier plan à gauche un coin de la pièce A 2, à droite l'œucus
avec ses trois entrées, (photographie prise en Mai 1966).
Planche II
1
2
Planche III
Maison des Nymphes
1 Pégase. Détail de la mosaïque pavant la pièce C2.
2 Nymphes. Détail de la mosaïque pavant la pièce C2
Henchir el-Faouar
Les premières campagnes de fouilles à Henchir-el-Faouar (A.H. Arch, de la Tunisie, fe. Béjà, n. 131) ont été décrites dans les Comptes-rendus de F Académie des Ins-
criptions (Paris 1961) et dans les Fasti Archeologici (1961 et 1962, vol. XVI et XVII).
La campagne de fouilles de 1965, qui est la dernière en date, a été consacrée à
l'étude d'un fortin qui se dresse à la limite septentrionale de la ville1. Nous avions
déjà constaté, au cours des campagnes précédentes, que ce fortin faisait partie de
tout un ensemble de bâtiments défensifs, au nombre de quatre actuellement, établis à
peu près sur le même plan : une cour carrée, entourée de corps de logis adossés à
l'enceinte extérieure. Echelonnés sur la hauteur, à la limite de la bourgade, ils servirent peut-être de petites places de refuge pour la population.
La campagne de 1963, pendant laquelle fut commencé le dégagement de cette
série d'édifices fortifiés, avait révélé l'intérêt particulier que présentait l'un d'entre
eux. Construit plus solidement et plus soigneusement que les autres, il était aussi
installé au-dessus de plusieurs monuments antérieurs, et, notamment, au-dessus
d'une église dont un sondage avait montré les niveaux successifs. Il s'agissait donc,
au cours de la campagne de 1965, de procéder à des vérifications et des sondages,
dans des endroits choisis, afin de suivre les modifications successives apportées aux
bâtiments et d'établir entre eux une chronologie relative. Mais nous sommes encore loin d'avoir résolu tous les problèmes.
1
Nous remercions vivement M. M. J. W. SALOMONSON et W. C. BRAAT qui ont bien voulu, tant
pour la conduite de la fouille que pour les levés, nous apporter l'aide précieuse de leur
collaboration. Notre reconnaissance va également à M. M. L. ALLÈGUE et J. GRETZINAGER qui ont
participé activement aux travaux.
293
AFRICA
La basilique chrétienne, qui fut englobée par la forteresse, a connu plusieurs
états successifs et subi des transformations multiples. Mais dans l'état actuel de la
fouille, qui sera d'ailleurs poursuivie cette année, nous ne sommes pas encore en
mesure d'étudier en détail tous les remaniements de l'édifice.
L'église primitive s'inscrivait dans un rectangle de dimensions moyennes (22m
sur 13 m environ), qui était prolongé à l'Ouest par une abside en hémicycle. L'insuffisance actuelle des sondages de vérification ne permet pas de se prononcer avec
certitude sur la disposition primitive du chevet. Il semble que l'abside fut enfermée
dès le début dans un massif quadrangulaire; mais on remarque aussi que le mur du
chevet passe loin derrière l'abside, quoiqu'on ne sache pas encore si les deux «sacristies» communiquaient, comme dans l'église du prêtre Félix, près de Kélibia, ou si
l'espace étroit qui sépare le mur du chevet de l'abside est barré par un muret perpendiculaire comme il arrive plus souvent. Les deux «sacristies» sont ouvertes sur
les bas-côtés mais non sur l'abside. Le sol de cette dernière était surélevé de 0,25m
au-dessus de celui de la nef, comme le prouve le niveau d'une mosaïque funéraire
installée à peu près dans l'axe.
Si nous passons au quadratum populi de cette basilique primitive, dont nous
n'avons reconnu que la moitié occidentale, nous remarquons qu'il fut bouleversé
par des tombes installées à une période où l'édifice était ruiné, et par le stylobate
destiné à supporter les bases des colonnes dans le dernier état de l'église. Il n'est pas
possible non plus de déterminer le plan du chœur, ni l'emplacement de l'autel qui n'a
laissé aucune trace sur le sol. Mais on peut penser aussi que la table sainte était en
bois et ne nécessitait pas d'aménagement spécial. Enfin, on a pu reconnaître les
entrées de cette église : on y pénétrait par trois portes qui correspondent aux trois
nefs ; mais seul, le seuil de l'entrée du bas-côté nord a été retrouvé dans un sondage.
Dans le quadratum populi, comme dans la « sacristie» sud, ont été conservés des
restes de mosaïques de pavement ainsi que quelques mosaïques funéraires qui constituent avec les données de la stratigraphie, les seuls éléments de datation. Leur décor
et le formulaire très sec des inscriptions constituent un indice d'ancienneté que
confirme la stratigraphie : on peut situer cette église primitive au IVème siècle.
Annexée à la basilique dans l'angle Sud-Ouest, une salle baptismale carrée de
3,30 m communiquait indirectement, dans un premier stade, avec la sacristie Sud. La
cuve baptismale était mosaïquée à l'origine, mais sa première forme, que nous n'avons
pas encore reconnue, fut masquée par une reconstruction contemporaine du dernier
état de la basilique. Plus tard, une autre annexe fut ajoutée, à l'Est du
294
FOUILLES 1965-1966
baptistère : c'est une pièce à deux absides ouverte sur l'extérieur par une porte aménagée dans le mur Sud, et sur le baptistère par une entrée qui fut bouchée par la
suite. On pourrait y voir le «catechumeneum» où les néophytes s'assemblaient, au
jour des grandes fêtes, à Pâques et à la Pentecôte, pour y recevoir de l'évêque le
baptême, par immersion au moins partielle.
Par suite d'événements qui affectèrent aussi d'autres monuments chrétiens de la
ville, l'église a sans doute été démolie. Il n'existe pas de trace d'incendie. On est
cependant tenté, en raison de la date probable de la reconstruction, de mettre la
destruction en rapport avec l'occupation vandale. Sur toute la surface de la basilique
et au-delà furent installées des tombes grossièrement construites. La couverture et les
supports latéraux des fosses étaient constitués d'éléments qui avaient appartenu, dans
leur majorité, au décor architectural de l'église primitive : plaques de marbre,
colonettes de chancel, fragments de chapiteaux ou de corniche, carreaux de terre
cuite à figures retrouvés par ailleurs en grande quantité dans les remblais, au-dessus
du niveau de l'église primitive. Certains de ces carreaux étaient même encore
liés, par une épaisseur de mortier, aux tuiles de couverture, ce qui montre bien
qu'ils étaient utilisés pour décorer les plafonds de l'édifice. Certaines de ces tombes
passent sous les murs d'enceinte à l'Est comme à l'Ouest du fortin; et l'une d'entre elles
est en partie engagée sous le sol bétonné qui pavait l'église dans son dernier état.
L'histoire de cette nouvelle basilique, construite sur l'emplacement de la première, est plus complexe. Pour le moment, les sondages ont révélé quatre niveaux;
l'étude du premier niveau montre qu'une nouvelle abside semi-circulaire, orientée à
l'Est et construite devant la façade primitive, remplaça la première dont le sol fut
exhaussé de 0,64 m environ; un dallage couvrit la première abside détruite et remblayée; le mur qui séparait, dans le premier état, les sacristies latérales du quadratum
populi fut transformé en mur de façade. Puis le sol fut exhaussé encore de 18 cm et
recouvert par un dallage. Dans un troisième stade, 30 cm plus haut, le quadratum
populi était, en partie du moins, mosaïque. Enfin un sol bétonné, conservé lors de
l'aménagement de la forteresse, constituait le dernier niveau. Une estrade également
bétonnée fut ajoutée devant le presbyterium qu'elle prolongea dans la nef. Le
chœur, qui fut remanié, occupait le centre de la nef centrale et un couloir le reliait à
l'abside, comme dans la basilique de Dermech à Carthage. Le Baptistère fut, comme
nous l'avons déjà indiqué, reconstruit. La cuve prit une forme quadrifoliée qui ne
semble pas avoir fait son apparition en Afrique avant l'époque byzantine. Notre
stratigraphie paraît confirmer cette chronologie.
295
AFRICA
A une époque postérieure, l'église se trouva englobée dans les limites d'un fortin.
Le choix de l'emplacement fut motivé, sans doute, par la hauteur de la position,
dont l'escarpement domine la vallée de l'Oued Berdine.et d'où l'on peut é-changer
facilement des signaux avec les forts voisins. C'était sans doute le cas, notamment,
avec la place forte de Vaga, entourée à l'époque byzantine d'une ligne de remparts
dont la tour maîtresse domine la Kasba2. Nous savons aussi qu'aux environs de Vaga,
Solomon éleva des redoutes à Henchir Nagachia3 et à Tucca4.
L'édifice est un simple réduit quadrangulaire qu'aucune tour ne vient protéger.
Le quadrilatère irrégulier mesure extérieurement 37 m x 26 m environ. Il fut construit
avec des matériaux déjà taillés récupérés dans les monuments ruinés de la ville
romaine. Comme le constate CH. DIEHL, «l'usage et même la loi autorisaient ces
pratiques à l'époque byzantine... l'auteur de la «Tactique» recommande comme un
endroit spécialement désigné pour la construction d'une forteresse, celui où se
rencontrent en abondance des pierres déjà toutes taillées5». La construction dut être
d'autant plus facilitée qu'on a utilisé des tronçons de murs encore debout, appartenant
à des édifices antérieurs. A l'époque arabe aussi, le remploi des matériaux et des
monuments antiques était courant.
Epaisses de 1,45 m à 1,65 m, les murailles extérieures sont formées, comme
dans la plupart des constructions militaires byzantines, d'un double revêtement.
L'intervalle entre les deux parements est comblé par un amoncellement de terre et
de moellons. On constate cependant une différence dans le mode de construction de
ces revêtements : à l'extérieur, de gros blocs de remploi, placés indifféremment de
champ ou en délit, mais formant quand même des assises assez régulières; selon les
côtés, les quatre ou cinq assises inférieures sont conservées, hautes chacune de 0,35
m à 0,50 m. Les matériaux sont disparates et le grand appareil à bossage alterne avec
des blocs grossiers et des éléments d'architecture, fixés avec du mortier de terre; des
moellons bouchent les trous entre les blocs ou assurent les jointures. Quant au
parement intérieur, où on a employé aussi le mortier de terre, il est en «opus
africanum» peu soigné. Ce système de construction, avec un chaînage en gros
2
3
4
5
Piocope, ae Aedificiis, pp. 339-340.
C. I. L, 14.439.
de Aed. p. 340.
GSELL, Mon. ant. de L'Algérie, II, fig. 164, et CH. DIEHL, Afr. byz., p. 161, fig. 14.
296
FOUILLES 1965-1966
matériaux et remplissage de moellons se poursuit en Afrique depuis l'époque punique
jusqu'à l'époque byzantine et arabe; il est employé notamment dans les forteresses
byzantines de Téboursouk, d'Aïn Hedja, et de Tifech ainsi qu'au ribat musulman de
Monastir.
La muraille orientale englobe dans son parement extérieur et sur une longueur de
7m environ, un mur en «opus africanum» élevé sur des fondations de blocage et
encore conservé sur une hauteur de 2 m environ. Ce mur appartient au massif
quadrangulaire qui entoure l'abside orientale de la basilique chrétienne. De même, la
muraille Nord utilise, toujours dans le parement extérieur et sur 21 m, un mur de la
même basilique, conservé sur une hauteur de 1,50 m. Celui-ci englobait déjà, avant la
construction du fortin, un petit édifice construit en grand appareil, dont les assises
conservées s'élèvent jusqu'à une hauteur de 2,35 m et dont les fondations en blocage se
prolongent sur une longueur de 3,90 m. On pourrait y voir les vestiges d'un
mausolée, d'autant plus qu'on est là à la limite de la ville.
Toute la muraille occidentale fut construite sur l'aile Est d'un monument antérieur à plan tréflé et à cinq nefs. Le parement extérieur utilise même, en partie, un
mur de ce bâtiment.
C'est au milieu de la muraille Sud que s'ouvre l'entrée. Celle-ci est contenue
dans un saillant carré ; elle est flanquée donc de deux avant-corps qui la protègent solidement. La saillie est de 3,70 m et la largeur de chaque avant-corps de 1,55 m. La largeur
de l'entrée va en se rétrécissant à partir de l'extérieur (2,25 m et 1,65 m). On a
successivement : un fût de colonne couché en guise de seuil extérieur puis un passage
dallé, puis, à la hauteur du parement extérieur de la muraille, les deux montants
latéraux d'une porte à deux battants qui ouvrait vers l'intérieur. Enfin, à la hauteur du
parement intérieur, deux pilastres cannelés, courts et trapus, flanquent l'entrée.
Le parement intérieur de l'enceinte méridionale utilise lui aussi, sur 8 m au
Nord de l'entrée, un mur en «opus africanum» qui fut déjà remployé une première
fois dans un édifice paléochrétien puisqu'une mosaïque à gros cubes, qui a conservé
l'image d'un chrisme, le borde à un niveau inférieur de 0,80m à celui du fortin.
A l'intérieur de l'enceinte, le sol a été égalisé avec des remblais et pavé, par endroits, avec de grosses et épaisses dalles de pierre. Nous avons dû cependant descendre parfois nettement sous le sol de la forteresse, notamment pour retrouver
celui du niveau inférieur de la basilique. Mais même dans ce secteur, nous avons
297
AFRICA
conservé un témoin : les tronçons d'un caniveau qui traversait en diagonale toute la
moitié occidentale du fortin celle précisément que nous avons surcreusée pour
déverser ses eaux par une ouverture qui était aménagée dans l'enceinte Nord. Les
dalles de couverture de ce caniveau nous donnent la hauteur du sol de la forteresse à
cet endroit. Celle-ci est à peu près identique à celle du dernier état de la basilique dont
le sol bétonné est conservé intact dans le quart Nord-Est de la forteresse.
Dans la moitié occidentale du fortin, adossées contre le mur d'enceinte, une
série de pièces larges de 2,50m environ, constituaient les corps de logis ouverts sur
une cour intérieure. Mais le mur qui sépare ces pièces de la cour n'a été conservé
que sur deux côtés : à l'Ouest et au Sud. Une pierre d'angle, au Nord-Ouest, indique
cependant qu'il a été détruit au Nord; il s'arrêtait sans doute au sol bétonné qui couvre
tout le quart Nord-Est du fortin. Toutefois, le nombre des salles ouvertes sur la
grande cour ne peut plus être précisé, sauf sur le côté occidental où nous avons
conservé une cloison qui délimite deux pièces de 2,50 m de large sur 8,50 m de
longueur chacune.
L'accès de la cour, à partir de la porte d'entrée, se faisait par un passage coudé,
bordé de deux colonnes dont il ne subsiste plus qu'une seule; c'est plutôt un tambour
de grand diamètre, en marbre de Chemtou, remployé sur une base en marbre blanc de
diamètre nettement inférieur. On a conservé aussi, en place, la base de la deuxième
colonne, légèrement en retrait.
La moitié orientale du fort se présente d'une manière différente : un mur qui
limitait la basilique au Sud, mais qui a été réutilisé par les constructeurs de la forteresse, la divise en deux parties ; au Nord, le dernier niveau de la basilique a été conservé sans grands changements, avec son sol de béton, les aménagements liturgiques
de sa nef centrale, qui a gardé jusqu'au tracé de son cancel, enfin les bases de sa
colonnade. Seules les pièces qui flanquent l'abside furent reconstruites avec de gros
blocs de remploi.
Par contre, toute la partie Sud fut remblayée jusqu'au niveau du fortin. Les
sondages ont montré que ce dernier aménagement recouvre un sol de mosaïque à
gros cubes. On installa une petite cour carrée (7,30 m x 6,60 m) qui a conservé son
dallage. Autour d'elle s'ordonnent :
— au Sud, une pièce de 6,70 m x 2,60 m qui a conservé son seuil.
— à l'Ouest, derrière un couloir dont les cloisons ont disparu, s'ouvre une petite
salle d'eau (2,60 m x 2 m) au sol rose constitué d'un enduit de tuileaux étanche.
C'est là que prend naissance le caniveau dont il a déjà été question plus haut. Il tra
verse la pièce en diagonale et à ciel ouvert, recueillant en même temps les eaux plu
viales de la petite cour et celles versées dans la pièce; il passe ensuite sous le mur de
298
FOUILLES 1965-1966
fond puis traverse, comme nous l'avons vu, toute la cour enterré et couvert de petites
dalles. Contre le mur de fond de la pièce est aménagé peut-être un siège de la-trine très
sommaire. On pourrait donc voir dans cette pièce une «midha» réservée aux
ablutions rituelles.
Enfin, à l'Est de la petite cour, une grande salle de 10,70m x 6m conserve,
alignées dans son axe longitudinal, deux bases qui indiquent qu'elle était divisée en
deux nefs et trois travées. Dans l'épaisseur du mur d'enceinte, au Sud, et dans l'axe
de la salle, un évidement orienté dans la direction de la «Kibla» et précédé de deux
grandes dalles constitue très probablement les vestiges d'une niche de «mihrab».
La technique de construction du mur d'enceinte, caractérisée par l'usage du
double parement, le remploi de matériaux déjà taillés récupérés dans les édifices
romains, l'utilisation de tronçons du mur appartenant à des bâtiments antérieurs
nous avaient d'abord incités à ramener la construction du fortin à l'époque byzantine.
Nous avons aussi rapproché le dispositif de défense qui protège la porte d'entrée d'un
aménagement analogue dans la forteresse byzantine de Mdaourouch élevée par les
soins de Solomon vers 535, et dans la place forte de Tifech (Tipasa) également
d'époque byzantine6.
Cependant l'usage général du mortier de terre, tout comme dans les monuments
limitrophes, dont l'appartenance à l'époque arabe est attestée, nous avait déjà intrigué bien avant la fin de la fouille. Lorsqu'apparut le plan général du monument,
avec ses salles adossées au mur extérieur, sa grande cour intérieure, l'ensemble sans
doute religieux de la salle d'ablution et de la grande pièce destinée très probablement
à la prière, de part et d'autre de la petite cour carrée, il nous sembla nécessaire de
ramener le monument à l'époque arabe. La découverte de tessons émaillés caractéristiques sous le dallage des pièces qui bordaient la grande cour intérieure, juste à
l'Ouest de l'entrée, apporta une preuve supplémentaire. La construction pou-rait
dater des débuts de l'occupation arabe puisqu'on a trouvé, dans les remblais il est
vrai, une monnaie frappée au cours des années 90 de l'Hégire, c'est-à-dire entre 709 et
717 de l'ère chrétienne, sous l'un des deux gouverneurs venus de Damas, Moussa ibn
Nu'sayr (84 à 96 de l'Hégire) ou Mohamed ibn Yazid (97 à 99). Ajoutons aussi que le
dispositif de l'entrée est comparable à celui des ribats de Sousse et surtout de Lemta, à
l'entrée du château aghlabite récemment découvert par M. CHABBI à Raqqada, enfin
à celle des châteaux omeiyades bâtis dans le désert ou les
6
GSELL, ouv. cit., fig. 156.
299
AFRICA
montagnes de Syrie. L'exemple byzantin local, comme l'importation orientale ont
pu donc mêler leurs influences. Dans son «Ribat de Sousse», A. LEZINE donne
d'ailleurs une planche qui propose une évolution de la forme de ces tours d'entrées7.
Résumons en conclusion, d'une façon très schématique, l'histoire de l'emplacement occupé par notre fortin, en proposant, pour les différentes phases, les
dates qui semblent les plus vraisemblables compte tenu de la stratigraphie. Celle-ci
reste cependant à préciser en fonction des sondages qui doivent être encore
effectués.
1. Construction de l'église et du baptistère au IVème siècle.
2. Puis destruction de cette première église.
3. Construction d'une nouvelle basilique avec abside orientée à l'Est et d'une
pièce annexe à l'Est du baptistère. Le sol et les aménagements liturgiques de
cette nouvelle église ont été plusieurs fois remaniés et le dernier état au moins
date de l'époque byzantine.
4. Construction de la forteresse dès les débuts de l'occupation arabe.
Amar MAHJOUBI
7
A. LÉZINE, Le ribat de Sousse, pl. XV.
300
1
Intérieur de la foteresse et dernier état de la basilique.
2
3
Mur d'enceinte oriental de la forteresse.
Mur d'enceinte Nord de la forteresse.
4
Premier état de la basilique : on voit l'abside et, au premier plan, le baptistère et la salle annexe
du «catechumeneum» (?) ajoutée postérieurement.
5 Le basptistère.
6
7
Niveaux successifs de la basilique.
Niveaux successifs de la basilique
Ksar Lemsa
La vallée de l'Oued Maarouf, sur le flanc Sud-Est de la Dorsale tunisienne, se
caractérise par une forte implantation du peuplement à l'époque romaine.
La densité des ruines signalées par l'Atlas Archéologique, sur la feuille de
Djebel Bou Dabous au 1/100000 e, est frappante, surtout quand on pense à la pauvreté et au depeuplement actuels de cette région.
Au pied du Djebel Bouja, sur les dernières pentes du Djebel Serdj, se dresse
l'imposante citadelle de Ksar Lemsa, au milieu d'un vaste champ de ruines attestant
l'existence d'une ville importante.
En mars 1966, en accord avec M. A. MAHJOUBI, Directeur de la Recherche à
L'I.N. A. A. et avec la collaboration de M. Khémaïs ESSAIDI, contremaître, nous
avons entrepris une campagne de fouille, essentiellement consacrée à la citadelle qui,
depuis le vieil ouvrage de CH. DIEHL sur l'Afrique byzantine, n'a fait l'objet d'aucune
étude1.
En dehors des travaux dans la citadelle et ses abords immédiats, la fouille a
permis en outre de découvrir un petit théâtre romain situé à 500m environ à l'Est
de la citadelle, et de dégager en contrebas du théâtre, à proximité d'une source un
complexe de murs de belle construction que nous nous proposons d'étudier dans
une phase ultérieure de la fouille, (planche I). L'intérêt de ces sondages a permis
d'établir, qu'à gauche de la route se dirigeant vers Ouslétia, les remblais couvrant
les ruines dépassaient 2 m de haut. La fouille a d'autre part exhumé un grand nombre
d'inscriptions qui, à l'exception de quelques funéraires, feront également l'objet
d'une étude ultérieure, le présent exposé se limitant aux travaux effectués dans la
Citadelle.
1
Sur Ksar Lemsa, on trouve quelques renseignements dans : TISSOT : Géographie comparée de l'Afrique du
Nord romaine ; L. POINSSOT : in Bulletin des Antiquités Africaines 1884, p. 80; R. CAGNAT, in Archives des Missions, 3è édition XIV p. 16; Ch. DIEHL : Rapports de 1892-93 dans Nouv. Arch, des Missions t. IV; Voir aussi
Bulletin Archéologique du Comité 1888 et 1925.
313
AFRICA
Par rapport à la description et aux photographies datant de l'époque de CH.
DIEHL, la citadelle a subi des réparations et fait l'objet de travaux de restauration.
Une grande partie de la courtine nord est menacée à cause de l'énorme brèche faite au
niveau de la porte.
L'ensemble de la citadelle était d'ailleurs assez atteint et a exigé des travaux de
restauration qui furent entrepris en 1961 par l'I. N. A. A. sous le contrôle de M.
Khémaïs ESSAIDI; ceux-ci ont permis de reconstruire la plus grande partie de la tour
Sud-Ouest, de réparer une brèche importante dans le mur Ouest et de combler plusieurs autres brèches moins importantes situées un peu partout; les travaux ont enfin
porté sur la reconstruction de quelques créneaux du mur Sud (planche I).
Abords extérieurs de la citadelle
1. Le bassin (planche III)
Parallèlement au mur effondré de la forteresse s'étend un vaste bassin qui n'a
pas été vu par CH. DIEHL parce qu'il était entièrement recouvert par les remblais.
Récemment, des travaux de reboisement entrepris par la Délégation d'Ouslétia,
ainsi que la construction d'une école à proximité immédiate de la citadelle, ont permis
la découverte fortuite du bassin.
La fouille a commencé par le dégagement de celui-ci et exigé beaucoup de temps et
d'efforts pour extraire les énormes blocs qui s'y sont accumulés et qui proviennent
pour la plupart du mur effondré. Le travail n'a du reste pas été ingrat puisqu'il a
donné lieu à des découvertes épigraphiques fort intéressantes.
La bassin est frappant par l'importance de ses dimensions et la qualité de sa
construction. De forme rectangulaire, il mesure à l'extérieur, 28,40m sur 11,25m;
sa profondeur est de 1,35m à 1,45m; ses murs ont 1,10m à 1,15m de large, ils sont
construits avec beaucoup de soin : chaînage en grosses pierres régulièrement taillées,
disposées à intervalles à peu près réguliers de 3 m environ et encadrant un blocage de
petit appareil. Le revêtement est bien conservé : il est fait d'un conglomérat de
tessons rougeâtres liés par du mortier. Le grand côté Ouest du bassin est creusé de 3
rigoles à peu près équidistantes, peu profondes et qui semblent avoir servi de trop
plein pour l'évacuation des eaux.
L'alimentation du bassin est assurée par un complexe de canalisations assez
perfectionné, en liaison avec la source voisine qui se trouve sur le flanc du Djebel
Bouja; 16 canalisations dont le diamètre est de 22 à 23 cm aboutissent au bassin à
314
FOUILLES 1965-1966
20 cm environ du fond. Il y en a 8 sur le grand côté Ouest, équidistantes de 3,5 m à 4m
et 4 sur chacun des petits côtés où l'équidistance varie de 1,37 m à 2,90 m. Sur les
petits côtés, les canalisations amorcent des coudes perpendiculaires à un tronc
commun passant à l'intérieur du mur. Un sondage nous a assurés en effet que ces
tuyaux ne communiquaient pas avec l'extérieur, mais se dirigeaient probablement
vers l'intérieur de la citadelle.
A l'intérieur du bassin, le long du grand côté Est, et sur une partie du petit côté
Sud, on a construit, postérieurement au bassin, un mur haut de 0,70 m et large de
0,47 m. Le revêtement de ce nouveau mur est tout à fait différent du précédent, le
conglomérat étant plus grossier; nous trouvons en outre sur les bords des petits côtés
des traces de revêtement analogue qui semblent contemporaines de ce mur postérieur.
Cela nous amène à poser le problème de la chronologie du bassin. Celui-ci est
manifestement antérieur à la citadelle puisque les bases de la courtine effondrée ainsi
qu'une partie des 2 tours Est, reposent directement sur les murs du bassin. On a
l'impression que le choix du site pour la construction de la citadelle a été déterminé en
partie par la présence de cette importante réserve d'eau. Le soin de la construction,
les dimensions et la régularité de l'appareil, la qualité du revêtement, permettent de
croire que le bassin est bien antérieur à l'époque byzantine; il date plus vraisemblablement de l'époque antoninosévèrienne au cours de laquelle Limisa a connu
une certaine prospérité attestée par l'épigraphie.
Les réfections - c'est à dire le 2ème mur qui servait peut-être tout simplement à
consolider le mur principal, ainsi que le revêtement supérieur - sont nettement plus
tardives, peut-être d'époque byzantine.
Le dégagement du bassin a mis à jour des inscriptions et de nombreux tessons de
poterie grossière, ainsi que des fragments de poterie arabe probablement fatimide et
ziride. Beaucoup de témoignages concourent à prouver une certaine permanence
dans l'occupation du site.
2.
Les abords septentrionaux de la citadelle
Toute cette zone était couverte de remblais sur plus de 3m à tel point que la
porte de la citadelle n'émergeait qu'à peine. Nous avons dégagé tout le secteur situé
entre la porte et la tour Nord-Est. Ce travail a donné essentiellement 4 résultats :
a. Contre le mur Nord du bassin, les sondages destinés à l'examen des canalisations ont fait apparaître un mur de belle construction, en petit appareil, dessi-
315
AFRICA
nant un arc à partir de l'angle Nord-Est du bassin. Nous comptons en poursuivre le
dégagement au cours de la prochaine campagne de fouille (planche II). Tout ce qui
se trouve au Nord de la forteresse révèle des traces de ruines importantes.
b. La Canalisation (Planche III).
Extérieure à la citadelle, elle est faite de pierres et d'éléments d'auges réemployés ;
large à l'intérieur de 0,35 m à 0,40 m, elle est recouverte de grosse dalles également
réemployées; elle longe le mur Nord et la tour Nord Est qu'elle contourne pour
aboutir au bassin. A hauteur de la porte d'entrée, elle amorce un coude et s'éloigne de
la citadelle, très probablement en direction de la source. Là encore, l'état actuel de la
fouille ne permet pas de répondre à toutes les questions et notamment à celle de la
date de la canalisation. Celle-ci est manifestement postérieure à la forteresse car on
imagine mal qu'une place forte destinée à servir éventuellement de refuge ne soit
pas maîtresse de son ravitaillement en eau. En outre, le niveau de la canalisation est
plus élevé que celui du seuil primitif de la porte d'entrée. Pour le moment deux
hypothèses peuvent être envisagées : ou bien, la canalisation est d'époque arabe,
construite à un moment où le réseau hydraulique antérieur, c'est à dire contemporain
du bassin, est devenu inutilisable, ou bien elle date de la basse époque byzantine,
comme semblent l'indiquer le style de la construction et le fait que Limisa a conservé
une certaine activité jusqu'à la tin du VIème siècle, attestée par une inscription du
règne de Maurice2. Au cours du VIIème siècle, lorsque la domination byzantine
menacée d'abord par les tribus berbères puis par les premières razzias des envahisseurs
arabes, s'est limitée à une partie de la Byzacène et surtout à la Proconsulaire, Limisa a
certainement joué un rôle important du fait de sa position stratégique à la limite des
deux provinces.
c. Contre le mur extérieur de la courtine Nord, nous avons dégagé les restes
d'un mur de construction très rudimentaire, haut de 1 m, large de 0,50 m et chrono
logiquement postérieur à la citadelle et à la canalisation qu'il semble enjamber; il
s'agit d'une construction tardive, d'époque arabe, que l'on ne peut dater avec plus
de précision.
2
CIL VIII 12035.
316
FOUILLES 1965-1966
d. La Porte : (planche III).
Une seule porte permet d'accéder à la forteresse par la courtine Nord. DIEHL la
signale, mais sa description est très sommaire et parfois inexacte3, en raison de la
hauteur des remblais qui masquaient l'entrée et parce que la courtine Nord était
percée d'une large brèche qui a trompé DIEHL.
Au moment où nous avons commencé la fouille, la porte n'émergeait que de
0,50m à 1 m; nous avons creusé sur plus de 2,50m de profondeur, ce qui a permis de
dégager l'entrée; celle-ci, qui est protégée par un bastion faisant saillie par rapport à la
courtine, n'a conservé que les assises inférieures, en raison de la brèche qui a démoli
une bonne partie du mur. La fouille a d'autre part exhumé 2 seuils nettement
différenciés, séparés par une dénivellation de 1,05 m; le seuil inférieur est légèrement
plus profond que le niveau de la canalisation. Nous retrouverons ces 2 niveaux à
l'intérieur de la citadelle où ils traduisent l'existence de 2 états chronologiques
différents. A propos des seuils se posent de difficiles problèmes de datation que l'état
actuel de nos recherches ne permet pas de résoudre; on peut supposer qu'il s'agit là
encore de 2 états byzantins dont l'un serait nettement plus tardif, à moins que le
seuil supérieur, plus élevé que la canalisation, ne soit d'époque arabe.
La porte d'entrée de la citadelle n'est pas tout à fait au centre de la courtine,
mais légèrement dissymétrique vers l'Ouest4, ce qui traduit un certain empirisme
dans la construction attesté par beaucoup d'autres détails et surtout par la disposition
des tours.
L'accès à la citadelle est très bien défendu: étroitesse de l'entrée (1,84m) et
présence de 2 bastions larges de 2,15 m et faisant par rapport à la courtine une saillie
de 1m. Contre la porte, nous avons trouvé des éléments de dallage se dirigeant vers le
Nord et passant sous la canalisation. Il peut s'agir d'une rue d'époque romaine, mais
nous sommes encore trop peu informés à ce sujet.
Tels sont les travaux effectués à l'extérieur; nous nous proposons de les poursuivre en dégageant entièrement le périmètre extérieur de la citadelle et du bassin; en
suivant la trace de la canalisation et du dallage et en faisant des sondages, dans ce
secteur Nord dont nous avons souligné l'importance.
3
4
Ainsi la largeur de la porte n'est pas de 4 m, mais seulement de 1,84 m.
La porte se trouve à 14,57 m de la tour Est, et à 1,37 m de la tour Ouest.
317
AFRICA
Fouilles à l’intérieur de la citadelle
La citadelle a déjà été décrite plusieurs fois; la meilleure description demeure
celle de DIEHL.
Les dimensions à l'intérieur sont irrégulières à cause de l'empirisme de la construction5.
On y accède par une seule porte, déjà signalée ; la protection de l'entrée est renforcée par la construction de contreforts intérieurs formant chicane : il s'agit d'aménagements postérieurs, exécutés hâtivement en raison d'une aggravation probable de l'insécurité dans la région au cours du Vllème siècle, la citadelle ayant dû
servir de refuge aux populations. Ces contreforts sont disposés de part et d'autre de
l'entrée : à gauche une sorte de moellon haut de 1m , long de 1,35m, large de 0,80 m
; à droite, nous avons exhumé un mur plus important renforçant le flanc Nord de
l'entrée et formant un étroit corridor long de 7 m et large de 1,70m à 1,80 m; ce corridor est barré d'une chicane et s'appuie à gauche sur le mur de l'escalier d'où l'on
pouvait agir pour repousser les assaillants. On voit comment sont multipliées les
précautions en vue de la défense.
De part et d'autre de l'entrée se trouvent 2 colonnes de pierre, assez modestes ; le
niveau de cette entrée domine de plus de 1 m celui du seuil inférieur. Nous ne
pouvons à ce sujet qu'avancer des hypothèses de chronologie relative : il s'agit d'un
état nettement postérieur à la construction de la citadelle, soit d'époque byzantine
tardive, soit plutôt d'époque arabe. (Planche IV).
Û
A l'intérieur, la forteresse était remblayée sur une hauteur parfois supérieure à
3 m. Nous avons d'abord creusé, dans l'axe de l'entrée, une tranchée large de 1,70
m et profonde de plus de 2 m, exhumant ainsi une voie intérieure jalonnée de débris de
colonnes et délimitée par des alignements de murs sommairement construits à l'aide
de grosses pierres réemployées et d'éléments d'auges. Ces alignements sont au même
niveau que l'entrée décrite plus haut (planche IV).
5
La citadelle est légèrement rectangulaire : 29 m du sud au nord et 31 m de l'est à l'ouest. Les courtines n'ont
pas des dimensions égales en raison de la disposition irrégulière des tours.
318
FOUILLES 1965-1966
A gauche, c'est à dire dans la moitié orientale de la citadelle, la fouille est encore
très peu avancée à l'exception des sondages effectués à la base des 2 tours. C'est dans
ce secteur que la hauteur des remblais est la plus importante car, la citadelle ayant été
construite au pied du Djebel Bouja, tout le niveau primitif était assez fortement
incliné, de l'Ouest vers l'Est en raison de la pente. Cette inclinaison explique en
particulier les irrégularités dans la hauteur respective des courtines et des tours6.
A gauche de l'entrée, perpendiculairement aux marches de l'escalier, court un
mur dans le sens Nord-Sud, qui est recoupé par 2 alignements de direction EstOuest : le premier, formé de grosses pierres régulièrement taillées, se trouve à proximité de l'entrée; le second, de moins belle construction, est situé à 3m de la courtine
Sud qu'il suit parallèlement pour déboucher dans une pièce de forme carrée où nous
avons trouvé de nombreux fragments de colonnes. Un sondage effectué à la base de
la tour Sud-Est a permis de dégager la porte d'un étage inférieur dont DIEHL ne
semble pas avoir soupçonné l'existence dans sa description. La porte a 2,10 m de haut
et 0,87m de large; sa hauteur est supérieure à celle des portes Ouest où l'élévation des
tours est moindre en raison de la pente. L'accès à la tour n'est pas direct, mais coudé,
comme à l'étage supérieur, il est précédé d'un mur de direction Est-Ouest parallèle à
la courtine et ouvert dans son extrémité Sud par une entrée comportant un seuil large
de 1,40 m, et de belle construction. Nous nous trouvons là au niveau apparemment le
plus ancien, sans doute contemporain de la construction de la citadelle. Contre le mur
de la courtine Sud, une fois le seuil franchi, nous avons découvert un escalier qui, dans
l'état actuel de la fouille, ne peut encore être expliqué.
Entre les 2 tours orientales, la muraille, nettement moins épaisse que les 3 autres,
est totalement effondrée; ceci est dû à sa moindre épaisseur et au fait qu'elle repose
directement sur le mur du bassin, non sur les fondations analogues à celles qui
soutiennent les autres courtines. Cette brèche énorme a été colmatée postérieurement
par un mur plus large, mais de construction très rudimentaire qui apparait notamment
dans l'angle Nord-Est, à proximité de la tour. Derrière ce mur affleurent un
alignement de grosses pierres de taille, ainsi que des éléments de colonnes qui n'ont
pas encore été exhumés.
6
Grâce aux sondages effectués au pied des 2 tours orientales, nous avons pu calculer l'inclinaison qui est de
1,40 m entre la tour sud-ouest et la tour sud-est située au bas de pente. Celle-ci serait donc d'environ 6%.
319
AFRICA
Dans l'angle Nord-Est, nous avons également effectué un sondage au pied de la
tour, qui a révélé lui aussi l'existence d'une porte inférieure, haute de 2 m et large de
0,85 m. Celle-ci est murée par une assimilation de pierres disposées de façon très
sommaire; nous y avons trouvé des fragments de céramique vernissée jaune et verte,
à décor géométrique, d'époque arabe.
Contre le mur Nord se trouve l'escalier permettant d'acce'der au chemin de
ronde; comme dans la plupart des autres forteresses byzantines d'Afrique, l'escalier
est soutenu par 2 voûtes en berceau reposant sur des piliers massifs7 il est disposé en
angle droit par rapport à la porte d'entrée : d'abord perpendiculaire à la courtine, il
amorce ensuite un coude et s'élève ensuite parallèlement au mur pour déboucher sur
le chemin de ronde. La plupart des marches ont disparu; nous en avons exhumé 10
larges de 1,57m, profondes 0,30m et hautes de 0,20m. (planche IV).
Tel est l'état actuel des travaux dans la moitié orientale de la citadelle ; la fouille
proprement dite y est encore très peu avancée et c'est dans ce secteur que nous
comptons faire porter l'essentiel des recherches lors de la prochaine campagne.
Û
Dans la partie occidentale, le travail est plus avancé en raison de la moindre épaisseur des remblais dans ce secteur. Bien que la fouille n'y soit pas encore achevée,
nous pouvons cependant avoir une idée du plan et de la disposition des constructions
à l'intérieur de la citadelle. L'interprétation, notamment chronologique, demeure
très incertaine car les témoignages sont encore insuffisants et souvent confus. La
stratigraphie semble très bouleversée puisqu'on trouve pêle-mêle des tessons
d'époques très différentes, depuis les fragments de poterie africaine du haut Empire
jusqu'aux débris de céramique arabe.
Nous avons dégagé un ensemble de pièces disposées selon un axe Nord-Sud et
de dimensions variables, la plus vaste ayant 6m x 3,20m. Il s'agit de constructions
hâtives fort grossières, mais selon la technique byzantine : chaînage en grosses
pierres, avec blocage dans les intervalles. Il s'agit sans doute de pièces destinées
7
Les 2 piliers dont l'un a été entièrement exhumé par la fouille ont 1,57 m sur 1,50 m et sont équidistants
de 2,80 m. Leur style de construction est tout à fait analogue à celui de la citadelle, dont ils sont contemporains.
320
FOUILLES 1965-1966
au logement des soldats de la garnisson. On y trouve beaucoup de matériaux réemployés dont certains fragments de frises et des chapiteaux d'époque paléochrétienne.
(Planche V).
Des sondages effectués au pied des tours ont permis de dégager, comme dans le
secteur Est, les portes d'un étage inférieur et de rectifier ainsi la description faite par
DIEHL.
Les ouvertures considérées par DIEHL comme celles du rez-de-chaussée étaient-en
réalité au niveau du 1 er étage. Il ne semble pas toutefois qu'on puisse distinguer un rez
de chaussée et un 1er étage à l'intérieur de la forteresse, et sur toute sa superficie;
l'étagement est certain dans les tours. Les portes intermédiaires communiqueraient
avec la citadelle soit par des escaliers dont nous n'avons pas de traces, soit plus
probablement par des échelles que l'on pouvait éventuellement retirer; elles servaient
en outre d'ouverture pour éclairer les tours où les étroites et profondes meurtrières
sont insuffisantes pour diffuser la lumière.
Il reste encore à vider la tour Sud-Ouest qui est remblayée sur plus de 2 m et à
achever de dégager les alignements situés dans cette partie occidentale de la citadelle.
On espère alors pouvoir avancer des hypothèses plus précises de datation; il semble
que dans l'angle Sud-Ouest on ait atteint le sol vierge et que les murs dégagés dans ce
secteur soient donc contemporains de le forteresse.
Les inscriptions
La fouille a permis de découvrir un grand nombre d'inscriptions trouvées dans
le bassin, dans les remblais au Nord de la citadelle et à l'intérieur de celle-ci.
Ces inscriptions qui, pour la plupart, doivent faire l'objet d'une étude ultérieure, peuvent être classées en trois groupes :
1. Un grand nombre de funéraires, ce qui laisse supposer que la forteresse se
trouve à proximité d'une nécropole.
2. Deux inscriptions à Mercure confirmant l'importance de cette divinité à Limisa8.
3. Un groupe d'inscriptions honorifiques intéressant l'histoire et l'évolution
politique de la ville depuis Trajan jusqu'au milieu du IVème siècle.
8
Voir CIL VIII 12027, 12030, 12039.
CAGNAT : Archives des Missions, XIV, p. 16 Sq.
321
AFRICA
Nous nous bornerons, dans le présent rapport, à faire état des principales, inscriptions funéraires.
Photo 1
DMS
L. PESCENNI
US. C. FIL. PAP
VICTOR SE
VERIANUS
PVA XXX II
M. XI H. S. E
L(ucius) Pescennius
Victor Severianus
M(ensibus) XI
C(aii)
Fil(ius)
Pap(iriatribu)
P(ius)
V(ixit)
A(nnis) XXXII
H(ic)
S(epultus)
E(st)
Photo 2
Pierre de récupération, longue de 0,75 m large de 0,40 m, Hauteur des lettres 0,05 m
DMS
M. RICIUS P A
PIRIA SATURUS
PRIMIANUS. V. A
?XXXV. H. S. E.
M. Ricius Papiria Saturas Primianus V(ixit)
E(st).
A (Unis)
XXXV H(ic)
S(itus)
Ces deux épitaphes concernent des citoyens romains appartenant à la tribu Papiria. Celle-ci est mentionnée, d'autre part dans une inscription à Mercure datant du
règne de Commode (CIL
12039).
Les citoyens romains de Limisa connus jusqu'à présent appartenaient à la tribu
Papiria; la ville connut en effet, comme beaucoup d'autres cités africaines, une
activité particulière sous les règnes de Marc Aurèle, Commode et Septime Sévère
qui étaient de la tribu Papiria.
322
FOUILLES 1965-1966
Photo 3
Pierre longue de 0,27 m, large de 0,28 m hauteur des lettres 0,04 m
DMS
M. JULIUS
ROGATUS
AELIANUS
P. V. A XXX
II s'agit encore d'un citoyen romain, ayant les tria nomina. Cette inscription est à
rapprocher de CIL 12049 qui mentionne également le gentilice Julius.
Pierre
longue de 0,58 m, large de 0,26 m ; hauteur des lettres 0,04 m
DMS
JULIUS FE(lix)
P. V. AN XXX(?)
H. S . E
Photo 4
Pierre très mutilée; hauteur des lettres 0,04m
DMS
SERVILIUS
ORPVA
SES VIII
D(is) M(anibus) S(acrum), Servilius (Vict) or P(ius) V(ixit) A(nnos) (nombre
d'années ?) (Men) ses VIII.
323
AFRICA
Photo 5
Pierre mutilée; hauteur des lettres 0,045m
DMS
L. EPTIMIU
RUSTINUS. V
XXXI. M. VIII. D
D(is) M(anibus) S(acrum) L.(S) eptimius(s)
annis)XXXI M(ensibus) VIII. D(iebus) ?
Base. Longueur
0,60 m; largeur
Rustinus
0,33 m; Hauteur des lettres
(Vixit
0,05 m
DMS
US
(sat) URNI
NUS VIX
ANIS LXI
M. VIII
H. S.E
Le Cognomen Saturninus est très fréquent à Limisa (voir notamment C I L
VIII, 12041, 12047, 12052; 54)
Photo 6
Hauteur des lettres 0,06 m. Champ épigraphique 0,56 m x 0,40 m
DMS
PINA RIA OC
TAVINA PINA
RI FUS CI FIL
PIA VIXIT AN
NIS LXV
H. S. E.
324
FOUILLES 1965-1966
Hauteur des lettres 0,035 m
DMS
ROGATA DO
NATAP (ou F . ) FIL
P. V. A LXII
H. S. E.
Photo 7
Hauteur des lettres 0,05 m
D. M. S.
OCTAVIA FORTUNATA
OCTAV FAUSTI MIN
NIANI LIBERTA
P. V. A LXI
La lecture est malaisée à la fin de la 3ème ligne. Cette inscription est la première
qui parle d'une affranchie.
Photo 8
Pierre employée pour la construction de la forteresse; courtine Ouest
DMS
STATIENIA
SECUND A
P.V.A. LXXXV
H. S.E.
325
AFRICA
Pierre mutilée dans sa partiesupérieure, hauteur des lettres 0,07 m
IS
FIL VIXIT
ANNIS
LXXXV
H. SE
Photo 9
Pierre très mutilée; Hauteur des lettres 0,045m
MS
ASIUS
OR
XXX
E
Pierre réemployée (élément d'huilerie); graphie très effacée.
Hauteur des lettres 0,05 m.
D
PIA (ou M)
CAT
P.V.
326
FOUILLES 1965-1966
Hauteur des lettres 0,035 m
JULIA
PIA VIXIT
ANNIS LXXII
H. S.E
Photo
10
Hauteur des lettres 0,035 m
D.MS
BAERE B C
BALBARICIS
SUS. F. PVA
LXVII
H. SE
Nom typiquement berbère
Photo
11
Fragment supérieur de la pierre
Hauteur des lettres 0,045 m
DMS
RBAZA
TURI
327
AFRICA
Hauteur des lettres 0,03 m
DMS
POTIUS
PO ESOP
Hauteur des lettres 0,05 m
M. MAXI
MI BERE
GIS VA
LXVI
Pierre très mutilée. Hauteur des lettres 0,03 m
ENO
SATURN
PVA LXX
328
FOUILLES 1965-1966
Hauteur des lettres
0,04 m
DMS
MAXI
M VIX
AXXXX
H. S.E
Photo 12
Fragment supérieur gauche. Hauteur des lettres 0,05 m
DM
CIV
O
Telles sont les principales funéraires découvertes jusqu'à présent. Elles témoignent à la fois de la romanisation de la ville, surtout à partir du règne de Marc Aurèle,
et de la survivance des traditions locales attestée par la permanence de noms
spécifiquement berbères.
Khaled BELKHODJA
329
A Plan de la forteresse
Planche I
1 b Sondage au Sud-Est du Théâtre
1 a Théâtre
2 Vue de la tour Sud-Ouest reconstuite
Planche II
3 a La bassin avant la fouille
3 b Le bassin vu du côté Nord
(remarquer le mur construit
postérieurement et les canalisations)
3 c Vue du bassin
Planche III
4 La canalisation extérieure
5
6 Vue d’ensemle de la citadelle
La porte avant la fouille
Planche IV
7 Vue de l’entrée
8 Fouille dans l’axe de l’entrée
Vue de l'escalier et de la courtine Nord
9 Vue de l’escalier et de la courtine Nord
Planche V
10 a intérieur de la citadelle : partie Ouest
10 b
Intérieur de la citadelle : partie Est
2
1
4
3
5
6
7
8
9
11
10
12
Raqqada
Aperçu historique
En l'an 263 de l'hégire, le prince aghlabite Ibrahim Il fondait Raqqada, à 9 km au
Sud de la capitale, Kairouan. Sa superficie, d'après El BEKRI, était de 24.000
coudées; elle englobait notamment une mosquée, plusieurs Hammams et des châteaux fastueux parmi lesquels on pourrait citer. Qsar Assahn (palais de la cour),
Qsar El Bahr (palais de la mer), Qsar Baghdad etc. De grandes citernes y furent
édifiées pour arroser les nombreux vergers, qui entourent ces châteaux. Ibrahim a
ensuite entouré sa ville d'une enceinte dont on ignore le nombre exact des portes.
Après la chute des Aghlabites en 296/h., Raqqada devint la résidence d'El
Mahdi et le demeura jusqu'en 308/h. quand celui-ci fonda Mahdia et y installa sa
nouvelle dynastie.
Dès que El Mahdi la quitta, Raqqada entra dans une phase de déclin. Ses habitants l'auraient même abondonnée et, d'après El BEKRI, elle aurait été détruite et
ravagée par El Moïz qui aurait à peine épargné les vergers. Mais cela reste bien
douteux car, d'une part, on voit mal pourquoi El Moïz se serait acharné sur une
ville déjà déserte et, d'autre part, certains textes montrent Raqqada de nouveau
habitée par les princes Zirides. Il serait, à notre avis, plus logique de situer la
destruction totale de la ville au moment de l'invasion hilalienne (Xlè siècle).
Au cours de sa brève histoire, Raqqada a été maintes fois pillée : profitant de la
défaite de Ziadat Allah III, les Kairouanais la saccagèrent pendant trois jours, et seule
l'intervention des chiites permit de limiter quelque peu les dégâts ; ces mêmes Chiites
quittant, plus tard, la ville en compagnie du Mahdi n'y laissèrent que ce qu'ils ne
pouvaient emporter; les invasions hilaliennes portèrent, enfin, le coup fatal à la
résidence des émirs Aghlabides. A des époques plus récentes, les fouilleurs clandestins
s'acharnèrent à leur tour à piller les vestiges de la malheureuse cité.
Les fouilles
C'est en 1962 seulement que les fouilles commencèrent à Raqqada. Menées au
rythme d'une campagne annuelle de 2 à 3 mois, elles allaient nous permettre de découvrir plus des deux tiers d'un palais qui est très probablement «Kasr Assahn».
Les assassins du daîi Abou Abdallah, agissant sur ordre du Mahdi, ne devaient-ils
pas attendre leur victime derrière «Kasr Assahn» puis, une fois leur forfait
accom-palais pourrait donc fort bien être le fameux «Kasr Assahn».
pli, abandonner le cadavre sur le lieu même du crime, c'est à dire au bord du
bassin connu sous le nom d'«El Bahr»1. Or, derrière le palais, les fouilles ont révélé
l'existence d'un énorme bassin relié à celui-ci par un canal de 2 m de diamètre. Notre
349
AFRICA
Avant de publier une étude complète de l'ensemble de nos découvertes, nous
avons jugé bon de dresser ici une espèce de bilan bref et provisoire des premiers
résultats de nos travaux.
Quelque 109 pièces entourées d'une fortification carrée renforcée à l'extérieur
par des tours demi-cylindriques ont été mises au jour.
Nous avons pu constater 3 états dans l'évolution générale du palais :
Plan I
1. Il comporte une petite construction carrée de 53 mètres de côté. La porte d'en
trée est orientée vers le sud-est et les murailles sont flanquées, à intervalles réguliers,
de tours.
Autour d'une cour à portique se dressent de nombreuses pièces dont la plus
importante est face à l'entrée.
Plan II
2. La cour du palais à été agrandie. De nouvelles fortifications furent faites,
adaptées au nouvel état du palais et on encastra une porte secrète dans un des murs
de la pièce principale.
Plan III
3. L'aspect général du palais fut modifié par la construction d'un ensemble
d'appartements de 2, 3 ou 4 pièces abritant probablement le harem des émirs.
Le matériau de construction est constitué de briques crues d'un rouge clair
pour les plus anciennes, et d'un rouge foncé pour les plus récentes. Du plâtre sculpté
re couvrait une partie des murs des pièces, ainsi que l'encadrement des portes et des
fenêtres. De nombreuses plaques en ont été trouvées dans les décombres du palais.
Dans la cour, comme dans les pièces, le dallage était constitué de briques pleines,
tantôt blanches de 17 X 27 m, tantôt rouges de 10 X 20 m. Des superpositions dans
le dallage indiquent qu'il y a eu des réparations et des transformations à plusieurs
reprises.
Tout un réseau de canalisations a également été mis au jour au cours des fouilles.
Le décor sur plâtre assez riche en couleurs et représentant des plantes, des fleurs, et
des grappes de raisins, de même que certaines inscriptions «Kouffiques» méritent de
retenir l'attention. De la céramique, des poids en plomb, et bien d'autres objets
découverts au cours de la fouille et actuellement à l'étude sont venus compléter un
ensemble qui apparaît d'ores et déjà digne des plus importants monuments connus
dans l'orient musulman.
résumé d'après l'article arabe
de M. CHABBI
1
Ibn Idhari etc.
350
MÉLANGES, COMPTES-RENDUS ET NOTES CRITIQUES
Le genre Homo
D'après les travaux des journées anthropologiques de Paris - 28/29 octobre 1966
Les journées anthropologiques ont choisi, pour cette année, le thème combien
complexe : Définition du genre «Homo». L'Institut de Paléontologie humaine, a offert
le cadre si propice à ces débats auxquels des personnalités internationales ont
participé.
Pour mieux saisir la portée du sujet et les données nouvelles précisées durant
ces journées, il conviendrait peut-être de rappeler les anciennes définitions du genre
«Homo». (rappelées par Mme Heintz).
La définition des Hominidés portait surtout sur la bipédie et sur la capacité de
manipulation manuelle ainsi acquise. Toutes les définitions ont trait à la tendance
évolutive fondamentale de cerebration opposée à la réduction de l'appareil masticateur.
La définition de l' «Homo» fondée sur l'existence d'un «Rubicon cérébral» est
aujourd'hui abandonnée.
En 1950 - MAYR plaçait tous les Hominidés (des paléol. sup. moy. et inf.) dans
un seul genre, car disait-il, toutes ces espèces occupent la même zone adaptative,
caractérisée par la CULTURE, or, les Australopithèques, fabriquant des outils, étaient
donc des Hommes.
Mais en 1963, le même auteur, devait corriger cette définition en excluant les
Australopithèques, car, dit-il, il n'est pas prouvé que ce sont eux qui ont fabriqué les
outils trouvés dans les gisements. De plus, ils ont le cerveau trop petit pour que l'on
puisse les inclure dans la zone adaptative de l'Homme.
En 1951, OAKLEY définit l'Homo comme un fabricant d'outils; ainsi il renonce à
la définition anatomique.
353
AFRICA
En 1955, LE GROS CLARK donne la définition suivante :
Grande capacité crânienne (+1100 cc)
Arcades sus-orbitaires très variables
Orthognathisme ou prognathisme modéré
Condyles occipitaux plus ou moins au milieu du crâne
Crêtes temporales variables, jamais sagittales.
Menton variable
Arcade dentaire arrondie, sans diastème.
Cette définition exclut donc les Pithécanthropes dont la capacité crânienne est
de l'ordre de 775 cc à 880 cc chez L’Erectus, et de 915 à 1025 chez le Sinanthropus.
En 1963 BIEGERT inclut dans le genre «Homo», les Pithécanthropes ; ce genre
est caractérisé par le développement du néopallium et la réduction de l'appareil masticateur.
En 1965 à l'occasion de la discussion sur l'«Homo habilis», TOBIAS, LEAKEY et
NAPIER redéfinissent le genre «Homo» :
• Capacité crânienne très variable, mais en moyenne plus forte que celle des Aus
tralopithèques et grande par rapport à la taille du corps (600-1600 cc).
• Empreintes musculaires crâniennes de nulles à fortes, mais JAMAIS SAGITTALES.
• Pas de très fortes constrictions post-orbitaires comme chez l'Australopithèque.
• Région sus-orbitaire variable (de méplat à fort torus).
• Profil modérement prognathe à orthognathe, mais JAMAIS CONCAVE.
• Menton de nul à prononcé.
• Arcade dentaire arrondie, en général DANS DIASTEME.
Cette définition inclut ainsi Pithécanthrope et Homo Habilis.
Puis quelque temps après, TOBIAS écrit qu'il est difficile, SANS
CULTURELS, de dire si un être a franchi ou non le seuil de l'Hominisation.
CRITERES
La définition de ROBINSON utilise la culture comme moyen d'adaptation et cet
auteur met dans le même genre «Homo» : Sapiens, Neanderthal, Erectus,
Transvaalensis, et en exclut Paranthropus. Et ROBINSON écrit : «Tous les êtres de la
lignée dans laquelle la culture est un mécanisme adaptatif très important doivent être
inclus dans un seul genre».
354
LE GENRE HOMO
En conclusion de cette revue d'opinions, citées par Nicole HEINTZ, nous remarquons que les anthropologistes utilisent, pour leur définition de l'Homme, des
critères CULTURELS bien plus que des critères ANATOMIQUES.
Û
Voilà résumées toutes les définitions de l'Homo, émises avant les journées anthropologiques de Paris. Qu'est-ce que ces dernières apportent de nouveau à ce
problème si complexe ?
Quatre tendances se sont manifestées durant ce débat:
Tendance à base anatomique et biométrique, soutenue par N. HEINTZ d'une part,
et par les professeurs DELATRE et FENART d'autre part.
Tendance à base d'étude dentaire Mme GENET-VARCIN, le professeur H. BRABANT
de Bruxelles.
Tendance à base neuro-physiologique génétique et microbiologique Professeurs
Sou-LAIRAC, RUFFIE.
Tendance à base culturelle professeurs J. PIVETEAU, ARAMBOURG.
Examinons en détail chacune de ces orientations.
1.
Tendance à base anatomique.
En examinant les études récentes sur la variabilité du crâne de l'homme actuel et
fossile, Nicole HEINTZ essayera de donner une définition purement anatomique
Au sujet de la mandibule, la forme de l'arcade dentaire, seule est à retenir comme
caractère anatomique inclusif ou exclusif du genre «Homo».
Quant au crâne, la présence de crêtes sagittales demeure un caractère exclusif.
La capacité crânienne retient beaucoup plus l'attention de N. HEINTZ : en
abandonnant comme la plupart des anthropologistes la théorie des «Rubicons cérébraux», elle s'attache plus longuement à la relation :
Capacité crânienne — surface du palais de Keith.
«C'est en associant, dit-elle, le développement cérébral à la régression masticatrice
que l'on devrait pouvoir au mieux caractériser la tendance évolutive».
Puis N. HEINTZ reprend le schéma donné par J. PIVETEAU, d'après LE GROS
CLARK pour nous expliquer la persistance du reliquat animal dans le phylum
humain: «L'homme et les singes, anthropomorphes actuels, dit-elle, représentant
l'aboutissement de deux évolutions différentes à partir de lointains ancêtres communs (v. schéma ci-après), il est normal que les formes fossiles de l'homme se pla-
355
AFRICA
cent en position intermédiaire à ces deux groupes, les caractères typiques de l'un et
l'autre phylum étant de moins en moins apparents à mesure que l'on remonte dans le
temps géologique. «Puis l'auteur traduit biométriquement ce schéma par les répartitions actuelles et fossiles et conclut : «Ceci (en parlant de la biométrie) ne vaut
évidemment que pour les mensurations typiques de l'évolution du crâne cérébral,
pour lesquelles les Pongidés ont gardé à peu près les valeurs d'un ancêtre commun
théorique. Il n'est donc pas possible de couper la lignée humaine, pour tous les caractères précisément typiques de son évolution, la répartition des Hominiens est continue».
356
LE GENRE HOMO
La communication se poursuit au sujet des relations crâniennes typiques de l'Homme: ceci ne nous apporte pas de données nouvelles :
— ce sont soit des relations entre une partie du crâne à peu près fixe dans l'évolu
tion (telle la base) et une partie qui évolue (telle la face ou la voûte crânienne)
— soit des relations entre deux parties du crâne qui évoluent en sens contraire,
l'une se développant (crâne cérébral), l'autre régressant (crâne facial)
— soit des relations traduisant la brachycéphalisation phylétique et l'élévation
relative de la voûte. Puis l'auteur nous suggère une définition nouvelle qui envisage
le décalage progressif des relations dans le sens des tendances évolutives et cela dans
l'ordre suivant:
2 Elargissement relatif du crâne (par rapport aux autres dimensions)
3 Augmentation relative de la hauteur du crâne et modification de la cour
bure de la voûte dans le sens de hauteurs individuelles accrues (HEINTZ : 1966).
Le problème ainsi soulevé nous oblige à exclure les Archantropiens, car ces derniers tout en suivant déjà la relation actuelle pour ce qui est de la largeur relative de
leur crâne, restent encore tout à fait en dehors pour ce qui est de la HAUTEUR RELATIVE.
Et l'auteur ajoute : «Ce n'est qu'avec les Néanderthaliens que nous verrons cette
dernière (relation actuelle) se développer, sans pourtant atteindre encore tout à fait
la moyenne de la variation moderne», et Nicole HEINTZ propose une classification
avec des inter-genres, classification qui sera certainement à réviser un jour prochain :
1 Les fossiles qui se situent dans la plus large variation de Homo. Sapiens pour
une majorité des relations crâniennes typiques citées, seront classés comme «Homo»
(ceci inclut les Archanthropiens dans le genre).
2 Les fossiles qui se situent dans la plus large variation des Pongidés actuels
pour une majorité de ces relations, seront classés dans un autre genre. Les Austra
lopithèques sont dans ce cas : ils ont gardé, tout comme les Pongidés actuels, des pro
portions crâniennes primitives, mais celles-ci sont, au contraire des grands singes,
associées à une nette régression masticatrice.
Les fossiles qui se placent, pour la majorité des relations crâniennes indiquées,
en position intermédiaire, ne seront inclus ni dans le genre 1 («Australopithecus»),
ni dans le genre 2 («Homo»). On ne peut que souhaiter pouvoir les classer dans
des inter-genres (1 - 2,1 -1/2).
357
AFRICA
«La classification proposée, ajoute cet auteur, semble coïncider (mais pas à
priori) avec les faits de culture connus :
• Le genre 1 (quelque soit son nom) correspond à un stade où aucun outil n'est
associé AVEC CERTITUDE aux restes osseux.
• Le genre 2 («Homo») est toujours et incontestablement, associé à des outils
dont la forme déjà évoluée suppose l'existence d'une vie sociale primitive.
• Le genre 1-2 (peut-être «Habilis»), il faudrait pouvoir éprouver sa position
pour les relations indiquées , est probablement intermédiaire également du point
de vue de l'évolution psychologique, dans laquelle les «sauts» ou les hiatus sont
sans doute aussi INEXISTANTS que les hiatus anatomiques, crâniers ou autres. La no
tion de passage inter-générique conviendrait donc à la fois à l'anatomie et aux sci
ences humaines».
Pour les professeurs DELATRE et FÉNART, les tentatives de définitions du genre
«Homo» sont établies, d'après la méthode qui leur est chère : la méthode vestibulaire
d'orientation crânienne.
Ces auteurs déclarent : «malgré les difficultés, nous tenterons de cerner le problème grâce à une nouvelle méthode d'étude qui précisera des faits déjà connus de
manière générale, et en fournira de nouveaux».
Nous n'insisterons pas sur cette méthode, mais rappelons cependant qu'elle a
pour base: les canaux semi-circulaires externes du labyrinthe; ces canaux fournissent
la notion d'horizontalité et d'orientation, et précisent des limites : une limite
supérieure, (celle du crâne humain actuel), une limite inférieure (celle du crâne de
Pongidé actuel). Ces auteurs pensent que «c'est sur le chemin compris entre la limite
inférieure conventionnelle , (dernier crâne actuel de Pongidé ou Australopithéciné
orienté approximativement) et l'Homme actuel moyen, que doit se trouver le stade
que nous recherchons». De plus, DELATRE et FÉNART attirent l'attention sur une
donnée capitale «que la voûte bipariétale moyenne, d'un crâne d homme actuel, repose
sur un rectangle strict, parallèle au plan horizontal vestibulaire»., puis ils arrivent
aux phénomènes de la rotation positive des points et de leur rotation négative; la
première signe la station-debout, la seconde caractérise la quadrupédie-ou mieux
signe la tendance vers un quadrupédie progressive. Ces notions sont importantes
car des stigmates d'une négative sur un crâne fossile nous révèle que la station de
celui-ci «ne pouvait être réellement parfaitement debout».
La comparaison du trajet d'un point crânien (par exemple de l'astérion, point choisi
par ces auteurs, entre l' homme et le pongidé, montre une zone «vierge» dans laquelle
«a dû forcément s'inscrire celui qu'on doit considérer le premier homme». Mais
358
LE GENRE HOMO
par cette méthode, l'Homme de Néanderthalrisquerait d'être exclu du genre «Homo» si
l'on considère que le chignon occipital du crâne néanderthalien est un reliquat de
rotation négative. Cependant, avec une prudence toute scientifique, les auteurs ne
manquent pas d'ajouter : «II est évident que cette façon de voir est abusive». Les
condidérations concernant la projection sagittale, l'arrière crâne, la base du crâne et le
rocher, n'apportent pas d'éléments nouveaux à la définition du genre «Homo». Aussi
ne nous y attarderons nous pas. Par contre, l'étude de l'oreille moyenne conduit les
auteurs à des conclusions originales : en comparant les osselets de l'ouïe des Pongidés
et de l'homme actuel, ils ont été frappés par l'existence d'une inversion de l'angulation du
marteau (entre le manche et la tête) : l'angle s'ouvre en avant chez les Pongidés, et en
arrière chez l'Homme». Les modifications sont dues à trois facteurs : la station-debout
qui attire la tête du marteau en haut et en arrière, la traction vers l'avant du ligament
antérieur du marteau, et le refoulement vers l'arrière du cercle tympanal par le
condyle durant la phylogénèse (et qui accompagne le retrait de la face). Peut-être le
premier homme avait-il un marteau sans courbure».
DELATRE et FENART abordent ensuite l'étude de la paroi endocrânienne : l'artère
méningée laisse son empreinte sur la table interne du crâne et l'étude de cette empreinte
apporte de précieux renseignements : en effet la branche postérieure de cette artère
s'incurve chez l'homme et passe par le trou obélique, alors que la «branche moyenne
trouve son plein épanouissement» : ces deux caractères sont les restes de la rotation
positive. D'autre part, sur la voûte, l'existence d'une zone obélique, avec une
suture «très déliée à cet endroit, est une conséquence de la station-debout. Il existe là,
en effet, dans les rayons d'ossification du pariétal, un point faible et celui-ci cède sous
l'effort de la traction exercée vers le bas, par la loge cérébelleuse en voie
d'homisation».
Enfin le degré d'évolution d'un crâne peut-être évaluée d'une façon très simple
par cette méthode vestibulaire d'orientation : c'est la recherche du rapport entre deux
angles :
le premier : c'est l'angle formé par la verticale vestibulaire et le point bregma.
le deuxième angle est formé par la même verticale et le point lambdaLe rapport entre ces deux angles est de 2,4 chez Panpaniscus et de 1 (entre 0,6 et
1,7) chez l'Homme. «Le chiffre donnant le début de l'hominisation se situerait entre
1,7 et 2,4».
D'autres critères de la progression de l'hominisation sont fournis par la réduction
et le recul du massif facial et de la mandibule : Ces caractères permettent d'expliquer,
dans une certaine mesure, la formation du menton et la régression des VISIERES : le
retrait de l'endo-face par rapport à l'exo-face donne naissance au men-
359
AFRICA
ton; et la résorption des visières s'effectuent par un recul de l'exo-face par rapport au
neuro-crâne antérieur.
Les projections sur le plan horizontal vestibulaire apportent une donnée précieuse :
En norma verticalis, le crâne humain actuel ne permet pas de voir les arcades
zygomatiques, tandis que sur le crâne de Pongidés, les arcades zygomatiques sont
nettement visibles. Ce fait «ne permet pas de placer le jalon désiré car la disparition,
à la vue supérieure, des arcades zygomatiques tient non seulement à la réduction de
celles-ci, mais aussi au développement du crâne en largeur».
Dans les tendances évolutives la situation des trous de la base du crâne jouent
un rôle important; chez l'homme actuel, ces orifices crâniens sont disposés suivant
deux lignes droites formant un angle droit. (Ces lignes partent du vestibion interne et
se rendent au centre du crible éthmoïdal et au centre du foramen magnum). «Tous
les stades antérieurs à l'homme ont un angle supérieur à l'angle droit».
Enfin au sujet du mouvement rotation des divers éléments du crâne, mouvement
déterminé par l'avènement de la station-debout, ces auteurs affirment : «de cette
étude de corrélations rotatoires, il résulte que l'on peut comparer les organi-tes
«mobiles» du labyrinthe à la branche d'un compas, l'autre branche étant celle portant
l'inion. Des mammifères quadrupèdes aux Primates actuels les plus évolués, le
compas tourne en bloc autour du centre des axes vestibulaires, en maintenant
constante l'angulation entre les divers éléments (vestibulaire, basilaire, pétreux,
occipitaux...). Mais L’Homo-sapiens ne vérifie pas cette loi ! Tout se passe
comme si le compas voyait sa branche «labyrinthique» se bloquer brusquement,
alors que l'autre continuait à tourner. Le compas «se ferme» donc chez l'homme. Il
a été possible de calculer avec une bonne précision à quel moment débutait ce
processus, et nous avons été amenés à conclure que le début du phénomène avait dû
se situer à un stade possédant un angle hiatique de 53°. Cette valeur est à peu près
celle que nous avons attribuée (par approximation) aux Australopithèques».
Ainsi les données anatomiques et biomètriques exposées par N. HEINTZ et les
professeurs DELATRE et FÉNART, précisant les caractères différentiels entre Homo
Sapiens et Pongidés; elle demeurent cependant encore imparfaites pour une bonne
définition du genre «Homo».
Faut-il demander la solution à la Paléo-stomatologie ?
Les rapports de Mme E. GENET-VARCIN, du professeur H. BRABANT exposent
360
LE GENRE HOMO
les critères suivants :
— la faible asymétrie des incisives, faibles courbures,
— tendance incisiforme de la canine humaine opposée à la tendance en croc chez
le Pongidé,
— molarisation des prémolaires chez l'homme opposée à la caninisation des prémolaires chez le Pongidé,
— tendance à la réduction des dents anti-molaires,
— critères qui constituent autant de caractères différentiels et essentiels, sans pour
autant, apporter d'éléments véritablement nouveaux pour la définition de l'homme.
L'exposé de M. SOULAIRAC souligne, l'intérêt psychophysiologique du problème. Anatomiquement, le circuit moteur, avec ses neurones, est absolument le
même dans toute la série des vertébrés : les différences sont au niveau de la
corticalité; mais ces différences n'existent pas lorsqu'on compare entre eux
Anthropoîdes et Humains : en effet il n'existe aucune distinction essentielle
structurale entre les aires psycho-motrices d'un Pongidé et d'un Homme. Même dans
les processus d'inhibition et de dynamogénie, l'auteur affirme «qu'il ne trouve aucun
point saillant permettant d'établir une limite entre l'acte infra-humain et l'acte
humain». Il en est de même dans les phénomènes intimes du métabolisme du tissu
nerveux : on ne relève pas de différences fondamentales entre Pongidé et Homme dans
les études biochimiques au niveau du cortex cérébral; même constatation au sujet du
tracé électro-encéphalographique.
Alors où trouve-t-on la différenciation entre un primate et un homme? et M.
SOULAIRAC répond «dans la prise de conscience de l'ensemble de l'organisme qui
produit chez l'homme 'l'image du corps'». Chez l’Homme, il existe au niveau du
système nerveux-central, des processus d'association et d'intégration précis, permettant la coordination des messages extérieurs, des messages cutanés-musculaires,
et des messages viscéraux, coordination qui va créer dans notre conscience la
représentation de notre corps, avec la position relative de toutes ses parties et leur état
de mouvement ou de repos. C'est l'image de notre corps, synthèse de sensations
actuelles et de sensations passées si bien implantées en nous que les amputés conservent la conscience de leur corps intact (ce qui provoque les illusions des membresfantômes).
Ces différents messages sensoriels s'associent dans le fonctionnement global
de tout le cerveau pour donner la pleine conscience de nous-même et du monde.
C'est la base de la notion du «Moi» si important au point de vue conscience.
«Particulièrement important est l'harmonisation des divers sons pour la symbolique du langage, nous dit SOULAIRAC, qui ajoute : «nous avons appris à attacher
361
AFRICA
le même sens au mot lu et entendu. Au message auditif et visuel s'ajoutent les messages musculaires de l'écriture et de la parole».
Parmi les actes multiples, peu pourraient être définis comme spécifiquement
humains, c'est-à-dire faisant appel au libre-arbitre, au jugement refléchi : une conduite intelligente a deux critères importants:
1. l'adaptation de la réaction à la situation nouvelle
2. le caractère acquis de la conduite, car les conduites intelligentes sont des
conduites acquises.
Or beaucoup d'animaux présentent des conduites acquises et de ce fait, ce caractère ne permet pas de discrimination entre humain et non-humain. La différence
entre ces derniers réside dans les processus mentaux supérieurs : l'aspect le plus caractéristique d'un processus intellectuel supérieur est représenté, pour Mr Soulairac,
par la fonction symbolique qui est une relation de signification : relation entre le
symbole et le symbolisé, dont l'un signifie l'autre, c'est-à-dire le représente dans une
forme différente : c'est, en somme l'opposé de la relation de signal à signalisé où l'un
des termes ne signifie pas l'autre, mais l'accompagne. Pour déceler l'existence de
cette fonction symbolique, il faut :
— soit mettre en évidence l'identité des réactions au symbole et au symbolisé
— soit chercher la réaction d'utilisation au symbole pour désigner le symbolisé.
Pour cela, il faudrait s'adresser à des expériences contrôlées ; c'est ainsi qu'à OrangePark, des expériences de ce genre ont eu lieu aux laboratoires Yerks : laboratoires
d'études sur les Primates : l'introduction d'un jeton d'une certaine couleur dans un
distributeur automatique donne à volonté : boisson ou nourriture sauf pour le je
ton blanc qui ne fait pas fonctionner l'appareil; les chimpanzés apprennent facile
ment le maniement et refusent le jeton blanc.
Mais dans ces expériences, le jeton que l'animal introduit dans le distributeur
peut n'avoir pour lui que la VALEUR D'UN INSTRUMENT (qui lui apporte soit sa nourriture soit sa boisson); c'est déjà un processus mental élevé, mais ne pourrait être un
processus symbolique véritable. Ce n'est que dans le LANGAGE que la fonction
symbolique se présente dans sa forme la plus parfaite c'est-à-dire relation de symbole
à symbolisé relation de signification et c'est le langage qui est la définition de l'Homo;
c'est donc la fonction symbolique «qui caractérise l'acte humain et c'est son
épanouissement qui donne à l'homme la possibilité de la pensée non verbale, un des
plus hauts sommets de la fonction intellectuelle» et l'auteur conclut : «En utilisant une
formule schématique, on pourrait admettre que la caractéristique intellectuelle de
l'Homme, c'est fondamentalement la possibilité d'être conscient d'avoir conscience».
362
LE GENRE HOMO
Jusqu'à ces dernières années toute définition de l'espèce humaine était fondée sur
les caractères morphologiques; aujourd'hui on se rend compte que, pour définir une
espèce une sous-espèce ou une race, on fait appel aux caractères fixes, trans-missibles et
indépendants du milieu. Ainsi la génétique entre enjeu et va nous démontrer qu'elle
peut jouer un rôle de plus en plus important dans la définition de l'«Homo». La
participation de la génétique et de la microbiologie éclaire d'un jour-nouveau le
problème de l'évolution humaine grâce à la communication, si démonstrative, du
professeur RUFFIÉ de Toulouse.
«On sait aujourd'hui que les caractères morphologiques contrôlés par l'hérédité
ne sont que les résultats lointains de réactions biochimiques complexes, à contrôle
enzymatique, dont le sens est imposé par les CISTRONS chromosomiques. C'est dans la
structure de ces zones actives des chaînes de l'acide adéno nucléique (A.D.N.) que
réside toute l'information génétique qui contrôle l'apparition des caractères
héréditaires ». Il existe quatre étapes biochimiques :
la première correspond aux molécules d'A. D. N. et d'A. R. N. (contrôlant k synthèse des protéines spécifiques).
la deuxième correspond aux molécules protéiques (douées de pouvoir enzymatique) :
c'est la copie de l'information alors que dans le 1er cas, c'est l'information génétique
pure.
la troisième étape correspond aux molécules épisémantiques (représentant un produit indirect de l'information génétique : c'est l'étape de la micro-morphologie, la
quatrième étape enfin, correspond à l'ontogénie des caractères morphologiques qui
se fait à partir des molécules de constitution et grâce à des enzymes spécialisées.
C'est l'étape de la macro-morphologie, souvent retenue par les taxonomistes comme
critère de définition de races ou d'espèces.
Actuellement, on entrevoit les possibilités de la biochimie moléculaire : ainsi tout
caractère sera d'autant plus rigoureusement conditionné par l'hérédité, et par elle
seule, qu'il se trouvera plus rapproché de l'information génétique initiale, c'està-dire du CISTRON chromosomique.
Les critères servant à la définition de l'espèce humaine seront donnés par la morphologie moléculaire; ce sont:
— l'étude et le nombre des chromosomes, la plupart acrocentriques.
— les remaniements chromosomiques, donnant naissance à de nouveaux éléments
métacentriques (le nombre des chromosomes a diminué en même temps qu'appa
raissaient de nouvelles espèces de plus en plus spécialisées).
363
AFRICA
Et le professeur RUFFIÉ dit : «l'évolution cryptogénétique des Primates, qui a conduit à
l'homme a dû se faire à partir d'ancêtres peu spécialisés, ayant un nombre de
chromosomes élevé «c'est là une première conclusion.
La deuxième conclusion n'est pas moins importante : les espèces actuelles ne dérivent
pas directement les unes des autres. Elles se sont détachées à des moments différents d'un tronc commun. Les formes ayant le plus grand nombre de chromosomes
sont celles qui s'écartent le moins de l'état ancestral et qui ont dû s'isoler plus
tardivement. L'Homo sapiens, au contraire, a dû se détacher assez tôt du rameau
ancestral. La faculté d'adaptation de l'espèce humaine semble tenir davantage à ses
qualités intellectuelles et à son patrimoine culturel qu'à un polymorphisme génétique lui conférant une plasticité biologique particulière».
Avec la communication du professeur J. PIVETEAU, une nouvelle orientation
est donnée : la définition du genre «Homo» par l'outil ! «L'outil est le témoignage de
la définition de l'Homme, et l'insertion de la lignée hominidée sur le grand tronc des
Primates reste théorique. Les êtres qui ont composé cette lignée ne montrent pas les
attributs qui définissent l'homme mais contiennent peut-être en eux-mêmes
virtuellement ou sous formes de tendances quelques attributs : de toutes façons,
tout était «clandestin» jusqu'à l'apparition de l'homme. C'est une coupure dans
une série continue aucune satisfaction ne peut être obtenue d'une définition arbitraire ou conventionnelle car le critère anatomique est d'un faible secours». C'est
alors qu'on s'est tourné vers l'examen des vestiges de l'activité des types fossiles»,
en un mot, nous dit J. PIVETEAU, on a cherché à définir l'Homme par l'outil». Même
si cet outil est grossier, il ne reflète pas moins la première expression de l'intelligence
car une des caractéristiques de l'intelligence est la faculté de fabriquer des outils pour
faire des outils; en d'autres termes l'homo reste plus faber que sapiens. Piveteau
déclare : «l'Homme est apparu au temps où se fabriquaient les premiers outils : c'est
l'outil qui marque le franchissement du seuil où l'on passe de l'infra-humain à
l'humain : il définit l'homme. C'est l'agent de son triomphe, c'est le témoignage
concret de l'hominisation, il prend le pas sur l'anatomie et marque l'apparition de la
pensée réfléchie». Ainsi l'Australopithèque, exclu de la famille des Humains par
certains anatomistes, réintègre le genre «Homo». L'outil rudimentaire ne constitue
pas la marque de l'hominisation, mais devient un facteur dans cette sorte de dialogue
main et cerveau non encore tout à fait humains, mais en voie de perfectionnement. Puis
le professeur J. Piveteau conclut: «Réflexion naissante et prototechnique vont
s'intensifier l'une par l'autre et le point d'application du pouvoir réflexif passera de
l'action à la pensée».
364
LE GENRE HOMO
Pour le professeur ARAMBOURG, les réflexions sur la systématique des Hominiens fossiles posent deux axiomes :
Le premier : la plupart des caractères « simiens » ne sont en réalité que la survivance de caractères primitifs communs à divers groupes de mammifères, les Singes
compris.
Le deuxième : on peut dire que chaque type d'être vivant est «à chaque époque
l'aboutissement temporaire d'une suite d'organismes de plus en plus spécialisés à
certains modes de vie et à certaines fonctions. Chez l'homme, la spécialisation déterminante a été celle de la fonction cérébrale».
Une autre caractéristique humaine, c'est la bipédie qui permit la libération de la
main, cet «instrument de contact, de découverte et d'information» contribuant ainsi
à son tour au développement du cortex néo-palléal ». Nous savons aussi que la bipédie
se retrouve dès le miocène supérieur chez l'oréopithèque. Mais le professeur
ARAMBOURG, comme HURZELER lui-même (qui a étudié les oréopithèques de Toscane)
ne retiennent pas ce fossile pour ancêtre de l'homme. «C'est un Hominien égaré dans
une vie sans issue» dira Hurzeler. Cette conclusion est absolument logique : de notre
avis personnel, ce fossile tertiaire ne peut-être retenu pour l'ancêtre de notre lignée
humaine pour une autre raison anatomique : en effet, l'oréopithèque possède cinq
cuspides dont une au centre sur la première molaire inférieure. C'est un gabarit
opposé au gabarit dryopithécien (rencontré même actuellement chez l'Homme), et
jamais l'oréopithèque ne pourrait avoir le gabarit en Y, car il marque déjà une
spécialisation profonde.
Continuant ses investigations dans le tertiaire, ARAMBOURG remarque dans le
pliocène inférieur deux fossiles dont la denture présente des caractères humanoïdes :
D'une part le Ramapithecus brevirostris lewis des Monts Sivaliks
D'autre part le kenyapithecus vickeri de Fort-Tarnan, décrit par LEAKEY.
Mais ces racines humanoïdes ne viennent-elles pas depuis l'oligocène inférieur?
et ARAMBOURG nous remet en mémoire les deux fossiles découverts par Max
SCHLOSSER en 1911 dans les terrains oligocènes du Fayoum : Parapithecus et
propliopi-thecus schlosseri, les deux à tendances humanoïdes. Ensuite, l'auteur
envisage le problème des Australopithèques pour reconnaître les caractères
humanoïdes de ces animaux qui sont bipèdes, de plus leur denture est humaine et
leur capacité crânienne, proportionnellement à la taille, est supérieure à la moyenne
des Anthropomorphes. Il envisage ensuite trois types d'australopithèques :
1.
un genre «Australopithecus», le plus ancien.
365
AFRICA
2. un genre «Paranthropus» à taille plus grande; et comprenant le zinjanthropus d'Oldoway.
Ce genre «Paranthropus» à dentition puissante semble être végétarien.
3. un genre «Télanthropus» comprenant le télanthrope de Swarkrans (ou de
Transvaal) et celui d'Oldoway (du Tanganiyka) à volume crânien aux environs de
680 ce pour une taille équivalente à celle d'un chimpanzé.
«Dans ces conditions, nous dit ARAMBOURG, il est difficilement compréhensible
que ce fossile (niveau I d'Oldoway) ait été attribué du genre «Homo» sous le nom
d'«Homo Habilis» et surtout inclus dans le groupe des Pithécanthropiens dont les
capacités endocrâniennes sont très supérieures, allant de 775-880cc chez Pithecanthropus, 915 ce - 1025 ce chez Sinanthropus. Assurément par rapport aux autres
Australopithèques, Télanthropus constitue une forme «progressive» dans la série
humanoïde et qui annonce l'étape suivante, celle des Pithécanthropes. Mais enfin
pourquoi ce nom de «Homo»?»
C'est la présence d'une industrie lithique à Sterfontein, Swartkrans et surtout à
Oldoway qui a fait franchir à ces fossiles, par certains auteurs «le seuil de ce qu'en
termes finalistes, on appelle l'hominisition». L'Australopithecus Africanus lui aussi
possédait une industrie ostéodontokératique. Il faut donc admettre que dès le début
du Villafranchien, «les Australopithèques étaient déjà de véritables artisans».
ARAMBOURG évoque, ensuite, le stade pithécanthropien, répandu durant tout le
paléolithique inférieur sur l'ancien continent, (durant 300.000 ans), et considère
l'Homme de Broken Hill comme un Pithécanthrope (et non comme un Neanderthal)
sans donner de précision. L'apparition des facultés psychiques, la possibilité d'abstraction et de création mythique sont le lot des Néanderthaliens : c'est ce qui les
classe facilement dans le genre «Homo». A ce sujet, l'auteur refuse tout métissage
entre Néanterthaliens classiques de Palestine et un Homo Sapiens hypothétique. Quant
à l' Homo Sapiens (fossilis) (ses premières manifestations remontent à une quarantaine de milliers d'années), il ne pose pas de problème.
En résumé, le phylum humain, commencé à l'Oligocène, se déroule dans le
temps parallèlement aux autres rameaux mammaliens et sa transformation s'est déroulée suivant un processus régulier et continu suivant des paliers successifs de durée
inégale. Chaque palier présente un ensemble de caractères physiques avec un certain
degré de cérébralisation pas nécessairement quantitative, mais qualitative:
accroissement progressif de certaines parties du crâne, notamment la région fronto
pariétale. Chacun de ces paliers ne présente pas un ensemble d'êtres «dont les caractères, oscillant entre certaines limites, sont sujets à toutes les variations individuelles,
géographiques, raciales, ou sexuelles qui sont l'apanage de tous les êtres vivants ;
366
LE GENRE HOMO
il n'y a pas un Australopithèque ou un Pithécanthrope; mais des Australopithèques, des
Pithécanthropes, des Néanderthals; vouloir, dans cette succession, établir une filiation directe jusqu'à notre espèce est une utopie», et l'auteur termine sa communication en concluant :
«Tout ce qu'on peut dire, c'est que l'humanité actuelle est l'aboutissement
temporaire d'un rameau mammalien dont le développement a eu pour moteur une
complexification quantique croissante de son appareil cérébral».
Docteur A. SAHLY
367
GENRE 1
Stade où aucun outil n'est associé avec certitude aux restes osseux.
GENRE 2
HOMO
Toujours incontestablement associé à des outils dont la forme déjà évoluée suppose
l'existence d'une vie sociale primitive.
GENRE 1-2
INTERMÉDIAIRE
C'est le genre de passage intergénérique.
(Classification proposée par Nicole Heintz)
METHODE VESTIBULAIRE D'ORIENTATION CRANIENNE
— Prof.
Delâtre
et
Fénart —
Georges VILLE
(1929-1967)
Dans le présent fascicule d'AFRICA, on trouvera une étude que Georges
VILLE avait consacrée à une pièce du vêtement masculin dans l'Afrique Romaine.
Il est triste de penser que cet article est, hélas, le dernier que nous lui devrons.
J'ai connu Georges VILLE au cours de l'été 1962, pendant un séjour en Tunisie
consacré à la visite des musées et à l'étude des mosaïques. Depuis, une amitié solide
m'a lié à lui, qui m'a permis de découvrir ces immences qualités de cœur et cette
générosité qui faisaient de lui l'un de nos rares collègues étrangers à comprendre
véritablement les problèmes qui se posent aux archéologues tunisiens, et qui
dépassent souvent le cadre de l'archéologie...
Son dernier séjour en Tunisie ne date que de l'été dernier. Il nous quitta un
matin d'Août à Kerkouane pour poursuivre en Algérie et au Maroc, dans les Musées et
sur le terrain, ses études sur les mosaïques. C'est en Espagne, au terme de ce long
voyage, qu'il trouva près d'Almeria une mort brutale à la suite d'un accident d'automobile.
Sa disparition a été cruellement ressentie à Tunis où tous, à l'Institut
d'Archéologie comme à l'Université le connaissaient et l'estimaient.
Prématurémment interrompues, les études de Georges VILLE étaient en grande
partie consacrées à la mosaïque africaine; un premier séjour à Utique, au cours de
l'été 1958, alors qu'il était membre de l'École Française de Rome, lui permit d'étudier
la «maison de la chasse», publiée dans Karthago XI; ce fut aussi l'origine de la notice
sur Utique parue dans la Real-Encyclopädie. Tout dernièrement, c'est à une
mosaïque de Carthage conservée au Louvre où il avait été nommé, en 1965,
Conservateur au Département des Antiquités grecques et romaines, qu'il
s'inter-ressait plus particulièrement; ces recherches avaient fait de lui l'un des
meilleurs spécialistes de la mosaïque africaine.
C'est assez dire que sa mort a entraîné, pour l'archéologie tunisienne notamment, une perte irréparable.
A. MAHJOUBI
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IN MEMORIAM
G. Levi Delia Vida.
(1886-1967)
Avec la mort de G. Levi Della Vida, survenue le 25 Nov. 1967, le monde savant
vient de perdre l'une des personnalités les plus éminentes; les sciences de l'Orient
de la haute antiquité aux périodes les plus récentes pleurent la disparition de l'une
de leurs sources les plus fécondes. Le départ du Professeur Levi Della Vida est
une lourde perte pour la science universelle. C'était un humaniste d'une culture
extraordinaire, divine, pourrait-on-dire!
Auteur d'innombrables ouvrages, relatifs aux problèmes de l'Orient et de
l'Occident, qu'ils relèvent de l'Antiquité ou de l'époque contemporaine, G. Levi
Della Vida était une haute personnalité morale, lui qui avait accepté le calvaire de l'exil
Le Professeur Levi Della Vida naquit à Venise en 1886. Grâce à son génie
universel, il arriva très tôt au sommet de l'échelle universitaire d'abord à Naples
puis à Rome. Ses premiers travaux apportèrent une vision nouvelle des problèmes et
constituèrent déjà une très large contribution à la connaissance de la civilisation
sémitique en général et tout particulièrement de la pensée arabe qu'il avait toujours
abordée avec amour, avec la flamme de ceux qui veulent connaître et comprendre.
Epigraphie, manuscrits, essais critiques, l'activité et la curiosité de regretté G. Levi
Della Vida, n'épargnèrent aucun domaine de la science semitico-orientale. Parmi
ses travaux de synthèse, nous pouvons citer «Storia et religione nell Oriente
semitico» «Gli Ebrei : Storia, religione et civilita».
Dans ses œuvres magistrales, Levi Della Vida sut étudier les problèmes fondamentaux du monde antique et médiéval. Sa manière originale et très attachante
par la simplicité et l'élégance du style, son objectivité et ses scrupules, scientifiques
font que les problèmes les plus ardus de la science, épigraphie, littérature arabe, histoire
des religions deviennent accessibles, comme par miracle à tout le public cultivé.
C'est là un indice irrécusable de la haute compétence du savant certes mais surtout
indice irrécusable de la très grande générosité de l'homme que fut G. Levi Della
Vida.
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AFRICA
A cause du facisme auquel il s'opposa de façon implacable G. Levi Della Vida
dut interrompre ses activités universitaires à Rome en 1931 et s'ouvrit alors pour lui
une longue période de riche labeur ou sein du Vatican qui offrit au savant exilé avec
sa cordiale hospitalité, l'accès à sa richissime bibliothèque. En 1938, il occupa une
chaire à l'Université américaine de Pensylvanie. Il resta jusqu'en 1944, loin de l'Italie,
sa mère-patrie («je n'en ai pas d'autre», me disait-il un jour de mars 1969).
Au cours de ce long séjour hors d'Italie, G. Levi Della Vida se livra à une intense
activité scientifique. C'était d'abord les manuscrits arabes du Vatican dont il dressa le
catalogue; c'était ensuite les textes puniques et néopuniques d'Afrique. Esprit
universel, il publiait ses travaux dans diverses langues. Par ses articles, par ses
travaux de synthèse comme par exemple «Les Sémites et leur rôle dans l'histoire
religieuse», G. Levi Della Vida acquit une réputation mondiale.
Avec le retour de la paix et de la démocratie, il revint en Italie où s'ouvrit de
nouveau pour le très illustre sémitisant une riche période d'activité féconde de sorte
que de très nombreuses académies comme l'Institut de France ou la British Academy peuvent tirer orgueil et à juste titre, d'avoir eu G. Levi Della Vida parmi
leurs membres émérites. C'était un maître au sens très large du terme. Il restera le
maître de tous ceux qui continueront d'étudier les problèmes des civilisations du
Proche-Orient. Pour ceux qui sont épris de paix, de liberté et d'amour pour les
hommes, G. Levi Della Vida restera le flambeau qui illumine, l'exemple à suivre. G.
Levi Della Vida n'est pas mort. Par ses travaux scientifiques, par ses attitudes vis à
vis des problèmes humains, par sa générosité, le Professeur Levi Della Vida à pris
place parmi les immortels.
M. H. FANTAR
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Chronique administrative
ORGANISATION
DE L'INSTITUT NATIONAL D'ARCHEOLOGIE ET D'ARTS.
Etablissement public doté de la personnalité civile et de l'autonomie financière, l'I.N.A.A. est placé sous l'autorité de M. Le Secrétaire d'Etat aux Affaires
Culturelles et à l'Information.
Il comporte quatre sections :
1. Le Centre de la Recherche archéologique et historique, qui a pour mission
d'organiser les fouilles, de développer et coordonner les recherches dans les domaines
de l'Archéologie, de l'Histoire et des Arts;
2. La Direction des Monuments historiques et sites archéologiques chargée de la
conservation et de la mise en valeur du patrimoine archéologique et historique
national;
3. La Direction des Musées nationaux chargée d'effectuer l'inventaire et de veiller à la
conservation et à la présentation du patrimoine muséographique national;
4. Le Centre des Arts et Traditions populaires qui a pour mission de recueillir, conserver
et mettre en valeur les documents relatifs aux arts et traditions populaires.
Le personnel scientifique-candidats aux divers postes de Chercheurs, Inspecteurs
ou Conservateurs-doit avoir accompli des travaux de recherches archéologiques,
historiques, muséographiques ou ethnographiques et être titulaires de titres
universitaires s'échelonnant entre la Licence et le Doctorat d'Etat.
ORGANISATION DU CENTRE DE LA RECHERCHE ARCHEOLOGIQUE ET HISTORIQUE.
A partir de Janvier 1968, le C. R. A. H. est organisé comme suit :
—
La Direction du Centre est assurée par une Commission administrative groupant
tous les chercheurs.
— Le Centre est représenté par le Secrétaire Général de la Commission.
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AFRICA
— Le personnel scientifique et technique du Centre est réparti en équipes. Ces
équipes travaillant chacune sur une même époque constituent des départements
d'archéologie placés sous l'autorité de chefs de départements.
Le Centre comprend les Départements suivants :
I - Département d'archéologie préhistorique
II - Département d'archéologie punique
III - Département d'archéologie classique et d'épigraphie latine
IV - Département d'archéologie islamique I (fouille)
V - Département d'archéologie islamique II (Art et architecture)
VI - Département de la bibliothèque, de la documentation et des publications.
NOMINATION D'UN DIRECTEUR-AD JOINT
A compter d'Octobre 1967, M. Salah-Eddine TLATLI, professeur d'histoire et de
géographie, est nommé Directeur-adjoint de l'Institut National d'Archéologie et d'Arts.
SUCCÈS UNIVERSITAIRES
A la session de Mai-Juillet 1967, M. Azedine BESCHAOUCH a été admis à
l'Agrégation de grammaire (Paris).
A la session de Novembre 1967, Mme Latifa SLIM a été reçue au Diplôme
d'Etudes Supérieures, avec la mention Très Bien (Montpellier).
En Juin 1967, Mlle Mounira HARBI a soutenu une thèse de doctorat de 3è cycle sur
«La Préhistoire de La Tunisie» qui a obtenu l'équivalence d'une thèse
complémentaire ès-lettres.
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